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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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    • L’ASSALTO AL CONVENTO
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L’ASSALTO AL CONVENTO

 

 

 

Nove maggio. Sono a zonzo, come gli altri giorni, col lapis e il libro delle note in saccoccia. Mi darei dei pugni. Ho dimenticato a casa il kodak, che mi avrebbe aiutato a raccogliere le scene della strada. La giornata è splendida, ma il sole non riesce a far rifiorire le guance della popolazione terrorizzata. La gente è smorta, biancastra, inquieta. Ciascuno va via per la sua strada, senza voltarsi indietro, senza salutare gli amici. È come se uno sospettasse dell’altro. In ogni persona che passa si fiuta un insorto o un delatore. Le muraglie sono impiastrate di avvisi di tutte le dimensioni. È Bava Beccaris che ingiunge alle masse i suoi ordini, senza punto far sussultare i nervi della popolazione. C’è qualcuno che mormora. Ma gli altri che leggono gli cacciano gli occhi negli occhi come se volessero divorarlo. Nella fraseologia del generale, c’è sempre del padrone che parla al servo e dell’imbecille che dalla scuola militare non ha portato via che la brutalità del mestiere. Egli invita i cittadini a versare le armi da fuoco, come se i fucili, gli spadoni e i fioretti fossero sacchi di noci o bottiglie di liquori, o fiaschi di vino!

Durante le sommosse popolari l’aristocrazia e la borghesia inglesi vanno direttamente alla sezione di polizia a prestare giuramento e a cingersi i fianchi del conciapopolo, il quale è un randello corto che spacca la testa del rivoltoso al primo colpo. I policemen non sono per le vie e per gli squares dei tumulti soli, abbandonati al disprezzo della folla che mugge contro i nemici dei suoi diritti. Escono dalle caserme con le upper classes, con dei pari, degli ammiragli, dei generali, dei deputati, degli avvocati, dei medici, dei banchieri e col resto dei cani grossi della terrocrazia e della plutocrazia. Le upper classes della paneropoli, si contentano invece di lasciare il loro biglietto di visita alla residenza del generale Bava Beccaris, il quale è, come tutti sanno, nel palazzo del comando militare in via Brera, 15. Un biglietto di visita costa poco e sopprime la noia di un probabile conflitto con le moltitudini.

Leggo la Perseveranza - il quotidiano della consorteria milanese, che incomincia questa mane la vitaccia a cinque centesimi. In questo giorno è un giornale che sbalordisce. Non è più il leone sdentato e invecchiato nella gabbia del serraglio. È un leone in piedi che rugge squassando la giubba e guarda la «plebe» con la minaccia negli occhi torvi. Dal primo giorno dei tumulti, la Perseveranza ha buttato via ogni solidarietà professionale. È divenuto un foglio fratricida. Si presenta ogni mattina al pubblico, con le mani gocciolanti del sangue dei colleghi che ha sgozzato nella notte. Le sue colonne sono piene di delazioni. Essa incita gli agenti a piombare sui difensori della libertà di stampa.

La maggioranza dei giornalisti milanesi è composta di forcaioli. Non pensa che col ventre. Manderebbe al patibolo tutti noi che abbiamo l’audacia di prendere i ventraioli della penna di redazione a pedate. I vostri nomi sono registrati nel mio diario.

In questo momento di disgusto mi ricordo con compiacenza della Parigi giornalistica delle giornate di luglio, dei giornalisti del ‘30, i quali rimasero uniti a difendere i diritti della libertà di scrivere contro le ordinanze reali che volevano distruggerla. Piuttosto che subire il bavaglio, hanno preferito lasciare la penna in redazione e discendere nelle vie a combattere sulle barricate fino a monarchia finita. I soldati fraternizzarono coi «rivoltosi» per il rispetto alla Carta, e Carlo X dovette scappare dal «cervello del mondo» di notte, come un ladro.

 

Piazza San Fedele è popolata. Ci sono qua e là dei capannelli che chiacchierano. I gradini del teatro Manzoni e della chiesa in faccia sono gremiti di spettatori. Intorno al monumento discutono parecchi signori dal solino lucido e dalle mani inguantate. Approvano l’energia del generale e dicono che Milano finalmente ha trovato la mano di ferro che le mancava. Ma aggiungono che avrebbe dovuto risparmiare Turati «perché non è mica uno scalmanato che vada in piazza con una palata di parole roventi a rimescolare il fondaccio delle passioni volgari della plebaglia. Egli è un intellettuale con idee che non sono le nostre, ma che si possono discutere».

