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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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    • UNA PAGINA SCONOSCIUTA
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UNA PAGINA SCONOSCIUTA

 

 

 

Il pomeriggio della seconda giornata del maggio novantotto, è stato per tutti una sorpresa. Coi serra serra del giorno prima, durante i quali sono caduti morti un questurino e un operaio, c’era in giro qualche apprensione, ma nessun Mathieu de la Drôme avrebbe preveduto che due o tre ore dopo si sarebbero fatte le fucilate per le vie come in tempo di rivoluzione. La gente che passava e vedeva la truppa che si sparpagliava per le arterie principali veniva presa dal panico ma non correva fino alla disperazione. Più tardi le notizie si facevano e si sfacevano. Chi narrava di aver assistito al massacro e chi smentiva il narratore. La cosa curiosa di tutti i momenti tragici della vita pubblica, è che nessuno era sicuro di quello che raccontava.. Le persone che asserivano di aver l’eco della scarica nelle orecchie, si lasciavano poi convincere dagli altri che lo sbigottimento aveva dato loro una fantasia spaventata. Mi ricordo come se fosse adesso. Un uomo tutto grigio, tutto tremante, diceva balbettando che cinque o sei operai erano andati uno sull’altro fulminati da una scarica militare. Il ricordo della scena lo faceva piangere in un modo convulsonario. Un altro presente lo guardava meravigliato e si convinceva di essere davanti ad un pazzoide. Era passato lui dallo stesso punto, alla stessa ora, e non vi aveva veduto anima viva. Si trattava di un caso di allucinazione? Certi spargitori di notizie false dovrebbero essere arrestati, si diceva. Si fa presto a disonorare la truppa. In quel momento tutti avevano bisogno di credere che i soldati fossero incapaci di ubbidire ad ordini selvaggi e il vecchio incominciò a titubare, a credere di aver straveduto e a ritirarsi dal capannello come un diffamatore colto in piena calunnia. Di vero non c’era che un berretto che passava da un centro all’altro, per ricomparire più tardi con la materia cerebrale di un pitocco buttato in terra col cranio sfracellato.

