Ci fu un galeotto che ci
disilluse tutti. Era il cuoco del bettolino - un buon diavolo cogli occhioni
pieni di lampeggiamenti e con le ganasce lardose. Aveva per noi della vera affezione.
Coi pochi centesimi che potevamo spendere, si struggeva per farci mangiare meno
scelleratamente che poteva. Soprattutto era pulito. Ci portava alla mattina una
minestra per venticinque centesimi, la quale, in galera, potevamo dire buona e
delle porzioni di gnocchi di patate che mandavano in visibilio Romussi.
- Neanche la mia cuoca saprebbe
cucinarli così bene!
Gustavo Chiesi, che si
interessava assai poco della vita del reclusorio e che giurava, di tanto in
tanto, che non avrebbe mai scritto una riga sulla sua prigionia, aveva della
tenerezza per il cuoco. Ci diceva che, se andava fuori, voleva fare qualcosa
per lui, perché lo meritava. Sapevamo che era un fratricida, ma avevamo la sua
parola d’onore ch’egli era innocente. Secondo lui, non fu che il caso che lo
fece trovare nella stanza ove un altro suo fratello scannava il terzo. In
galera poi non si può pretendere di trovare delle mani immacolate.
Una mattina che avevamo più fame
del solito, lo aspettavamo andando in su e in giù per la camerata e gettando
occhiate per il corridoio attraverso la spia.
- Ma questo cuoco?
Giunse in vece sua un recluso dei
fatti di maggio. Che aveva? Era egli ammalato? Nessuno ne sapeva niente e
nessuno ci voleva dire niente. Alle nostre interrogazioni, si rispondeva con
smorfie che suscitavano una curiosità maggiore. Che cosa gli era capitato? Il
direttore lo aveva condannato a quindici giorni di cella di rigore e di camicia
di forza. Che cosa aveva fatto? Quando lo sapemmo, lo buttammo tutti idealmente
dalla finestra, come si fa con una persona della quale non si voglia più
ricordarsi. Egli si era appaiato con uno della sua specie.
Dopo quest’uomo triviale che ci
ha trascinati nei bassifondi della malavita, è una consolazione ritornare alla
superficie dove sono esseri di una morale un po’ più sostenuta.
Il 598 era il modello di tutti
quanti ho conosciuti. Egli gode la fiducia del direttore e non ne abusa. È
fedele, è rispettoso, è astemio e lavora dalla mattina alla sera come un
martire. Va da un corridoio all’altro senz’essere accompagnato dalla guardia. È
il solo che esca tutti i giorni dallo stabilimento - accompagnato, si intende,
dall’agente di custodia - a portare la corrispondenza alla direzione dei
reclusori ed è il solo che vada fino a Finalmarina a prendere i medicinali.
Un giorno, mentre il buon
Pascotto stava spolverando la lampada della nostra camerata, gli domandai
perché non scappava.
- Voi non avete più che dodici
anni da fare. Ma pensate che la vita è breve, accidempoli! Nei vostri panni io
non esiterei un minuto. Mi servirei della casacca per insaccarvi la testa del
mio guardiano e obbligarlo a sciupare del tempo a districarsela e poi direi:
gambe mie aiutatemi! Continuerei a fuggire senza mai voltarmi indietro.
Non smise neanche di strofinare
la lampada. Per lui erano tutte sciocchezze. Lui non era uomo da lasciarsi
scaldare la testa. Prima di tutto aveva la sua pena da espiare e non
intendeva sottrarvisi se non gli si faceva la grazia. Aveva violata la legge e
la legge doveva essere rispettata. Ai suoi tempi era stato un bulo e anche un
grassatore di strada. Ma adesso aveva fatto giudizio ed era, per lui, un
piacere mantenersi sulla via retta. La fuga poi, per un povero cristo, era una
ridicolaggine. Come si poteva scappare colla catena o cogli abiti del galeotto?
- E quando siete al largo e cercato dappertutto dagli agenti di polizia, dove
andate a nascondervi? La vita del fuggiasco è più grama di quella del recluso.
Credetelo. E come troverete da mangiare in giro, senza amicizie e senza denari?
Rubando. E io non farò mai più il ladro.
Egli mi rispondeva da uomo
emendato, e il mio pensiero incanagliva e trepidava, preparandosi una fuga
clamorosa e spettacolosa. Lui mi parlava di ridicolaggine e di catena, e io
sentivo il mare che si frangeva fracassosamente sulla spiaggia di Finalmarina.
