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Paolo Valera I Cannoni di bava Beccaris IntraText CT - Lettura del testo |
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LE PRIME FUCILATE IN PIAZZA DEL DUOMO
(dal mio diario)
7 Maggio. - Mi alzo, sono inquieto, ho ancora nella testa le grida e le scene di ieri sera durante e dopo l’acquazzone indiavolato che ha fatto scappare tutti dai luoghi aperti, e sciolta la dimostrazione prima che si adunasse. In Galleria Vittorio Emanuele ci sono stati momenti terribili. Squilli, moltitudini che si riversavano da una parte all’altra, aggruppamenti che si disfacevano in un fiato e si ricomponevano a qualche passo di distanza. Rivedo i provocatori della Brasera con spavento. Con l’irritazione incandescente dappertutto, i signoracci, in alto, si abbandonavano allo spasso di aggiungere combustibile per l’incendio, buttando giù sulle moltitudini parole oscene e villane e mostrando i pugni chiusi. Ah, birbe! C’è stato un attimo in cui ho veduto nell’atmosfera irritata la guerra civile. I mascalzoni che apparivano e scomparivano dietro i vetri rovesciavano sui capannelli che sostavano e passavano secchi d’acqua. Scellerati! Anche in casa si sente che siamo in tempi anormali. C’è un’inquietudine, c’è un malessere, c’è qualcosa che non so spiegare. Sei amici sono saliti a trovarmi terrorizzati. C’è tra loro un deputato. Sembrano tutti in preda alla febbre. A loro sembra impossibile che io sia ancora al largo. Va via! mi dice qualcuno. Mettiti al sicuro. Non ci penso neanche. Rido e faccio la punta al lapis che voglio mettermi in tasca per andare in giro a raccogliere gli avvenimenti. Non capita tutti i giorni di passare in mezzo al casaldiavolo militare con la matita che lo raccoglie. La matita nelle giornate di sommossa è forte, più forte dei cannoni a tiro rapido. Victor Hugo, con la matita che Baudin gli ha prestato prima di morire sulla barricata della via Santa Margherita, ha inchiodato i nomi dei malfattori del 2 dicembre alla vergogna dei secoli. La storia di un delitto è un libro immortale. A proposito: e perché non lo ha pubblicato subito, quando gli episodi fumavano del sangue delle vittime, quando gli attori principali del Colpo di Stato suscitavano ancora gli orrori, gli spasimi? Io non voglio imitarlo. Lui ha saputo tener il manoscritto chiuso nell’armadio per venticinque anni. Io andrò subito alla ricerca di una stamperia. Voglio la scena nell’atmosfera in cui si è svolta. Ho letto la Lombardia con disgusto. Ah, che prosaccia da sentina! È un giornale che non mi è mai piaciuto. L’ho sempre considerato un fogliuolaccio mal messo insieme e scritto coi piedi. Ha lo stile del negoziante di notizie. Ora che puzza di questura mi fa recere. I suoi redattori sono caconi. Vorrebbero essere un po’ con tutti, tranne che coi «sovversivi» o coi «formidabili nemici delle istituzioni». Non c’è che la presenza del cronista che la lasci vivere nell’equivoco. Con lui, iscritto al partito socialista, non si ha il coraggio di metterla tra i quotidiani forcaioli. Ma il socialismo del cronista del Lombardia è un socialista ventraiuolo. Tant’è vero che non ha mai saputo rinunciare al mensile del Popolo Romano di Chauvet. Si dice che il cronista è apolitico. Imbecilli. Nella notizia o nella manipolazione della notizia è il colore. Che bella giornata! Esco. La portinaia mi saluta con aria timida. Essa ha avuto delle visite che la impensieriscono. - Chi erano? - Facce sinistre. Si sente per le vie che c’è qualcosa d’insolito. La gente è affrettata. Sono in giro molti soldati, numerosi questurini, parecchi carabinieri. Ho veduto uno squadrone di cavalleria che andava verso Porta Garibaldi. Svolto in Via Dante e svolto alla volta di Largo Cairoli. Di fianco all’Eden, tra il monumento e l’ingresso del teatro, è piazzata una batteria di cannoni con le bocche alte verso l’arteria nuova che conduce in piazza del Duomo. La gente si ferma, interroga gli artiglieri e va via senza risposta. I soldati sembrano accigliati e i loro superiori hanno l’aria truce. Sentiamo un ran ran che passa come per i tetti. Le persone guardano in aria. Nulla. Ma il ran ran è entrato in tutti come un brivido. I passanti raddoppiano di gamba e si disperdono per le vie in direzioni opposte ai cannonieri. Ho incontrato un amico, pallido come un morto... Mi ha veduto; mi ha dovuto vedere, e non mi ha salutato. Non gliene faccio colpa. Con Bava Beccaris il saluto può costare la prigione. Tutte le muraglie, tutti gli assiti sono coperti dagli avvisi di questo generale che ha assunto il linguaggio brutale del soldato pronto al fuoco. In uno di essi dice: «Milanesi! I disordini che da ieri funestano questa città vanno prendendo l’aspetto di una vera sommossa, e perciò, a seconda degli ordini ministeriali, assumo la direzione superiore per il ristabilimento dell’ordine pubblico. «Consiglio i cittadini di starsene nelle loro case affinché le truppe abbiano a trovarsi di fronte ai soli dimostranti e possano così agire con la maggiore vigoria». Ha copiato, con qualche variante, il generale di Saint Arnaud delle famose giornate napoleoniche. «Pas des curieux inutiles dans les rues: impediscono i movimenti dei valorosi soldati che vi proteggono con le loro baionette». Plagiario! La città dei quarantottisti è senza coraggio. Pare che tutto il sangue delle sue arterie sia stato convertito in acqua. La popolazione legge e fila. Non c’è una mano capace di strappare gli avvisi che riassumono la tracotanza del soldataccio che io rovescerei da cavallo se lo incontrassi. L’opinione pubblica è sempre rappresentata dai giornali, specialmente nelle giornate di torbidi. E il coraggio dei giornali è
zero. Sbaglio. Nella Perseveranza e nel Corriere della Sera è il
coraggio poliziesco. Aizzano. Nell’una e nell’altro è il rancore della
vendetta. Additano i confratelli per il massacro. Sono i suggeritori di Bava
Beccaris. Tanto la prima che il secondo vanno in giro carichi della prosa
melmosa dei loro pennivendoli. Chi sono? Dietro il redattore responsabile della
Perseveranza, è una turba di malviventi intellettuali dell’aristocrazia
milanese, il cui capo è Gaetano Negri, l’uomo dalle esasperazioni sociali. Il
direttore del Corriere è un tipaccio che fa il gradasso al dorso di Bava
Beccaris. Figlio di un procuratore generale che esecrava e massacrava i