Si aspetta la solita processione degli arrestati del giorno prima. È uno spettacolo desolante questo di assistere alla sfilata di sessanta o ottanta individui, legati a due a due, circondati dalla cavalleria, dai carabinieri e dagli agenti di pubblica sicurezza, con la bocca della rivoltella che li guarda in bocca. Il pensiero che la distrazione possa farne scattare qualcuna, mi fa sentire il tormento degli aghi nella pelle. Perché fate loro attraversare mezza Milano a piedi, a rischio di trovare qualche esaltato che gridi viva o abbasso qualche nome? Per procombere su loro ed ammazzarli? Mi sento male a pensarci. No, oggi non voglio vederla. Mi bastano quelle di ieri e dell’altro ieri.

Filo per Santa Radegonda e mi fermo rasente il Duomo, cogli occhi verso la piazza. È occupata militarmente e i soldati hanno l’aria di poveracci che non hanno riposato nel proprio letto. Coloro che tentano di flanellare lungo i cordoni militari, vengono mandati al diavolo con la voce rude che sente del momento.

Domando il permesso all’ufficiale vicino ai magazzini del Bocconi di attraversare la Galleria per salire all’associazione della stampa. Gli presento la tessera sulla quale è incollata la mia fotografia. Non si può. Non è permesso. Gli ordini militari non si discutono, e volto indietro per il corso Vittorio Emanuele. Non sono ancora vicino al ristorante dell’Orologio, che la gente si mette a scappare in tutte le direzioni e i negozi semichiusi si chiudono precipitosamente, come se un esercito di pitocchi stesse per irrompere a dare il sacco alle botteghe. Il fuggi fuggi fa andare gli uni addosso agli altri e il panico corre per il corso a mettere tutti sossopra. Si chiudono le porte, si chiudono le finestre e si lasciano i pedoni senza un rifugio per salvarsi dai pericoli della strada. Qualche signora che non sa allungare il passo o decidersi a raccogliere le vesti ed imitare le altre, si spaventa, scolorisce e pronuncia parole che racchiudono la sua desolazione di essersi lasciata sorprendere dalla sciagura cittadina.

Si senton le ruote dei carri pesanti che sussultano lungo l’acciottolato e le zampe dei cavalli enormi che sdrucciolano di tanto in tanto sulle pietre dei ruotabili. Sono due cannoni di grosso calibro accompagnati dai carri con gli attrezzi e con la munizione. Vanno via al trotto e lasciano supporre che siano avviati verso il teatro della insurrezione. All’annuncio che vengono i cannoni, San Pietro all’Orto - ove erano gli uffici dell’Italia del Popolo - perde la testa. Donne e uomini gridano, piangono e si inseguono come invasi dal terrore. Una delle cuoche della casa tollerata si dispera, percuotendo coi pugni la porta che non vuole aprirsi, neppure dopo aver premuto e ripremuto il bottocino del campanello elettrico. La lattaia, a qualche passo di distanza, sviene sul gradino della bottega che stava per chiudere. A mano a mano che i cannoni e le mitragliere si avanzano, la gente infuriata svolta in S. Pietro all’Orto e completa il quadro di una popolazione tribolata dalla guerra civile. Si sentono gli sbatacchiamenti delle ultime porte, delle ultime imposte, delle ultime botteghe aperte. Non si vedono che gambe in fuga.

Il corso è quasi deserto. Passano tre lancieri, l’uno dietro l’altro, a pancia a terra e scompaiono per la via Monforte. Gli artiglieri a cavallo frustano le bestie; e le bestie infuriate divorano la via, e i cannonieri, appoggiati agli affusti, hanno assunto un atteggiamento più bellicoso.