Lui si vedeva inseguito dai cagnotti sguinzagliati dalla giustizia che non dà
tregua, e io mi gettavo sul mare supino e, a forza di gambe, raggiungevo la
nave straniera che mi accoglieva a bordo a braccia aperte. Il 598 si vedeva
impacciato, perseguitato e morto di fame. Io mi sentivo libero, sulla
piattaforma inglese o americana, circondato da migliaia di persone che mi
salutavano con dei battimani fragorosi e mi riempivano le tasche di dollari o
di sterline udendomi raccontare le avventure della mia fuga e il periodo della
fame de’ miei amici della quinta camerata!
Il 77 era il lavandaio. Era alto
come un palo telegrafico, secco come il merluzzo e giallognolo come la pelle di
un giapponese. Con il suo collo esile, sormontato da una testa poco voluminosa,
con le sue braccia lunghe appese alle spalle come cose floscie giù rasente il
corpo, con la sua faccia piena di rientrature, pareva uno scheletro ambulante.
Gli occhi, nascosti nelle
occhiaie profonde sotto le tettoie ossute e pelose, sembravano focolari di
delinquenza. Erano in essi i guizzi del delitto che facevano passare per la
schiena l’aria fredda. Tutte le volte che lo guardavo, mi obbligava a liberarmi
dai fremiti che mi suscitava con degli scotimenti di spalle. La sua bocca a
culo di gallina e il suo mento che tirava da sinistra a destra, mi riassumevano
il tipo del luogo.
Aveva la mano denutrita e le dita
lunghe del fantasma. Si muovevano come tentacoli. Prendevano la biancheria
sporca con un movimento meccanico. Sul cuore del 77 era il listone nero del suo
trasporto, e sulla sua testa gibbosa era il berretto giallo a spicchio che lo
incadaveriva.
Come tutti i sanguinarii, era di
modi carezzosi. Parlava con dolcezza e non si lamentava mai della sua sorte.
Una volta che gli domandai se pensava di rientrare nella vita sociale, mi
offerse una presa di tabacco con una spallata di sprezzo. Pareva volesse dire:
Società ingrata, non avrai le mie ossa! I suoi compagni mi dicevano che era
religiosissimo. Non mangiava mai senza farsi il segno della croce e non andava
mai sulla branda senza prima essersi inginocchiato a ringraziare il Signore
Iddio di averlo mantenuto buono anche in quella giornata.
Tra tutti i condannati della
quinta camerata preferiva don Davide. Il sacerdote nel camiciotto del recluso
gli faceva sanguinare l’anima. Non gli pareva giusto che un uomo di «talento»,
come diceva lui, fosse in prigione per avere del «talento».
Don Davide si soffiava il naso
sovente a Finalborgo. Aveva preso un raffreddore che gli era divenuto cronico.
E il lavandaio, di nascosto, gli lavava un fazzoletto al giorno e glielo
portava pulito e piegato come una cosa proibita dal regolamento.
L’udito del 77 era molto
difettoso.
C’era un recluso che aveva già
scontato otto anni e che anche nel saio della casa di pena non aveva perduto la
caratteristica del mestiere che esercitava prima di essersi intriso le mani nel
sangue dei suoi simili. Lo si vedeva e si pensava al palcoscenico. Egli non
poteva essere che un calcascene. Il suo viso era una ditta teatrale. Una di
quelle facce grassottelle di venticinque anni, con la carne biancastra della
gente che va a letto quando la notte sfittisce, con l’ombreggiatura per la
mezza faccia della barba fitta e nera che ha subìto il contrappelo e con gli occhioni
dalle pupille fulgide nella vivezza lattiginosa che inondano l’assieme di una
bontà infinita.
La sua vita di «scrivanello» -
una vita che lo lascia libero tutto il giorno e gran parte della notte - non
gli ha fatto dimenticare che gli mancano quattro anni, anni che egli chiamava
quattro secoli anche quando gli si diceva che la sua liberazione non poteva
essere lontana.
Le lettere che riceveva dalla
famiglia gli rinverdivano le speranze ogni tre mesi, ma, tra l’una e .
l’altra del trimestre, aveva dei momenti neri di ipocondria. Gli pareva che più
nessuno pensasse a lui. Prima che venisse l’indulto me ne fece leggere una la
quale gli dava l’idea che finalmente il sovrano si era commosso del suo stato.
Egli era convinto che S. M. stava per firmare la sua grazia. Ma il giorno che
mi vide partire senza novità per lui, ricadde nella disperazione.
