Tra l’ottanta e l’ottantatrè i
pionieri del movimento marxista continuavano a battere il chiodo che, se si
voleva organizzare i mestieri, bisognava costituire un partito puramente
operaio, il quale, a suo tempo, avrebbe potuto trasformarsi in partito
socialista italiano. Parecchi operai, che studiavano e frequentavano i circoli
di studi sociali, si misero a concionare in questo senso, e subito dopo la
morte di Carlo Marx la loro organizzazione si potè dire iniziata.
Ormai, si disse, l’operaio farà
da sè. Chiunque si occupava di questioni sociali e non aveva i calli del
lavoratore alle mani, veniva considerato una specie d’intruso. Lo si vedeva
negli angoli dei meetings come un rognoso.
Coi pregiudizi che pullulavano
nella testa operaia e con la stampa che blatterava di progresso e dava eternamente
ragione agli intascatori di lavoro non pagato, senza un giornale che
stimolasse, che aiutasse, che confortasse, che difendesse e che rivelasse la
vita che si svolgeva negli stabilimenti padronali, gli operai non
avrebbero potuto tener duro.
Un giornale era necessario. Senza
di esso sarebbero stati calunniati, schiacciati. Non si domandarono neanche chi
di loro sapeva scrivere o chi di loro sapeva mettere assieme un foglio
qualunque. L’esperienza li avrebbe fatti andare sulle pedate degli altri. Il loro
partito era nuovo e nuovi dovevano essere gli scrittori.
Non si trattava di scrivere in
ghingheri. Si trattava semplicemente di dire chiaro e tondo che cosa volevano,
dove tendevano, a che cosa aspiravano. Non altro. E il Fascio Operaio -
voce dei figli del lavoro - il 29 luglio 1883 era già nelle mani del pubblico.
Lo scopo della pubblicazione era condensato in queste parole di Malon stampate
a destra, in corpo otto, sotto il titolo del giornale: «Se non pensano a far da
loro gli operai italiani non saranno mai emancipati».
Nel primo
articolo intitolato «chi siamo e che cosa vogliamo», dicevano apertamente che erano «operai nel più stretto senso della parola,
cioè, operai manovali».
«Siamo i figli di quella immensa
moltitudine a cui la vita non è concessa che a patto di una perenne produzione
- di quella classe che lavora e soffre, senza adeguati compensi - che vede il
frutto delle proprie fatiche aumentare le ricchezze dei capitalisti».
L’attività dei redattori del Fascio
Operaio era infaticabile. Restando al lavoro, tenevano conferenze ogni
sera, organizzavano la lega di resistenza ogni volta si trovavano coi compagni,
e scrivevano articoli ogni settimana. In due mesi la «voce dei figli del
lavoro» seppe preparare e inaugurare un Congresso operaio a cui il Fascio mandava
il suo saluto «perché i congressisti erano puramente dei lavoratori che si
ispiravano alla loro coscienza di lavoratori».«Siate uomini nuovi, diceva loro.
Due siano le vostre stelle polari. L’eguaglianza di tutti gli uomini in faccia
alla giustizia e l’indipendenza della personalità umana».
Il Fascio Operaio discuteva
i problemi operai, polemizzava coi giornali che si occupavano dei redattori e
dei loro articoli, decomponeva, a poco a poco, il Consolato operaio nelle mani
dei romussiani, e attaccava, con qualche violenza, la democrazia al dorso del Secolo,
chiamandola «vile». Cavallotti, che fino dai tempi del Gazzettino Rosa aveva
imitato don Margotti, tenendo nella sua casa il casellario degli uomini
pubblici - casellario che se venisse pubblicato adesso sorprenderebbe molti e
susciterebbe polemiche infinite - si era occupato anche dei redattori del Fascio
e specialmente di Costantino Lazzari, il quale, oltre essere il redattore
capo del Fascio, era l’anima del partito operaio.
Per capire l’importanza
dell’accusa contro Costantino Lazzari, bisogna ricordarsi che nell’86
Cavallotti aveva già assunto il carattere di leader parlamentare ed
aveva già iniziato il sistema di inseguire e snidare i corrotti dovunque li
trovava o li sapeva.