Svoltano a destra sul naviglio. Io torno indietro e imbocco, come i lancieri, la via Monforte, scavata nel mezzo per i lavori di tubazione, fin quasi al ponte di San Damiano. Oltre il ponte la via Monforte non ha che due o tre bottegucce del polentaio, del giornalaio, di un merciaiuolo di cianfrusaglie, eccetera. Il resto è popolato di residenze signorili. A destra, quasi in faccia alla via Conservatorio, è il superbo Palazzo della Prefettura, col suo balcone immenso, sorretto dalle colonne a scanalature.

Arrivo proprio in tempo a vedere un reggimento o parte di un reggimento di fanteria che va verso il dazio spacchettando le cartucce nella giberna. Sembrano soldati che vengano da lontano. Sono impolverati fino ai capelli e taluni piegano sotto il peso dello zaino e del fucile. A due passi dalla Prefettura c’è il via vai della giornata di perturbazione cittadina. Via Monforte non subisce la paura degli abitanti delle altre vie. Vicino al rappresentante del governo la gente si sente più sicura. I balconi sono pigiati di signori e di signore che applaudono entusiasticamente ai soldati che passano. Da una parte e dall’altra, si vedono i fazzoletti candidi che agitano l’aria e le manine che si aprono come se lasciassero cadere dei fiori. I soldati tirano innanzi senza guardare in alto. Solo gli ufficiali danno segno di compiacimento.

Si parla di studenti venuti da Pavia a ingrossare il numero dei rivoltosi, nascosti nelle cascine di Acquabella e accampati nelle vicinanze. Se ne discorre e si allibisce, affrettando il passo. Alcuni squilli di tromba mi fanno ritornare presso il ponte di San Damiano. Mi pare di essere bloccato al centro delle operazioni militari. Continuano gli squilli. È un generale con degli altri ufficiali a cavallo, seguito dai trombettieri e parecchi lancieri. Alcuni mi dicono che sia il generale Bava Beccaris in persona. Ma i più lo credono Ponza di San Martino. Può darsi che sia invece né l’uno né l’altro. Il generale e gli ufficiali entrano in via Monforte colle spade sguainate e ciascuno di loro grida dappertutto: «Chiudete le finestre o faccio tirare!». I cavalli caracollano, s’impennano, nitriscono e tentano di prendere la mano ai cavalieri.

La gente, colle mani calde del battimani fragoroso che aveva salutato la truppa, scompare chiudendo le imposte. I passanti vengono respinti verso il ponte. Gli imbocchi delle vie trasversali si chiudono con mucchi di soldati. Si prepara qualche cosa di grosso. L’entrata al ponte ha una siepe di monturati che impedisce il passaggio. Si allineano i soldati anche davanti il portone della prefettura. Al limitare c’è ressa. Vedo gruppi di persone che si sciolgono e si rifanno o si perdono dietro le colonne.

Qui al cordone di San Damiano c’è voluto del fiato per indurre i soldati a lasciar passare i fattorini con manate di telegrammi.

Sono le undici e mezzo. Incominciano le fucilate di Porta Monforte. Si sentono colpi a intervalli. Dal mio posto vedo una nube di polvere bianca verso il dazio e dei cavalli che sbucano e ritornano nella nuvolaglia qualche volta illuminata dalle esplosioni.

Dei signori che stanno in via del Conservatorio vogliono assolutamente passare. Le famiglie, sapendoli per le strade, devono essere inquiete.

- Signor ufficiale, ci faccia passare o accompagnare. Ecco il nostro biglietto di visita.

- Mi duole, ma ho ordini severi: non si passa.

Il fuoco fuori di Porta Monforte diventa accelerato. Pam, pam, pam! Pam, pam, pam, pam!

La commozione diventa generale.

Tuona il cannone.

Indietro! Indietro!

Con le cannonate che imperversano per l’aria, ho tempo di fare delle considerazioni giornalistiche!

È un mio debole di sostenere i diritti della penna pubblica, dovunque si tenta metterli in dubbio o sopprimerli. Le autorità militari vedono nel reporter un intruso o un nemico. Lo respingono dappertutto come un rognoso.

Questi signori non hanno ancora capito ch’egli è lo strumento più utile dei popoli che non hanno vergogna di far sapere al mondo come si svolga la vita nazionale.

Il reporter è il raccoglitore degli avvenimenti che si compiono sotto i suoi occhi. È impersonale.

