Ci siamo alzati, come gli altri
giorni, al suono del din din, dan dan della campana del reclusorio. I miei
compagni parevano tante mutrie. Rispondevano al buon giorno e agli augurii con
dei buon giorno e degli augurii secchi, come gente che si sarebbe morsicata se
non ci fosse stato di mezzo il galateo. Don Davide andò a dire le tre messe
alle muraglie della cappelletta addossata alla muraglia dell’infermeria,
dicendo di non aspettarlo che non avrebbe bevuto il caffè al ritorno.
L’intervallo tra il caffè e l’aria
fu sepolcrale. Passeggiavamo in su e in giù, con le mani sulla schiena, con la
faccia rabbuiata e con gli occhi che parevano altrove. Il latrinaio, che ci
aveva salutati con tutti i complimenti che aveva potuto raccogliere la sua
testa, rimase senza risposta.
- Signori, buon Natale e tanti
anni come questi!
Parecchi di noi lo avrebbero
sprofondato. Asino porco di un amazza donne, non è buono neanche di essere
gentile!
Va all’inferno!
- Aria!
- Ci lasci almeno prendere il
caffè, signor sottocapo. Un minuto, meno di un minuto.
Il caffè era squisito. Era stato
fatto dalla mano maestra del Federici che non lo beveva. Don Davide prese la
chicchera senza ricordarsi dell’ordine che aveva dato. Il moka ci lasciò
immusoniti più di prima.
Andammo all’aria come a un
funerale. Nel cortile eravamo sbandati. Ciascuno passeggiava per proprio conto.
Pareva che l’uno non volesse avere contatto con l’altro. Ritornammo nella
camerata accigliati e taciturni. Chiesi sedette sulla branda piegata e si
sprofondò in una Histoire de la Commune illustrata, don Davide si
sommerse nel Breviarium romanum che teneva sempre sul tavolo, Federici
aperse il Dodo - un romanzo che riproduce la vita intima inglese e
lascia sentire l’odore della classe che dipinge. Lazzari si rimise sulla figura
che stava disegnando con gli occhi torvi e l’aria di un mastino che avrebbe
addentato il polpaccio del primo che gli si fosse avvicinato. Suzzani
ricominciò a percorrere lo stanzone senza zuffolare l’inno dei lavoratori, la
sua aria favorita che ci regalava dalla mattina alla sera senza perdere di lena
- e Ghiglione, il tremendo Ghiglione che aveva sobillato con fervore i
terrazzani di Niguarda, si era gettato a capofitto in un manuale di musica da
quindici centesimi. La colazione passò nel silenzio. Ciascuno mangiava quello
che aveva ordinato senza dire una parola. La sola cosa in comune fu una
bottiglia della cassetta che ci aveva inviato il buon Quadrio, direttore della Valtellina
di Sondrio. Era un vino eccellente che non bevevamo da un pezzo.
- Buono, dissi vuotando il
bicchiere.
Nessuno rispose. Pareva avessi
detto loro una insolenza.
Dopo la colazione entrò il
sottocapo con un immenso pacco di lettere e di biglietti di visita e una manata
di telegrammi. Si buttarono loro sopra come avari che ricuperino il sacco dei
denari che credevano perduto per sempre, e si ingolfarono nella lettura intima
senza lasciar trapelare un pensiero dei tanti pensieri che erano loro giunti.
Le sole cose che riferivano erano
i saluti o gli augurii nei quali fossimo compresi tutti od alcuni di noi.
- Il tale vi saluta tutti!
- L’Aliprandi saluta anche te,
Paolino.
- Grazie.
- Il tale augura a tutti buon
Natale!
Tra i tanti telegrammi ricevuti
nella giornata ricordo quelli di Bertolazzi, i quali riuscirono a smutriare
qualcuno.
- Buon Bertolazzi!
- Buonissimo!
Lungo l’asse che correva al dorso
della parete erano parecchi panettoni. Furono essi che incominciarono a dar
vita alla conversazione.
- Che ce ne facciamo? Non
possiamo mangiarceli tutti.
- E se ne dessimo uno ai poveri
forzati? I reclusi del maggio ricevono qualche cosa, hanno forse ricevuto tutti
qualche cosa. Mentre i perpetui e gli a tempo con la catena, non sono ricordati
neppure dai parenti. Chi ha vergogna di loro e chi li dimentica come individui
morti. E se ne dessimo una fetta, a tutti loro? C’è questo del Mascarini,
offelliere di Milano, mandato a don Davide. È grosso come un cetaceo.
