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Paolo Valera
I Cannoni di bava Beccaris

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  • PARTE SECONDA
    • CARLO ROMUSSI
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CARLO ROMUSSI

 

 

 

Non si sa se la sua mano e la sua testa c’entrino per qualche cosa nella sua sempiterna attività prodigiosa. Si sa ch’egli è una macchinetta automobile che riempie un foglio dopo l’altro tutte le volte che c’è da scrivere. Al suo tavolo di redazione voi vedete sempre proti e compositori che aspettano originali.

Supponete ch’egli stia scrivendo un articolo sulla esposizione artistica. Gli si dice che mancano ancora due pagine a compilare il numero unico per i bagni. Consegna il manoscritto sull’arte, corre difilato alla stazione balneare senza rivedere lo stampone per riattaccare il filo interrotto e pochi minuti dopo riprende l’opuscolo sui doveri dei cittadini ch’egli deve finire per domani, o la prefazione agli scritti di Carlo Cattaneo che ha promesso fino da ieri l’altro.

Intanto che scrive, passa e ripassa dinanzi il suo tavolo la popolazione che lavora intorno al giornale e alla casa editoriale. Impiegati, fattorini, portieri, telegrafiste, traduttori, personaggi d’amministrazione. Lo si interroga, lo si interrompe, gli si annunciano visite, gli si rammentano nomi o fatti. Ci sono persone che hanno bisogno di vedere il signor direttore, amici che vanno a trovare Romussi, zuppificatori che vogliono infliggergli certe idee su date questioni, veterani del partito che salgono per stringergli la mano e interessarsi della sua salute o della salute della sua signora, archeologi che seggono sulla scranna che trovano per conversare e buttargli, tra un periodo e l’altro, un monumento storico che è stato scoperto, o che si minaccia di demolire o che stanno illustrando. Nel momento in cui si crede stia per incominciare la quiete, entra un filantropo a squadernargli un progetto che deve commuovere e vuotare le tasche ai cittadini, o un segretario di qualche circolo o di qualche associazione operaia che vuole assolutamente ch’egli tenga una conferenza sul risorgimento del Comune o sulla battaglia di Legnano, o un disgraziato che è ansioso di leggere stampato il manoscritto che gli ha portato da tante settimane.

- E questo mio articolo, signor Romussi!

- È sul «bancone». C’è tanta materia da perdere la testa. Ecco, veda, buttiamo via dei telegrammi per mancanza di spazio.

- Il signor Edoardo Sonzogno lo chiama dabbasso.

Butta lì la penna, passa dagli usci come una folata di vento che schiuda e chiuda fracassosamente, ritorna di sopra stropicciandosi le mani o rosso fino alle tempie, e ricomincia l’articolo su Crispi, parlando tra lui e il manoscritto, come se stesse dettandolo, spesso posando la voce più fortemente su una sillaba che su l’altra.

- L’onorevole Crispi è una vera sfortuna per l’Italia.

Questa vita quotidiana, capace di ammazzare due o tre uomini, è per lui un passatempo. Il lavoro ponderoso, quello nel quale è necessario ch’egli metta i suoi studi e la sua intelligenza, lo fa a casa, mentre altri dormono o si divertono. Dalle sei alle dieci del mattino o per parecchie ore del pomeriggio, egli non si occupa che di archeologia, di storia, di letteratura: Scrive: Milano nei suoi monumenti, Milano che sfugge, Petrarca a Milano, uno studio sul Trionfo della libertà di Manzoni, Sant’Ambrogio o mette assieme un volume di poesie dialettali e italiane che la musa satirica e bernesca produsse prima e durante le barricate del 1848, eccetera, eccetera, eccetera, eccetera, eccetera.

Se sono bene informato, egli è al Secolo da ventinove o trent’anni. Vi è entrato in un modo curioso. Moneta era alla ricerca di un redattore che avesse delle qualità giornalistiche e una coltura che andasse al di là di quella dei soliti giornalisti improvvisati. Un giorno trovò per la strada Leopoldo Marenco, il romantico del palcoscenico d’allora.

