Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Paolo Valera I Cannoni di bava Beccaris IntraText CT - Lettura del testo |
|
|
LE RIVELAZIONI DI PADRE ISAIA
Io ero dinanzi la cinta del viale Monforte, e dicevo, tra me e me, che era proprio un peccato che scomparisse una muraglia storica. Se fossi ricco, mi andavo ripetendo, la comprerei e la regalerei a un museo che avesse per compito di conservare i monumenti che rappresentano una pagina della vita pubblica. Con queste idee, mi trovai alla postierla del convento, col cordone del campanello in mano, determinato a lamentarmi col padre Isaia, un sacerdote cappuccino che avevo intervistato più di una volta. Il frate portinaio non è più quello. Egli è stato cambiato subito dopo le giornate di maggio, perché il povero Daniele è ancora ammalato di paura. Mentre si facevano le fucilate, il poveraccio era nella stanza contigua all’entrata a scodellare la minestra ai poveri, come tutti gli altri giorni. Quello d’oggi non è così alto, ma non è meno gentile dell’altro. Tutte le volte che mi vede sorride, e va difilato ad annunciarmi a qualche padre. - Ho bisogno di parlare col padre Isaia. - Vado di sopra a vedere, ma credo che sia in coro. Il padre discese con un giornale religioso in mano che si era occupato di un mio articolo: era l’Unità Cattolica. - Perché non me li mandate mai questi vostri articoli? mi disse egli, tendendomi le due mani, col trasporto d’un’amicizia sentita. Lo fotografo con due colpi di lapis, mentre diamo una capatina in coro. È tutt’assieme una figura simpatica e vigorosa. La sua faccia, larga e massiccia, è spruzzata dalla lucentezza degli occhioni, che traducono la bonarietà e la salute. Sull’altura della callotta che pare appesa alla nuca, è accoccolato un ciuffetto di capelli abbaruffati, il quale documenta che è ancora in lui la fierezza del cittadino. Le sue orecchie alte, coi padiglioni larghi e ammantati di rosso come i lobi, rivelano l’uomo che si tuffa con piacere nell’acqua lustrale. La sua barba fluente è una ditta fratesca. È una distesa di peli morbidi filettata di qualche capello che ingrigia ai margini delle due punte. Usciti dal coro girammo per il porticato e infilammo la scala che conduce alla sua cella. - È vero, padre, che avete venduto il terreno sul quale è la muraglia con la breccia tappata? - È vero che abbiamo venduto del terreno per fabbricare un altro convento fuori di Porta Magenta, alla Maddalena Grande. Ma quasi tutta la facciata lungo il viale è rimasta nostra. La breccia rimane tale e quale. Una chiazza bianca coperta del lastrone di metallo per gli avvisi sacri. La breccia era rasente il pilastro destro della cancellata. Giungendo al piano superiore, incontrammo tre frati, i quali si prostrano ai piedi del padre Isaia con un abbandono supplichevole, curvando la testa fin quasi a terra e non alzandosi che dopo avergli baciato la mano con effusione. Capii ch’egli era il padre vicario. La cella di ogni padre ha un motto stampato su una striscia di cartone inchiodata all’uscio. Quello del padre vicario è questo: Si omni anno unum vitium extirparemus, cis viri perfecti efficiemur: se ogni anno estirperemo un vizio, diventeremo, quaggiù, uomini perfetti. La cella numero 3 del padre Isaia - come quella di tutti gli altri inquilini del convento - non ha spazio che per una persona. Si entra uno dietro l’altro. La finestra che dà sull’ortaglia è in faccia all’uscio. A sinistra, è un lettuccio di acero con un semplice pagliericcio poco soffice, nascosto sotto una coperta di lana colorata. Ai piedi del letto, è un inginocchiatoio, con lo schienale sormontato da un’asse lucida e giallognola come il resto che serve da leggio o da tavolo di lavoro. A destra è un piccolo scaffale, pieno di libri religiosi, agganciato alla parete. Intanto che il padre Isaia sfogliava il libro che gli avevano portato, io