giornali che non idolatravano le «istituzioni» Godete, o Giboyer, i vostri giornali vanno a ruba. È la vostra vendemmia amministrativa. Bava Beccaris ha parlato ed ecco i giornali dell’ordine invasi dalla paralisi agitante. Pennivendoli, mangiapani, caratteri di zucchero candito, vilissime creature che non avete fede che nella mesata, a voi, sul vostro viso, gli scaracchi della mia indignazione. Io vado in tutte le stamperie che conosco, a implorare la grazia di stamparmi un bollettino che rimetta in piedi i ventraioli in ginocchio, i pavidi rappresentanti del quotidiano divenuti umili servitori di Bava Beccaris. Vergogna, vergogna! Hanno tutti paura. A tutti preme il pane, a tutti preme la famiglia, a tutti preme la quiete, a tutti preme il proprio stabilimento e intanto la libertà del cittadino muore, e nessuno è più sicuro in casa sua! Ecco che sono incominciati gli arresti, ecco che vanno in prigione a frotte, ecco che i soldati, i carabinieri, i questurini, i graduati, gli ufficiali non sono più che della sbirraglia che agguanta i passanti, che snida la gioventù nelle case, che strappa gli sposi dalle braccia delle donne piangenti, che urta brutalmente i bimbi con le braccia avviticchiate alle gambe dei padri e dei fratelli. Il mio pensiero è in fiamme come quello di Desmoulins. Mi agita, mi solleva, mi grida: vile! rivoltati, alle armi! alle armi! ma tutta la gente tace, tutta la gente si lascia condurre in prigione e tutti i giornalisti applaudono alle vigliaccherie di Bava Beccaris e mi guardano con l’occhio truce del rinnegato. Io sono solo, incapace perfino di appendermi ad una fune di campana per suonare a stormo, perché tutte le chiese sono chiuse, ermeticamente chiuse. Anche il dio cattolico partecipa al delitto! Oh disperazione di questa mia giornata di torture che sciupo nell’impotenza senza trovare accenti virili che diano l’anima dei combattenti del ‘48 alle generazioni di cinquant’anni dopo! Più tardi, dopo il ran ran, i passanti sembrano degli sconosciuti. Nessuno dice addio all’altro. Vanno via rasente ai muri come incalzati da un vento impetuoso. Invece c’è un sole che abbrustolisce. Io sono nel sole che scalda la mia desolazione. La paura è nell’aria. Qua e là si chiudono le imposte. Pare che tutta la gente stia per andare in campagna. Buon viaggio! Mi trovo in via S. Vincenzino. Non c’è nessuno, non c’è anima viva. Che cos’ho anch’io? Sono inquieto, nervoso, trasalisco per nulla. Mi si è chiamato? Chi mi ha chiamato? Mi sono voltato indietro convinto di aver qualcuno alle calcagna. Parola d’onore, ho tremato. Vile! Prima di sbucare in via Meravigli vedo passare un delegato con la sciarpa lungo il panciotto, un ufficiale con la spada sguainata e un drappello di soldati a baionetta in canna. Dove vanno? Raddoppio il passo sulle loro pedate. Passano e sollevano il vespaio nel cervello dei passanti. Si fanno tutte le supposizioni. Il parrucchiere di via Meravigli chiude in fretta, come quando si ha paura che la tempesta infuri sui vetri. Raggiungo il drappello in Santa Maria Porta. Il delegato si volta e mi fa voltare dall’altra parte con un gesto. Tutti gli ordigni di questura sono diventati onnipotenti. Soldati, disse egli additandomi, fatelo tornare indietro. E i soldati si preparavano a curvare gli arnesi della civiltà moderna. Non c’è bisogno, mi dissi mentalmente. La disubbidienza può costarmi una fucilata senza che alcuno mi raccolga e agiti il mio cadavere come una bandiera. Sono in giro come un matto. Non ho direzione. In corso Magenta vedo altri perduti che vengono alla mia volta e io li evito svoltando in via San Giovanni sul Muro. Al margine del vicolo dello stesso nome sono due cenciose della bassa prostituzione che aspettano il gozzovigliatore che faccia guadagnar loro il morsello dell’esistenza. Sono sudicione che fanno ribrezzo come faceva ribrezzo la Gervasa, prima di crepare di svaccamento fra le gambe del beccamorto. Il teatro Dal Verme è chiuso, la chiesuola più in giù, lungo il marciapiede opposto, è chiusa, le ultime imposte si chiudono. Non si vede nulla e si sente che lo spavento è nelle abitazioni e nella strada. Non smetto di camminare. Passo un’altra volta al Largo Cairoli. L’Eden traduce il momento. È completamente vuoto. Gli artiglieri sono come sull’attenti. Un altro ran ran rapido, precipitato, si perde via come in fondo a un bosco. Che c’è? Cosa c’è? Si combatte? La guerra civile è nelle vie? Mi passa per la schiena un brivido. Sono in piazza Castello, dal lato di Porta Garibaldi. Mi è stato detto che il quartiere popolare è già tutto in faccende per le barricate. Ran, ran, ran! Cerco col naso e con gli occhi l’ombra del fumo delle fucilate e trovo Vincenzo Maresti, col suo cappello nero, floscio, piatto, a larga tesa, piantato sull’occhio, con la sua giacca accarezzata alla schiena con la duttilità del panno che non fa pieghe, con le sue gambe lunghe lunghe, con quella sua faccia abbronzata anche d’inverno. Senza tirar fuori le mani dalle tasche mi assicura che in Porta Garibaldi c’è fermento. Gli pareva di camminare su di un terreno infocato. A ogni momento si aspettava un grido o una sollevazione. C’è gente a frotte. Si capisce che si sono vuotati gli opifici. La direzione generale è verso il Duomo. Maresti mi induce a cambiar strada e filo con lui in via Orefici, la via delle catapecchie in demolizione, zuppa di femminacce ulcerate fino agli occhi. È una via brutta, con l’acciottolato sempre ricoperto da uno strato limaccioso, sempre pieno di pozzanghere e di prostitute in agguato ad aspettare il maschio. Dal giorno che venne decretato il suo disfacimento i vecchi orefici, che vendevano spadine e bucole alle brianzuole, se ne sono andati, e ogni casupola è diventata il covo della prostituzione che si sguinzaglia di notte come lupa affamata. Anche adesso, che la via è sottosopra e tumultuata, si sente l’odore fetido della carne sdrucita e vendereccia che attutisce ancora i sensi indiavolati dei briaconi che passano. Al diavolo il carnimonio! Mi spingo avanti, dove la gente è più fitta e calcando cerco di mettermi in prima fila. Sono respinto da una ondata che si rovescia indietro, spinta da un’altra ondata che non vedo. Riesco vicino al muro della casa che lambisce la piazza del Duomo, senza vedere nulla di quello che avviene al di là della barriera umana. Maresti, più alto di me, ha veduto che c’è un cordone che va dalla offelleria al monumento. La folla che mi pigia e mi toglie la respirazione è composta in maggioranza di operai impazienti di attraversare la piazza. Pare che la moltitudine che vorrebbe irrompere sia trattenuta dagli alpini. Rizzandomi sulla punta dei piedi vedo, attraverso le teste che si protendono, la scala Porta, piegata verso la coda del cavallo del monumento, come vedo dei ragazzi appollaiati sui gradini di legno per godersi lo spettacolo della piazza popolata di gente e di soldati. Ora ci vedo bene. In fondo, in fondo, rasente gli scalini della cattedrale, c’è una moltitudine di cavalli insellati, con la testa nel fieno in terra e dei pezzi di cannoni, allineati dalla parte del palazzo reale, con le bocche spalancate sul Duomo. Si ricomincia a ridiventare inquieti. Maresti ha bisogno di rompere la diga, passare in Carlo Alberto e andare in via dell’Unione, dove è la sede del partito socialista e la direzione della Lotta di classe. Il non si passa è infrangibile. Io provo gli spasimi. Sono come sugli aghi. Sento un bisogno prepotente di andare in mezzo all’avvenimento. Inutile. I soldati sono torvi. O non rispondono o rispondono con monosillabi che passano le orecchie come colpi di fucile. Il momento diventa grave. Noi che volevamo passare siamo obbligati a trattenere gli audaci che vorrebbero rompere il cordone, anche quando i soldati spaventano col loro indietro. - Indietro! Sono le due e mezzo o le due e mezzo circa. C’è ressa e non posso guardare l’orologio. I