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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE PRIMA
    • IL MENDICANTE CERINA RACCONTA LA SCENA SPAVENTOSA
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IL MENDICANTE CERINA

RACCONTA LA SCENA SPAVENTOSA

 

 

 

Luigi Cerina, con la sua deposizione alla buona, c’introduce nell’intimità del dramma. «Le turbolenze dei primi due giorni mi avevano insegnato un po’ di prudenza. Dopo la sollevazione di Porta Ticinese, consigliai i frati a sospendere la distribuzione della minestra. Dicevo loro che la ragazzaglia avrebbe potuto mischiarsi coi mendicanti e far nascere qualche cosa di grosso nel convento. I frati, buoni, isolati dagli avvenimenti, pensavano più allo stomaco dei loro ospiti che alla perturbazione cittadina. Essi si credevano lontani mille miglia dalle operazioni militari. Così non furono del mio parere, e bisogna convenire che non avevano tutti i torti. Chiudere il cancello ai mangiaminestra era facile, ma dove avrebbero trovato da mangiare tutti questi poveri cristi la cui esistenza era basata sulla tazzina calda che dava loro il convento? Sospendendo la distribuzione, avevano poi paura di venire biasimati e di contribuire, senza volerlo, a dare il combustibile alle barricate. I cenciosi, la cui maggioranza era composta di giovani, avrebbero potuto fare del baccano e abbandonarsi cogli altri al malfare. Questo solo pensiero dava loro i brividi. A ogni modo mi dissero: Voi, Cerina, che li conoscete tutti, resterete al convento. E, dicendomelo, mi affidavano le chiavi del cancello d’entrata, coll’ingiunzione di non far entrare che forestieri e pitocchi. I forestieri sono i frati che passano da Milano e sostano al convento una notte o due prima di riprendere il viaggio.

«Vi ho detto dei tre morti nel cortile. La confusione di quel momento non era poco e posso avere straveduto. Ma, se i miei occhi non mi hanno tradito, potete dire che le prime duecento o trecento fucilate hanno fatto, nell’interno tre vittime. Il terzo mendicante venne raggiunto non so dove da una palla, mentre finiva di vuotare la ciotola sotto il piccolo portico della chiesuola. Egli mangiava seduto sulle calcagna. Rovesciato, supino, si agitava, come se avesse avuto le convulsioni. Può darsi che non fosse che ferito. Era vecchio, bassotto, sciancato. Alloggiava presso qualcuno in via Stella. Non l’ho più veduto in nessuna parte.

«I pitocchi, presi dal panico, si erano pigiati nell’andito e calcati uno sull’altro lungo l’entrata del convento. Tutti assieme facevano compassione. I proiettili cadevano da ogni parte e noi non avevamo per coprirci che le nostre mani e per proteggerci che le nostre preghiere. Le donne coi bimbi piangevano e nascondevano la testa delle loro creature con le braccia. Gli uomini cercavano di ficcare la faccia tra le spalle degli altri.

«Con lo spavento, la lotta per la conservazione della propria esistenza era diventata generale ed accanita. Ciascuno di noi cercava di mettersi più al sicuro che poteva, spingendosi innanzi, magari brutalmente, facendosi largo coi pugni chiusi, risospingendo i più audaci che prendevano gli uomini e le donne per le spalle per aprirsi la via verso la postierla.

«La scarica, che ci fece sussultare sul suolo, finì per incalzarci tutti a cercare un rifugio al di là dell’assito. Si gridava come disperati.

- Oh, Signore! Oh, Madonna! salvateci! salvateci!

- Ci ammazzano! salvate i poveri diavoli che non hanno fatto niente di male!

«E un’altra scarica, che mi parve una cannonata, ci fece perdere la bussola. Infuriati dal parossismo, non ci furono più riguardi nè per un sesso nè per l’altro. Si spingeva e si calcava come si poteva. La postierla subiva le ondate impetuose senza cedere. Allora diventammo tutti pazzi.

- Aprite! Aprite!

- Oh, Dio, si muore!

«E in un momento supremo, come se tutte le forze riunite si fossero rovesciate verso un punto, le lastre di ferro dei catenacci che ci precludevano la via del rifugio si staccarono quasi fossero state di pasta frolla, e l’uscio della postierla andò al suolo con un fracasso che fece scappare gli ultimi frati in coro.

«L’invasione fu un attimo indescrivibile. Si fuggiva come quando si è inseguiti dall’acqua straripata dal fiume. A gambe levate, senza pensare ai caduti, senza voltarci indietro, infilando la scala che sale o discende, svoltando a destra o a sinistra, tappandoci in una latrina, in una cella rimasta aperta, nascondendoci nel solaio, nella paglia della stalla, o buttandoci attraverso le fascine della legnaia nel cortile del fabbricato rustico. Tutto era buono per salvarci. Un buco, una tana, un sottoscala, un armadio o il porcile.

«Il rimbombo delle cannonate entrava nel monastero come una sciagura cittadina, che rincupiva per il porticato e si schiantava sull’alto della muraglia in fondo, come un immenso piatto di rame che andava in frantumi.