Federici non si fece ripetere
l’interrogazione. Se lo portò sul tavolo e con una cordicella si mise ad
affettarlo.
- Quanti sono?
- Ventinove o trenta.
Incaricammo di distribuirlo don
Davide Albertario. Fu una scena commovente - una scena che inumidì gli occhi di
tutti coloro che hanno potuto essere presenti. I forzati si alzarono in piedi,
rimanendo vicini al loro stramazzo, visibilmente commossi. Era forse la prima
volta in tanti anni che sentivano parole dolci pronunciate da una persona che
li capiva.
«A nome dei miei compagni della
quinta camerata - disse loro don Davide - vi dirigo il saluto in questo giorno
di pace; come prete, io vi auguro la benedizione di Gesù Cristo che consoli il
vostro cuore: accettate questo segno dei sentimenti del nostro cuore desideroso
del vostro bene». E incominciò subito la distribuzione. I volti duri dei
galeotti si ingentilivano. Dal loro occhio scendevano le lagrime. Don Davide
piangeva e noi, che vedevamo tutto dalla nostra cancellata, eravamo
profondamente inteneriti. Si rimaneva a bocca aperta dinanzi alla commozione di
tanti galeotti che avevano scannati gli uomini, massacrate le donne, fatto in
quattro i padroni e distrutte le famiglie a colpi di coltello.
Don Davide mi prese sotto il
braccio e mi disse:
- Avete notato che piangevano?
Dinanzi al prete vestito d’assassino come loro, reo solo di avere professata la
sua fede con maggiore sincerità e fervore, si sono sentiti le lagrime agli
occhi. Non sono dunque completamente perduti. Credetemi, l’uomo che ha ancora
la rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. Sembravano degli agnelli.
Perché non vi sarà maniera di rendere duraturi nell’anima di quegli sventurati
questi nobili sentimenti e di ricondurli alla buona via?
«Ve lo giuro sull’anima mia: non
dimenticherò mai questo momento del Natale in galera. È un episodio che mi resterà
nella memoria in eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo».
- Diamo loro un altro panettone.
- Se si potesse, figuratevi!
Durante la giornata abbiamo avuto
la visita del capo guardia prima e del direttore poi. Il primo ci parlò delle
sue noie con dei prigionieri politici nello stabilimento. Per suo conto avrebbe
voluto che ci avessero lasciati andare oggi piuttosto che domani. Non c’era più
modo di aver pace. Parevamo gente in relazione con tutto il mondo. Una volta
non si vedevano i portalettere che per la Direzione. Adesso il reclusorio è
diventato un ufficio postale. Vi arrivano carri di pacchi postali, furgoni di
biglietti di visita, centinaia di vaglia e di cartoline-vaglia, specialmente
per don Davide, mucchi di telegrammi. Stamattina ne abbiamo ricevuti più di
cento. E non sono mica gli altri che li registrano. Tocca ai poveracci
dell’amministrazione. Non c’è più tempo neanche di mangiare. Si sciupa un paio
di scarpe al giorno. Si sale, si discende e non la si finisce mai. E lui, per
compenso, si trova con le scarpe rotte da pagare. Il bel mestiere che ha
scelto! Doveva fare... Basta, ora è troppo tardi. Le responsabilità poi sono
tutte sulle sue spalle. Speriamo che oggi la vada bene e non accadano
disordini. Sarebbe lui la vittima. Perchè il capo guardia dovrebbe essere
dappertutto. Dabbasso, a ricevere, a rispondere, a registrare, e di sopra, con
un occhio in ciascuna camerata. Bel mestiere che è fare il capo guardia con
poco più di tre franchi al giorno! Speriamo che tutto passi via tranquillo e
che si lasci fare un po’ di Natale anche al capo guardia...
- Senta, signor capo guardia, non
si potrebbe mica avere qualche sigaretta di quelle che mi hanno ritirate?
- Quest’altro, adesso! Vorrebbe
la gallina e poi anche l’ovo. Vorrebbe farmi nascere la rivoluzione. Una
sigaretta... guai se si sentisse il fumo... Tutti gli altri vorrebbero fumare.
Si starebbe freschi. Mancherebbe che ci fosse anche il permesso della sigaretta
per far diventare il reclusorio uno spaccio di tabacchi.
Il direttore era stato in tutte
le camerate a fare una specie di predicozzo sui doveri del condannato e a
incoraggiare i reclusi a sperare nella grazia sovrana. Lo ascoltavano in
silenzio, in piedi, tra una branda e l’altra, e lo lasciavano voltar fuori con
dei viva l’amnistia! che forse lo facevano sorridere.