bersaglieri allineati hanno sempre il fucile col calcio in terra. Ma sono lì sull’attenti, in attesa di un ordine. Ecco il terrore. I soldati hanno come ricevuto un ordine. Si impallidisce, siamo tutti stravolti. Quelli in prima fila si rovesciano sugli altri alla schiena come indemoniati. Fermi tutti! urla Maresti con il suo vocione, credendo di riuscire a sedare il panico e a trattenere compatta la diga. Ma la diga è rotta dalla punta della baionetta. La gente si rovescia per via Orefici e scappa, sparpagliata. Le donne gridano e alcune si rifugiano negli edifici che hanno chiusi i portoni. Non si capisce più niente. Gli uni rincorrono gli altri senza sapere il perché della fuga generale. Io arrivo all’angolo di piazza Mercanti trafelato. Mi pare di aver veduto la morte, di aver udito dei rantoli, di essere passato attraverso un fiat spaventoso. Uomini e donne si voltano indietro biancastri, con gli occhi spiritati dalla corsa e con la bocca che dice e ripete: Che paura, oh che paura, madonna santa! Passato lo stordimento mi risovvengo d’aver veduto, proprio nell’ultimo momento, Bava Beccaris a cavallo, dietro i bersaglieri, che dava ordini all’ufficiale che lo seguiva con un trombettiere a cavallo. Era proprio Bava Beccaris? A me parve lui. La gente puntava col dito e lo additava col nome. A ogni modo era il generale, che stava per iniziare il massacro. Come avviene sempre nei tumulti, non appena i soldati sono ritornati al loro posto, gli scappati si radunano a poco a poco allo stesso luogo, credendo che l’ordine di andarsene non sia imperativo. Ma l’illusione non dura molto. - Indietro! Indietro! Il nostro posto è preso un’altra volta dai soldati con la baionetta piegata verso il sedere delle persone che cercano di distrigarsi dalla ressa. La gente perde la testa. Tutte le porte della via Orefici si chiudono con gli inquilini determinati a non aprire. Così non c’è più scampo. Crudeli! A noi, in mezzo la strada, non resta più che combattere o lasciarci sorprendere dalle scariche. Combattere? con che cosa? Tutte le finestre hanno le imposte chiuse. Molte donne gridano come scalmanate, svengono, cadono con dei gesummaria! Io non ho ancora capito bene il perché dello scompiglio. Ecco, la punizione è incominciata. Non ho ancora fatto quattro passi e siamo perduti. Le scariche sono nell’aria. Odo le fucilate. Si tira, si tira sul popolo. Un’altra scarica. Sull’angolo di via Ratti mi volto mettendo fuori la testa. È una nube bianca che mi nasconde tutto ciò che c’è di visibile in piazza. Pare che i soldati vengano verso la via Orefici. Vedo indubbiamente dei monturati in atteggiamento di far fuoco. Mi pare di aver udito un’altra scarica. I fuggiti si sono dispersi in direzione della via Dante o sono scomparsi dall’arco della piazza Mercanti, o sono gli uni sulle calcagna degli altri, per la via Ratti, per la via Spadari, per la via della Rosa, per piazza della Rosa, per la via Ambrosiana, per la via delle Asole e per piazza S. Sepolcro. Il terrore è indicibile, le donne sbalordite, scolorate, disfatte, trascinano gli uomini ostinati con la voce della disperazione, e gli uomini sembrano allucinati. Hanno gli occhi fuori dell’orbita, la faccia cadaverica e sembrano intontiti e incapaci di riprendere il passo. Lo sgomento mi impedisce di muovermi. Mi avvio. In via Spadari trovo il delirio. Si capisce che il fuoco è avvenuto in via Torino o che le scariche sono state fatte in quella direzione. Tutta la folla viene verso di noi. Arriva ansante, esterefatta, con esclamazioni che lasciano indovinare il dramma. Qualche donna o qualche uomo sembra impazzito: Gesticola e piange. Intanto che si corre, guardo. La casa tollerata è chiusa. Tutte le porte e non poche finestre sono chiuse, la farmacia Tenca, sull’angolo di via della Rosa, è chiusa. Si sente un’altra fucilata. Qualcuno giunge con la notizia che il popolo si difende, ma nessuno gli crede. Come? Egli non sa rispondere: certo è che la gente continua a venire alla nostra volta come se fosse inseguita. Ho perduto Maresti, ma rivedo il suo cappello nero che torreggia sulla calca. Un altro scompiglio. La moltitudine che viene dalla via Torino non conserva più nulla della dignità umana. L’orgoglio personale è naufragato. Tutti corrono, corrono, corrono e poi si fermano come soffocati, incominciando le parole senza finirle, tirando su il grembiule per asciugarsi gli occhi, mettendo le mani alla fronte con accenti disperati, restando lì istupiditi, insensati, pallidi come la morte, senza riuscire a riaversi. Che cosa avviene? Nessuno parla, nessuno sa spiegarsi, nessuno sa raccontare che cosa sia avvenuto. Parlate, in nome del vostro dio! - Largo! Largo! Indietro! Indietro! via! via! E tutti sono ripresi dalla vertigine della corsa e tutti corrono e corrono, andando gli uni sui piedi degli altri, spingendo, sgomitando, rovesciando, passando sui corpi dei caduti senza ascoltare le grida, andando innanzi come tanti ciechi, come tanti pazzi. - Largo! Largo! Indietro! Indietro! via! via! Credevamo che fosse la folla dei soldati che spazzasse la via. Invece sono i primi feriti sulle braccia del popolo, raccolti dal popolo, portati via dal luogo micidiale dal popolo. I primi due caduti che veggo hanno l’aria di operai. l’uno è abbandonato di peso sulle braccia di due che lo sorreggono e sfiorano le labbra smorte, gli occhi che incominciano a chiudersi, la pelle del volto che scolorisce e assume un non so che di diafano. L’altro ha il viso cosparso di sangue e si dice che sia pure ferito al ventre o alle gambe. Il disgraziato non parla. Ha le braccia abbandonate sulle spalle di uno dei due che lo portano, e le gambe penzoloni. Egli è come seduto. Diventa paonazzo. Chi è? Come si chiama? Nessuno lo conosce. Il piombo lo ha fatto stramazzare. Non si ha tempo di intenerire per alcuno. Un ferito è seguito da un altro. È una ragazza che giunge col grembiule in una sola macchia di sangue. La si circonda. Pare uscita da un macello. la si crede sventrata. È abbattuta, piange, risponde coi singhiozzi. Finalmente ci toglie l’oppressione raccontandoci che tutto il sangue del grembiule è di un ragazzo caduto durante il primo parapiglia. Il poveretto era come scallottato. Non ha potuto passare senza raccoglierlo. Poi glielo hanno portato via. Tre, quattro, dieci mani se ne sono impadronite. Tutti i momenti arrivano persone in fuga. Si grida: alla farmacia! alla farmacia! È un mucchio di gente intorno a un ferito o morto che sia, e si grida: alla farmacia! alla farmacia! E i portatori si rivolgono verso la farmacia Tenca e l’ondata nera che incominciava a incavallarsi o a sovrapporsi si avvia rapidamente verso lo stesso punto. La bottega chiusa è come presa d’assalto. Si picchia coi piedi, con le mani, coi bastoni. Si prega, si supplica: aprite in nome del cielo! Ci sono dei feriti, aprite! Tutte le modulazioni di voce non commuovono lo speziale. Il popolo perde la pazienza e si serve delle spalle. Aprite, abbiate pietà della povera gente! La spallata di un giovane tarchiato ne fa tremare, scricchiolare le ante. Largo! si grida. Non si vuol aprire e la si sfonda. E dopo