Voi fate bene, e il fatto, ch’egli serve caldo al pubblico, vi copre di elogi e vi circonda di ammirazione.

Voi fate male, e la gente col documento che egli ha diffuso, vi critica, vi biasima e magari vi stramaledice, come perturbatori della quiete pubblica o come autori di sventure cittadine.

Carlo Houard Russel, il reporter della guerra in Crimea, ha fatto piangere il Regno Unito, con le rivelazioni ch’egli metteva assieme sulle alture di Alma, di Balaclava e davanti a Sebastopoli, vivendo in mezzo ai soldati, chiacchierando cogli ufficiali, conversando coi superiori che sapevano di strategia, e passando delle ore coi medici e col personale addetto alle ambulanze.

Senza di lui, migliaia di soldati di più si conterebbero tra le vittime del colera, della fame e delle bocche da fuoco. Senza di lui, lord Ragan sarebbe passato alla storia assai più che come il mutilato di Waterloo, come l’eroe degli eserciti alleati che hanno combattuto per la conquista di Sabastopoli - il grande arsenale russo del mar Nero. Invece le lettere di Russel lo hanno fatto nicchiare tra i generali confusionarii, che perdono la testa come Bazaine, pur essendo circondati da un materiale di guerra che basterebbe a condurli alla vittoria.

È un supplizio crudele quello di stare qui, al margine del teatro di guerra, con le orecchie rintronate da un fuoco incessante di fucileria, a straziarvi col pensiero che a pochi passi dai vostri piedi si combatte disperatamente, senza poter rompere il cordone militare! Farei in due la mia tessera giornalistica! Ma dunque, o colleghi, avete o non avete conquistato il diritto professionale di passare dovunque?

Corro, corro lungo il naviglio verso porta Vittoria, con l’idea di voltare in via Stella e riuscire a percorrere fin sotto i casini daziarii di Porta Monforte. Non incontro che una ragazza e una bimba che chiamano tutti i nomi del vicinato senza commuovere alcuno.

- Luigia, Giovanna, Marta, aprite, fate presto, per amor di Dio!

L’egoismo li ha resi tutti sordi. Loro sono in casa, rannicchiati come tanti conigli, e chi è fuori, crepi!

Col battaglio del portone metto a rumore il casone.

- Aprite, in nome della legge!

Si apre, e io continuo il mio itinerario. Avvicinandomi all’estremità del naviglio, le fucilate si fanno sentire una dopo l’altra, come se i soldati fossero dietro qualche riparo a far fuoco contro i passanti rimasti per la strada.

Sull’angolo di via Francesco Sforza, è un gruppo di gente, addossato alla bottega della farmacia chiusa, che non sa più da che parte avviarsi.

Sul ponte Vittoria le palle passano fischiando e, al dorso, dove incomincia il corso Vittoria, è la cavalleria che scorrazza inseguendo chiunque col revolver alla mano e il grido: indietro, indietro!

Una vecchia del gruppo continua a farsi il segno della croce.

Giunge, trafelata, vicino alla farmacia, una lavandaia, che abita in via della Cerva, cioè giù dal ponte, a destra del Verziere. Vuole assolutamente rincasare.

Ha dei figli e le preme di sapere dove siano i suoi figli.

- Fanno fuoco, badate, Teresa, ritornate indietro!

Ella, la grandigliona non ha paura. Protetta dal grembiule, che si è tirato sulla testa, prende la rincorsa e scompare, seguita dai pam! pam! che vengono dalla via Stella.

- Gesumaria! gridano le donne dall’altra parte.

 

Dal naviglio di San Damiano, arrivano al mio posto due donne esterrefatte che abitano nel corso Lodi, fuori di Porta Romana. Sono inquiete per le loro famiglie, e anche loro, come la lavandaia, vogliono passare attraverso i pericoli, a costo di perdere la vita. Cerco di far entrare nella loro testa che è meglio rivedere la famiglia un po’ più tardi che lasciarsi ammazzare. Spreco il fiato. Raccolgono le vesti e passano di corsa il ponte.

- Pam, pam, pam!

Passate incolumi, le persone addossate alla farmacia si convincono che i soldati tirano in aria.

- Andiamo, andiamo, che fanno per spaventarci!

