Per ricordarmi di queste giornate
negre, ammuchiavo le mie impressioni sui margini, sui frontispizi e sotto e
sopra gli indici dei libri. Mi servivo di un moncone di lapis che tenevo
nascosto tra il dorso e la legatura di un volume, il quale rimaneva con me
giorno e notte. I libri che giovano di più al prigioniero sono quelli che
offrono più spazio.
Quelli che hanno cinque o sei
pagine bianche prima di arrivare alla prefazione, che incominciano e finiscono
i capitoli con dei vuoti preziosi, che sono stampati in modo da lasciarvi una
linea tra una riga e l’altra e che terminano in fondo col lusso della
entratura. A me, per esempio, sono stati di grande giovamento la grammatica
tedesca del dottor Friedmann e le Ascensioni Umane del Fogazzaro. Mi
hanno permesso di scrivere un volume su ciascun volume. Se dovessi ritornare in
prigione e qualcuno volesse regalarmi qualche libro, non dimentichi di dare
un’occhiata agli spazi.
Copio, o meglio completo i
periodi coi riempitivi che lasciavo fuori per economia.
«Il periodo della fame venne
inaugurato stamane, sei settembre. Se lo avessi saputo prima, ieri sera mi
sarei imbottito con un pranzo luculliano. Non si è mai contenti. Era una
giornata che ci aspettavamo di minuto in minuto, ed ora che è giunta troviamo
che è giunta troppo presto. Io poi, che non ho tanti denari da spendere, non
dovrei tormentarmi con queste seccature di gola. Tanto più che mi rincresce di
stare a tavola cogli amici, che non sono capaci di mangiare in santa pace il
loro pranzo, senza costringermi, con la massima gentilezza, ad assaggiare un
po’ di questa o di quella pietanza. Adesso siamo pari. La nostra mensa è
diventata la mensa degli uguali.
«Che cani! Ci hanno portato via
penne, calamai e lapis. Sono venuti a prendere i libri per registrarli. Ho
domandato il permesso di scrivere una lettera per comunicare agli amici
l’avvenimento, ma mi si è detto che il regolamento non mi autorizza a scriverne
che una al mese. Chiesi, che è alla reclusione, non può scriverne che una ogni
tre. A proposito, egli è alla reclusione, e rimane con noi. Dunque non c’è differenza
che nelle spese e nelle lettere. Lui può spendere venticinque centesimi e noi,
alla detenzione, trentacinque.
«Non riuscirete mai, signori
aguzzini, a farmi capire l’utilità sociale di impedirci di scrivere per tenerci
qui a guardarci l’un l’altro. Seguitiamo a chiacchierare sulla dieta. Nessuno
ha paura. Se non sono morti quelli con la catena che la subiscono da anni senza
migliorarla col sopravitto, vuol dire che non si muore.
«Le latrine sono indecenze
primitive. Mi sono messo con la faccia alla ferriata della prima finestra e
sono stato lì per recere. Sotto, nel cortile, è un mastellone nascosto da un
murello a curva, che lascia venir su una puzza velenosa. È il mastellone dei
condannati addetti ai lavori domestici. Il direttore di questa casa di pena
deve avere l’olfatto molto ottuso. In tutto il penitenziario non c’è una
latrina. Ciascuno fa i suoi bisogni come in un bosco. Peggio che in un bosco.
Perché qui non potete alzarvi e andarvene via. Qui vi si lascia il mastellone
che riceve il materiale di tutta la camerata tutto il giorno e tutta la notte.
Non lo vuotano che alla mattina e nel pomeriggio. Noi, per fortuna, non siamo
che in sette. Immaginatevi il fetore costante di una camerata di settanta o
ottanta individui! C’è però un guaio anche nella nostra. In alto alla parete
sono due finestrucole che comunicano con una camerata piena di reclusi. Di
notte e di giorno riceviamo la loro atmosfera appestata e siamo condannati a
sentirli trullare come maiali!