una spallata, un’altra e un’altra ancora, tutte accompagnate da maledizioni e da grida di speranze a ogni piegatura. Ma le ante resistono. Nessuno risponde. L’esasperazione diventa generale. Il farmacista crudele è chiamato con tutti i nomi del vocabolario della vigliaccheria. Silenzio! Udite! Qualcuno viene: si respira. Siamo salvi. Attenti, ecco si apre l’usciuolo. Fate presto, ci sono feriti, per amor di Dio! L’usciuolo si richiude come uno schiaffo. Si aspetta a prorompere. Si crede che l’abbia chiuso per spalancare la bottega. Si aspetta con trepidazione. Coloro che hanno sulle braccia i feriti grondano sudore. Non ne possono più. Si mette l’orecchio alla bottega. Nessun fracasso. Dopo due minuti di ansia la folla si scarica. Gli improperii si succedono agli improperii. Si tendono i pugni, si guarda in aria, si ha ancora una parvenza di speranza, ma la bottega rimane chiusa. Oh! la vita degli uomini! Dunque un farmacista non è obbligato, in momenti come questi, di aprire e soccorrere chi muore, chi è sorpreso dagli accidenti della strada? Ora non è tempo di considerazione. Registro il delitto per ricordarmene e filo. Più tardi. La cosa più strana di questo momento tragico è il pubblico. Il pubblico pare reduce da una corsa affannosa o esca da un sogno. È come trasecolato. È per le strade come un punto interrogativo. La sua mente è confusa, le sue idee sono ingarbugliate, la sua lingua è in moto automaticamente. Ascolto parole slegate, affastellate, turbolente. Mi trovo faccia a faccia con degli esaltati, mi fermo con donne e uomini che hanno perduto la memoria di ciò che è avvenuto. Sono lì istupiditi, con le mani in mano, con gli occhi imbambolati, come se aspettassero o cercassero qualche cosa. Che cosa avete udito, che cosa avete veduto, cosa vi hanno fatto? Mi si lascia pensare quello che voglio. Non riesco a cavar loro di bocca un ette. Vado innanzi verso la parte che lambisce via Torino. C’è folla. Vedo che svoltano in via Spadari altri feriti portati a braccia e altri sorpresi o febbricitanti o esaltati che vanno dalla parte opposta con esclamazioni d’orrore. Raccolgo un episodio. Una moglie vede il marito sorretto da tre o quattro persone, scoppia con un oh Dio, e sviene! Il marito non è che malconcio da qualche piede che gli è passato sopra durante una delle scariche. Le gelosie della casa delle perdute in fine della via sono semichiuse e si vedono le donne coi gomiti ai davanzali e gli occhi nella parte dischiusa a curiosare con la sigaretta in bocca. Neanche la sollevazione riesce a far loro dimenticare il mestiere. Accidenti alla carnaccia postribolare! La sventura cittadina è diffusa. Milano sta per diventare un’immensa cassa da morto, un gigantesco serbatoio di sangue. È un giovane che passa portato da quattro uomini. La sua testa segna i movimenti dei portatori. Le braccia sono senza vita. È terreo, stralunato, con la bocca appassita come in un’atmosfera ardente. Non c’è sangue, ha il panciotto slacciato e la camicia macchiata di rosso all’ombelico. Lo si lascia passare senza ventate di collera. Non si ode che qualche espressione di dolore. O Bava Beccaris ha succhiato tutto il coraggio milanese, riducendo i cittadini a dei Giovanni Bongé, o il pubblico incomincia ad abituarsi alla strage. Gli uomini non sono più uomini. Il fucile è il sovrano, è il padrone della nostra vita. Uno scappa e tutti si danno alla fuga. Un semplice grido infuria tutte le gambe. Nessuno combatte, nessuno vuol combattere. Le gocce e le chiazze disperse per via Spadari, segnano il passaggio delle vittime. Il sangue coagulato sui marciapiedi inorridisce. I sassi dinnanzi l’osteria riassumono una salassata. Pare una piazza rossastra. Chi passa rabbrividisce. Mi sovvengo che abbiamo dei deputati. E gli onorevoli e i nostri uomini di parata, dove sono? cosa fanno? I nostri deputati non sono dei Baudin. I Baudin sono dell’eroismo storico o vecchio. Non sono più di moda. Loro morivano. I nostri vogliono vivere. Questa mattina uno di loro mi diceva che l’asilo più sicuro per gli uomini in «vista» è il cellulare. Tanta prudenza in un parlamentare della montagna mi ha costernato. Dell’altro panico. Chi ha diffuso lo spavento? Si è udito o ci è parso di udire una voce e ci siamo mossi tutti, alla rinfusa a correre. Più di tre quarti della via sono rimasti vuoti. È come se fossimo stati cacciati in fondo da un’irruzione di vento infiammato. Ci siamo trovati ammucchiati, sudati, tremanti, senza saperne la ragione. Vedo un ferito in piazza della Rosa e seguo coloro che lo portano. Ha una palla nella gamba. Il suo passaggio fa chiudere l’ultima porta che poteva ospitare i fuggenti. È quella dove è il cicchettaio dello scotum. I portatori vanno innanzi col passo cadenzato degli uomini di fatica con un peso enorme sulle braccia. Il ferito soffre, si lamenta e vorrebbe muoversi, ma il dolore lo tiene inchiodato dove si trova. In certi momenti di spasimo la sua faccia dimagrata ha delle contrazioni. Svoltano alla via Ambrosiana e si fermano alla prima porticina senza numero. Picchiano, chiamano, si apre. È l’entrata di fianco dell’osteria sull’angolo con la facciata in piazza della Rosa. Non ho che il tempo di darvi un’occhiata. È una stanza buia con un tinone in un angolo della parete, un tavolo in mezzo e degli uomini in piedi. Il ferito è accolto con gridi soffocati. Faccio per entrare, mi si respinge e l’uscio si chiude. Per un minuto rimango sotto la finestra e ascolto il sussurro delle voci sommesse, spaventate della gente che si è salvata nel retrobottega. La mia memoria funziona male. Non mi ricordo dove ho salutato Maresti. Mi pare che fosse qui con me, perché ho per i timpani la sua voce con gli addii. Ma ora mi ricordo. È svoltato. Lo vedo ancora. Non potendo prendere la direzione della via Unione, si è avviato per S. Sepolcro, ha scantonato, si è trovato in Santa Maria Fulcorina e si è allontanato dal teatro delle operazioni militari perché la vedeva brutta. Il pensiero mi urta, m’incalza, mi spinge in piazza del Duomo, da dove viene come un silenzio di morte, e m’incammino, rasente il muro, verso le Asole. All’imbocco trovo il genio del momento, un eroe delle perturbazioni sociali, uno di quegli uomini che sprecano la vita in un attimo senza domandarne il prezzo. Pare un personaggio da romanzo. È un uomo di trentacinque anni, forte come un torello. Sulla sua faccia è la determinazione. La sua voce è la voce dell’insorto. È una voce che fa chiudere tutte le finestre, tutte le botteghe, tutte le porte. I passanti hanno paura di lui e ritornano indietro. Egli incomincia buttando la giacca vicino alla panca dei facchini e rimboccandosi le maniche. Si sentono gli echi delle fucilate. Intanto che egli si snuda le braccia va in su e in giù, gridando e supplicando gli abitanti di buttargli giù le masserizie. È un poeta del selciato. - Buttate giù la mobilia, i materassi, buttate giù tutto per la barricata! La sua audacia mi sbalordisce. È il primo uomo che si rivolta contro il Magnan delle nostre vie. Pare una sfida ambulante. È lui che inizia il duello col generale che uccide. La sua incoscienza ha del