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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • L’ARRESTO DEI REDATTORI DELL’ «ITALIA DEL POPOLO» NARRATO DA UN TESTIMONE
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PARTE SECONDA

 

L’ARRESTO DEI REDATTORI

DELL’ «ITALIA DEL POPOLO»

NARRATO DA UN TESTIMONE

 

 

 

A me pare una scena che inchiuda Bava Beccaris. Una di quelle scene che sì svolgono con una rapidità straordinaria, e lasciano dovunque tracce di un momento che passa alla storia. Rifacendola per il tuo libro, il mio pensiero si commuove e si contrista come dinanzi una sventura. Gli è come rivivere l’ora tragica, in cui la stampa si lasciava strangolare senza neppure il grido della resistenza legale. Ma non perdiamoci in considerazioni. Tu non ne vuoi. Voialtri del giornalismo moderno non volete che il fatto nudo e crudo. Io crepo a digerire i fatti nella prosa arida. Ma sia fatta la volontà di quelli che sentono l’avvenire del quotidiano diverso dal mio.

La giornata era il 7 maggio 1898 - una giornata piena di sole. I fatti di Ponte Seveso e di via Napo Torriani avevano fatto scrivere al direttore dell’Italia del Popolo l’ormai famoso trafiletto intitolato: «Ne erano assetati». Lo salto senza commenti, perché tu non hai bisogno di essere sequestrato. Tu non godi i privilegi del Corriere della Sera, neppure in tempi ordinari. Il Corriere della Sera, il quale nei giorni di Bava Beccaris è stato fratricida, ha potuto, senza molestia di sorta, darlo e ridarlo, tale e quale, ai suoi lettori, in tre edizioni consecutive. Il proposito del giornale di via Soncino Merati non può essere sfuggito ad alcuno. Lo pubblicava e ripubblicava con l’intenzione assassina d’infuriare la mano militare contro i redattori del giornale di S. Pietro all’Orto. Questa è storia.

Potevano essere le quattro e mezzo. Mi sentivo spossato dalla fame e dal lavoro e la testa confusa dagli avvenimenti. In redazione c’era stato l’andirivieni della commozione cittadina. Sembrava una sala d’aspetto. La gente era andata e venuta sbalordita, concitata, terrorizzata. Gli sconosciuti entravano, raccontavano con la parola spaventata dal loro spavento o esaltata dalla loro esaltazione e scomparivano, senza magari lasciarsi mai più vedere. Erano i reporters spontanei delle giornate tumultuose.

I locali dell’Italia del Popolo li conosci. Si entrava dal portone della casa di via S. Pietro all’Orto, si saliva al primo piano, si passava dallo stanzone amministrativo, si voltava a sinistra, si entrava nella sala di redazione, e si vedeva il direttore spingendo l’uscio in fondo alla parete di fronte.

Il reportage spontaneo era cessato. Nella direzione si trovavano Chiesi e Federici - in redazione Ulisse Cermenati e l’avvocato Valentini, il quale, come sai, scriveva, in quei giorni, degli articoli finanziarii. Il Seneci era dabbasso in tipografia che lasciava andare a casa gli operai, raccomandando loro di ritornare per l’edizione di notte. Di fuori, dinanzi il locale di distribuzione, la folla degli strilloni aspettava con impazienza l’ultima edizione della giornata. Ne avevano vendute delle bracciate nella mattina e nel pomeriggio, e s’impromettevano di spacciarne assai più nella sera. Il pubblico era ansioso di sapere che cosa avveniva, ma la cronaca di qualunque giornale non gli portava che fatti slegati e non gli diceva come avevano avuto principio, se erano inanellati e perché continuavano.