«Non è la prima volta che mangio la
pagnotta, ma era un pezzo che non la sbocconcellavo. Me la hanno portata e mi
sono ricordato degli ultimi tozzi di pane bianco che ho dato al recluso che ci
porta il barile dell’acqua. Come sarebbero buoni, adesso! In un reclusorio non
mi aspetto il pane di fantasia. Ma certamente mi aspetterei un pane migliore di
questo. I cavalli ne mangiano del più buono. Le nostre sono pagnotte di mollica
ammassicciata. Non è la mollica pastosa, duttile, allungabile, come quella del
pane dei signori. È una mollica friabile, di un colore brunastro e di un sapore
sciapito.
«Ho sempre sentito dire che la
crosta solida è un indizio della bontà del pane. Dev’essere abbondante, fitta,
resistente, cotta bene. Questa è molle, sottile, che si stacca senza fatica,
che ritiene la ditata non appena la premete leggermente. Ha un colore tra il
rosso-bruno e il giallo-dorato.
«Fanno sul serio. È cessata anche
la pulizia domestica. Prima ci facevano scopare la camerata e lavare la gamella
dai galeotti. Adesso ci si è detto che la cuccagna è finita. Benissimo. Non
marciremo neanche per questo. Il male è che con la minestra condita d’olio la
latta rimane unta. Senza acqua calda ci ungiamo come guatteri e ce le laviamo
male. Ciascuno di noi si è scelta la giornata di pulizia. Lunedì Lazzari,
martedì Federici, mercoledì Valera, giovedì Chiesi, venerdì Ghiglione, sabato
don Davide, domenica Suzzani. È un movimento igienico. Si puliscono e si
mettono a posto i tavoli e si scopa due volte il giorno. I più volonterosi e i
più abili sono indubbiamente Lazzari e Federici. Entrambi scopano adagio,
passano l’arnese sotto le brande, si fermano a far uscire i crostini dalle
connessure tra mattone e mattone e tra pietra e pietra e si tirano a dietro il
materiale fino in fondo, senza lasciare per la via polvere o briciole. Scopa
bene anche don Davide, ma non con la diligenza degli altri due. Se al sabato si
dimentica del suo turno, il Chiesi gli grida subito alle spalle:
«- Non più privilegi e non più
privilegiati!
«Il Ghiglione, campagnolo, scopa
male, lo fa di mala voglia e pulisce i tavoli come un uomo che si senta
umiliato.
«La direzione di qualunque casa
penale vende ogni mese la Rivista di discipline carcerarie, diretta dal
Beltrani-Scalia, direttore delle carceri (ora, come si sa, ha preso il suo posto
il Canevelli). lo scopo della rivista è pio. È di assistere con delle
sottoscrizioni i figliuoli derelitti dei condannati. Una cosa la quale vi
suggerisce che la società punisce più i figli che i genitori. Perché mette
sotto chiave i secondi e lascia sulla strada i primi.
«Le ultime pagine sono occupate
dal movimento dei liberati dagli stabilimenti penali durante il mese. In agosto
hanno lasciato uscire 54 uomini e 6 donne per grazia sovrana, 299 uomini e 12
donne per indulto e 31 maschi e 2 femmine condizionalmente.
«La tabella dei liberati condizionalmente prova che
l’Italia è più crudele d’ogni altra nazione. L’Inghilterra, punto tenera pei
suoi delinquenti, dà loro modo, colla buona condotta e col lavoro persistente,
di guadagnarsi tre mesi su ogni anno. Conquistandosi il numero fisso di
marchette, il condannato, poniamo, a sei anni, è sicuro di non rimanere in
carcere che quattro anni e mezzo. Il nostro sistema non assicura nulla al
condannato e premia la condotta incensurata con una lesineria che fa piangere.
Deduce, su per giù, da un anno a un anno e mezzo per ogni dieci anni di galera!
«Ne scelgo uno. N.A., di Napoli,
contadino, condannato a dodici anni, è uscito a 37 anni, dopo avere scontato
una pena di undici anni ed un mese!
«Nella stessa tabella si nota che
la donna subisce gli stessi rigori. A.L., di Palermo, entrata nella casa di
pena a 38 anni, con una condanna di vent’anni per omicidio, è uscita dopo una
pena di diciotto di lavori forzati. Che tigri!
«Aggiungo che la liberazione dei
condannati non dovrebbe mai essere lasciata all’arbitrio del direttore - il
quale è, novantanove volte su cento, parziale e crudele.
«Non so se dipende dalla dieta.
