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Paolo Valera I Cannoni di bava Beccaris IntraText CT - Lettura del testo |
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GLI ULTIMI GIORNI DEI DEPUTATIE DEI GIORNALISTI AL CELLULARE
Turati, De Andreis, Romussi, Federici e Valera si sono riveduti, dopo tante noie, con dei baci, degli abbracci e delle strette di mano, nel cellone esagonale B, numero 2, del secondo raggio. Gli ultimi tre erano giunti dal reclusorio di Finalborgo e i due deputati erano ancora sbalorditi dai dodici anni di reclusione che aveva inflitto loro il Tribunale militare. La loro vita era piuttosto agitata. Si alzavano, alla mattina, mezz’ora prima dell’alba e ciascheduno nella propria cella, dopo il caffè, si metteva al lavoro. Turati aveva sempre un mucchio di lettere da scrivere e un numero infinito di Riviste da leggere; Romussi, il quale sdrucciolava dal letto sempre di buon umore, era sommerso nelle opere di Carlo Cattaneo; del quale stava facendo uno studio; De Andreis, l’uomo che non pensava mai alla condanna, aveva del lavoro fin sopra i capelli. Leggeva dei poeti inglesi, tedeschi e francesi - tre lingue ch’egli deve sapere benissimo -, studiava o piuttosto correggeva il suo latino con lo Schultz alla mano e dedicava parecchie ore a un lavoro di elettricità che deve avere veduto la luce prima che gli abbiano spalancate le porte del reclusorio di Alessandria. Federici si nutriva di storia e negli intervalli rileggeva l’opera massima di Giuseppe Ferrari, del quale è sempre stato ammiratore fervente. Valera studiava o fingeva di studiare il tedesco e passava attraverso la Social England di Traill - volumi che incominciano col Conquistatore e finiscono col regno della regina Vittoria, e dànno una pittura esatta della vita intima e pubblica di un popolo che non ha più freni né per la penna del giornale e del libro né per la lingua della piattaforma. Alle otto antimeridiane, si trovavano tutti nel raggio del passeggio - un raggio angustissimo - si davano il buon giorno, si dicevano se avevano dormito bene o male - la maggioranza pativa di insonnia - si comunicavano le notizie portate loro dalle ultime visite e dalle ultime lettere e poi incominciavano la conversazione, la quale era sempre interessante anche quando, per ridere, discutevano della possibilità di una evasione, citando quelle storiche di Napoleone III, di Rochefort, dei prigionieri politici della monarchia di luglio, di Krapotkine, di Bakunine, ecc., ecc. Ritornavano in cella a lavorare per un paio d’ore e poi, alle undici, ciascheduno usciva con la sedia, col tovagliolo, con la forchetta e col cucchiaio di legno e andava a far colazione nel cellone turatiano. La loro colazione alla forchetta era modestissima. Quando non ordinavano il risotto alla certosina o la polenta col fegato in comune, Romussi mangiava i tagliatelli al sugo e la costoletta coll’osso, Turati un piatto di carne e due uova strapazzate, De Andreis vi aggiungeva un po’ di gorgonzola, Federici faceva precedere al pollo o al fegato la zuppa alla pavese e Valera alternava le uova al tegame con la pasta al burro ben cotta. La discussione si animava bevendo qualche bicchiere di vino buono delle bottiglie che mandavano gli amici, mangiando dei dolci che inviavano la mamma di Turati, o la signora di Federici o di Romussi - e fumando le sigarette che trovavano un po’ dappertutto. Qualche volta capitavano loro, durante la giornata, dei cestelli di frutta fresca, dei panettoni che obbligavano De Andreis a mettere sul tavolo la bottiglia di barolo che Turati dimenticava nell’angolo. Il deputato di Milano non voleva mai bere. Egli diceva che gli astemi vivono più a lungo e sani come corni. Ma si insisteva e lui beveva, versandoselo in gola come una medicina che gli faceva stralunare gli occhi. Il discorso eterno era la Cassazione che li teneva sugli aghi. Ma facciano presto! Mandateci in galera, dicevano, ma, fate presto in nome di Dio! Nessuno si lasciava cullare dalla speranza che i magistrati dall’alto tribunale avrebbero accolto il ricorso. Tuttavia, quando andava Majno a trovare qualcuno di loro, rinasceva la discussione con un po’ di fede. - Me l’ha detto lui adesso! Egli si crede, legalmente, in una botte di ferro. - Volete che Majno non sappia quello che dice? De Andreis faceva il suo solito risolino e voltava le pagine del libro che aveva fra le mani. Per lui, erano chiacchiere inutili. E si metteva a sviluppare il suo programma di condannato a dodici anni con una indifferenza che faceva scappare la pazienza a Turati, il quale non voleva assolutamente diventare un eroe della casa di pena. Dodici anni sono lunghi, eterni, sono la vita di un uomo! È un errore, aggiungeva il Turati, credere che si possa lavorare serenamente in queste condizioni, quando si manca di tutto, quando si deve vivere in un buco ove si soffoca d’estate e si gela d’inverno, con venticinque centesimi al giorno! Romussi metteva sul tappeto la questione del viaggio. Egli, che si ricordava del vagone cellulare che lo aveva condotto a Finalborgo con degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il giorno della partenza con orrore. Gli rincresceva di lasciarsi chiudere in quella specie di cassa da morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non avrebbe ceduto! Se il Governo voleva disonorarsi, tanto peggio per lui. E andava sotto la finestra a dare delle puntate di scarpa nel muro. - No, no, e poi no! non mi lascerò commuovere dalle lagrime di mia moglie e di mia figlia. Non voglio andare nel vagone a mie spese per salvare Pelloux dall’infamia di trattare i giornalisti come delinquenti