grottesco e del sublime. Nessuno gli presta mano. Egli ingiuria i fuggiaschi: vigliacchi! Ma i vigliacchi non si voltano indietro. Io ascolto l’improperio che m’incendia la faccia, ma non abbandono il muro di riparo che mi permette di mettere gli occhi, quando voglio, nella via delle Asole. - Vigliacchi! Vedo in via Torino come un polverio bianco e ho per le nari un odore di fucilate. L’uomo del popolo s’impadronisce dello spazio che l’attraversa dal margine di via delle Asole ai margini di via dell’Unione con la panca dei facchini che stanzionano sotto le finestre dell’albergo del Pozzo. Dalla via dell’Unione viene un carro a due ruote carico di pietre. L’eroe ne stacca il cavallo che manda via col carrettiere e da solo, con la spalla alla ruota e le mani ai raggi della ruota, lo rovescia e lo gira vuoto, lasciandone le stanghe verso le Asole. Poi lo protegge colle pietre, senza badare che là in fondo, verso piazza del Duomo, è ancora schierata la fanteria che ha fatto un fuoco micidiale. Io mi avvicino all’estremità della via trasversale e lo ammiro estatico. - Vigliacco, alla barricata! Ha ragione. Dinanzi a lui siamo tutte creature di gesso. Egli scrive da solo una pagina indimenticabile. In quel simulacro di barricata è la protesta, la furia, la rivolta del popolo. È la violenza contro la violenza; la forza contro la forza. Mentre assisto a tanto sacrificio io mi limito a far delle note, riparato nella rientratura dell’albergo del Pozzo, senza accorgermi che registro la mia vigliaccheria. Il giudice istruttore del massacro è inutile quando si muore. Tuttavia continuo. Io mi sono dato il compito di registrare tutto e salto dall’altra parte, dove è la trattoria della Candidezza in argine alla via dell’Unione, luogo che mi dà modo di occhieggiare da una parte e dall’altra lungo via Torino. Il popolano, l’eroe della barricata, è ritornato in via delle Asole per compiere il suo capolavoro. Egli è alla ricerca di seggiole, di imposte, di tavoli, di bauli, di madie, di credenze, di letti, di armadi. Vuota le abitazioni. Se non volete dare la vita sacrificate almeno le masserizie. Giù, giù tutto! Domani la libertà vi ripagherà a mille doppi il miserabile costo delle suppellettili! Lo sconosciuto strepita presso le botteghe e le porte con una pietra tolta dalla barricata e passa e ripassa in mezzo alla via con la faccia in alto, con le braccia spalancate a domandare dappertutto la pietà di un mobile qualunque per la barricata. Nessuno apre la finestra, nessuna bottega si schiude, nessuno risponde al suo invito. Egli non si stanca, egli non è preso dal panico della gente che si salva da tutte le parti; egli va a riprendere la panca, sale e comincia a staccare le imposte dell’albergo del Pozzo. Gli aiuti vengono. Dall’ultima finestra di una casupola a destra viene precipitato un pagliericcio che gli fa battere le mani. È sempre la povera gente che si commuove. La barricata rimane una povera barricata. Essa non può proteggere che qualche individuo in terra supino o a boccone. Non è che a Parigi che si formano alte quattro o cinque piani e larghe come le vie. La mia attenzione è distratta da due nuovi personaggi che sbucano dalla via Sant’Alessandro e vengono alla mia volta rasente gli edifici. Si fermano a un negozio chiuso. Non riesco subito a capire che cosa stiano facendo, perché si piegano, si alzano come se stessero facendo sforzi erculei. Ho udito un’altra scarica e l’aria calda che si è levata dal suolo mi è passata sul volto e mi ha ghiacciato il sangue. I due che lavoravano alla bottega chiusa non si sono neppur mossi. Tutta la loro precauzione è stata di premersi all’insenatura della bottega per evitare la sfuriata delle palle. È stata una scarica di fucili? Noi siamo tutti sovreccitati. Noi distinguiamo la cannonata dalle fucilate collettive. Siamo qui in parecchi, lividi dalla paura. Di tanto in tanto ci voltiamo indietro per non essere sorpresi alle spalle dai soldati che venissero dalla via del Falcone. La barricata migliora ma non ha nulla ancora della costruzione di difesa. I due alla bottega staccano uno dei coperchi di legno alle alte vetrine di fianco con un crac! crac! Le loro mani sono di ferro. Se le ante non cedono, schiantano. Giungono una signora e una bambina spaventate. Vorrebbero passare dall’altra parte per rincasare. Io le spavento. Faccio loro una questione di vita o di morte. La madre è ansiosa di arrivare a casa per aver notizie del marito che non sa dove sia. Ma io le dico se preferisce rivederlo più tardi o arrischiare di rimanere nella strada, magari morta con la figlia. Ritorna indietro, verso Porta Romana. La barricata non arriva a toccare i due punti opposti, vi si passa a destra e a sinistra. È assolutamente primitiva, ma l’eroe non può tramutarsi in un carrozzone. Ah, se ci fossero ancora gli omnibus! Parevano fatti a posta. Le finestruole avrebbero servito da feritoie, da merli, dietro i quali i barricatisti avrebbero potuto continuare il fuoco... Ohimè! I lavoratori alle botteghe si moltiplicano, Con le punte delle aste strappate alle botteghe, rompono le vetrine e le bacheche. Alcuni rubano. Si mettono nel seno camicie, fazzoletti, cravatte, gingilli di similoro. Lo ha detto anche Maupas. Le sommosse, i combattenti di strada, le insurrezioni chiamano alla superficie i bisognisti, gli affamati, la plebe che vive come vive, i poveri diavoli che crescono fra un furto e l’altro. Le tribolazioni cittadine danno loro un po’ d’abbondanza. Ma con che rischio s’imbottiscono della roba rubata! Vedete, si spara e loro continuano a far bottino! Alcuni vogliono migliorare la barricata con la reclame alle muraglie. Le lastre di ferro sembrano di pasta frolla. Le schiodano con una facilità maravigliosa. Le strappano, le alzano, si staccano e passano tra le mani di coloro che le portano alla barricata. Le saracinesche venivano frantumate. Si va sui tetti. È l’irritazione che entra in scena. Le fucilate hanno preparato il combustibile nei cervelli e i morti e i feriti gli danno il fuoco. Vedo in lontananza gente che sfonda gli sportelli dei portoni e sale a frotte. È ritornato il ‘48. Il tipo di Carlo Porta è una fantasticheria. Il coraggio è ritornato. C’è gara per la morte. Giovani e maturi si contendono l’entrata. Pochi minuti dopo mi valgo dell’attimo di tregua per lasciare il mio posto di vedetta e avviarmi alla lesta verso piazza del Duomo, addossandomi alle botteghe, dietro le quali e sopra le quali si svolge indubbiamente il dramma della paura, della gente intanata, degli uomini che si aggruppano e si abbracciano come nei momenti supremi. Le mie gambe sembrano consapevoli del pericolo. Vanno innanzi a stento come se fossero cariche di piombo. Capisco di essere in combustione. La mia pelle brucia. I polsi e le tempia mi scottano. Pure metto un piede dopo l’altro sul marciapiedi incandescente e tiro via, sempre in direzione della strage, tenendomi rasente alle botteghe e alle muraglie, coi nervi tutti agitati, col cuore che pulsa con veemenza. Più di una voce intima mi incalza di ritornare sulla strada fatta e non mi volto indietro per lo sbigottimento. Ho