E il gruppo si scioglie e sbuca sul ponte, come una filata di fannulloni, che vanno per il sole a scaldarsi. Una scarica di fucili li scompiglia. Scappano in tutte le direzione. È un fuggi fuggi, un si salvi chi può. Una ragazza precipita a terra dallo spavento e completa la scena del terrore. Un operaio, che la vede in pericolo, ritorna indietro, gettandosi sulle mani per evitare le pallottole. Raccoglie la fanciulla sul fianco e se la trascina giù dal ponte, rasentando la muraglia.

Io mi rifugio nell’osteria di fianco. Vi si entra discendendo due gradini. Ha l’aria d’una taverna dei vecchi romanzieri. È tetra, si sente il soffitto sulla testa, e ha i tavoli popolati di facce che paiono ditte di gente istupidite votando i bicchieri. Sono invece persone che si sono salvate scappando «per lasciare passare la tempesta». Nessuno ha voglia di parlare. Ogni fucilata si ripercuote sul loro sistema nervoso come una bastonata. Entra l’avvocato Crosti della Lombardia, Ha l’aria di un uomo che ha buttato via più di una notte. I tumulti non gli hanno dato tregua. Ci salutiamo con un semplice ciao. Ci mettiamo sul tavolo sotto un finestrone a inferriata che guarda in via Stella. Assistiamo per alcuni minuti al va e vieni di corsa degli uomini e delle donne in cerca di rifugio. Le fucilate continuano alla spicciolata, rimbombano spesso sulle pareti come schiaffi.

Incalzato dalla mia idea di voler assistere al combattimento tra la truppa e gli insorti, rifaccio il naviglio e non svolto che in via della Passione. L’arteria è deserta. Le imposte sono chiuse ermeticamente. Non trovo che un pitocco sdraiato sulla pietra di una cavità sulla facciata di un edificio. Giungo dinanzi alla chiesa della Passione. Un caporale e due soldati sono distesi lungo l’imboccatura di via Vincenzo Bellini. Al di là è il bastione sotto il quale è lo stabilimento Ricordi. Mi si ingiunge di andarmene. Per il cielo è una gazzarra di spari. Filo per la via Conservatorio verso via Stella. È caduta una palla dalla parte opposta al mio marciapiede. Non c’è un portone aperto. Non ho paura, ma non sono tranquillo.

A metà via, entra da via Stella un signore bassotto, abbottonato nello stifelius, con la faccia spaventata, che mi interrompe il cammino con un imperativo brutale.

- Indietro! Indietro! ..

- Chi siete?

- Ve lo faccio sapere subito chi sono. Soldati, fuoco!

Discutere coi signori che vi possono scaricare mezzo chilogrammo di polvere nello stomaco, è da insensati. Non mi faccio ripetere la ingiunzione, e mogio mogio riprendo la via fatta. Mi pare di non avere più sangue nelle vene. A ogni passo mi aspetto di precipitare fulminato dai proiettili.

Sono perduto. Mi trovo in mezzo ad una rete di sentinelle. Da tutte le parti si grida: Indietro! Indietro! Due cavalleggeri irrompono dalla via Monforte, con le lance piegate e m’inseguono spronando i cavalli.

- Via! via! Indietro! Indietro!

I proiettili saltellano freneticamente per le tegole dei tetti. Riesco in via ..della Passione più morto che vivo. Il cencioso continua a dormire.

 

Rieccomi di nuovo sul ponte di San Damiano. Al palazzo della prefettura c’è un andirivieni che traduce il tumulto intorno allo stato maggiore in margine al campo di battaglia. Il fuoco continua. Ci sono persone che si staccano e vengono alla nostra volta. Tra loro sono il signor Elia Fumagalli, un ricco industriale, almeno così mi si dice, e l’ingegnere Macchi, un proprietario di case al Foro Bonaparte e un uomo assolutamente d’ordine.

Tutti questi signori sono stati trattenuti nel casino daziario, ov’è il comandante, per più d’un’ora. Il loro racconto è sommario, ma rivela una pagina dei tumulti che stanno scrivendo le bocche del cannoni e dei fucili.