- Senta, professore, non saprebbe mica aiutarmi a scovare un giovane che abbia imparato qualche cosa e facilità di scrivere?

Il professore di letteratura si passò la mano sulla fronte.

- Eh, proprio, è difficile. Ne ho conosciuto uno, quello sì... Era un diavolo che sapeva scrivere drammi, novelle, brani di storia, biografie... La sua penna andava come il vento.

- Se è morto non parliamone.

- È vivo. Ma non so dove sia andato a finire. Aspetti, deve essere a Pavia. Credo che studii legge. Certamente non vorrà smettere per fare il giornalista.

In allora, per spiegare la frase dell’autore della Celeste, non erano che gli scapigliati che si compiacessero di prendere delle sbornie coll’inchiostro di redazione. Erano giovani pieni di coraggio e anche d’ingegno o degli studiosi che volevano farsi largo, ma irregolari nella vita e nel lavoro. Nessun direttore poteva contare sul loro articolo pel numero di domani. Gli editori pagavano poco o niente e i giornalisti di professione, come è naturale, non esistevano. Non esisteva che la bohême chiassosa, buontempona, nottivaga, capace di annunciare in prima colonna e in corpo dieci che i redattori avevano orgiato e non potevano quindi scrivere l’articolo di fondo o l’appendice drammatica!

Un anno dopo, Moneta rivide il padre del Falconiere e lo pregò di procurargli un giovanotto che avesse la stoffa del giornalista.

- Fra i miei scolari passati e presenti non ne conosco uno. Non potrei suggerirle che quello dell’anno scorso. Quello là ha tutte le attitudini per uno scrittore di giornale. Ha una penna pronta, sollecita, che si piega a tutte le movenze di uno stile facile. Ha letto molto. È una biblioteca ambulante.

- Me lo mandi, dunque!

- Vedrò di cercarne l’indirizzo.

Un giorno, in cui il pensiero di Moneta era lontano le mille miglia dal redattore che gli doveva mandare il Marenco, si sentì annunciare il dottor Carlo Romussi.

- Passi.

Fisicamente non gli fece una grande impressione. Non gli si era presentato che un omino il quale non lasciava supporre in sè tanta resistenza al lavoro. In due parole s’intesero. Il Romussi faceva pratica d’avvocato ed accettava volentieri di passare a teatro le serate come critico d’arte. Moneta voleva qualcosa di più di un critico d’arte, ma per il momento si accontentava.

È inutile ch’io dica dei suoi ideali drammatici. Tutti sanno che il Romussi in arte e in letteratura non è stato figlio del suo tempo. Egli è entrato nel giornalismo come un vecchio che sente e difende le glorie virtuose del passato. Assoluto come tutti quelli che credono di avere il monopolio della verità, ha sempre dato addosso o ignorato la gioventù che ha portato sul palcoscenico e nel romanzo o sulla tela o nel marmo la vita con le sue grandezze e coi suoi orrori. Zola fu uno dei suoi boicottati fin a ier l’altro. La Duse, per lui, è rimasta un’artistaccia di provincia. Ibsen non gli uscirà mai dalla penna che come un degenerato del teatro.

La fortuna del Secolo data dalla guerra franco-germanica. Il Moneta simpatizzava per la Francia antimperiale e la tiratura salì vertiginosamente dalle otto alle venticinque mila. Era un trionfo giornalistico che bisognava conservare migliorando il servizio. E Moneta assunse, come cronista a ottanta lire il mese, l’avvocato Carlo Romussi.

Il suo primo articolo fece scalpore. Gli altri giornali avevano narrato il giorno antecedente un grave scandalo contro un patrizio milanese. Moneta, giudizioso e temperato, non volle lasciar correre la notizia se non dopo essersi informato personalmente che esisteva una querela e che c’erano i genitori i quali affermavano che la loro figlia minorenne era stata deflorata da un duca. Romussi non fu che l’esecutore. Avuto l’incarico dalla direzione, si mise al tavolino a fianco della vecchia scrivania del direttore e scrisse più di una colonna colorita, spigliata, nervosa, paragonando il violatore di fanciulle al Borgia crapulone. Venuta la minaccia di una querela per diffamazione, e sinceratisi, con le visite mediche, che la ragazza era virgo intacta, il Secolo trangugiò uno di quei rospi vivi che non lasciano sopravvivere che la buona fede del giornale.

