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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • NEQUIZIE REGOLAMENTARI
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NEQUIZIE REGOLAMENTARI

 

 

Gli entusiasmi per la quinta camerata non potevano durare a lungo. Chiudetemi in un salotto elegante con le inferriate a scacchi e il cancello di ferro, e vedrete che in pochi giorni i mobili mi diventeranno odiosi e l’ambiente senza uscita mi incendierà il cervello e mi ridurrà in un angolo a imbecillire nella mia impotenza.

Il silenzio è obbligatorio: disteso a caratteri neri sul fondo bianco della muraglia in faccia al cancello, diveniva, di ora in ora, odioso e intollerabile per dei giornalisti che avevano passata la vita tra il chiasso delle redazioni. Era una ingiunzione che ci riduceva a una ragazzaglia di casa di correzione.

Vivere con degli amici - e degli intellettuali come i miei compagni - è una vera consolazione e spesso anche un’istruzione. La loro parola vi va per le orecchie come una carezza, vi solleva lo spirito abbattuto, vi distrae e vi porta in mezzo ai ricordi tumultuosi della loro professione battagliera. Ma sempre, sempre, senza mai un minuto di isolamento, diventa, spesso, una pena e una tortura!

Vi fa male di vedere loro crescere lentamente le unghie sudice senza aver modo di offrir loro la limettina per tenerle regolate e pulite, e di assistere a tutto ciò che fuori di galera si fa nel bagno, alla latrina, nello spogliatoio e nella stanza da letto. E vi sentite desolati di udire la bestemmia di qualche vostro compagno che aveva l’abitudine di lavarsi i denti collo spazzolino.

 - Che male ci sarebbe - incominciava a dire qualcuno di noi - se la direzione mi permettesse uno spazzolino e della polvere e dell’acqua dentifricia?

- E che strappo si farebbe al regolamento se io, prete, continuassi a indossare quella divisa di sacerdote che io credo di non avere disonorata?

- Capisco la punizione.

- Io no, non la capisco. Se capisco qualche cosa è la mia separazione dalla società che posso avere offesa. La punizione che mi distrugge è un delitto. E lo griderò dai tetti, o meglio dal giornale, non appena al largo.

- Lasciami dire. Io posso capire la punizione. Ti va? Ma la raffinatezza di sopprimermi le sigarette se ho l’abitudine di fumare, di mandarmi a dormire all’ora delle galline invece di lasciarmi lavorare o studiare, di costringermi a stare sul saccone duro come una pietra per dieci o dodici ore, di non permettermi una locomozione che mi mantenga sano, di tenermi in piedi con una nutrizione che mi restituirà alla mia famiglia, e alla società, idiota e incapace di guadagnarmi l’esistenza?

- Taci! C’è raffinatezza più diabolica di quella di romperti violentemente la comunicazione epistolare con tutto il mondo che hai conosciuto, che conosci, che ti ama e continua a volerti bene, anche dopo la condanna dei tribunali di guerra? Raffinatezza più triste, più sciagurata di quella di impedirti di scrivere a tua moglie, a tua madre, ai tuoi figli, a coloro che ti amano e che ti piangono e che ti idolatrano, se non una volta ogni tre mesi, se sei alla reclusione, o una volta al mese, se sei alla detenzione? E anche questa lettera mensile e trimestrale non è un’altra tortura? Tu non puoi parlare, ti si dice, che dei tuoi interessi. Non è un interesse dire, per esempio, ai tuoi di casa di non addolorarsi perché ti si è mandato alla reclusione innocente? No, perché insulteresti la giustizia. Non è un interesse parlare di ciò che fai e di ciò che vedi, della tua salute, se stai bene o male? No, perché il condannato non deve parlare di quello che avviene nella casa di pena!

Più di una volta, io e don Davide abbiamo dovuto discendere in direzione a riprenderci la lettera coll’ordine di riscriverla senza qualche frase contraria al regolamento. Per due settimane ero stato malaccio. Mi sentivo debole e non sapevo più digerire la pagnotta e la pasta del penitenziario. Scrissi nella lettera della mia indisposizione, aggiungendo «che adesso stavo bene». Si poteva essere più modesti? La direzione trovò modo di farmela rifare.

- Non le pare, signor direttore, o signor capo, che questa sia una notizia di carattere intimo?

- No, perché il recluso non deve occuparsi di ciò che avviene nel reclusorio.

- Aguzzini! gridai mentalmente. Aguzzini!

E le lettere che ci pervenivano dal di fuori? Bastava un accenno alla vita pubblica, un alito dell’agitazione che si faceva a favore dei condannati, un’allusione a una prossima amnistia, una frase ministeriale, il pensiero di un deputato, l’opinione di un giornale, perché la mano della direzione corresse sul delitto con la penna carica di inchiostro a coprire tutto di nero. Ho veduto delle lettere piene di chiazze, piene di rigoni che sgrammaticavano la dicitura o sopprimevano le parole che potevano suscitare delle speranze o lasciar trapelare la commozione pubblica.