Ma con una dieta scellerata e insufficiente ho perduto persino la voglia di
leggere. In un mese non sono riuscito a rileggere il primo volume dei dieci
anni di Louis Blanc. Sbadiglio spesso, e spesso, dopo una specie di
torsione alla regione epigastrica, mi istupidisco in un sopore che mi spaventa.
I miei amici di camerata mi dicono che mangio troppo poco e che butto via
troppo sovente la minestra. Non so che farci. È una minestra che mi ripugna e
che non so ingoiare né asciutta né col brodo. Ci sono dei cani liberi che la
lascerebbero nella scodella. Ho notato una certa sonnolenza anche negli altri.
Più di una volta ho veduto Federici fermarsi sulla pagina, coi gomiti sul
tavolo e la faccia nelle palme. Alle undici antimeridiane d’ieri ho sorpreso
don Davide che dormigliava sul breviario. Anche Lazzari subisce la stessa legge
di prostrazione. Rimane assopito per delle ore. Forse è perché egli legge
troppo di notte. In Chiesi ho notato che la sua respirazione notturna è
diventata più rantolosa.
«Ci hanno portato di sopra delle
lettere piene di cancellature. A noi che abbiamo il limone per disseppellire le
parole dai neracci del direttore, importa poco. Ma mi piacerebbe che qualcuno
mi rivelasse l’utilità di queste soppressioni di parole. Una volta che siamo
condannati, che cosa deve importare a voi che qualcuno ci faccia sapere un
breve minuto della vita del mondo dal quale siamo stati espulsi con tanta
violenza? È una cretineria da mettersi con le altre che si commettono in questi
luoghi.
«Il mio amico Mario Borsa,
corrispondente londinese del Secolo, mi manda una rivista mensile per tenermi
al corrente dei grandi fatti europei. Una rivista estera non può impensierire
alcuno. Qui impensierisce. Il direttore mi ha fatto chiamare in direzione per
dirmi che non poteva darmela perché ci sono in essa articoli che si occupano di
cose che non devo sapere! Suppongo per un minuto che vi sia qualche narrazione
sui fatti di maggio. Nossignore, me la nega perché vi è un articolo sulla
guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna! Sono o non sono un giornalista? Una
società. che corregge e non abbia per compito di mandarmi fuori imbecille,
dovrebbe procurarmi, anche a proprie spese, le riviste e di giornali che mi
dovrebbero tenere al corrente di tutto ciò che avviene. Non vi pare? Anche al
Chiesi hanno trattenuto delle riviste francesi per le stesse ragioni. Asini!
«Piove. Quando piove, il
condannato perde il diritto all’aria e al moto delle gambe. Senza uscire dalla
gabbia si diventa di umore nero. È una meraviglia che uno non s’avventi
sull’altro. Ci si tiene nella camerata sino a quando il cielo si rasserena. E
in questa regione, quando incomincia a diluviare, è capace di tirare innanzi
senza interruzione per una settimana. Nella camerata al dorso della nostra
sembrano diventati tanti leticoni indiavolati. Di tanto in tanto qualcuno si
sfoga gridando: aria! In uno stabilimento di tanta gente ci dovrebbe essere
anche il passeggio coperto. Ma non ci si pensa. Perché il bestiame in galera
può crepare senza inumidire l’occhio sociale.
«La visita del medico che abbiamo
avuta ieri l’altro mi ha fatto un effetto strano. Mi parve un uomo incaricato
di venire a vedere se avevamo ancora delle giornate da vivere. Sì, o signori
aguzzini, siamo languidi più di ieri, ma non siamo ancora moribondi. Anche col
vitto insufficiente possiamo vivere degli anni.
«La nota di ieri è stata un po’
baldanzosa. Si indebolisce lentamente e lentamente mi pare che si perda la
memoria. Stamane, parlando degli affamati americani al polo Nord, non ho saputo
rammentarmi il nome del generale che venne trovato inconscio vicino al cadavere
di un nero che gli era stato fedelissimo. E non me lo ricordo neppure adesso.
Questo fatto mi mette addosso del freddo. Credo che a grado a grado ci avviamo
verso l’abolizione della intelligenza. Usciremo delle pagine bianche. Non
sapremo più neppure di essere stati in prigione!