l’idea fissa che voltando la schiena si ecciti il soldato a far fuoco. I miei occhi traballano, vedono doppio, travedono. Il cambiamento dei soldati che hanno fatto fuoco, con altri soldati, mi diventa un esercito in confusione. Più mi avvicino verso la linea militare che blocca il passo e più io non sono più io. Sono sottosopra. Passo attraverso emozioni che non ho mai provato. Ora è un’ondata fredda che mi va dal dorso alle gambe, e ora mi pare il trasudare come in un bagno turco. Il dramma che si svolge negli appartamenti delle case che fiancheggio mi si rinnova nella testa e la commozione mi riprende. Ne odo il trambusto, la disperazione, i gemiti, le parole monche che spariscono e ricacciano in gola le grida che vorrebbero esplodere. Vedo famiglie intere curve, con le orecchie tese, con le mani nel vuoto che misurano a tutti la respirazione e impongono ai più sovreccitati di padroneggiarsi. Il cambiamento dei soldati è un movimento di precauzione. Il generale Del Majno... È il Del Majno? No, no, ci vedo bene adesso. È Bava Beccaris. Lo vedo come in una fotografia. Ci potrà essere anche il Del Majno sotto i suoi ordini. Ma quello che ha ordinato di far fuoco, di compiere la strage è Bava Beccaris. Anche se non lo si vede lo si sente. Il suo nome è nell’aria. È lui, è proprio lui. Ah, se potessi averlo nelle mani! Bava Beccaris in questo momento è orribile. La sua faccia è una ditta patibolare. È una faccia carnosa. I suoi baffoni grigi con il mento tutto coperto dello stesso colore dei baffi, rammentano la figura di Napoleone III. Egli intuisce, fiuta nell’aria il mormorio sordo del popolo contenuto alle imboccature, il quale aspetta un gesto, una parola, un grido per prorompere, straripare, invadere la piazza e travolgere tutti nel sangue della guerra civile. Forse è una mia supposizione... Forse nessuno si muove neanche se frustato dallo scudiscio. C’è qui una donna del selciato... È inutile, non posso servirmi dell’eufemismo neppure quando si tratta di un’eroina. C’è qui una perduta che ha compiuto un atto così eroico che basta da sè solo a incendiare i cervelli di entusiasmo. I soldati del 47° fanteria avevano ancora i fucili della scarica spianati. La stradaiuola, rimasta in piedi, raccolse un sasso dal suolo sterrato e andò, armata del proiettile di Balilla, come una furia sul muso dell’ufficiale per romperglielo. - Vigliacchi! disse con uno scotimento di testa e in atto di scagliare la sassata. L’ufficiale, bianco di terrore, rimase nell’atteggiamento arcigno di chi ha compiuto un atto feroce ed è pronto a ripeterlo. Non si mosse, non ebbe una parola, lasciò la punta della spada nel terriccio. Se un giorno avrò modo di farmi ascoltare dai miei concittadini, inizierò una sottoscrizione per te, o donna. Tu sì che hai avuto del coraggio, del coraggio impulsivo, se vuoi, ma del coraggio, accidenti! In battaglia sono gli impulsivi che compiono i prodigi. Tu non ti sei consultata. Tu ti sei abbandonata ai tuoi nervi e i tuoi nervi ti hanno precipitata sul sasso e scaraventata sul militare che convertiva le vie e le piazze in campi di rovine e di sciagure umane. Ti vedo ancora bella come una dea, circonfusa in un’aureola di gloria, con le trecce dei capelli biondi quasi sfatte, con la faccia imporporata di salute, col seno che ansa dinanzi le bocche di fuoco, col pugno teso che stringe il proiettile della vendetta popolare. In un momento di fuga generale ti sei elevato un monumento. Ma per la nostra società non sei monumentabile. Tu non sei che un ordigno di sfogo. Passata la commozione cittadina e il trambusto della legge eccezionale che impera sulla legge generale, passeggerai ancora dalle due alle quattro di ogni pomeriggio per i portici della Galleria in cerca di uomini1. Giù dal marciapiede, dinanzi le botteghe del Rituali, c’è una pioggia di copricapi. Rappresentano la sorpresa, lo scompiglio, lo sbigottimento, il terrore. È una tragedia senza sangue. Non c’è nessuno e spaventano e fanno correre mentalmente dietro i loro proprietari. Saranno morti, saranno vivi? Sono una quarantina di cappelli e berretti di tutte le fogge e di tutti i colori. C’è il cappello floscio, disorlato, gualcito, con dei buchi. C’è il cappello duro, ammaccato, impolverato, infangato. C’è il cappello femminile coi fiori appassiti, con l’ala che ha subito lo strappo e la furia del momento. C’è il berretto negro, piegato su se stesso come un morto. Sul marciapiede la scena intetra e si completa. Le pietre sono insanguinate. Ci sono corpi immobili. Nessuno si muove, nessuno fiata. Alcuni sono bocconi con le braccia larghe, con le mani piatte, con le gambe contorte l’una sull’altra. Altri sono supini, con gli occhi chiusi, con le guance e le labbra dissanguate, coi capelli abbaruffati come in una zuffa, coi piedi da tutte le parti. Fra i cinque distesi l’un dietro l’altro come se fossero rovesciati da un vento furioso, c’è un vecchio con la faccia patita, con la barba sporca di terra, la fronte spruzzata di sangue, la bocca aperta come una gola di carne smunta e accanto a lui è un giovanotto svaligiato della vita, con gli occhi ingrossati dalla violenza che li ha resi inservibili, con la testa squarciata, scallottata. Intorno a lui è la strage. La materia del suo cervello è andata un po’ dappertutto. È spruzzata sul muro, è cosparsa sulla pietra, è rimasta impegolata nei capelli, si è avviluppata nel sangue in fondo al berretto. È una testa che fa raccapricciare e voltare altrove. Nell’angolo, al numero due, dove finisce la piazza del Duomo e incomincia la via Torino sono due zoccoli, uno intriso di sangue e l’altro capovolto. Non vedo piedi senza scarpe. Sono dunque di una ragazza o di un ragazzo che si è posto in salvo. La tragedia diventa sempre più spaventevole. Pare una carneficina. Ci sono le tracce di una lotta sanguinosa. A ogni passo si trasalisce. Ci sono gocce di sangue rappreso, pezzi di cervello impiaccistrati di spruzzi sanguinosi. Ecco là un occhio. Chi è stato sdocchiato? Ecco là un orecchio e l’orlo di un orecchio. Di chi sono? Chi li ha perduti? Giù dal marciapiede, lungo il negozio degli oggetti casalinghi di L. Giannoni, le palle a balistite hanno infuriato come una gragnuola di piombo che turbina intorno agli alberi umani. Hanno sorpreso la moltitudine delle persone che fuggivano dopo lo squillo ordinato dal capitano del 47° e sono cadute le une sulle altre. Ci fu un momento di silenzio terribile. Anche i vivi rimasero sepolti sotto i morti, svenuti o inconsci. Il quadro è indescrivibile. I corpi ammucchiati o sparsi sono quindici o diciotto. Sono stati sbattuti in terra in tutte le pose. Di fianco, sulla schiena, colle labbra sui sassi, con le braccia spalancate, con la bocca al cielo che non so più se sia azzurro, scialbo o rosso come il sangue dei morti. Il sole sui cadaveri pare un’ingiuria o un insulto atroce. Mette in fuga tutto ciò che è tragico e lascia in terra lo scherno, lo sberleffo, la derisione. Il sole sui cadaveri li spoetizza, porta via loro l’aria funebre, li rende ignobili. I raggi diventano triviali. Ne abbrustoliscono e ne ingialliscono i capelli, ne rendono gli