Qualche volta la mano diventava brutale e allora recideva il foglio alla testa o alle gambe o lo metteva spietatamente in un cassetto senza neanche dire crepa al numero di matricola al quale era indirizzato!

Una scena che avrebbe fatto piangere gli amici, se avessero potuto mettere l’occhio alla spia della nostra camerata, era quella dei pasti dei primi tempi. Gli abiti dei sette amici, che aspettavano il monosillabo della Cassazione per uscire o per indossare la casacca galeottesca, si erano consumati e malconciati. C’erano delle maniche sdrucite, dei calzoni sfilacciati agli orli, degli occhielli sfatti o che si sfacevano, delle ginocchia e dei gomiti lucidi o maculati di larghi oleosi e dei baveri sui quali si era andata accumulando la forfora di una cute che nessun parrucchiere spazzolava da un pezzo.

Don Davide pareva uno di quei preti descritti dal Porta. Colla veste piena di macchie, colle calze rotte, colle brache stralucide che perdevano, col nero, dei brandelli, e con la collarina inamidata da tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle trasudazioni del collo.

Abituati al tovagliolo e alla posata lucente sul candore diffuso per la tavola, la mobilia della nostra sala da pranzo si riduceva a una lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in tanto, gli insetti rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili di legno rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni dell’avvocato Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra e sedevamo quattro da una parte e tre dall’altra. Coi tozzi di pane sparsi qua e là lungo la panca, colla gamella fumante sul palmo della mano sinistra! e un moncone di cucchiaio di legno greggio col quale tentavamo di sbasoffiar via una pasta scondita o condita fino al disgusto, potevamo essere copiati per un mucchio di pitocchi di frateria che si scalda lo stomaco colla minestra del convento.

Ho parlato delle cimici, perché ne ho trovate dappertutto. Nei camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare di Milano, nelle stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell’esagono del secondo raggio. Io, De Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della giornata con lui. Nessuno di noi poteva adagiarsi sul suo letto a pagamento, senza che venissero alla superficie filate di queste schifose bestioline che fanno pancia col vostro sangue. Mi diceva Turati che di notte sciupava il tempo con questi puzzolentissimi insetti che non lo lasciavano dormire. Tre o quattro giorni prima che andasse alla reclusione, il direttore, impressionato dal suo tormento, gli fece imbiancare il cellone e passare alle fiamme il letto di ferro.

- Ne ho trovate, ci diceva lo scopino incaricato di farli morire col fuoco, a nidiate. Morivano mandando un’odore pestilenziale che mi dava le vertigini.

Un’ora dopo questo nettamento e questa pulitura, ne vedemmo tre che andavano via, pian piano, per il cuscino!

Nelle vecchie carceri di Genova non mi sono fermato che 15 ore. Se vi fossi rimasto di più, ne sarei uscito dissanguato. Venivano fuori a frotte.

Il soffitto ne era pieno e negli angoli delle pareti si potevano prendere a manate. Alla notte, per paura che mi andassero nelle orecchie, o su per il naso, o in bocca, fui costretto ad alzarmi. Il letto ne formicolava. Potevo coglierle a manate al buio. Sdraiato non mi lasciavano quieto. Le mie mani precipitavano sulle gambe, sul petto, e le rincorrevano per il corpo senza riuscire mai a liberarmene. Come erano spietate le cimici del carcere giudiziario di Genova! In questo carcere maledetto, non ebbi coraggio di mangiare, ma ebbi l’imprudenza di comandare un caffè. Ritirandolo dal buco dell’uscio me ne caddero tre nella chicchera e due nel piattino. Buttai via la bevanda dal disgusto.

Nello stanzone di Finalborgo formicolavano per i cornicioni, si sorprendevano sulle pareti, si trovavano in letto, nelle screpolature dei muri, nelle commessure delle finestre, e perfino nelle crepe del tavolo.

L’ambiente ha una grande influenza sugli individui. Anche l’uomo cresciuto nella reggia, nelle tombe penali diventa, a poco a poco, un porco. Dopo due o tre mesi non è più schifiltoso e non si meraviglia più di nulla. Si abitua a mangiare le cose meno mangiative o più repulsive con le mani, a pulirsi le dite nella giacca, a vedersi gli orli delle unghie calcate di sudicerie nere, a lavarsi maledettamente male in un cucchiaio d’acqua senza sentirsi invaso dal malessere, a considerare i pidocchi come amici di casa e a prendere delicatamente le cimici senza contorsioni e travolgimenti d’occhi.

Se volete convincervi che l’ambiente agisce potentemente sull’individuo, invitate un ex recluso a pranzo. Osservatelo attentamente quando mangia e lo sorprenderete più di una volta in flagrante violazione delle regole più comuni della persona allevata bene.


 




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