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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • LA «COLOMBA» E IL LINGUAGGIO DEI DETENUTI
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LA «COLOMBA»

E IL LINGUAGGIO DEI DETENUTI

 

 

 

La «colomba» e il linguaggio dei detenuti non si possono capire bene che dopo sei mesi di cella in una casa di pena o in un carcere giudiziario, dove la voce degli inquilini è perseguitata dalle punizioni che macerano lo stomaco e riducono in una tana sotterranea come tanti animali.

Una volta che siete passati attraverso questo periodo di segregazione completa, con le guardie di custodia quasi sempre in agguato per sorprendervi in flagrante violazione del regolamento, voi entrate nel periodo di adattamento e incominciate a imparare tutte le astuzie che vi aiutano a modificare la disciplina antisociale che impera nell’ambiente dei reclusi.

La preparazione alla vita carceraria, nell’isolamento senza interruzione, vi ha resi più sensibili.

La caduta di un fazzoletto vi fa trasalire come il chiavone che entri nella toppa. Ci sono momenti in cui vi pare di poter sentire le pulsazioni del cuore degli individui che abitano ai fianchi della vostra abitazione. L’udito vi si raffina in un modo che nessuna zampa di gatto può avvicinarsi all’uscio a vostra insaputa. A furia di ascoltare le pedate dell’individuo che vi passeggia sulla testa, siete in grado di distinguere il suo stato d’animo, di indovinare quando il suo pensiero è tranquillo o rassegnato o quand’esso è sottosopra o imperversa per il suo cervello come una tempesta.

Un addio sommesso, uscito da una di quelle buche che chiamano finestre, vi giunge all’orecchio con tutti i larghi della voce squillante e sonora. L’alito diventa, per il recluso, un suono; che va giù a remigarvi nell’anima come un notturno tenero ed elegiaco di Chopin.

Dotati di questa percezione, voi sentite nell’aria la voce di un sepolto come un’armonia lamentosa uscita da un organo toccato da una mano raffinata. È lui che chiama in aiuto la vostra «colomba», perché ha bisogno di sapere o di comunicarvi una notizia, perché i crampi del suo stomaco lo obbligano a cercarvi un tozzo della vostra pagnotta, perché ha una voglia matta di accendere la pipa o il sigaro, o perché desidera farvi leggere un giornale che gli è riuscito di avere per la via della via.

La «colomba» è una funicella o un attorcigliamento di stracci, di striscie di fazzoletti o di camicie, o di liste di lana o di panno sfilacciate. Tutto è buono, purché si riesca a mettere assieme una specie di corda lunga tre piani di Cellulare. Per coloro che sono condannati in un carcere giudiziario e quindi senza biancheria propria, la «colomba» diventa un problema che non può sciogliere che la pazienza o qualche detenuto sotto processo capace di regalarvi il materiale per farla.

Con la pazienza potete rarefare il tessuto della coperta - del letto, del pagliericcio, dell’asciugamano, del fazzoletto e magari degli abiti che indossate.

Una volta che siete padroni di una «colomba», voi potete mettervi tra i prigionieri, diremo così, agiati. Voi possedete un tesoro che vi permette di comunicare con tutte le finestre della facciata dell’edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi congiunti col vostro.

Mi spiego con un esempio.

Supponete che io occupi una cella al primo piano di un ambiente di cento finestre. Le finestre sentono dell’aguzzino. Vedute all’esterno, sembrano grandi buche da lettere incorniciate in un rialzo di granito. All’interno, spaventano il novizio. Hanno l’inferriata staccata dal pietrone che si protende in fuori e impedisce di vedere le altre finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.

Io ho un solfanello e tutti gli altri miei colleghi della mala vita vogliono fumare. Il solfanello del buon prigioniero deve sempre essere di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio frequentatore di carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella pelle, lo apro in quattro.

Metto i tre quarti nel ripostiglio più recondito della cella, e mi servo dell’altro per accendere un po’ di lisca ravvolta in un mucchietto di filacce per impedirgli di divampare. Con poco solfo sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell’esperienza dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo sfregamento senza prima avere strofinato ben bene un bottone di metallo o un chiodo delle scarpe o un legno qualunque.