occhi mostruosamente vitrei, si fermano sulle loro bocche stinte o paonazze come una orribile fiammata impotente a scaldarle e a colorirle e danno una chiarezza alla loro pelle inanimata, che rabbrividisce. Il sole d’oggi è crudele. Si diffonde per i loro abiti come una gozzoviglia... Dà risalto a tutto. Agli strappi, alle scuciture, agli occhielli sdrusciti, ai lucidi delle maniche e delle ginocchia, ai bottoni spellati, ai baveri unti e bisunti. Oh, povera gente! Sono morti, proprio morti, senza speranza di resurrezione. Quanti sono? Ne vedo un mucchio che mi pare un piazzale. Saranno diciotto o venti e la mia fantasia eccitata dal sangue se ne figura un cimitero. Tranne uno o due dei quali non vedo che le scarpe e le braccia, mi sembrano tutti pitocchi, tutti spiantati, tutti poveri. Sono denutriti, sono ditte di miseria, sono problemi sociali stramazzati al suolo come sacchi di cenci. Le loro mani sono documenti. Rivelano i disagi della loro esistenza tribolata. Fra loro è uno scallottato. La superficie cranica è stata dispersa in frantumi. Se ne vedono le fibrille sui due grandi vetri del Giannoni, fin su in alto dove è la ditta e dappertutto. In fondo al cappello cencioso è rimasta una poltiglia sanguinosa piena di peli. I grandi cristalli di questo negozio sono stati forati dalle palle. Lo spessore ha impedito che andassero in frantumi. Resiste più il cristallo che il fusto umano. C’è uno spettatore che si preoccupa se i lastroni verranno pagati. E che importa, sciagurato! La folla è sempre la folla. Non si sa da dove sbuchi, ma sbuca, ma corre dovunque sono feriti o morti. Qui, dov’è il mucchio, si lavora a tutt’uomo. Si disseppelisce, si agita questo o quello come per restituirgli la vita e si buttano in aria bestemmie scultoree. Un tale, un giovanotto, prima di dar mano al trasporto, si mette nella saccoccia della giacca il copricapo con la materia rossastra di uno a cui è stata portata via la superficie del capo. A me suscita un senso d’orrore, ma lui, il giovanotto, è un documentista. Andrà per le redazioni dei giornali a farlo vedere. C’è un morto che risuscita, è sotto la catasta umana. È un giovane di 23 o 24 anni, alto con i baffetti chiari. È intontito. Spalanca gli occhi senza muoversi. Siete ferito? Non risponde. Lo si scuote e lo si riscuote, e gli si danno buffetti e schiaffetti, senza riuscire a farlo rinsensare. Che cosa avete? E lui rimane sul dorso senza parola. Lo si prende per le spalle e lo si rialza di peso. È un sacco di carne che non vuole stare in piedi. Su, perdio! Lo si solleva due o tre volte come un calcasassi e riprende la parola. Vi sentite male, vi siete fatto male? Egli è ancora istupidito dall’avvenimento, ma incomincia a palparsi, a toccarsi, a domandarsi che cosa gli è accaduto. Per un minuto buono rimane smemorato. Non si ricorda di nulla. E a poco a poco gli ritorna la memoria e con la memoria gli si colorisce l’avvenimento. Doveva andare in Verziere. Ha fatto di tutto per passare dalla via Orefici, o dal passaggio degli Orefici senza riuscirvi. Rifece la strada, prese la piazza della Rosa, svoltò in via delle Asole e subito dopo fu in via Torino. I soldati non avevano ancor fatto fuoco e la gente si avvicinava ai monturati senza pensare alla catastrofe umana. Lui, poi, un richiamato che doveva presentarsi all’indomani al Castello, aveva meno paura degli altri. Fu un’imprudenza. Giunto dinanzi alle due schiere che bloccavano il passaggio, s’avvicinò a un sottufficiale per domandargli se avesse potuto usargli la cortesia di lasciarlo andare oltre. In quei giorni i soldati che chiudevano la via all’altezza del negozio del signor Rituali, erano tutti accigliati e nessuno rispondeva. Allora, mi dice il testimonio oculare, quello tratto dal mucchio dei cadaveri, mi trovai coi curiosi che bighellonavano dinanzi i soldati chiacchierando e sperando di poter andare al di là della linea. Alla mia destra c’erano persone che facevano commenti sullo sfoggio esagerato di soldati, senza però inveire o dire parole sconvenienti contro chicchessia, e alla mia sinistra si formava e si sfaceva un gruppo di ragazzi, i quali, in tono scherzoso e bonario, volevano indurre il capitano a permettere loro di raggiungere i compagni sulla scala Porta, da dove si poteva assistere allo spettacolo senza pericolo. Se mai lo avessero importunato, egli avrebbe potuto farli scappare come un nugolo di passere, con un solo movimento di sciabola. Il capitano del 47° fanteria era arrogante, brutale e guardava tutti noi in cagnesco. Taluni dei ragazzi hanno cercato di passare tra le file dei soldati, così, ridendo, senza spingere. Non so che cosa abbia potuto decidere il capitano a dar ordine di far fuoco. Io non ho visto alcun movimento. Sono abbastanza alto e potevo vedere benissimo se qualche contingente di insorti fosse stato in marcia verso i soldati. Il daltonismo del capitano fu forse la causa dello sparo. Con un’aria minacciosa e un comando che non ammetteva discussione, il capitano ordinò uno squillo seguito subito dal fuoco di due file fitte di soldati. Il valoroso sottufficiale al quale avevo domandato con tanta gentilezza il permesso di andare oltre, mi puntò la bocca del fucile alla mia bocca. Che cosa è avvenuto di me? Fu il freddo della canna? Non vi posso dire nulla, né come sono caduto, né perché mi sono trovato fra tanti cadaveri, con dei cadaveri sullo stomaco. Aspettate. Dio mio, sono minuti che invecchiano di dieci anni. Lasciate che mi raccapezzi; adesso incomincio a vedere più chiaro. Sì, mi sono risvegliato e rinsensai pochi minuti dopo. Mi sentivo addosso un peso enorme e mi pareva di soffocare. Per quanti sforzi facessi non riuscii a levarmi che aiutato dalle persone. Ero circondato da feriti che imploravano soccorso, e da morti che mi guardavano in faccia con la loro faccia gelata e coi loro occhi ingrossati e spaventati dalla morte. Non dimenticherò mai quello dalla testa scallottata. Il disgraziato era tutto impillaccherato del suo sangue. I capelli alle pareti craniche ne erano incatramati e le guance e il collo ne erano lastricati. Giaceva come un orrore. In quel momento non ho potuto trattenermi in gola la parola concitata. Io ho detto qualche cosa contro i soldati, ho detto che non avrei mai fatto il soldato. Il ricordo lo fa ricadere nel silenzio. Egli è commosso, agitato. Gli dico che è tutto insanguinato. Ha del sangue e delle cervella sui calzoni, sulla giacca, sul cappello. Se vi prendono così come siete, sarete fucilato. Nascondetevi al primo portone aperto. Egli mi guarda, si accorge finalmente di avere una scheggia di palla nel braccio sinistro e senza darmi retta prende la rincorsa e mi lascia con le persone che ascoltavano la sua narrazione con i pallori della morte. Corre come un disperato e svolta alla prima via trasversale. Io e alcuni altri ritorniamo indietro a vedere il popolo che portava via i feriti e aiutava a caricare i morti sul furgone militare. C’è un uomo in manica di camicia che pare diventato matto. Egli va sotto le finestre a gridare, con le nove dita in alto, il numero dei morti. Sono nove, hanno ammazzato nove persone!