pensavo alle due baionettate che aveva ricevuto senza punto accorgersene. Non era uno smemorato, non aveva perduto la conoscenza né prima né dopo l’avvenimento; era rimasto calmo anche quando era stato adagiato nel letto dell’Ospedale Maggiore, e tuttavia non sapeva spiegarsi come le baionette gli fossero entrate nelle carni e lo avessero inondato di sangue. - Proprio, padre vicario, non avete sentito né dolore, né il freddo dell’acciaio che penetrava nel corpo? - Non ho sentito nulla, proprio nulla. Mi sono sentito spossato solo vicino alla breccia. Là, dinanzi al muro squarciato, incominciai a respirare affannosamente. Pareva che avessi sullo stomaco una specie di oppressione. Non appena mi trovai sotto l’atrio del palazzo prefettizio, domandai da bere, perché mi sentivo la gola che bruciava, e una sedia perché non potevo stare più in piedi. Dovevo essere pallido come un morto perché parecchi mi domandavano se mi sentivo male. Io rispondevo che mi pareva d’essere invaso da un languore che mi faceva desiderare un giaciglio. Mi si condusse all’Ospedale ove mi si domandò che cosa avevo. Risposi che potevo essere un po’ agitato e li pregavo con insistenza perché mi salassassero subito o mi mettessero le sanguisughe. Nella sala dell’ambulanza medica mi si rifece la domanda di prima. - Che cosa si sente? - Nulla. Sono un po’ fiacco, un po’ spossato. Pare che mi manchi il fiato. - Non è ferito? - Nossignore. - Eppure dove c’è sangue c’è ferita. Non vede che perde sangue? - Avevo i sandali inaffiati di sangue. - Provi a levarsi la tonaca. - Non ero più che un’immensa macchia rossa. Il panno della sottoveste, movendosi, si era inzuppato e mi aveva insudiciato tutta la pelle. Mi si voleva mandare all’ambulanza chirurgica, ma per la gentilezza del carissimo dottor Conti mi adagiarono nell’infermeria ove si constatò che ero stato bucato da due colpi di baionetta. Uno mi era stato dato a sinistra, in direzione del polmone, e un altro lungo la stessa parte dell’inguine. Mi medicarono e vi rimasi più di dieci giorni. - Che cosa avevate fatto per trattarvi a colpi di baionetta? Il cappuccino rimase pensoso. Pareva che non avesse voglia di rimestare il passato. L’esitazione non durò che pochi secondi. Egli si convinse che non poteva
tacere - Io parlo pro veritate. Quando
entrarono i soldati mi trovavo nella stanzettina vicino alla postierla
d’entrata a lavare la ferita alla gamba di un pitocco, che non aveva potuto
finire di mangiare la minestra. Gliela fasciai in fretta e in furia per
impedire l’emorragia e poi uscii con la bottiglia dell’aceto in mano.
L’invasione militare dopo le cannonate non mi poteva sorprendere. Deposi la
bottiglia sul murello dei vani tra le colonne del portico, voltai a destra e
tentai di raggiungere la testa dei soldati - che andavano in su, - Per esempio? - Non posso ripeterle. - Ripetetele, padre, in nome della storia! Non ci fu verso di fargliele ripetere. - Per istornare qualche terribile eccidio, pensai di parlare al primo ufficiale che mi fosse capitato, vedendo che i soldati correvano con gli occhi smarriti, terrorizzati. - Ritornai verso la stanzuccia, dove avevo lasciato il ferito, e mi imbattei appunto in un ufficiale che stava in coda ai soldati, e mostrandogli la caldaia della minestra lo pregai che non facesse alcun male a quei poverelli che erano venuti per sfamarsi. Se mi ricordo bene, era un tenente. Mi guardò in faccia come per scovare il ribelle e poi, con un «frataccio cane!» mi agguantò per il collo della tonaca e mi piantò la canna del suo revolver al ventre. Forse sarà stata la mia impressione. Mi pareva che il suo dito cercasse il grilletto. Col coraggio della gente che difende la propria esistenza, gli contorsi la mano e lo costrinsi a mettere la canna nel vuoto. Egli si mise a scuotermi senza mai abbandonare il colletto della veste e con dei