La cronaca composta di note aride e di fatterelli che facevano sbadigliare, divenne, nelle mani del Romussi, una rubrica importantissima. A poco a poco del Broglio del Pungolo - il quale passava per il cronista sommo della Risottopoli per le sue noterelle patrie e per avere introdotto, tra i fatti cittadini, le notizie che la questura comunicava a lui solo - non rimase più nulla. La cronaca si era elevata, Romussi l’aveva intellettualizzata, allungata, drammatizzata e resa indispensabile. Con lui i pennivendoli più sfacciati della cronaca cittadina sono stati obbligati a divenire più prudenti o a frenare la loro ingordigia.

Egli è ora direttore del Secolo, di quasi cento mila copie, ma io, a costo di farmi lapidare, persisto a credere che sia in lui più l’uomo di lettere che il giornalista. Chi ha letto i suoi lavori e specialmente Milano nei suoi monumenti - un’opera che quando sarà terminata rappresenterà la sua gloria - non può venire che a questa conclusione. Egli è un illustratore passionato. Charles Dickens è stato il primo direttore del Daily-News a due mila ghinee l’anno. Ma anche i suoi più grandi ammiratori hanno dovuto convenire che la sua tendenza era verso l’immortale Pickwick. Romussi è sempre pronto a buttar giù, lì per lì, qualunque soggetto. Ma il giornalismo moderno non si contenta della vitesse della penna. Esso esige tutta l’attività di un uomo anche se quest’uomo non scrive mai un articolo. I più grandi direttori dei più grandi giornali del mondo scrivono pochissimo. John Dilane, l’autore, si può dire, del Times dei nostri giorni, non fu mai a writer. Non scrisse che qualche articolo tra un anno e l’altro. Ma i suoi biografi sono concordi nel dire che egli era il Times.

Carlo Romussi è pieno di cuore, ha ridondanza di affetti ed è un amico, se vi dà veramente la sua amicizia, prezioso. Egli è capace di dedicarvi l’esistenza. La sua intimità con Cavallotti, la sua affezione per Cavallotti, la sua idolatria per Cavallotti sono cose di ieri. Nessuna donna ha amato il poeta anticesareo coi trasporti del direttore del Secolo. Per degli anni egli non ha veduto che cogli occhi di lui, non ha palpitato che col cuore di lui e non ha avventato un’idea politica che non fosse un idea cavallottiana. Ed è stato un errore. La devozione di Pilorge per Chateaubriand mi commuove. L’uomo privato può darsi il lusso dell’adorazione. L’uomo pubblico, il direttore di un giornale, non può sposare un uomo con le sue virtù, con i suoi difetti, con le sue aspirazioni, con le sue beghe personali. L’uomo è un individuo, il giornale è una istituzione, è un veicolo che deve andare in casa di tutti come un informatore. Cavallotti può odiare il socialismo e i socialisti fin che gli pare e piace. Il Secolo non può, non deve seguirlo. E con Romussi, ipnotizzato da Cavallotti, il Secolo ha ignorato per degli anni il socialismo e i socialisti. Non ne ha più parlato. Per lui non esistevano o non erano mai esistiti o erano morti. Boicottare un partito per delle bizze personali vuol dire rendere un cattivo servizio ai lettori che pagano per essere informati di tutti gli avvenimenti e alla amministrazione che pubblica il giornale per arricchire il suo editore o dare grossi dividendi agli azionisti. Boicottate un uomo pubblico o un partito o una notizia e voi sopprimerete dei lettori. Il giornale, che non è superiore ai rancori personali, che non sa essere imparziale cogli amici e coi nemici, che ha delle antipatie e delle simpatie, che omette questo fatto ed esclude quest’altro, perde il diritto a questo nome. Diventa l’organo di Tizio o di Caio, ma non è più un giornale nel significato professionale.

Carlo Romussi è nato a Milano il 10 dicembre 1847.


 




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