Più tardi. Sono quasi le sei. Il sole sta per scomparire completamente. I fatti della giornata hanno triplicata l’esasperazione cittadina. Corre voce che la questura abbia invasa la redazione dell’Italia del Popolo. Per andare in San Pietro all’Orto dove sono i suoi uffici, faccio un giro che completa la mia stanchezza. È vero. Tutti i redattori sono sotto chiave in un camerotto di San Fedele. Si dice che si siano trovate le file del complotto rivoluzionario. Hanno sequestrato documenti che compromettono molte persone - uno dei quali è il biglietto da visita dell’avvocato Gian Paolo Garavaglia - che dava appuntamento in redazione al deputato Filippo Turati. Ma dunque? Io mi ci perdo. C’è o non c’è questa rivoluzione? Bava Beccaris diventa atroce di ora in ora. Egli non sta quieto un minuto. Dopo il massacro, la soppressione di un giornale, e dopo la soppressione del giornale, la proclamazione dello stato d’assedio. Fra poco il generale sarà il nostro padrone. Egli potrà disporre di noi come se fossimo del bestiame. Il manifesto che ho potuto leggere in bozze, sarà affisso su tutte le muraglie questa sera alle dieci. Lo trascrivo tale e quale, perché esso riassume la coercizione militare che incomincerà ad affliggere e a martoriare i cittadini domani. Per il generale le armi sono del denaro contante. Esse dovranno essere versate alla questura... Leggete.
«Per lo stato d’assedio proclamato in questa provincia con R. Decreto del 7 corrente, assumo i pieni poteri, nella qualità di Regio Commissario straordinario e decreto quanto segue: 1 Sono annullati tutti i permessi di porto d’armi; quelli che possedessero armi da fuoco dovranno versarle nel circondario di Milano, a questa questura centrale e per altri Circondari alle rispettive Sottoprefetture. Le armi appartenenti ad abitanti della città di Milano e sobborghi dovranno essere consegnate non più tardi della mezzanotte dell’8 al 9 corrente, quelle del circondario di Milano e degli altri Circondari entro 24 ore dall’affissione del presente Manifesto. Trascorso tale termine i detentori di armi da fuoco saranno deferiti al Tribunale Militare. 2 Rimane vietato ogni assembramento per le vie, e gli abitanti dovranno rincasare non più tardi delle ore 23. 3 Finché durano gli attuali disordini i pubblici esercizi verranno chiusi alle ore 21. 4 Sotto la responsabilità dei vari inquilini, verificandosi conflitti per le vie, si dovranno chiudere le persiane che prospettano le vie medesime. 5 I telegrammi privati che danno informazioni sui presenti disordini non saranno ammessi se non dietro il visto di questo Comando. 6 I contravventori alle presenti disposizioni, saranno deferiti ai Tribunali Militari, come pure vi saranno deferiti i rivoltosi. 7 Le autorità dipendenti cureranno l’esecuzione del presente Decreto. Milano 7 maggio 1898 Il Regio Commissario Generale Bava.
Parecchi giorni dopo, mentre i Tribunali di Guerra erano al lavoro, ho potuto rivedere il poveraccio rimasto sepolto sotto i morti in margine al negozio del Giannoni. Era in Castello vestito da alpino. Non potendo parlarmi mi ha fatto pervenire una narrazione di quello che gli è capitato nella giornata. «Uscii di casa, mi scriveva, circa le 8 e mezzo. Passai per il corso V.E. e il corso Venezia leggendo la Perseveranza, il giornale che costa 5 centesimi dall’ascensione di Bava Beccaris. Vi trovai i fatti di via Napo Torriani. Giunsi in via Panfilo Castaldi, senza avere notato nulla di straordinario. Verso le undici ho dovuto andare per i miei lavori a porta Vittoria. Rincasai e feci colazione. Non avevo ancora in bocca il boccone che è venuta in casa una inquilina con aria disperata a raccontarmi che in piazza del Duomo c’era la rivoluzione. Non ho potuto continuare. In pochi minuti mi trovai all’angolo del palazzo reale, verso via Rastrelli. C’era gente sparsa un po’ dappertutto. Il primo accenno che c’era qualche cosa me lo ha dato un ufficiale medico che andava alla volta del palazzo reale, passando dalla gradinata del Duomo. Egli era seguito da tutta una ragazzaglia che schiamazzava come quando è alle calcagna di un ubriaco. «In quel tempo si stava mettendo
giù il binario per il tram a Porta Vittoria. La via era tutta sossopra fin giù
quasi in piazza Fontana. I ragazzi si sono caricate le tasche di sassi. Li
dissuasi a servirsene contro l’ufficiale. M’accorsi che intorno loro c’erano
due o tre persone col bastoncino in mano. Tirate, dissero ai ragazzi i due o
tre impertinenti, e voi badate ai fatti vostri. Chi erano? L’ho saputo dopo
dagli stessi monelli. Erano due agenti di questura, due provocatori, due
accenditori, come si dice in gergo. Così non appena apparve un ufficiale alla
finestra sopra l’entrata del palazzo reale, si misero a lanciare le munizioni
che avevano in saccoccia da quella parte. Poi si avviarono in via Carlo Alberto
e in via Cappellari a ricominciare la sassaiola. Notai l’accanimento contro le
finestre della ditta Colombo e Menotti. Allungai il passo fino al ponte di
porta Ticinese. Ho trovato gente che andava e veniva meco tutti i giorni e
null’altro. Nemmeno l’ombra di una sollevazione. Rifeci la strada curiosando.
Si vedeva un po’ d’inquietudine. Tutti s’aspettavano qualche cosa ma nessuno mi
sapeva dire il perché doveva avvenire. Dalla via Spadari alla via Orefici ho
trovato gli spazi gremiti. Tutta gente che voleva vedere. Via Orefici era
ingorgata. Passai e trovai schierata una compagnia del 57°. Siccome ero un
richiamato e dovevo presentarmi all’indomani, così mi misi a chiacchierare coi
soldati vicini. Non sospettai neanche che ci fosse in aria odore di polvere. Me
ne andai convinto che sciupavo il mio tempo. Non avevo fatto una ventina di
passi che udii uno squillo e simultaneamente una scarica di fucileria. Non è
stato possibile voltarmi. La gente infuriata mi spinse fin quasi all’angolo di
via Spadari. Venni rovesciato; mi sentii addosso i piedi delle persone che
passavano, perdetti i sensi. Mi risvegliai fra una quantità di bastoni, di
ombrelli, di cappelli, di roba perduta. Guardavo e vedevo gente in terra come
uno che non si muoveva. Richiusi gli occhi e passai come attraverso un altro
deliquio. So che qualcuno mi ha tirato di sotto a coloro che mi stavano sopra e
che mi ha fatto rinvenire» Riprendo la narrazione della strada, solo perché ho dimenticato il documento più importante della giornata. È il manifesto del sindaco.
Cittadini,
Luttuosi avvenimenti hanno funestato la città. Milano che pensa e lavora non può essere solidale con coloro che, obliosi d’ogni dovere, attentano alla pubblica pace. Si stringano i buoni fra loro, e, rispettosi dei fratelli dell’esercito, che sapranno difendere l’ordine pubblico loro affidato, facciano che Milano torni alla sua industre tranquillità che la rese fin qui rispettata e invidiata. La Rappresentanza cittadina, facendo questo appello, confida che le sue parole non rimarranno inascoltate.
Il Sindaco Vigoni.
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1 Avevo ragione. Nessuno si era ricordato di lei o ha saputo del suo atto eroico. Ella è proprio una stradaiuola arcinota che passa ogni giorno traverso la moltitudine dei negozianti e dei sensali della piazza Mercanti e dei portici della Galleria V.E. come una fruttaiuola che non ha tempo da perdere. Mena braccia dappertutto e va in giro senza cappello. È forte, bassotta, con un collo taurino, con la carne biondiccia, con gli occhioni di una vivezza superba, con la faccia mista di bonarietà e di spavalderia, con il petto vanitoso dei trent’anni, con i fianchi pienotti della donna in fiore. |
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