continui tentativi di rimettermi l’arma nella posizione di potermi uccidere. Si trattava della mia vita e io gliela contesi con tutte le mie forze. - Permettetemi, padre, di stringervi la mano. Io avevo bisogno di una pausa per sottrarmi alle sensazioni dolorose. - Il tenente insisteva ed io non abbandonavo mai la canna. - Mi bruttava di villanie e io gli rispondevo che si sbagliava e che non ero un «frataccio cane». Per il collo della tonaca egli mi trascinava sempre verso l’uscita. Io pensavo in quel momento che egli volesse condurmi nel cortile e farmi fucilare dai soldati. - Signor ufficiale, gli dissi, non mi faccia questa figura. Se vuole uccidermi mi uccida qui subito, senza condurmi di fuori. Sarebbe uno strazio inutile. Se devo morire, è meglio che muoia nella casa dei miei fratelli. - Io pregavo, e l’ufficiale, invece di darmi retta, mi scoteva e mi trascinava a colpi per il cortile. Mi credevo perduto. - Il suo pensiero doveva essere quello di farmi ammazzare dai soldati. Senza mai abbandonare la canna del revolver, cercavo di proteggere il mio col suo corpo. E lui, l’ufficiale, impiegava tutti i suoi sforzi per mettermi alla mercè dei fucili. - Giunti al fianco della breccia, egli fu lì lì per finirmi. - Io gli dissi che infine non ero che un povero frate stato colto a medicare un ferito. - Creda, signor tenente, che nel convento non ci furono mai nè insorti, nè armi da fuoco. - Passò nella sua mente un dubbio? Non ve lo saprei dire. La verità è che le sue parole mi rivelarono ch’egli mi stava proprio mandando all’altro mondo. - Con disprezzo, come quando si abbandona un nemico indegno perfino dell’ultimo supplizio, mi disse: - Per questa volta ti perdono! - Con una fiatata che riassumeva il sacrificio che compiva, mi buttò per il buco della breccia, chiamando i soldati. Stramazzai bocconi, colle mani che mi salvarono la faccia. Alzandomi vidi che il mio piede era insanguinato. Non mi allarmai, perché supponevo il sangue uscito dalla scorticatura che mi feci cadendo. - Fuori della breccia è stato uno spavento. Ogni soldato aveva una sudiceria da buttarmi in faccia: e quello che mi fece più pena, fu di veder un maggiore, credo, d’artiglieria, alto, magro, ruvido, che portava appesa all’occhiello una lente (caramella), il quale, incontrandomi sul piazzale Monforte, alla preghiera di rimandarmi libero perché ero innocente, con burbero cipiglio mi minacciò con la mano in aria un manrovescio, e... Il mio contegno di frate che non aveva paura di morire non aveva presa su di loro. - Figlio - Consegnatelo - disse ad alta voce il superiore ai soldati al di là della breccia - agli alpini. - Venni preso brutalmente per le braccia da due soldati, che mi incalzavano con le parole più svergognate del postribolo. Il terzo, il caporale, mi diceva: - Avanti, frataccio! - e mi teneva la punta della baionetta alle reni. - Mi pareva di perdere il cingolo e tentai con le mani di tirarmelo in alto, avendo già perduti i grani della corona fratesca. - Sta fermo - mi disse uno dei soldati - o ti brucio le cervella! - Da viale Monforte alla via Vivaio, mi copersero di tutto ciò che potete immaginare di sconcio e di osceno. - Sull’angolo della via Vivaio erano altri soldati e un capitano. Mi duole di non sapere il nome del superiore. Fu il primo gentiluomo che incontrai dopo la mia sciagura. - Badi, signor capitano, che è un rivoltoso. - Non importa, non occupatevene. È nelle mie mani. Alpini, conducetelo alla prefettura. - Anche gli alpini mi trattarono con tutti i riguardi. Invece di trascinarmi per le braccia, mi lasciarono libero e ingiunsero ai soldati di prima di lasciarmi stare, perché ero sotto la loro responsabilità. - Il prefetto Winspeare, non appena mi vide entrare, mi venne incontro dicendo: - Come, mi arrestate anche i frati? - I soldati del viale Monforte gli dissero che ero un rivoltoso