Il signor Fumagalli dice che passava dalla via Guicciardini - la prima a destra del corso Concordia, fuori Porta Monforte in una vettura aperta, col procuratore Enrico Pirolli. Essi vennero fatti discendere tra le undici e le undici e un quarto, e condotti al dazio, ove trovarono l’ingegnere Macchi, arrestato un po’ prima di loro.

Mentre erano nel casino daziario, il comandante era tutto in faccende a dare le disposizioni dell’attacco imminente. L’ingegnere Macchi, il quale non sembra mica uno scervellato, fece coraggiosamente delle osservazioni; come per convincere l’ufficiale superiore che i rivoltosi, se c’erano, dovevano essere altrove. Lui, personalmente, non ne aveva veduto uno. Le osservazioni dell’ingegnere erano fatte tra un complimento e una scusa perché il momento scottava e perché il comandante, che aveva la sua cavalleria che batteva la campagna, poteva essere in grado di saperne più di un borghese.

Fu così che parecchi di questi signori assistettero alle fucilate fatte contro le persiane di alcune finestre del palazzo a sinistra, quasi di faccia al casino daziario, che lambisce il bastione di Porta Venezia. L’ingegnere Macchi aveva fatto di tutto per assicurare i signori ufficiali che le loro informazioni non potevano essere esatte, perché in quel casone signorile abitavano buonissime famiglie, ch’egli conosceva personalmente. E, dicendolo, dava la sua parola d’onore, che non erano famiglie che si occupassero di dimostrazioni. Aggiungeva anche che dietro le persiane agitate, contro le quali si voleva far fuoco, era l’abitazione di un ottimo padre di famiglia, che sedeva tutti i giorni nel seggiolone di giudice di tribunale. Ma il tenente incaricato di ordinare il fuoco non volle sentire ragioni. Era nella testa delle autorità daziarie, della sicurezza pubblica e militare, che dalle finestre del giudice di tribunale erano usciti dei colpi di revolver e di fucile.

Non potendo reggere allo strazio di vedere la truppa che tirava contro le finestre degli amici, l’ingegnere Macchi prese per un braccio il signor Fumagalli, e tutti e due rientrarono nel casino daziario ad aspettare che il comandante si persuadesse della loro innocenza. Intanto che erano chiusi nell’anticamera dell’ufficio, gli squilli di tromba e le cannonate li facevano impallidire.

I due cannoni che vomitavano la mitraglia micidiale erano appostati colla bocca verso corso Concordia. Il secondo, a pochi passi dal marciapiede sinistro del piazzale Monforte, tirava sul convento dei Cappuccini. Dopo i due squilli, udirono quattro cannonate: la prima fece sussultare i vetri del casino dove erano, e l’ultima diede a tutto l’edificio uno scotimento, che fece traballare il suolo sotto i loro piedi.

Intanto che i proiettili imperversavano per l’aria, nel casino daziario si diceva che gli studenti di Pavia avevano fatto le fucilate con la truppa schierata lungo i cancelli di Porta Venezia. Si parlava di un fuoco disperato. Inseguiti, si sarebbero nascosti nel convento e nella chiesa dei frati, da dove vennero sloggiati dalla mitraglia. Poi si sarebbero dispersi per le cascine di Acquabella, lasciando a torno gli avamposti in bicicletta.

Cessato il fuoco, l’incaricato militare annunciò a tutti che erano liberi di andarsene «perché di loro non aveva dubbio alcuno». Saputo che erano persone per bene, il comandante li fece scortare fin dove cessava il pericolo. Lieti di poter correre a casa a tranquillizzare le famiglie, i signori vollero manifestare la loro gratitudine ai soldati con un beveraggio. L’ingegnere Macchi fu il primo ad iniziare il movimento con un biglietto da cinque o da dieci. Gli altri lo imitarono con dei biglietti da una o da due lire. Il soldato che aveva ricevuto il denaro, senza protestare, diede l’esempio che i soldati non si lasciano pagare, per nessun servigio.

Non appena al primo cordone, li denunciò in massa all’ufficiale di picchetto, come tanti corruttori. Ci volle del bello e del buono per farlo placare e fargli capire che loro, non potendo offrire alla scorta né bibite né bevande, avevano voluto contribuire con qualche cosa, perché se le comprassero.

Spiegato l’equivoco, il tenente li lasciò passare.


 




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