A noi non disse che qualche
parola insignificante e non parlò, con deferenza, che col Chiesi, il quale
sembrava nelle sue grazie. Io lo vedo ancora passarci in rivista col cappello
calcato in testa, col bavero del paltò alzato e con le mani in tasca. Col suo
sguardo truce e la sua voce da terrorizzatore, non mi invogliava a vederlo, tra
noi, per un pezzo.
Noi poi, escluso sempre il Chiesi, non avevamo
ragione di essergli riconoscenti. A Federici aveva negato parecchie cose che lo
avevano fatto imbestialire più di una volta. A Lazzari aveva fatto sequestrare
tutti i suoi disegni dopo che erano stati finiti. Tra gli altri eravi un don
Davide vestito da galeotto e alcune guardie alla nostra cancellata, che
avrebbero potuto illustrare qualche pagina del mio libro. A me non lasciò mai
scrivere una lettera senza farmela copiare e ricopiare per delle inezie o delle
parole contrarie al suo gusto letterario. A don Davide ne fece di quelle da
farlo venire di sopra con gli occhi pieni di pianto.
Una volta che il direttore dell’Osservatore
Cattolico si era permesso di mettere, per distrazione, le dita sulla
scrivania del direttore, il signor Reoboamo Codebò gli disse in tono grave:
- 2557, tenete giù le mani!
Un’altra volta... Ma non ricordo
più bene il perché. So che gli si doveva comunicare qualche risposta
ministeriale a una sua domanda e che la comunicazione gli era stata fatta in un
modo brutale o da fargli capire ch’egli non era più che un numero di matricola.
Eravamo nel periodo della fame,
quando stavamo in piedi con la pagnotta e la minestra. Noi eravamo già tutti
intorno la panca che ci serviva da tavola. Ritornò di sopra con la faccia che
pareva un temporale.
- Che cosa vi è accaduto?
Stette in forse se mangiare o
buttar via la gamella.
- Mi è accaduto... Mi è accaduto
che mi si è detto chiaro e tondo che io non devo considerarmi ormai più
che il 2557 e io ho dato fuori. Sissignori, ho dato fuori! Dunque, dissi al
direttore, mi considerano e intendono trattarmi come un vero delinquente? Sia!
La prego però di darmi la carta per scrivere al ministro Pelloux che mi faccia
fucilare! Laggiù non si conosce che cosa sia la dignità umana e io gliela farò
imparare!!
Noi ci guardammo tutti in faccia
come spaventati. Non lo avevamo mai veduto con gli occhi stralunati e le guance
convulsionate dallo sdegno.
- Calmatevi, don Davide.
- Anche il direttore dopo avere
veduto che mi aveva indignato mi ha detto di calmarmi. Non si è più padroni di
sè quando ci si dicono certe cose!
- Mangiate la minestra che è
quasi fredda e passate sopra alle parole che vi possono dire in un luogo come
questo.
- Siete o non siete il 2557? -
gli diss’io ridendo e facendolo ridere.
- Lo sono. E si mise a manducare.
La novità del giorno di Natale è
stata che abbiamo potuto, per la prima volta, mangiare sulla tovaglia candida,
avere il tovagliolo candidissimo e servirci dei cucchiai, delle forchette e dei
cucchiaini di metallo. Era della roba che ci aiutava a rientrare nella società
che stavamo per dimenticare. Mancavano a completare la tavola imbandita i
coltelli - arnesi pericolosi per della gente in galera.
L’allegria era assente. Si iniziò
il pranzo con un bicchiere di vino bianco di botte e con del prosciutto
tagliato di fresco. Assaggiammo una minestra stata cotta sul fornello della
trattoria esterna e attaccammo, con qualche appetito, un tacchino di Filighera
e dei polli stati allevati in Liguria, che mandavamo giù tra una forchettata e
l’altra di insalata giovine. Giungemmo al zabaglione dopo avere vuotate parecchie
bottiglie valtellinesi, senza dire una parola che valesse la pena di essere
ricordata sul palinsesto della mia memoria.
Il pensiero dei miei compagni era
probabilmente intorno il collo dei loro cari. Chiesi pensava alla sua mamma,
Federici alla sua signora e alla sua bimba che spasimava di vedere, don Davide
alla sua Teresa, la sorella che lo idolatra e Suzzani a sua madre che nominava
sovente.
Potevamo star su fino alle dieci.
Alle otto eravamo tutti a letto.
Chiesi russava maialescamente da
dieci minuti.
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