Verso l’imbrunire le notizie erano sempre allo stato confusionario, ma i cittadini prudenti rincasavano in fretta e in furia, sbalorditi e disperati. Nessuno o pochi sapevano quello che era avvenuto dalle due a sera, ma tutti sentivano che c’era stato qualche cosa di grave, di sanguinoso, di furioso, che bisognava salvarsi o caricare il fucile per difendersi. Io ero violento contro me stesso. Avevo veduto, avevo negli occhi i morti e i feriti, negli orecchi gli spari e i rantoli ed ero per la strada pallido di collera a fare nodi alla cordicella che avevo tra le dita per contenermi. Tutti i nostri uomini pubblici, tutti i nostri grandi, tutti i nostri deputati, tutti i nostri consiglieri, tutti i nostri giornalisti, tutti i nostri personaggi, sono rimasti assenti, non si sono fatti vivi, hanno ignorato che nella via i soldati ammazzavano il popolo disarmato, il popolo che non sapeva nulla. Quanta viltà! I nostri uomini politici non sono eroi che ai banchetti. Lamartine nel ‘48 e Victor Hugo nel ‘51 non hanno insegnato loro niente. L’uno e l’altro, illustri, hanno osato passare tra selve di baionette, quando le baionette facevano strage; l’uno e l’altro sono rimasti imperturbabili sotto la grandine di piombo; l’uno e l’altro hanno saputo apostrofare la truppa che non fraternizzava col popolo. I deputati del ‘51 hanno fatto le barricate. Baudin vi è rimasto. I nostri non hanno neanche l’età senile che li scusi davanti la storia. In quel momento che io pensavo alle crudeltà militari e buttavo in terra tutti gli idoli della vita pubblica milanese, facevo mentalmente un manifesto da affiggersi per ricomporre il coraggio cittadino se ve ne fosse rimasto. Proprio in quell’attimo mi sono trovato a faccia a faccia con un medico che mi diede l’appuntamento per la sera in una trattoria dove solevamo pranzare qualche volta. Qualcuno gli aveva raccontato che ero stato in giro a raccogliere episodi con la matita e perciò alla riunione che doveva aver luogo ero indispensabile. Dove? Non lo sapeva neppure lui. Non si supponevano spie fra noi, ma le preoccupazioni in momenti così turbati erano necessarie. Il segreto in tante bocche è sempre un pericolo. Alle volte, o per mania di darsi dell’importanza o per fiducia con chi si parla, si fanno confidenze che diventano di tutti. Ci salutammo e ci ritrovammo a tavola con un giovane deputato che rappresenta anche ora un collegio piemontese. La trattoria sentiva della giornata. Molti posti erano vuoti. Coloro che mangiavano parevano costernati, o tacevano o conversavano sottovoce con una sobrietà di parole che dava all’ambiente un non so che di lugubre. Ci separammo con l’intesa di andare ciascuno per nostro conto alla redazione di un giornale, dove saremmo stati ricevuti dalla persona incaricata di dirci il luogo della riunione. Vi trovai molte facce sconosciute, facce garibaldine, facce democratiche e un via vai di gente che andava e veniva. Anche la redazione traduceva la giornata del diavolo. Le figure passavano tristi e mute, poi ripassavano con lo stesso contegno riguardoso delle persone che non vogliono essere interrogate. Tuttavia sovente l’amicizia interrompeva la musoneria e costringeva a parlare. Si sentiva un po’ di tutto. Chi diceva con la voce dimessa che non c’era più nulla da fare, perché ormai la libertà dei cittadini era alla mercè del comandante della truppa di Milano, e chi raccontava che gli insorti avevano dato fuoco al palazzo Saporiti dopo di aver fatta una gigantesca barricata sul corso Venezia, e chi faceva venir su la pelle d’oca con mucchi di cadaveri portati via dal luogo del disastro a braccia di popolo. Da tutte quelle narrazioni contraddittorie le mie illusioni continuavano a volar via, Qualcuno aggiungeva che erano incominciati gli arresti a domicilio e aggiungeva panico a panico. I più prudenti prendevano la via del loro domicilio senza voltarsi indietro. Ce ne andammo alla spicciolata come eravamo entrati. Io e il mio amico deputato prendemmo la via dell’Ospedale Maggiore, attraversammo il corso di Porta Romana, infilammo una delle vie che lo lambiscono e seguitammo a camminare in direzione di San Celso. La via era piuttosto deserta e il medico che prestava il suo appartamento per il convegno era dabbasso in strada che additava la porta agli aspettati e adocchiava se sbucasse da qualche parte la polizia. La portinaia era di cera. Tremava. Essa è quella tale stata citata al Tribunale per riconoscere se la signora Kuliscioff fosse stata la donna velata, cercata invano per provare il complotto. Salimmo un’altra scala dopo il primo piano, suonammo e ci venne aperto. Passati dall’anticamera al salotto di riunione vi trovammo un po’ di tutti i colori politici, dal rivoluzionario scarlatto al radicale pallidissimo. Capi di organizzazioni operaie, deputati socialisti, deputati repubblicani, deputati radicali, consiglieri municipali, qualche ex-assessore municipale, direttori di giornali, giornalisti, avvocati, ingegneri, medici, persone che si occupano di politica e di questioni sociali, leaders di questa e di quella piattaforma. l’uscio non stava mai quieto. Ogni momento si apriva e lasciava passare due o tre persone. Sovente passavano nel salottino senza salutare alcuno, qualche volta stringevano le mani di qualche amico e davano la buona sera. Pochi minuti dopo non c’era più posto che sul pavimento e l’uscio non aveva cessato di andare avanti e indietro. Coloro che entravano dovevano contentarsi di rimanere all’entrata o nel corridoio che faceva da anticamera. Siccome nessuno degli invitati sapeva dove e con chi si sarebbe trovato, così ho veduto molte facce diventare smorte o biancastre o paonazze. Alcuni non sapevano neppure in casa di chi si trovavano. La maggioranza era terrorizzata, l’inquietudine di alcuni era tale che pareva che avessero i piedi sugli aghi, la casa del medico pareva un braciere. Vi si respirava un’aria ardente. Parecchi sono entrati e sono usciti senza dire parola. In quasi tutti era la preoccupazione di un’irruzione di poliziotti. Se non fosse stata una vergogna assentarsi dopo essere stati veduti, parecchi avrebbero preso la scala. Tutti assieme rappresentavano la fortuna di Di Rudini, di Bava Beccaris e di Minozzi, il questore. Per tutti loro saremmo stati il complotto, i preparatori dell’insurrezione, i capi della rivolta. Non ci fu scelta di presidente, ma uno dei presenti si incaricò di dirigere la discussione. Ascoltavo e tutte le mie illusioni se ne andavano. In nessuno era l’idea della resistenza. Scarlatto o rosso l’oratore era mansueto, timido, capace di sciorinare tutte le platitudes della prudenza. Non c’era niente da fare e si mancava di tutto. L’idea più forte era quella di affiggere un avviso per pacificare la popolazione e impedirle di farsi ammazzare così stupidamente, come spettatori a mani vuote, mentre i soldati scaricavano senza pronunciare una parola. Il manifesto per pacificare la gente aggredita a colpi di balistite mi sembrava ingiurioso. Qualcuno ha manifestato la rancida idea giacobina. La truppa fraternizzi col popolo! La truppa non fraternizza mai col popolo! Se ha fraternizzato è cosa del passato. È cosa del ‘48. Non è che a Parigi, al tempo di Luigi Filippo, che si è veduto simile spettacolo. Gli ostaggi! Chi ha parlato di ostaggi? È roba da cartisti. Allora si credeva che nascondendo Wellington e gli altri ministri, e gli altri personaggi ufficiali, e il principe di Galles, si potesse costringere il Parlamento a concedere la carta della loro riforma. Ma adesso? Morto o scomparso un ministro se ne fa un altro. Che cosa hanno giovato gli ostaggi ai comunardi? La loro morte ha affrettato il trionfo di Thiers. Un moto simultaneo? Ferrovecchi! Quando voi vi sarete impadroniti di Bava Beccaris, del prefetto, del sindaco, della giunta, del questore e di tutti coloro che contano per qualche cosa nel mondo ufficiale, e vi sarete contemporaneamente impadroniti, diciamo, della polveriera, delle caserme, dei telegrafi, della questura, delle carceri per liberare i prigionieri politici, delle banche, perché la guerra senza munizione monetaria è impossibile, quando, diciamo, avrete tagliate tutte le comunicazioni e avrete eliminate tutte le teste governative, voi vi troverete in una condizione peggiore di prima. Sarete imbarazzati della vittoria. L’insurrezione milanese del ‘48, si è trovata, su per giù, nelle stesse condizioni. I capi del movimento si sono contentati di conquistare Milano, e così i nuovi contingenti austriaci venuti dal di fuori li hanno sopraffatti. Neanche un rovescio di dinamite sui soldati potrebbe salvare dal disastro. All’indomani la città sarebbe bloccata e bombardata. La colpa cadrebbe sulle nostre teste. Non c’è nulla da fare. Una sollevazione generale spontanea? Voi avete udito. Non ci sono neanche i ferrovieri. I ferrovieri rifiutano di abbandonare i treni. Allora che cosa sono venuti a fare? E se non ci sono loro che sono organizzati e disciplinati, chi volete che insorga? Gli impiegati, gli esercenti, i negozianti, gli industriali tenuti lontani da ogni movimento insurrezionale dai loro istinti e dai loro interessi? Una scampanellata ha agitato tutti i nervi e precipitata la discussione. Era entrata una signora velata a prendere il marito deputato e dietro lei eran giunti due o tre altri a far gelare il sangue. Si continuava ad arrestare a domicilio. Alcuni si valsero del momento di commozione per prendere la scala. Guai se la polizia ci avesse sorpresi. Nessuno avrebbe cavato dalla testa pubblica che l’adunanza avesse intendimenti insurrezionali. Le figure più note della democrazia milanese sarebbero state sotto chiave e tutti sarebbero stati convinti che i propositi dei radunati erano rivoluzionari. Proprio non ci rimaneva che scioglierci e dirci addio. L’affissione di un manifesto di pacificazione era pericoloso. Poteva dar ragione a Bava Beccaris. Non c’era alternativa: o mettersi alla testa della rivolta, se fosse una rivolta, o tacere e lasciare che gli avvenimenti si svolgessero da sè.

