Gustavo Chiesi è uscito dalle
pagine di Mazzini. Tutto ciò che è regio non entra nei suoi ideali. Tutto ciò
che è frivolo non partecipa della sua esistenza. Le sue alte aspirazioni sono per
una Repubblica di repubblicani ammodernati dalla vita pubblica.
In un periodo di specialisti,
egli è rimasto l’uomo di una coltura straordinaria. Volgendosi verso la
montagna della sua produzione, si può credere che egli abbia dato fondo
all’universo. Si è occupato, con competenza, di tutto lo scibile umano. Di
storia, di scienza, di letteratura, di invenzioni, di geografia, di arte, di
navigazione, di questioni agrarie, di strategia militare, di industria, di
drammatica, di legislazione. Egli ha biografato mezzo mondo. Da Dante a
Cimarosa, da Leonardo da Vinci a Cavour, a Cantù, a Crispi. Non c’è uomo
illustre nella storia e nel rinascimento patrio che non sia entrato nella sua
collezione illustrata.
Self-made man del
giornalismo italiano, egli si è scelto un motto inglese adatto alla sua
pertinacia di lavoratore: time is money - il tempo è danaro. Con una
testa costantemente in eruzione e convinto che «la volontà è l’anima
dell’ingegno e la vittoria del progresso», egli resiste al tavolo fino ai
crampi nella mano. Passa indifferentemente da un soggetto all’altro, senza
bisogno di sosta. Smette l’articolo politico e riprende la continuazione
dell’appendice, consegna al proto la pagina critica e si riversa sull’Italia
irredenta - una pubblicazione che deve «tener vivo nelle masse il
sentimento della loro nazionalità, il retaggio sacro della lingua, la speranza
di una rivendicazione avvenire».
È difficile trascinarlo in una
conversazione che gli faccia perdere il tempo e il danaro, ma una volta ch’egli
si decida per il riposo, vi trovate con un causeur nel vero senso
della parola, con un uomo il quale sembra non abbia fatto altro nella
vita che occuparsi di salotti aristocratici o di aneddoti politici o di musica
wagneriana. Verso sera, quando si aspettava la luce elettrica o si flanellava,
gli abitatori della quinta camerata lo ascoltavano tra una meraviglia e
l’altra.
Pareva Villemesant o Rochefort
che stesse dettando le sue memorie. Si andava dall’Africa - ove era stato due
volte come corrispondente del Secolo - al palcoscenico di una prima
donna che ha fatto storia - nel dietroscena di Caprera quando donna Francesca
rimase col generale - alla redazione di un giornale che si ricorda
ancora - a un periodo tumultuoso che egli sapeva rimettere in piedi tale e quale,
colla data, cogli incidenti, cogli attori principali,
sceneggiando il disastro o il trionfo coi colori di una tavolozza
arciricca. Un semplice paesucolo sconosciuto diventava nella sua bocca
di un interesse sommo. Ce lo circondava delle industrie e degli uomini della
regione e ci diceva l’avvenimento che lo aveva reso celebre.
Pur pensando a Cavallotti quasi
balbuziente, dubito che il Chiesi abbia qualità oratorie. Gli mancano i mezzi
vocali e l’inconsapevolezza di Castelar che sa stare sulla piattaforma con la
tranquillità di uno scrittore a tavolino.
Il processo del tribunale di
guerra è riuscito a propalare assai più il suo carattere, la sua produzione
letteraria, la sua attività giornalistica.
Prima, quantunque avesse scritto
una ventina di romanzi, descritta l’Italia da un capo all’altro, il suo nome
non era nelle moltitudini come oggi. Giornalista che aveva nutrito una legione
di giornali, gli mancava la simpatia nazionale che gli ha data una condanna la
quale ha fatto fremere anche coloro che sono agli antipodi de’ suoi ideali
politici.
In Gustavo Chiesi è
l’imperturbabilità grandiosa di Danton che dice al carnefice di mostrare la sua
testa al popolo. È rimasto sul banco degli accusati di un tribunale militare come
uno stoico. Se ha aperto bocca, non è stato per proteggere la sua prosa
giornalistica, ma per salvare i suoi cooperatori e adempiere al dovere di
direttore.
- Io non ho da dire che due brevi
cose.
«Primo, ringrazio i miei
difensori per la grande dottrina colla quale mi hanno difeso. (Era stato difeso
dai tenenti Giglio e Corselli). Secondo, dichiaro sulla mia parola d’onore che
il Cermenati si recò a Pavia e a Piacenza soltanto in qualità di redattore del
giornale, e per nessun’altra ragione».
E quando Bacci, il sostituto
avvocato generale in missione, escluse dal numero dei colpevoli Ulisse
Cermenati e Arnaldo Seneci, amministratore dell’Italia del popolo, sulla
faccia del direttore si diffuse la consolazione. Egli respirava più
liberamente. La reclusione degli amici gli sarebbe pesata sul cuore come un
martirio.
In galera nessuno lo ha mai
sentito lamentarsi. Egli lavorava dalla mattina alla sera e non sostava che per
pensare alla vecchia madre che lo piangeva disperatamente.
Pochi idolatrano la famiglia dei
genitori e contribuiscono al suo benessere come Gustavo Chiesi.
Egli è stato eletto deputato
mentre era nel reclusorio di Finalborgo e Forlì continuerà ad eleggerlo per un
pezzo, perché Gustavo Chiesi non è di coloro che si abbandonano subito dopo che
la giustizia delle masse ha stravinto la giustizia delle classi.
Conosciuto, lo si ama per la sua
intelligenza; per la sua bontà e per la saldezza dei suoi principii.
In questi tempi di uomini di
carta pesta, un uomo di bronzo, come Gustavo Chiesi, diventa, in un ambiente
legislativo come il nostro, un tesoro nazionale. Tiene in piedi anche i
legislatori di pasta frolla.
È dotto, è una biblioteca
ambulante ed è una penna incorruttibile che perseguita i corrotti.
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