comuni! - Ci lasceremo tagliare i baffi e indossare l’abito del recluso? La Kuliscioff, che Turati vedeva spesso nella stanza dei colloqui speciali, era determinata a sostenere una battaglia in favore dell’abito del condannato politico. Essa aveva già detto al capoguardia che nessuna guardiana avrebbe osato metterle le mani addosso per farle indossare la veste abbominevole della reclusa. Federici non ne era molto interessato. Egli diceva che non si disonoravano i condannati politici indossando la toletta del condannato comune. Sono quelli che la impongono loro che si disonorano. La preoccupazione sua era piuttosto se si dovesse lasciare sola la Kuliscioff a sostenere la lotta per l’abito. Valera ricordava che anche i deputati irlandesi, ai tempi delle ultime leggi eccezionali, erano divisi su questa questione. Il più accanito fu O’ Brien - l’ex direttore dell’United Ireland. Egli la considerava una grande battaglia politica e la sostenne non lasciandosi svestire che dopo lotte disperate tra lui e gli aguzzini di Kilmainham - prigione di Dublino. Ci vollero otto carcerieri a strappargli la giacca ed il panciotto. E i calzoni, otto giorni. Egli stette otto giorni in cella, in camicia, senza coperta e senza pagliericcio d’inverno, a costo di crepare di freddo e di starnuti. Ma poi ha dovuto finire per lasciarsi vestire come gli altri. Mandéville, il quale ha voluto imitarlo, è uscito sconquassato dai pugni ed è morto. E gli altri deputati - Hooper, Sheehy e Carew - che non hanno resistito come O’ Brien, dopo il pugilato in carcere, non sono stati più loro. Anche al Parlamento non si son fatti più sentire che come votanti. L’amico Michele Davitt, che è ora alla Camera dei Comuni ed è stato alla servitù penale, come feniano, per sette anni, non dava alcuna importanza agli sforzi di O’ Brien. Mi raccontava che era del tempo sciupato. L’Irlanda aveva altro da fare che occuparsi dei calzoni di O’ Brien! A mano a mano che si avvicinavano alla decisione della Cassazione, i colloqui si succedevano ai colloqui in un modo straordinario. Erano parenti, amici, compagni di lavoro che andavano al Cellulare come in processione. Pei condannati, era uno strazio. Passavano da un abbraccio all’altro commossi della commozione altrui. Toccava ai condannati far coraggio ai visitatori! Il Turati risaliva qualche volta sfatto. - È un supplizio. A momenti, mi facevano piangere! Romussi, più di una volta, entrava nel cellone colle lagrime negli occhi. Federici rientrava e si metteva a passeggiare colle mani imbracciate. De Andreis invece si toglieva la giacca - lui non stava mai che in maniche di camicia - la metteva con cura sul letto di Turati, accendeva una sigaretta e ricominciava a mandare a memoria delle declinazioni latine! Il giorno in cui si seppe l’esito della Cassazione mangiarono con maggior appetito senza punto discuterlo. Lo sapevano anche prima. Il ricorso per loro non era stato che un modo per guadagnar tempo e per aderire alla volontà dei parenti e degli amici che volevano che si andasse fino in fondo. Il dolore comune erano le centocinquanta lire! - Queste sì, disse De Andreis, che sono state sciupate! - Rubate! dicevo io. Dopo la parola della Cassazione fu davvero una pena. Nessuno era riuscito a dir loro il giorno della partenza e ogni sera si separavano coll’ambascia di non rivedersi più per del tempo. - Ci manderanno assieme? Turati aveva una pallida speranza di rimanere al Cellulare con la compagna della sua vita o di andare a Pallanza, dove la sua buona mamma avrebbe potuto andarlo a vedere di tanto in tanto senza fare un lungo viaggio. Romussi aveva paura di ritornare a Finalborgo, un luogo maledettamente umido, lontano da Milano, ove gli sarebbero ritornati i dolori artritici. Federici era considerato il fortunato dei fortunati. Lui aveva già scontato quattro mesi dei dodici che gli avevano appioppati e lo avrebbero lasciato a Milano, senza dubbio, a far compagnia al Maffi, il quale era entrato a fare il sesto nel cellone da pochi giorni. Forse non lo si sarebbe neppure galeottizzato. - Te fortunato! gli dicevano. Di giorno in giorno, ne passarono dodici. Dodici giorni di ansie crudeli. Facevano il pacco alla sera, dopo essersi salutati con un abbraccio fraterno, e lo sfacevano alla mattina, ricominciando il lavoro di suggestionarsi l’un l’altro. L’ultima sera, disperati di non partire mai e determinati a non pensare più alla partenza, si proposero di mangiare tutti assieme il pollo alla cacciatora. - Allora, disse Romussi, vedrete che ci manderanno via. Il pollo alla cacciatora è sempre stato l’ordine di partenza. In Castello abbiamo ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno fatto partire prima di mangiarlo. Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno rinviati a Milano. Alle due e mezzo della notte del 4 settembre il capoguardia andò nelle celle dei condannati politici a dir loro di alzarsi in fretta che si doveva partire. Alle tre si trovavano nell’ottagono Romussi, De Andreis, Federici e Valera. La cella di Turati era illuminata. Vennero ammanettati e cellularizzati nell’omnibus che li aspettava. Alla stazione centrale si fecero prima uscire De Andreis e Romussi. Quando discesero dal predellino della vettura Valera e Federici, gli altri due erano scomparsi. Turati lo si fece partire per Pallanza mezz’ora dopo, in un omnibus piccolo, che lo aspettava nello stesso cortile. Egli si era portato via il materiale per scrivere un libro sul socialismo italiano. Ma poi, ricordatosi della sua idea fissa, che in galera non si scrive, smise l’idea per rimpinzarsi di libri.
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