- «Non mi dimentichi!» mi disse.
E dicendolo si asciugava gli occhi, volgendosi dall’altra parte. «Se posso
ritornare a casa, le assicuro che non mi vedranno più in questi luoghi. L’ho
scontata troppo cara per dimenticare la vita del recluso. Poi ho la mamma e la
sorella che mi vogliono un bene dell’anima. Lei ha letto l’ultima loro lettera
e può dire se hanno del cuore».
Di mattina, era addetto al
medico. Registrava la medicina da mandarsi a prendere. Dopo, andava per le
camerate a raccogliere le ordinazioni mangerecce, e nel pomeriggio, fino magari
dopo la mezzanotte, rimaneva con un galeotto perpetuo a preparare gli
specchietti del movimento amministrativo quotidiano. Il suo numero di matricola
era il 2107.
Prima dell’attore veniva da noi,
col libro della spesa e il calamaio attaccato per un lembo di pelle al bottone
della giacca, uno scrivanello che aveva ammazzato un carabiniere il quale lo aveva
sorpreso a svaligiare una carbona (casa) fuori di porta Magenta.
L’omicidio gli aveva dato modo di rimanere fuori dalle unghie della giustizia
per parecchi mesi. Ma la gatta, anche dopo una paura maledetta, va al lardo fin
che vi lascia lo zampino. E un bel giorno lo agguantarono con degli altri ladri
o degli altri grassatori e lo mandarono in galera con una sentenza di
vent’anni.
Era recidivo, qualche colpo gli
era andato bene e sapeva adattarsi all’ambiente in un modo meraviglioso. Quando
la direzione non lo imbestialiva coi conti che gli aveva affidato, non si
accorgeva di essere in un reclusorio. Lasciava l’ufficio verso mezzanotte e
dalla spia della nostra camerata lo rivedevamo al lavoro prima delle quattro.
Qualche volta, se la guardia che
lo accompagnava non gli era vicino, gli dicevo che faceva male a lavorare tante
ore in un periodo in cui gli operai che mangiano meglio si agitavano per un
orario quotidiano di otto. Vi ammalerete e andrete al cimitero senza rivedere
Milano.
Mi rispose che stava meglio in
ufficio che in infermeria, ove poteva coricarsi e alzarsi presto senza
svegliare alcuno. L’infermeria è uno stanzone lunghissimo con delle finestre
libere dai cassoni e con due filate di letti quasi sempre vuoti.
- Come, vi lamentate di dormire
sulla materassa?
- Non mi lamento, ma lei non
sa...
- Datemi del voi, gli dissi
celiando. Sapete bene che il regolamento proibisce ai detenuti di servirsi di
un pronome che non sia di seconda persona plurale.
- Giusto, voi non sapete che in
letto - anche sulla materassa - sto male. È l’unica cosa alla quale non sono
mai riuscito ad abituarmi. Il galeotto è incatenato alla branda. Ora, mettetevi
nella mia posizione, e vedrete che darete la preferenza al pisolino sulla
scranna dello scrivanello. La lunghezza della catena non mi permette che di
mettere il piede in terra dalla parte dell’anello e di rimanere, se non voglio
scorticarmi, in una posizione supina. Il letto, per me, è una tortura.
Fu lui che ci iniziò ai pasti dei
peperoni, dei pomidori, dell’insalata di cipolle e di patate coll’aglio e di
fagiolini tirati fuori dalla pasta del convento, quando la minestra era coi
fagioli. Egli è piuttosto piccolo, con la pelle sulla faccia scura e butterata,
con gli occhi un po’ loschi e con le estremità del taglio della bocca non
esattamente equidistanti. È tutt’assieme una figura rapace.
Lo abbiamo perduto per avere
alzato il gomito. Poco abituato a bere, un giorno era riuscito ad ubriacarsi.
Lo trovai nel letto della infermeria incatenato alla branda, con la cuffia di
cotone bianco sulla fronte, che stava aspettando la sbriacatura.
- Che cosa fate? gli domandai.
- Non ho potuto alzarmi alla
solita ora per un po’ di vino brusco. Accidenti al vino brusco!
All’indomani, o qualche giorno
dopo, il direttore lo mandò nell’altro reclusorio a mia insaputa e io non ho
potuto restituirgli lo Stecchetti che mi aveva imprestato per passare il tempo.
Lo scrivanello lo sapeva quasi
tutto a memoria.
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