La via di S. Pietro all’Orto venne occupata militarmente. Non pensavamo neanche che si trattasse di noi. Io poi, che avevo dovuto essere da una parte e dall’altra e mi ero convinto che Milano stava per diventare una rete di cordoni militari, tirai via a chiacchierare sui tumulti spaventosi senza badare a ciò che avveniva nella strada. I fatti ci assorbivano. Come si erano compiuti? Chi li aveva provocati? C’era stato scambio di fucilate? Chi sarà stato il primo a far fuoco? Annegavamo nelle supposizioni senza venire in chiaro di nulla. Il tavolo del cronista rigurgitava di note sanguinose, ma nessuna ci dava la chiave della giornata. La nostra conversazione venne interrotta da una moltitudine di piedi che sentivamo venire alla nostra volta. Erano il viceispettore Prina, il delegato Gislon e parecchi agenti in borghese che invadevano gli uffici dell’Italia del Popolo.

Le prime parole che ci dissero furono che il giornale era sequestrato. Una notizia che ci lasciò tranquilli. Non era la prima volta che ci si capitava addosso coi sequestri. Ma il Prina non ci permise di tirare il fiato liberamente, senza aggiungere che era dolente di comunicarci «la cessazione del giornale fino a nuovo ordine». Il direttore rimase senza sorpresa. Passammo in stamperia. Assistevano alla scomposizione del giornale Chiesi, Federici, Cermenati e Seneci. Prima di risalire negli uffici il Prina diede ordine di non permettere l’uscita ad alcuno.

In redazione ci disse:

- Ci rincresce, ma siamo incaricati di fare una perquisizione. - Nessuno di noi rispose. Tanto e tanto il nostro consenso o la nostra protesta non avrebbe contato per nulla. Si misero a perquisire. Guardavano nei cassetti del direttore e dei redattori, leggevano o scorrevano affrettatamente i manoscritti, raccoglievano le cartelle scritte o incominciate per i tavoli e frugavano e adocchiavano dappertutto. Intanto che avveniva questa operazione, Federici si era affacciato alla finestra, proprio nel momento in cui De Andreis riusciva, nella sua qualità di deputato, a passare il cordone militare. Si protese e gli disse:

- Hanno sequestrato il giornale e stanno facendo una perquisizione. Vieni di sopra.

Due minuti dopo era anche lui in redazione. Terminata la perquisizione, il Federici chiese, come di legge, che si facesse il verbale delle cose sequestrate. Uno dei funzionarii rispose:

- Lo faremo in questura, dove abbiamo l’incarico di accompagnarli. Loro signori sono invitati dal questore per delle comunicazioni.

Carmenati: Allora vuol dire che siamo tutti in arresto.

Gislon: Non abbiamo quest’ordine, non credo ci sia probabilità d’arresto.

De Andreis: Come deputato protesto per la perquisizione e per la violazione di domicilio, senza mandato dell’autorità giudiziaria.

Suggellati i pacchi dei manoscritti sequestrati, il Prina invitò Chiesi, Federici, Cermenati, l’avvocato Valentini e Seneci ad andare con loro a S. Fedele.

Seneci, in pantofole, domandò il permesso di mettersi le scarpe.

- Faccia.

De Andreis: Vengo anch’io.

Prina: Scusi, onorevole, ma io non ho ordini che riguardino lei.

De Andreis: Io voglio andare dove vanno i miei amici.

Prina: Se crede, s’accomodi.

Cermenati: Se non siamo in arresto, noi non vogliamo essere accompagnati dagli agenti di P.S.

Il delegato Gislon li fece allontanare.

In via Soncino Merati, dinanzi l’entrata del Corriere della Sera, incontrammo Colautti. Il Chiesi, incrociando i polsi, gli fece segno che eravamo in arresto.

- Ci siamo!

Colautti rispose, con un gesto, che non poteva essere.

In S. Paolo, Seneci entrò dal tabaccaio a bere una bibita. Era stato in tipografia e nel locale di distribuzione tutto il giorno, e aveva sete. I funzionari non lo aspettarono neanche. Ci raggiunse correndo. Questo fatto ci lasciò credere che non eravamo in arresto. Che si tratti solo di dirci che la stampa subirà la censura preventiva da qualche impiegato di questura?

In questura ci si lasciò in un’anticamera.

- Aspettino; saranno ricevuti dal questore non appena sarà libero.

Aspettammo una buona mezz’ora, facendo mille supposizioni. Annoiati di essere trattenuti tanto tempo, incominciammo a mormorare. Ma dunque? Ci prendono per dei domestici, questi signori di questura! Facciano presto, ci dicano se siamo in arresto, se siamo liberi, e che cosa vogliono da noi. Entrò un impiegato ad invitarci di andare con lui.

