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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE TERZA
    • IO E FEDERICI RITORNIAMO A FINALBORGO
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IO E FEDERICI RITORNIAMO A FINALBORGO

 

 

 

La «catena» era composta di noi due. Il vagone cellulare era nuovo e non puzzava di biacca. Le celle erano assai più comode delle altre del primo viaggio. I carabinieri non sembravano cattivi diavoli. I ferri erano noiosi, ma non ci pigiavano i polsi come le altre volte. Chiusi nelle due celle in fondo, l’una in faccia all’altra, vicini alla finestra del vagone, non mancavamo di qualche boccata d’aria.

Ricordandomi dei due viaggi, mi dicevo contento.

- Almeno qui, non si crepa. Mi misi in bocca una sigaretta con un po’ di fatica e con un po’ di fatica riuscii ad accendermi lo zolfanello.

Federici attraversava la tempesta. Era tetro, non diceva nulla e non rispondeva alle mie interrogazioni, che volevano distrarlo, se non con dei monosillabi che non invitavano alla conversazione. Forse si sentiva umiliato a rifare la strada che conduceva a un reclusorio dal quale era uscito con tanto piacere, dove erano persone che non amava rivedere o persone con le quali non avrebbe scambiato una parola, gli fosse costata la lingua.

Verso Sampierdarena i lineamenti facciali di Federici assunsero una parvenza di dolcezza. L’uomo stava per convincersi che era inutile lottare contro l’invisibile. Eravamo nelle mani di sconosciuti che ci sbalestravano da una parte e dall’altra e bisognava adattarsi. Anche a me sarebbe piaciuto andare in un altro reclusorio, dove avrei potuto raccogliere del materiale nuovo, dove avrei potuto fare la vera vita del galeotto con dei galeotti autentici, dove avrei potuto studiare tipi che nella quinta camerata non avrei mai trovato. Ma pazienza, ormai mi hanno abituato a fare la volontà degli altri.

A Sampierdarena il nostro vagone venne staccato e lasciato fuori dalla tettoia. C’era un intervallo di due ore e mezza. Era un’altra punizione che avremmo scontata se i carabinieri non avessero avuto fame. Avevano appetito, volevano mangiare col sedere sulla scranna, e dare anche a noi il modo di far colazione più comodamente che ammanettati nella cella. Ci domandarono se volevamo cavarcela con qualche cosa di asciutto in cella o se preferivamo di andare alla sezione dei carabinieri con loro. Io non esitai un minuto a votare per l’uscita. L’idea di muovermi e di respirare l’aria libera mi metteva gli aghi nelle gambe. L’indugio di un attimo mi diventava un supplizio. Mi faceva salire le fiamme alla faccia e mi dava l’impressione che soffocavo. Federici era riluttante. Lui e Romussi, nel viaggio di traduzione, avevano imparato che per le strade di giorno, si attira l’attenzione di tutti i passanti. Vinse l’aria libera. Uscimmo e fummo contenti. La gente sostava sulle botteghe, i ragazzi ci correvano dietro, i passanti si fermavano a vederci, alcuni commentavano, ma noi passavamo senza darcene pensiero. Ormai ci avevamo fatto il callo. - Chi ci conosce ci conosce e chi non ci conosce felice notte.

Giunti alla sede dei carabinieri ci si chiuse in uno stambugio buio più di una cantina, esalante la mefite. Incominciavamo a dolerci di non essere rimasti in gabbia.

- Piuttosto che mangiare in questo luogo, preferisco la fame.

- Anch’io. Ma vedrai che non saranno tanto cani.

Stavano a farci preparare la tavola.

Facemmo colazione nella loro cucina, la quale aveva una larga apertura verso il cortile. Mangiammo due ossi buchi indimenticabili. Erano eccellenti. Bevemmo del vino eccellentissimo, e facemmo scomparire un pezzo di formaggio di gorgonzola bianco e un’alzata di uva e pesche saporitissime.

- Vogliono anche il caffè?

- Vada per il caffè!

- La Cassazione ha parlato e può darsi che questa sia l’ultima colazione dell’uomo libero.

- Non pensiamoci. Ce ne sono tanti in galera e non sono morti.

I carabinieri dicevano anche loro che la bestia non era poi così brutta come la si dipinge.

- E poi loro! ci si diceva. Usciranno più presto di quello che credono. C’è tanta agitazione per il paese.

- Sembra che non ci siamo che noi in prigione!

Il maresciallo della caserma era un uomo tarchiato, con una faccia grossa e grassa da bonaccione.

- Li condurrò alla stazione in carrozza per non farli passare traverso la folla.

- Grazie.

- Pagheranno la vettura!

- S’intende.

Alla stazione venimmo circondati da una moltitudine che aumentava di minuto in minuto.

Entrammo in un vagone di terza classe. È stata una vera sorpresa. Non eravamo mai stati così bene.

Prima che suonasse il campanello della partenza, un signore ottenne il permesso di salire sul predellino a stringere la mano a Federici.

- Faccia buon viaggio.

- Grazie.

Il signore era commosso. Federici con le mani legate non aveva potuto stringergliela come avrebbe voluto.

- Partenza!

Il maresciallo ci salutò con un gesto della mano.

Al reclusorio trovai il capo guardia in collera.

- Lei si lascia intervistare!

- Da chi?

- Lei si lascia intervistare dai giornalisti per dir male del Reclusorio.

Mi vennero in mente parecchi giornalisti che erano venuti a trovarmi nel camerotto indecente della Corte d’Appello di via Clerici. Chi sa che cosa mi avranno fatto dire!

- Lei si lamenta!

- Certamente che io sto meglio fuori.

- Non doveva entrare se non le piaceva!

- Non ci sono venuto spontaneamente.

- E va bene, loro hanno sempre ragione!

- Mi faccia leggere questa intervista e le dirò se quello che ho detto è esatto.

- Gliela farà leggere il direttore!


 




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