«Siamo calati tutti di peso. Il
pancione di don Davide è rientrato di molto. Forse sarà l’effetto della
rasatura dei baffi, ma il naso di ciascuno di noi mi riproduce il naso
dell’allampanato. Anche il Federici è dimagrito. Parla poco e fa dei pisolini
ripetuti con pochi intervalli. A Chiesi si sono formate le scodellette sotto
gli occhi. Il naso di Ghiglione pare il becco adunco dell’aquila. La faccia
di Suzzani è accesa e si è spiritualizzata. Egli mi ha detto che si sente di
tanto in tanto dei dolori dietro l’orecchio destro. Noto tutto senza spiegare
nulla. Lazzari ha avuto degli stringimenti pilorici. Dorme poco, e durante il
sonno parla con delle interiezioni di dolore.
«A me non passa più nulla.
Federici mi ha dato un cucchiaio della sua magnesia effervescente. Per una
concessione speciale egli può tenersene un vaso e farselo riempire quando è
vuoto. Se ne prende una cucchiaiata ogni mattina in due dita d’acqua. Mi ha
fatto bene. Ho potuto trangugiare la gamella di pasta senza gli impeti di
repulsione. Sento che mi ritornano le forze. Leggo e più rapidamente. Ieri ero
proprio in uno stato compassionevole. Ho dovuto domandare il permesso di
adagiarmi sulla branda. Mi sentivo vicino al deliquio. Sdraiato, ebbi degli
assopimenti leggeri. Mi pareva di essere in decomposizione. Rimasi più di tre
ore col dorso completamente abbandonato allo stramazzo. Non sentivo più che il
languore delle braccia ed un certo calore insolito alle tempia.
«Il grido che si muore di fame è
nell’aria. - Tutte le camerate ci fanno chiedere dei bocconi di pane. Noi, che
soffriamo un po’ tutti di inedia, mandiamo gli avanzi delle nostre pagnotte ai
35 minorenni della camerata quasi in faccia alla nostra. Tra loro sono
pochissimi quelli che possono spendere per il sopravitto. Devono essere tutti
poveri o figli di poveri. Don Davide, che ha tra loro il suo chierico, va a dir
messa spesso collo schianto del cuore. Gli rincresce di non avere sempre un
boccone di pane da dargli. Quel ragazzo patisce la fame sotto la sorveglianza
governativa! Se fossi direttore dello stabilimento butterei via lo stipendio.
Non saprei mangiare coi piedi sotto la tavola senza pensare al battaglione di
affamati sotto la mia custodia. Il grido dei minorenni mi sospenderebbe il
boccone in gola.
«Stanotte sono stato svegliato da
un grido acuto di qualcuno che stava male nella camerata al dorso della nostra.
Non ci ha lasciato più dormire. Aveva il rantolo bronchiale ed emetteva gemiti
che si ripetevano anche dopo che la guardia gli vociava dalla spia:
«- Fate silenzio, che domani
andrete dal medico!
«Un compagno deve averlo soccorso
con una goccia d’acqua. Ho sentito i suoi piedi nudi che correvano da una parte
all’altra.
«Come deve essere triste morire
in questo luogo!
«La luce misurata dai cassoni
alle finestre finisce per indebolirci la vista. A me si è dilatata la pupilla e
Lazzari si lamenta di non avere un paio d’occhiali. L’indebolimento gli ha come
paralizzato i nervi ottici.
«Alla domenica c’è sempre
speranza di rifarsi lo stomaco con una gamella di brodo e 250 grammi di carne.
È sovente una grande disillusione. Più di una volta si è obbligati a sbattere
via tutto. Il brodo è grasso con gli occhi dell’olio alla superficie che
fanno venir voglia di vomitare, o è magro come l’acqua bollente. Manca sempre
il sale. Quello di stamane vale un fico secco. La carne è peggiore. La carne di
questa domenica è squamosa, sciapita, dura come il corame. L’ho voltata e
rivoltata sotto i denti senza riuscire a masticarla. Pazienza, aspetterò quella
di domenica ventura. Siamo sotto l’azione del regime forcaiolo da qualche mese
e non abbiamo veduto neppur l’ombra della commissione. Questi signori che
assumono una carica così importante e poi la trascurano, meriterebbero un po’
di reclusione. la loro assenza dovrebbe essere considerata un delitto. Ah, se
fossi io il loro giudice! Farei mozzar loro le orecchie come ai tempi della
buona Elisabetta.