- Tutti, meno l’onorevole De Andreis.

De Andreis non voleva saperne di aria libera. Si mise a protestare con parole vibrate e a dichiarare ch’egli sarebbe andato dove andavano i suoi amici. E tutti noi, compreso l’on. De Andreis, passammo in un’altra stanza, dove ci si trattenne un’altra buona mezz’ora.

Aspettavamo e parlavamo sottovoce. Perché in questa seconda anticamera eravamo tenuti d’occhio da un agente in borghese, seduto in mezzo a noi come un muto. Conversando, si almanaccava sul tempo che ci avrebbero fatto perdere. Federici manifestava la sua opinione che anche De Andreis sarebbe stato trattenuto.

Qualche altro pregava quest’ultimo a prendere l’uscio intanto che era libero.

- Libero ci potrai essere più utile che non chiuso in carcere con noi.

Fu testardo e rimase.

Alle sei e mezzo circa entrò un vecchio impiegato a dirci queste parole:

- Sono spiacente di comunicar loro che, essendo stato proclamato in questo momento lo stato d’assedio, loro signori sono tutti in arresto.

Ci fu un’irruzione di guardie in borghese le quali, senza tanti complimenti, ci presero per la manica. Protestammo e dicemmo che non era il modo di trattare persone che non volevano fuggire, e i delegati ordinarono agli agenti di lasciarci andare. Discendemmo ed entrammo nell’ufficio del delegato Eula, il quale, per essere sinceri, ci trattò con la massima gentilezza. Ci sequestrò carte e matite che avevamo nelle tasche. ci lasciò denari, orologi e anelli e ci fece firmare il verbale, porgendo ad ognuno la penna.

- Già che ci deve mandare in guardina, ci potrà mandare anche da mangiare.

- Senza dubbio.

E il delegato promise che ci avrebbe fatto portare qualcosa dall’Orologio.

- Devono avere un po’ di pazienza, perché in questo momento ho molte cose da fare.

Ci si chiuse nel camerotto riservato alle donne, il quale, secondo l’espressione dell’Eula, era «il meno peggio». Avevamo fame ma non aspettammo molto. Tre quarti d’ora dopo si spalancava l’uscio ed entravano roast-beef, un fiasco di vino, del formaggio, della frutta e delle sigarette.

Mangiando si chiacchierava e si rideva.

De Andreis era di opinione che avrebbero montata qualche macchina per tenerci in prigione.

Federici fumava disperatamente una sigaretta dopo l’altra per cambiare l’odore dell’ambiente.

Chiesi si contentò di dire che avrebbe pagato il conto.

Un po’ più tardi Seneci ci faceva sapere che non aveva mai dormito così bene.

- Vi raccomando di ravvolgervi la testa nel fazzoletto, se non volete che certe bestioline vi vadano nelle orecchie.

Cermenati si allungò sul tavolato con una frase tragica:

- Così giovane e già tanto galeotto!

Qualche minuto dopo, ricordandosi d’essere stato dilettante drammatico, si drizzò in piedi e si mise a declamare un po’ d’Amleto:

 

Potesse, oh! questa troppo salda carne

Che mi veste, scomporsi, andar diffusa,

Sfarsi come rugiada!

 

Il carceriere, lungo il corridoio, ci impose il silenzio.

- Signori, faccian silenzio!

Ci addormentammo.

Tra le dodici e mezzo e la una venimmo svegliati dal fracasso che si fece a schiudere l’uscio. Entrarono, tra la sorpresa generale, l’avvocato Carlo Romussi e il professore Emilio Girardi, accompagnati dalla guardia carceraria che portava la lanterna fumosa.

Romussi: Ho ottenuto il permesso di venirvi a trovare coll’amico Girardi. E giacché ci siamo, vogliamo tenervi compagnia fino a domattina.

Girardi andò sul tavolato con un: dio cane!

