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Paolo Valera I Cannoni di bava Beccaris IntraText CT - Lettura del testo |
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ANNA KULISCIOFF
È una donna nuova. Imbevuta di idee proibite, uscì dalla società dello zar come una rivoltosa che non ha paura di stroncare i legami che la legano al mondo pieno di pregiudizi e di ingiustizie. Fortificata dall’esempio delle nichiliste delle classi superiori del suo tempo, le quali abbandonavano la casa patema come le mogli del teatro di Ibsen abbandonano la casa maritale, Anna Kuliscioff, consumato il periodo della propaganda pratica per la campagna russa, si avviò verso l’esilio, con l’anima piena di negazioni, con la fede nell’avvenire, determinata a compiere la sua evoluzione intellettuale in mezzo alla gente latina in lotta per la rigenerazione sociale. La Kuliscioff è stata la prima nichilista che ho conosciuto. Le venni presentato da Benoit Malon, a Lugano, quando il comunardo scriveva, se mi ricordo bene, la Revue Socialiste, l’organo massimo, in allora, delle alte intelligenze dell’ emigrazione rivoluzionaria. La Kuliscioff poteva essere intorno ai venti anni. Mi parve una vergine slava. Con una testa da madonna, con la carnagione bianca imporporata di salute, con le trecce lunghe, di un biondo luminoso, per le spalle, mi faceva pensare alle donne graziose dei preraffaelliti che in quei giorni ammiravo come uno narcotizzato dai loro colori. Malon parlava, e io mi perdevo negli occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore come una nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave - una voce che mi insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come si farebbe con una figura sulla tela. Seppi dopo molte cose di lei. Della sua agitazione, dei suoi studi, della sua prigionia, del suo sfratto dall’Italia, dei suoi amori, della Rivista Internazionale del Socialismo ch’essa pubblicava con Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni, della sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia crudele, ma non la vidi più che nel ‘95, cooperatrice e collaboratrice della Critica Sociale. Nel ‘78 il mio pensiero si genufletteva alla bellezza. Oggi, esso si inchina alla pensatrice. Migliaia di donne, in mezzo agli uragani della sua esistenza fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna Kuliscioff è sempre rimasta in faccia alle procelle come una sfida. Dagli avvenimenti che volevano inghiottirla, usciva sempre più forte, più saggia, più preparata a sgomberare la società del passato per far largo all’avvenire. Neppure la sua malattia implacabile seppe vincerla. Di tanto in tanto si diffonde, tra gli amici, una notizia funebre. La Kuliscioff sta male - la Kuliscioff ha poco da vivere - la Kuliscioff è in fine di vita. E poi non se ne sa più nulla. Non si parla più del suo male implacabile. La si rivede, con la sigaretta in bocca, al tavolino dell’amministrazione o della redazione a lavorare come una negra. Avveniva, su per giù, la stessa cosa con la Harriet Martineau - la grande giornalista inglese del tempo chartista. Questa collaboratrice del Daily News era così sicura di essere agli sgoccioli della vita, che in un momento disperato si mise a scrivere la propria autobiografia, incominciando dall’ultimo capitolo per paura di non finirla. La Martineau ebbe tempo di completarla e di lasciarla negli armadi dell’editore per venti anni. Per venti anni i suoi amici si aspettavano, ogni mattina, di leggere nei giornali la fine della giornalista che ha prodotto più di ogni altro uomo del suo tempo4. Nel ’98 è capitato alla Kuliscioff quello che un secolo prima era capitato a madame Roland. Di vedersi svegliata all’alba dagli agenti di pubblica sicurezza e di andarsene in prigione nella vestaglia. Nelle poche parole ch’essa pronunciò dinanzi il Tribunale militare è tutta la donna che ho presentato. Compendiano il suo cuore, la sua modestia e il suo carattere. Leggetele, vi troverete la indifferenza tragica per tutto ciò che riguarda l’imputata - la serenità della martire che crede, che persiste a credere, che crederà sempre che nel socialismo sia la rigenerazione sociale. «La mia azione nel partito socialista era molto limitata e molto modesta. Se verranno fuori dei fatti a mio carico io ne assumo fin d’ora la responsabilità. Io sono socialista da quasi 25 anni, ma in Italia non feci nessuna propaganda, sia per una certa delicatezza verso un paese presso il quale sono ospitata, sia per la paura di essere sfrattata. Io sono poi invalida da un anno, e sono obbligata a rimanere sempre in casa. In questa condizione come volete che io sia in caso di fare propaganda?» In letteratura io e la Kuliscioff siamo divisi da un abisso. Ella, se l’ho capita bene, sente ancora dell’affezione per la vita romanzesca intessuta dalla fantasia dell’autore e drappeggiata nella fraseologia che non lascia esalare i cattivi odori dell’ambiente. Io sono più rude. Spalanco tutte le porte, discendo in qualunque fogna e mi servo del linguaggio dei personaggi che riproduco. Il mio temperamento mi trascina ad essere sincero in ogni manifestazione della vita senza preoccuparmi se farò smettere di leggere o chiudere il libro anche agli amici che mi vogliono bene. La ragione di questo nostro dissenso letterario è che in fondo alla Kuliscioff è rimasto un po’ d’idealismo e un po’ di misticismo. Ella dà la preferenza al libro che lascia vivere qualche illusione e che non svergina o smaga brutalmente chi legge, e crede alla immortalità dell’anima. Non mi meraviglierei domani di saperla spiritista. Sul terreno delle questioni economiche essa torreggia. E il futuro storico del socialismo italiano lascerebbe un gran vuoto nel suo lavoro s’egli non ci dicesse l’influenza che questa donna ha esercitato sul movimento di quest’ultimi venti anni. Nel resto la Kuliscioff è donna capace di grandi amori e di odii inestinguibili5.
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4 Tra i tanti libri, ella è autrice della storia dei Trent’anni di pace. 5 Non conoscevo la lettera che la Kuliscioff scrisse in carcere. Ne taglio via due brani. perché documentano il mio profilo e ribadiscono in tutto la convinzione che la dottora congiunge a un’alta intelligenza un carattere adamantino. «Sentite, caro Prampolini: voi sapete che non sono ipocondriaca, che non sono portata all’esagerazione dei miei malanni fisici. anzi sono fatalista e piuttosto fiduciosa della mia resistenza. Ho tante volte visto vicina la morte e le ho sempre resistito: perché dovrei proprio morire in questi due anni? «Ma. dall’altro lato. sono osservatrice e sono medico. Vedo che i sintomi dell’idremia si aggravano: temo che il medico, per rassicurarmi, non mi dica tutta la verità, asserendo che non vi siano alterazioni renali. Caso mai, dunque, che il mio stato si aggravasse. lascio a voi, a Leonida la tutela della mia dignità. Vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si volesse fare per ottenere la mia libertà con una grazia personale o con un indulto speciale. Impedite a chicchessia, per amor di chicchessia, fosse anche mia figlia, che mi sia fatta un’offesa morale. Se dovessi conquistare la libertà a questo prezzo, sarei tanto avvilita, tanto diminuita, tanto degradata, che nulla mi sarebbe la libertà, l’affetto pei miei cari, l’affetto degli amici buoni. Questa, caro Prampolini, è l’unica preghiera che rivolgo agli amici. prima che si rinchiuda la nostra tomba». |
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