Nel salone dei Giardini Pubblici,
ove aveva finito di parlare Cavallotti sulle elezioni generali, non appena il
redattore capo del Fascio si permise di domandare la parola, si
sentirono voci spaventevoli.
- Fuori le spie! fuori le spie!
Chi erano le spie? I redattori
del Fascio. Ma l’indiziato era Costantino Lazzari. Tanto è vero che nel
questionario, che invitava Cavallotti a dare «risposte categoriche in nome
della verità e della giustizia», c’era questa interrogazione:
- È giusto paragonare il compagno
Lazzari ad un agente di polizia?
Cavallotti non volle mai smentire
l’accusa e non volle mai dire pubblicamente su quale documento era basata, Ma
tutti gli amici dell’autore di Anticaglie sapevano e sanno che l’accusa
era basta su una ricevuta di cinquecento lire, firmata da Costantino Lazzari,
nelle mani di Nicotera, ministro dell’interno. Chiunque di noi l’avesse veduta
senza cercare altro, non avrebbe potuto venire ad altra conclusione.
Cioè che Costantino Lazzari non aveva schifo dei fondi segreti. Ma la cosa non
è così. E ne parlo appunto per distruggere una calunnia che perseguita Lazzari
da parecchi anni. Non lo si può dire prudente, questo no. Prendere del danaro
per un partito senza domandare da che parte venga, con la scusa che il denaro
non ha «odore», è un po’ arrischiato. Ma in verità Costantino Lazzari entrò
come un sorcio nella trappola. Non sapeva del tranello. Gli si esibirono
cinquecento lire per il partito in un momento elettorale, le prese, e le
consegnò intatte al partito senza curarsi d’altro. Un fatto consimile è
avvenuto tra i socialisti di Londra. I tories diedero parecchie
centinaia di sterline a un leader socialista per moltiplicare le
candidature socialiste tra il candidato tory e il candidato liberale. Il
giuoco era che col terzo candidato i liberali avrebbero perduto i voti che
venivano dati ai socialisti e quindi qua e là dei collegi. Si gridò al tory
money, come qui si gridò alla spia. Ma il leader inglese e il leader
italiano poterono salvarsi mostrando, come Walpole, le mani pulite. Dopo
questo fatto il Fascio Operaio - del quale parlo perché è come parlare
di Costantino Lazzari - e il partito operaio subirono le violenze prefettizie e
passarono attraverso un uragano indemoniato. Il Comitato Centrale del partito
operaio italiano venne sciolto, il Fascio Operaio sospeso e la redazione
intiera messa sotto chiave al Cellulare per ottanta giorni. I condannati furono
cinque, tra i quali Costantino Lazzari, a tre mesi di carcere e a trecento lire
di multa.
E il Fascio Operaio risorse,
dicendo che «il socialismo è un gigante che nessuna forza può vincere».
In Costantino Lazzari è rimasta
l’avversione del Fascio Operaio per gli «intrusi». Un socialista dottore
o avvocato o scrittore o ingegnere o architetto gli fa torcere il viso
dall’altra parte. Ha per tutti costoro un’antipatia invincibile. Li chiama i
socialisti dal panciotto bianco o i socialisti dal gilé de gess.
Si dice che la gratitudine non
sia il suo forte. Ma è indubitato ch’egli, giovanissimo, si è dato la briga di
soccorrere la sua famiglia povera, e di mantenere alle scuole di Milano una sua
sorella e un suo fratello.
Ha rinunciato alla carriera
commerciale per dedicarsi completamente al socialismo. Ma le vicissitudini
dell’esistenza tribolata gli hanno fatto riprendere la via di prima. Egli è ora
commesso viaggiatore. È stato in prigione più di una volta. Egli era
nell’Umbria ed è andato in galera per i tumulti di Milano!
Ha un’istruzione tumultuaria, è
un conferenziere improvvisatore, ha una tendenza sentita verso la misantropia,
ed è disgustato degli uomini e della vita.
Se dovessi riassumere Lazzari,
direi, con Tommaso Grossi, ch’egli è un «orso mal leccato».
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