«Il pane di stamane è esecrabile.
Sente dell’acido del lievito che ha tentato di farlo levare prestamente. Mi par
di sentire il gesso sotto i denti. la mollica umida ha qua e là dei punti
biancastri che rivelano la qualità infame della farina. Ghiglione ci consola
dicendoci che prima, quando lo facevano i galeotti nello stabilimento, era più
buono. Adesso, coll’appalto, è malcotto, pesante, indigeribile. l’indigestione
di un pane come questo produce a tutti noi effetti straordinari. Sembra che ci
fermenti nel ventre. Un’ora dopo ci sentiamo tutti gravidi. Lo si fa con una
farina di quarta o quinta qualità e con poco o nessun glutine. Preferisco
ancora la pagnotta che i signori danno ai cavalli.
«Anche i galeotti che lo mangiano
da tanti anni se ne lamentano e farebbero un «fuori! fuori!» se non avessero
paura di un rincrudimento di rigore. Sarei contento che una volta o l’altra mi
si processasse per diffamazione. Io non domanderei che la testimonianza dei sei
compagni della quinta camerata e il permesso di citare una cinquantina di
galeotti e un centinaio di reclusi. Proverei come due e due fa quattro che la
qualità del pane è infimissima e che alla reclusione si imbecillisce dalla
fame. Sarebbe uno dei processi più emozionanti di questo secolo.
«Ho trovato modo di eliminare la
pasta dal mio cibo quotidiano. Non sapevo mandarne giù che qualche cucchiaiata e
con ripugnanza. Un galeotto mi ha raccontato ch’egli vive da anni con
l’insalata di patate e cipolle. Mi sono messo sulle sue pedate una settimana e
non mi trovo malcontento. Qualche volta mi sento sazio. Le patate potrebbero
però essere più buone. Ne butto via una su tre. Si vede che sono il rifiuto
delle corbe. Quasi tutti ci siamo dati all’insalata di patate e cipolle. L’olio
è troppo cattivo e peserebbe troppo sui miei trentacinque centesimi. La
condisco col sale e coll’aceto. Più di una volta vi aggiungiamo i
fagiuoli che troviamo nella minestra di pasta. Sono fagiuoli bianchi. Compero
pure qualche spicchio d’aglio. Ho dovuto eliminare definitivamente anche il
pane. Non potevo più ingoiarlo. Abbiamo protestato sovente e qualcuno di noi se
ne lamentò col direttore e col sottocapo. Ma all’indomani ritorna peggio di
prima. C’è stato un giorno che non lo si volle in nessuna camerata. Molti
rifiutanti vennero castigati con della cella di rigore. In prigione non si sa
come fare. Se si protesta si è puniti e se non si richiama con questa misura
l’attenzione dell’autorità carceraria, si mangia come bestie.
«Tutto il mio essere sta in piedi
con trentacinque centesimi al giorno. Ecco come li ho spesi stamane. Ho
comperato cinque centesimi di sapone, dieci di pane bianco, cinque di patate,
tre di cipolle, due d’aglio, tre di sale, cinque di fichi secchi e due di carta
per la pulizia. La carta per i bisogni corporali e il sapone non dovrebbero
essere a spese del condannato. Come? volete educarmi, e mi impedite di tenermi
pulito e di lavarmi come si lavano tutti i cristiani! I fichi secchi ho dovuto
gettarli nelle immondizie che raccogliamo nell’angolo. Li aprivo, e uscivano i
bachi. Don Davide, mi fece dimenticare i fichi con un motto latino. Sursum
corda. Sit gressus ad superiora; melius est ascendere. In alto i cuori.
Volgiamo i passi alle regioni superiori; è miglior cosa salire.
«Siamo fortunati che non c’è
specchio. Ci spaventeremmo. Sento che la pelle della faccia mi stiracchia da
tutte le parti.