«Ero riuscito ad accovacciarmi sull’ultimo scalino della cantina, ove trovai due frati laici che tremavano come foglie. Dopo di me discesero due altri mendicanti. Nessuno di noi fiatava. Il cannone pareva che avesse cessato. Non si sentivano più che fucilate che rumoreggiavano in varie direzioni. Un minuto dopo udivamo i soldati che sacramentavano per i portici, dicendo parole che la mia bocca educata non può ripetere. Confesso che il minuto ci parve un secolo. Avevamo paura che i fucili ci ammazzassero giù al buio come tanti conigli. Eravamo così appiattati l’uno addosso all’altro, quando una voce dall’alto della scala ci gelò il sangue nelle vene.

- Arrendetevi! Arrendetevi!

«Con la voce si faceva sentire una spada sguainata che percoteva il muro.

- Arrendetevi!

«Era un capitano che discendeva, accompagnato da parecchi soldati che avevano il fucile con la baionetta inastata.

- Arrendetevi!

«Mi feci coraggio e risposi:

- Cosa vuole che «rendiamo» ,, signor capitano? Semm tutt poveritt.

«Il capitano mi prese per un braccio e mi trascinò su per la scala, buttandomi in mezzo agli altri già stati radunati sotto il portico in mezzo a un nugolo di soldati.

«Intanto soldati e superiori frugavano il convento dal soffitto alla base. Snidavano quelli che erano riusciti a trovare un nascondiglio e cercavano le armi. Noi eravamo stati palpeggiati fino ai capelli, e per fortuna nessuno di noi aveva in saccoccia un coltello.

«A intervalli di minuti, alcuni soldati venivano con qualche frate o qualche pidocchioso che avevano scovato in una parte recondita dell’edificio.

«Una volta che fummo tutti sotto il portico, ci si ordinò di andare in Chiesa. I frati laici erano dietro i padri. Noi eravamo in coda a tutti.

«Colui che aveva dato il comando era un ufficiale più che energico. La sua voce faceva accapponare la pelle e le sue parole passavano nelle orecchie come potenti schiaffi.

«Entrando in chiesa, sentii uno sparo di fucile. Mi pare che venisse dalla stanza attigua al coro. Lo hanno udito anche quelli vicino a me. Ma, come ho detto, nessuno di noi aveva la testa a segno. Eravamo terrorizzati e potevamo benissimo scambiare una fucilata per una cannonata.

«Entrammo in coro come gente che va al patibolo. Chi piangeva dirottamente, chi singhiozzava in un modo da rompere il cuore, chi raccomandava l’anima a Dio e chi mormorava preci con le mani giunte o coi polsi incrociati e le mani piatte sul petto. Le donne tenevano fra le braccia i bimbi come una preghiera.

«I soldati erano sfilati dinanzi a questo esercito di piangenti col fucile a baionetta in canna puntato verso il loro petto. Ciascuno di noi aveva paura che un grido, un gesto facesse prorompere tutte quelle bocche di fuoco in una volta sola. Io sono un povero infelice senza colori sulla tavolozza. Ma forse anche coloro che l’hanno più ricca della mia riusciranno difficilmente a tradurre in poche parole lo stato dell’animo nostro in quei minuti di trepidazione angosciosa.

«Pare che nella mente dell’ufficiale fosse l’idea di farci fucilare in massa. Ci credeva rivoltosi, finti mendicanti, falsi frati tutti truccati per la rivoluzione. Parecchi della comitiva erano sulle ginocchia e pregavano con la sollecitudine della gente che non ha tempo da perdere o si sente la morte alla schiena. Alle madri si riempivano gli occhi. C’era una donna che aveva due piccini attaccati alle vesti, che piangevano, e un altro al seno che strillava. E c’era pure un padre che aveva tre figli. Era un uomo che si era ammalato ed era caduto nell’ultima miseria.

«L’ansia era stata protratta fino allo svenimento. Alcuni dinanzi le baionette cominciarono a sentirsi male.

- Fermi! Fermi!

«Fu il nostro salvatore. Era un tenente... sul grado posso anche sbagliarmi. Era un tenente di fanteria che entrava col revolver in mano.

- Capitano! Che cosa fa! non vede che sono tutti poveri?

«La voce del tenente rianimò tutti, e tutti si misero a dire m coro:

- Grazia, grazia, scior tenente, che alcuni chiamavan maggiore! Dio lo benedica! Dio gliene renda merito! Che Dio el ghe daga del ben!

«E, se avessimo potuto, ci saremmo prostrati ai suoi piedi e gli avremmo baciate le scarpe.

«Senza di lui saremmo tutti morti. Cinque minuti più tardi e il coro sarebbe stato uno stanzone di cadaveri. Nelle mie preghiere non dimenticherò mai il mio salvatore.

«Circondati dai soldati uscimmo tutti e ci avviammo alla prefettura di via Monforte, pallidi e invecchiati di dieci anni».

«Scusi, mi son dimenticato di dirle che a mezzogiorno in punto ho aperto il cancello del cortile del convento a tre negozianti che mi scongiuravano.

- Oh signor, ch’el ne salva che fan i sciupettad!

«Apersi loro e vennero arrestati con tutti gli altri. L’arresto è stato per loro un fastidio. Ma senza di me a quest’ora sarebbero al cimitero di Musocco» ..

 

 




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