stato colto col fucile in mano. - Dov’è questo fucile? domandò il prefetto. - Non sappiamo, perché questo individuo ci venne consegnato dal tenente. - Mentre io stavo dando la spiegazione al signor prefetto della nostra innocenza e che dal convento non poteva essere partito alcun colpo di fuoco per la semplice ragione che non vi erano né armi né armati, eccomi ancora davanti quell’ufficiale d’artiglieria, col medesimo atto del manrovescio, gridando che aveva veduto partire il colpo dal Convento lui stesso!... - Non ci sono stati altri frati, padre vicario, all’Ospedale? - C’è stato frate Alessandrino, il vecchietto che le ho fatto vedere dabbasso. La nocca di qualcuno ci interruppe. - Ave - rispose padre Isaia. Entrò un frate laico a portargli un piego suggellato. Mi voltai dalla parte della finestra a schizzare il frate laico Alessandrino, col quale avevo parlato più di una volta. È un ometto di settanta e più anni, mingherlino, ha la faccia lentamente consumata dai digiuni, con gli occhi celesti nelle occhiaie vizze, con una punta di barba grigiastra al mento e dei peli dello stesso colore disseminati per il labbro superiore. È ammalato da un pezzo, passa il tempo tra un’orazione e l’altra, pregando il signore di volergli bene. Il giornalista lo spaventa più del diavolo. Mi vedeva e scappava. Un giorno che mi aveva sorpreso col lapis e il note book in mano, corse ad inginocchiarsi all’altare in coro e ritornò una ventina di minuti dopo a pregarmi di non fargli del male, di lasciarlo stare, perché lui aveva bisogno, per la sua salute, di una grande quiete, e a scongiurarmi in nome del Signore Iddio, di non metterlo sul giornale, perché lui, dopo tutto, non sapeva nulla, non aveva fatto nulla e non voleva dir nulla. Era un uomo che aveva paura, che si spaventava per delle inezie e che godeva la pace del coro, quando era vuoto. I soldati lo facevano rabbrividire solo a pensarci. Non appena li seppe nel convento, scomparve dietro il coro, passò in chiesa e passò sul pulpito, rimanendovi appiattito sotto la croce, senza quasi respirare, per timore di farsi sentire. Se lo avessero lasciato sarebbe rimasto là a costo di morire in ginocchio. Invece i soldati e un ufficiale lo hanno scoperto e trascinato giù per la tonaca. Il terrore era così immenso in lui che tremava tutto e dal Convento alla Prefettura venne portato a braccia da due giovani frati. Il prefetto, quando vi giunse cogli altri, lo mandò subito all’ospedale. Padre Isaia aveva finito di leggere e io di scrivere. - Lo hanno trattato bene, padre, all’ospedale? - Con tutti i riguardi.. Le monache della sala di San Lazzaro erano di una gentilezza materna; le infermiere e gli infermieri nonostante il grande lavoro, mi usavano speciali riguardi e non so trovar parole di gratitudine e di ringraziamento per i bravi signori medici e chirurghi che con tanta pazienza e delicatezza mi assistettero nei dieci giorni che vi dimorai. Sissignore, c’era ordine di non lasciarci parlare con alcuno senza speciale permesso. - Dunque sono rimasti tutto il tempo senza una visita? - Sono venute a trovarci parecchie persone, come il Prevosto di Sant’Alessandro, di S. Stefano, Monsignor Montegagra, il Cardinale, Monsignor Nasoni e Magistretti, il Conte Greppi, il nobile Corti, D. Battista, le contesse Sormani e Sola, il marchese Cornaggia eccetera eccetera eccetera che or tutti non ricordo... il deputato Piola, per esempio. - Non è mai stato interrogato? - Sissignore, sono stato interrogato da un capitano, il quale fu gentilissimo. Fu lui anzi a dirmi che almeno una baionettata dovevo averla presa in convento... - C’era anche il tenente che lo aveva trascinato e buttato attraverso il buco della breccia? - C’era, e mi sembrava alquanto mortificato... Si bussò un’altra volta all’uscio. - Ave.
|
Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License |