«Ho dovuto comperarmi due
centesimi di refe per trasportarmi il bottone dei calzoni. Senza bretelle, li
perdo. Sono diventato magro, magro. Ho i miei dubbi che si esca tutti. Ho
sempre avuto schifo dei sorci. Ma se ce ne fosse uno abbrustolito lo mangerei
con l’appetito dei parigini durante l’assedio della loro capitale. È strano che
non ci siano topi in questo vecchio edificio. Noi non ne abbiamo mai veduto
uno. Ci sono parecchi gatti. Ma rimangono tutti nel cortile e sono sotto la
protezione di una guardia alta, addetta alle celle di rigore. Un gatticidio
potrebbe costarmi parecchi mesi di cella di rigore e di camicia di forza.
«La ciarla si è ammorzata. Non
parliamo più tanto. Una lettera suscitava, settimane sono, una discussione che
durava delle ore. Adesso la si legge e la si lega con le altre. Sembriamo tanti
nevrastenici. La nostra conversazione è diventata monosillabica. Ci guardiamo
difficilmente in faccia.
«Ho comunicato a Federici i miei
timori. Ho paura di uscire idiota. Ci sono dei momenti in cui sono obbligato a
mettermi la mano sulla testa per paura che mi scappi il pensiero.. Egli mi
disse che è dovuto alla mia cocciutaggine di non voler mangiare abbastanza. In
carcere bisogna essere alliatrofago. Inghiottire ogni cosa, anche se
ributtante. Con trentacinque centesimi non si può vivere. E con trentacinque
centesimi mi compero il limone, il sapone, il refe, gli aghi e i bottoni che
perdo. I bottoni sembrano stati attaccati con gli sputi. Son sempre in terra.
Questa mane al passeggio mi sono lustrato le scarpe. Il sottocapo mi disse che
erano indecenti. Erano ormai divenute rosse.
«Ha ragione Federici. E poi tutti
i giorni insalata! Son tre giorni che mi brucia lo stomaco e non la mangio più
con lo stesso piacere. Mi dànno 100 grammi di bue in umido per quattordici
centesimi. Ma è necessario uno stomaco foderato di rame per trangugiarlo. A me
ha provocato la nausea.
«Ho notato che Federici verso gli
ultimi del mese diventa più cupo. Pare che incominci a pensare al suo
colloquio. Non sono che lui e don Davide che hanno la consolazione di vedere
qualcuno che non sia di questa casa maledetta. Dopo il colloquio con la sua
signora, Federici risale gaio, amico di tutti, coi saluti per tutti.
«Come mi farebbe bene una goccia
di cognac! Mi tirerebbe su lo stomaco e mi ridarebbe le forze perdute. Il mio
corpo deve avere una calorificazione incompleta. Stanotte mi sentivo freddo. O
piuttosto mi pareva di avere in me un umidore freddo che mi andava dalla radice
dei capelli alle unghie dei piedi.
«Provavo la sensazione di un organismo
che sta raffreddandosi. Sommerso nell’ombra e nel silenzio m’intenerivo. Mi
sentivo le lagrime in gola e non piangevo. Che cosa pagherei a essere un
fisiologo consumato! Potrei uscire con un diario completo sulle sensazioni
della fame. A me pare che ne risentano tutti gli organi. Sono spossato
dappertutto. Il cervello pare vuoto, la testa è indolenzita e pesa due volte,
le braccia sentono il bisogno di rimanere adagiate, i polpacci delle gambe
paiono carichi di piombo e i piedi mi dànno l’idea che stiano per slogarsi. E
tuttavia, dopo i primi giorni, non ho mai provato le insurrezioni di una fame
canina. Mastico senza piacere come un automa.
«I miei movimenti sono diventati
lenti e faccio fatica a tener aperti gli occhi. Sono determinato a rifarmi con
la pagnotta, ma la mia determinazione non val nulla dinanzi all’atonia
dell’apparecchio digestivo. La forza digestiva è come interrotta. Ieri sera
stavo facendo il letto e ho dovuto sedere sul materasso due volte. Mi sembravo
vicino al deliquio. Federici è stato buono anche questa volta. Mi ha dato un
cucchiaio di magnesia effervescente. L’ho bevuta col piacere che dà lo
champagne. Ho respirato più liberamente.
«Ghiglione è andato dal medico.