Seneci fece loro la raccomandazione del fazzoletto. Romussi ci raccontò che gli agenti erano andati al Secolo a perquisire la redazione, a far scomporre il giornale e ad arrestare tutti i redattori che vi si trovavano. Non vi hanno trovato che il direttore ed un redattore. Negli uffici vi erano parecchie persone, come l’Antongini e il Missori. Ma nessuno di loro venne arrestato. L’episodio storico dell’arresto del direttore del Secolo fu quello della sedia.

Romussi era al suo tavolo che scriveva non so più che cosa sulle ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei questurini in borghese, gli annunciò la perquisizione e credo anche la sospensione del giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di stampa e lasciò che l’uomo di questura andasse a mettere sottosopra il suo cassetto e a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro. Per la maledetta abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti, gli sequestrarono un numero infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano essere di Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di sequestro, Romussi e Girardi vennero invitati in questura. Romussi, prima d’andarsene, voleva scrivere due righe non so se alla moglie o ai colleghi. Prima di sedere buttò via la penna con la quale aveva scritto il delegato, diede un calcio alla sedia, sulla quale era stato seduto e ordinò al portiere di portarla via subito e di bruciarla.

- Portamene un’altra e dammi un’altra penna.

Alla mattina ci svegliammo con le ossa rotte. Avevamo sulla faccia il colore di una notte trambasciata. Ci eravamo coricati sul tavolazzo, vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte il sonno ci era stato interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci che si aprivano e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che pareva arrivassero ogni quarto d’ora, dai piedi che tumultuavano sotto il portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.

Verso le dieci antimeridiane il delegato Eula ci annunciò che era giunto l’ordine della traduzione al cellulare. Venimmo chiamati a due a due, e a due a due venimmo legati, polso a polso, con una catenella, da un maresciallo dei carabinieri alto e spalluto. Eravamo così appaiati: Valentini e Chiesi, Seneci e Federici, Cermenati e Romussi, De Andreis e Girardi. Uscimmo ed entrammo in una folla di circa ottanta arrestati.

Il balcone del palazzo di questura era gremito di altri monturati con alcuni borghesi. Non posso dire se vi era Bava Beccaris, perché non lo avevo mai visto neppure sulla fotografia. C’era certamente il questore. Un uomo magrettino c’ha ha l’aria di essere gobbo. I grandi gallonati parlavano tra loro e gli uni ci additavano agli altri col dito puntato verso noi.

Prima che il convoglio si mettesse in moto, il delegato Birondi disse a tutti:

- Non salutino alcuno e non parlino, perché ho ordini severissimi.

Eravamo tutti a piedi, circondati dai carabinieri e dai soldati di cavalleria col revolver in pugno. Qua e là c’erano parecchi questurini.

C’incamminammo verso le undici. L’itinerario fu questo: piazza S. Fedele, piazza della Scala, Santa Margherita, via Mercanti, via Dante, foro Bonaparte, S. Gerolamo, S. Vittore, via Filangieri.

Gustavo Chiesi abita in foro Bonaparte 93. I suoi vecchi genitori erano alla finestra che si asciugavano le lagrime col fazzoletto. Nessun altro incidente.

Sai come si è ricevuti al Cellulare.

De Andreis, il quale si sentiva male per il lungo digiuno, domandò subito da mangiare. Gli altri lo imitarono. Impolverati, sudati, passati traverso un’ora piena di pericoli, avevamo una sete da cani trafelati. L’Astengo, il direttore, ci fece portare dell’acqua con del fernet dal bettoliniere.

Ci si separò in tante celle e ci si riunì in un cellone a mangiare. Mangiammo del salame, della pasta al sugo, dell’arrosto e del formaggio e bevemmo del vino comune. Eravamo serviti da due scopini e sorvegliati da due guardie carcerarie. Terminato il pasto, venimmo visitati dal cappellano, accompagnato dal direttore. Subito dopo Federici, Cermenati, Seneci, Valentini e De Andreis vennero cellularizzati in infermeria. Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle separate al secondo raggio.

Il secondo giorno vedemmo arrivare in infermeria i deputati Turati e Bissolati.

Il resto ti è troppo noto perché io sciupi dell’inchiostro.


 




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