Sfregando leggermente sulla parte calda o infocata voi potete scommettere che farete pipare tutti.

I miei amici del Cellulare sono tutti pronti e non aspettano che il segnale, che può essere uno starnuto, o un colpo di tosse, o anche una battuta di mano.

Accendo il mio virginia, tossisco, metto fuori dalla finestra la scopetta e aspetto la fune dalla finestra del terzo piano perpendicolare alla mia.

Tutto ciò avviene in un modo rapidissimo. Alla estremità della «colomba» è un peso o un sasso nel sacchetto o nel mucchietto di cenci. Lo tiro a me con la scopetta, vi lego il sacchetto con la lisca che fumacchia internamente adagio adagio, sale, si ferma alla seconda finestra ove è atteso, riprende la via e scompare nella cella di colui che mi ha lasciato giù la fune.

Costui se ne serve e poi getta il sacchetto attaccato alla fune sulla scopetta della cella a fianco.

È questo il movimento più difficile della «colomba» ..Ma la mano abituata vi riesce al primo colpo.

Il compagno che l’ha presa ne stacca il sacchetto dalla funicella che viene ritirata, lo appende alla sua «colomba», se ne serve e lo lascia cadere dalla prima alla seconda finestra, ove sosta come accenditoio e riprende la  discesa  per  fermarsi alla  terza finestra  dove avviene la stessa  operazione di  staccarlo  da una «colomba» per attaccarlo a un’altra e gettarlo sullo scopino della finestra a fianco.

Mi sono servito dell’esempio più difficile. Gli esempi facili sono con le finestre sopra o sotto o a fianco  della  mia.  Se non ci sono  le piantelle  (guardie) nel cortile  che adocchiano,  io sono  sicuro, con la «colomba», di soccorrere e di poter essere soccorso.

Il linguaggio dei detenuti è di una semplicità alfabetica. Lo si impara in mezzo minuto. Ma non si può servirsene che dopo avere esercitato i pugni sulla parete per dei mesi.

Le lettere dell’alfabeto del prigioniero sono ventuno e ciascuna di esse corrisponde a un numero:

 

a  b  c  d  e  f  g  h  i   l   m  n   o

1  2  3  4 5  6  7  8 9 10 11 12 13

p   q    r   s    t   u   v   z.

14 15 16 17 18 19 20 21.

 

Io e un altro siamo in due celle divise da un muro. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo mai. Ma l’uno desidera di sapere chi è l’altro e tutt’e due vogliamo narrarci la storia dei nostri delitti.

Se io batto undici volte, voi avrete capito che ho battuto una m, mentre se non do che tre colpi avrò segnato il c.

Sono io che invito il compagno dell’altra cella a fare conoscenza o a parlare con me.

Incomincio con una sfuriata di pugni che pare traduca dell’allegria.

Egli mi risponde con altrettante battute precipitate che rappresentano il saluto.

Lo interrogo con due colpi secchi e serrati che vogliono dire: sei pronto?

Egli mi risponde con due battute l’una dietro l’altra che equivalgono a «sono pronto, parla».

Supponete ch’io voglia domandargli: - Chi sei?

Batto prima tre colpi, poi otto, poi nove, poi diciassette, poi cinque, poi nove. Tra una lettera e l’altra c’è una pausa per dar tempo al mio compagno di battere due colpi e farmi sapere che ha capito.

In meno di dieci minuti io, colla rapidità delle battute, posso fargli sapere chi sono, che cosa ho fatto, quante volte sono stato condannato, se ho l’amante, se sono ammogliato, quando finirà la mia sentenza e in che modo uscirò senza finirla.

La conversazione termina sempre con una sfuriata di battute da una parte e dall’altra, come uno scambio di saluti.

Mi sono spiegato?

Di sera, verso l’ora della campana, le muraglie delle celle diventano i nostri pianoforti. I nostri pugni sprigionano fughe commosse, preludii che vanno nel sangue come tessuti di tenerezza, arie, duetti, finali che si diffondono nella grandiosità dell’ombra, come una fusione di poesia e di musica.


 




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