Non ci ha detto nulla. È egli ammalato? Non è ammalato?
«Vi sono andato anch’io, ma solo
per domandargli il permesso di un bagno. Io mi immergo sempre con piacere
nell’acqua. Non capisco come le persone possano tirare innanzi degli anni senza
mai buttarsi addosso un secchio d’acqua. Pulitevi, se volete star sani!
«Nessuno dorme profondamente,
l’insonnia è generale. Qualcuno parla o straparla. Stanotte ho dovuto
confessare alla guardia scelta di ronda che stavo proprio male. È andato in
infermeria e mi ha portato una polverina di bismuto e magnesia. È un’infermeria
che non ha nulla. Tutti gli ammalati sono curati con delle polverine di
calomelano, di bismuto e magnesia e di bicarbonato di soda. C’è qualche
pennellata di tintura di iodio per i reumatismi e i dolori acutissimi e basta.
Il cavadenti è un condannato. È un vero miracolo che egli non abbia mai
smascellato qualcuno. Il suo sistema è questo: mette la testa del paziente
sulle ginocchia, gli guarda in bocca, si fa puntare col dito il dente cariato,
l’agguanta con la tenaglia e tira. Spesso, nello sforzo, si levano in piedi
operatore e paziente e l’uno segue l’altro fino alla parete. A una di queste
operazioni era presente don Davide.
«Siamo salvi o per lo meno siamo
salvi per un po’ di giorni. La signora di Federici è riuscita a far passare del
cioccolatte. Deve avere sgelato il cuore della direzione. Federici ha
incominciato subito col distribuirne due pezzi a ciascuno di noi. Mi sentii
immediatamente ristorato. E non ne ho mangiato che uno. Il secondo sono stato
capace di tenerlo in tasca fino alle sei di sera. Poi ho cominciato a
scartocciarlo con l’intenzione di non rosicchiarne che un angolo e non ho
smesso che a tavoletta finita. Ingordo!
«Ho passato una buona notte e
alla mattina mi sono messo a leggere di gusto. Credendo che fosse permesso a
tutti di mangiare del cioccolatte, ho scritto subito a casa di mandarmene due
chilogrammi. Son stato chiamato dal capo, il quale era incaricato dal direttore
di farmi sapere che il cioccolatte non è nel regolamento. Al Federici venne
dato perché era giunto come pacco postale e a sua insaputa. Se giungesse anche
a me, a mia insaputa, si potrebbe fare lo stesso.
«Ci sono state annunciate delle
cassette di biscotti. Sarebbero stati provvidenziali. Li abbiamo aspettati per
due giorni. La direzione ci ha fatto comunicare che potevamo rimandarli a chi
ce li aveva spediti o regalarli all’ospedale di Finalborgo. Non potendo
mangiarli noi, abbiamo votato per gli ammalati.
«Federici ci tiene in piedi col
suo cioccolatte. Non appena ci si porta la pagnotta, egli va da tutti con una
tavoletta e li costringe ad accettarla. Una tavoletta di cioccolatte in galera,
nella nostra condizione, val un tesoro. Pochi se ne disfarebbero con tanta
sollecitudine. Bisogna avere del cuore per compiere sacrifici come questi.
«Novità. Ci deve essere qualcuno
che lavora per noi. Il periodo della fame che produce le allucinazioni è
finito. È venuto un ordine che ci permette di spendere settantacinque centesimi
al giorno. Abbiamo subito domandato il permesso di farci fare, a nostre spese,
una minestra collettiva da venticinque centesimi ciascuno. Ci è stata concessa.
«Incominciamo a smutriarci.
Facciamo delle spanciate di baccalà fritto per venti centesimi. Beviamo quasi
tutti un quarto di vino per nove centesimi. È brusco, accidente se è brusco! Io
e Lazzari siamo ritornati al pane bianco. Anche Chiesi e Suzzani si son dati al
pane bianco. Don Davide e Federici resistono e continuano col pane della casa.