Il padrone di casa era ansioso. Le pattuglie erano in giro. La portinaia era sottosopra. Ci si è raccomandato di andarcene alla spicciolata come vi eravamo venuti. In pochi minuti fummo tutti dispersi. Io ero con tre o quattro alla distanza di dieci o dodici passi l’uno dall’altro. Alcuni minuti di ritardo e saremmo stati tutti in gabbia. Il delegato, o l’ispettore che fosse, con una frotta di questurini in borghese, era avviato al domicilio del medico, o in quella direzione. Ci disperdemmo vicino al Baj. Durante la notte molti dei convenuti si sono dati alla fuga, alcuni sono stati arrestati, parecchi sono stati ghermiti più tardi e non pochi sono rimasti ignoti.

La riunione è stata sospettata o scoperta quando eravamo tutti al largo, compreso il padrone dell’appartamento che ci aveva ospitati, il quale era già in viaggio per la via di Lugano. La portinaia fortunatamente ha fatto la stupida per progetto o non ha potuto compromettere alcuno, perché quella gente non era mai passata dalla sua portineria. Ella non ha saputo dire alla polizia se non che erano salite molte persone dal dottore e che fra le molte persone era una signora coperta da un fittissimo velo. La si è cercata per tutta Milano. Con essa si sarebbe messo assieme il complotto, la congiura, la cospirazione, il proposito di insorgere. Ma la signora è rimasta sconosciuta e i tribunali militari, dopo che la portinaia non ha saputo riconoscere nella signora Kuliscioff la signora velata, hanno dovuto abbandonare il clou del processo dei giornalisti e dei deputati: vale a dire l’intesa per rovesciare la monarchia e dare all’ltalia una repubblica.

Ho taciuto tutti i nomi perché non sono autorizzato a pubblicarli. Così taccio anche quello della signora, dicendo solo che la donna velata non era proprio la signora Anna Kuliscioff.


 




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