Il piatto più buono sono le uova al burro arrostite, per ventidue centesimi. Vi
manca però il burro e se c’è lo vedono appena. Non poche volte sono putrefatte,
ma a lamentarsi ce le cambiano. Ci si dà una tazza di caffè per dieci
centesimi. È una tazza di un boccalino, ma imbevibile. Io e don Davide abbiamo
tenuto duro per qualche settimana, ma abbiamo dovuto rinunciare anche a questo
lusso. Nella tariffa dei generi in vendita nella dispensa, è stata introdotta
la polenta. Con otto centesimi ce ne danno trecento grammi. È buona. Con
ventisei centesimi di salsiccia in umido e una sleppa di polenta, inaffiata dal
quinto di vino, non si crepa. Mi duole che la concessione della spesa sia stata
accordata alla sola nostra camerata. E le altre, non sono piene di reclusi
stati condannati dagli stessi tribunali militari per un identico delitto?
«Sette dicembre. Non si muore più
di fame. Il Governo ci ha inviato il commendatore Berardi a comunicarci
personalmente che da oggi possiamo mangiare e spendere quello che vogliamo noi.
Egli è già stato a comunicare la stessa notizia al Romussi e al De Andreis nel
reclusorio di Alessandria e a Turati in quello di Pallanza.
«Ecco che cosa mi ha detto:
- Io sono un ispettore inviato
dal Ministero. So che lei adesso non può spendere che settantacinque centesimi
e che questo aumento non le è stato concesso che pochi giorni sono. Da oggi io
posso comunicarle ch’ella può spendere per il suo vitto cinque o anche dieci
lire al giorno, se lo desidera. Non c’è limite. Se non le piace la cucina del
reclusorio può servirsi dell’osteria o dell’albergo di fuori. Desidera qualcosa
altro?
«Uno dopo l’altro gli domandammo
due arie, cioè due ore di passeggio. Perché un’ora sola, lesinata anche
quella, non ci dava esercizio sufficiente per conservarci sani:
- Concesso, rispose a ciascuno di
noi. Desidera qualche cos’altro?
- Se si potesse fumare qualche sigaretta.
- Lo domanderò al direttore. Se
fossero completamente separati dagli altri, non esiterei a dire di sì senza
interrogarlo. Lei sa che cosa voglia dire il vizio di fumare. Gli altri che
sentissero il fumo impazzirebbero e farebbero un chiasso, indemoniato e non
avrebbero torto. D’altro?
- Lei sa che noi siamo tutti
bevitori di caffè. Se ci permettesse di comperarci la macchinetta, il caffè, lo
zuccaro, lo spirito e di farcelo quando vogliamo noi, in camerata?
- Concesso. D’altro?
- Scusi, se abuso.
- Faccia, perché io sono venuto
qui per contentarli.
- Grazie. Senta, ci sono libri che il signor
direttore non ci consegna perché si ostina a considerarli immorali o
pornografici. Lei sa che noi siamo abituati a leggere tutto.
- Concesso. D’altro?
«Mi curvai. Egli mi strinse la
mano. Così va fatto».
. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. ..
«Sono uscito con l’indulto. L’indulto
è una remissione di pena, è un perdono. Chi ve lo ha domandato? E se non ve
l’ho domandato perché non mi date il permesso di rifiutarlo? Non so che farmene
del vostro perdono.
«Sono uscito arciconvinto che nei
reclusori italiani si istupidisce la gente con la fame.
«Un anno di reclusione, con
seicento grammi di pane in due razioni e due mezze gamelle di pasta in brodo al
giorno, basta per ritornare alla società secchi come chiodi e col cervello
completamente rammollito».
PS. - Permettetemi di aggiungere
due parole alle note di Finalborgo. Sono stato perdonato, non è vero? Ma, o
signori, o cosa direste se io, legge, vi mettessi sotto chiave per dei mesi e
poi vi perdonassi? C’è stato un processo, lo so. Non siamo mica stati mandati
alla reclusione così alla cieca. Ci si è detto che avevamo commesso un delitto.
Ma anche noi, o signori, abbiamo detto e ridiciamo che ci si è mandati in
galera innocenti. E se siamo stati mandati in galera innocenti, non c’è che una
via alla riparazione. Rifare il processo, restituirci quello che ci si è tolto
e risarcirci dei danni. Il risarcimento dei danni vogliamo, o signori, che ci
avete mandati in galera e ci avete lasciati fuori come mendichi che avessero
limosinato l’indulto. Non altro.
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