XI
Nel Palazzo
Visconti.
Giordano
Mari e Carlo Borghetti si avviano insieme da casa Dionisy verso il
corso Venezia. Carlo Borghetti, rasentando, a volte sfiorando il
muro: Giordano Mari, camminando diritto, sicuro, il soprabito sul
braccio, adocchiando il compagno.
Giordano
Mari (respirando
a pieni polmoni)
Ah! Si rivive! In quelle sale, in quella luce, in quella folla c’era
da soffocare.
Borghetti.
Già, molto caldo; troppo caldo. (si
lascia cader la testa di colpo sul petto).
Giordano
Mari (osservandolo
ancora, poi con un tono di maggior intimità).
Dove state di casa?... Molto lontano?
Borghetti
(dopo
un momento, come risvegliandosi)
In via Monforte. In fondo a via Monforte.
Giordano
Mari. Se mi
permettete, vi accompagno. Immagino che non vorrete passare dal club.
Abbiamo fatto troppo tardi.
Borghetti
(ripete
cupo)
Già, abbiamo fatto troppo tardi.
E
continuano a camminare l’uno a fianco dell’altro.
Giordano Mari, diritto, con la testa alta, sporgendo all’aria
il largo petto dallo sparato bianco; il Borghetti, curvo, col capo
chino, mezzo sprofondato nel bavero del pipistrello. Sempre
senza parlare, arrivano in capo a via Monte Napoleone, attraversano
il Corso, si innoltrano nella lunga via Monforte, deserta e buia.
Dopo
che Giordano Mari ha dato un’altra occhiata a Carlo Borghetti:
— Dite
la verità: vi sentite poco bene?
— Già;
oggi ho preso molto sole. A pranzo avevo sete; anche stasera bruciavo
dalla sete. Ho bevuto e non ci sono avvezzo; mi avrà fatto
male.
— Certo;
vi ha fatto male. Volete appoggiarvi al mio braccio?
— No!...
Grazie. No.
Carlo
Borghetti, istintivamente, si tira più vicino al muro. In quel
suo stordimento, in quel suo istupidimento, con un ronzio crescente
che gli gira nel capo e gli introna gli orecchi, egli si sente
addosso come un peso, una sofferenza, come un’infinita, come la
peggiore sofferenza, la compagnia, la vicinanza, la vista, l’ombra
di quell’uomo; certe volte, passando sotto ai fanali, vede
quell’ombra distendersi, allungarsi smisuratamente sul
marciapiede. Quell’uomo... maledetto quell’uomo!...
Maledetto il giorno che è capitato a Milano! È
l’amante, è il padrone di Emma: Emma è cosa sua.
Essa gli appartiene già coll’anima; essa lo ama, ne è
innamorata!... Quell’uomo così alto, così forte,
prepotente, brutale, non ha che a dire una parola: comandare, volere,
ed Emma è cosa sua! Egli lo odia, sente di odiarlo per questo
suo fascino, per questo suo potere misterioso — una malìa
forse — lo odia, e lo teme: lo teme per Emma. Povera Emma!
Chissa?... — Lo odia, eppure si sente costretto a chinare il
capo dinanzi a lui, e dinanzi alla sua volontà, alla sua
forza, al suo ardimento e alla sua fortuna. Lo odia, lo teme, e in
fondo al cuore lo invidia e lo ammira. — Così presto!
Appena veduto, e l’ha subito innamorata, stregata, presa! Come
ha fatto? Come c’è riuscito? — Emma!... Emma!...
Emma! — grida, spasima il suo cuore! Oh, ma è inutile
chiamarla! Emma non ascolta, non sente, non obbedisce alla sua voce,
alle sue lacrime! Se invece quell’uomo lì, che
cammina al suo fianco, superbo, sfacciato, quel «gigante»
l’avesse chiamata colla sua voce forte di comando, oh, con lui
docile, ubbidiente, sarebbe corsa, si sarebbe precipitata di volo,
fremente e palpitante, a buttarsi nelle sue braccia; forse alle sue
ginocchia, perchè ha visto, ha letto in que’ suoi occhi
sfolgoranti: essa lo adora!... Ma lui, Carlo, Carlo detto il
lunatico, lui non si è mai fatto ascoltare, non è
mai riuscito a parlare al cuore di lei.
E
ricorda il colloquio di quella sera, lo stupore, le parole di Emma.
«Mi volevi bene?... Tu?... Tu?... A me?» Sì, sì,
si! Egli non ha mai osato, egli non ha mai saputo parlare, è
stato troppo debole, timido, vigliacco! Sono anni ed anni, sono
dieci, venti, trent’anni, è tutta la vita ch’egli
l’ama, ch’egli soffre per lei, che smania per lei, che
pensa, studia, lavora, si strugge, tutto per lei, e lei, nemmeno, se
n’è accorta!... Quello lì, il «gigante»,
l’ha vista un momento: ha subito parlato: ed Emma è sua.
— In quanto tempo? Ci ha messo un giorno? Un’ora?...
Nemmeno!... Un minuto, una parola sola. — Ti voglio! —
Eccomi! — E tutto è finito! Tutto è finito!
tutto! tutto! tutto! Perchè ormai... ormai è già
come fosse sua, cosa sua, sua moglie! — Venceslao?... Avrebbe
detto di no — pianino, per non guastarsi la voce, per
ventiquattr’ore; poi avrebbe pensato ad un gran concerto per la
sera della scritta. La signora Letizia? — sospiri, gemiti, e
noce vomica, per non guastarsi lo stomaco e la carnagione. E così
Emma, povera Emma, così buona e così bella, bella,
tanto bella, è in piena balìa di quel «gigante»,
di quello sconosciuto. È lui, adesso, il padrone, il solo
padrone — padrone anche di non lasciargliela più vedere!
E, forse, non è meglio? — Non sarebbe stato meglio non
vederla più, mai più, quella leggera, vana, civetta,
falsa?
Giordano
Mari (toccandogli
leggermente il braccio)
Volete darmi la chiave? Aprirò io.
Carlo
Borghetti guarda, trasognato, Giordano Mari, si guarda attorno, poi
si ricorda; cerca nel taschino della sottoveste, gli dà il
mazzetto delle chiavi. Sono giunti sulla soglia di casa sua, senza
che egli se ne sia accorto.
Giordano
Mari prova una piccola chiave: la porta si apre: entrano.
Giordano
Mari (accendendo
un cerino)
Il servitore non c’e?
Carlo
Borghetti. È
a letto; sempre a letto.
Giordano
Mari (indicando
una bugìa, sopra un palchettino, accanto alla bussola del
portinaio).
È questo il vostro lume?
Carlo
Borghetti.
Sì... questo (sempre
con un tono profondo, doloroso)
Questa. candela... è la mia.
Giordano
Mari accende il mozzicone, poi, col palmo della mano riflettendo
innanzi a sè il chiaror della fiamma, si guarda attorno, sotto
l’ampio vestibolo. Indicando a Carlo Borghetti l’invetriata
dello scalone
— Per
di là?
— Sì.
Per di là.
L’ampio
e maestoso scalone, le invetriate, i tappeti, i fiori, gli stemmi,
tutta quella grandezza e tutto quel lusso del vecchio palazzo,
eredità dell’avo materno del Borghetti — un
Visconti — fanno colpo su Giordano Mari: e lì per li,
nell’astuto e sfacciato avventuriero delle belle lettere, torna
a galla, fa capolino, collo stupore rispettoso del plebeo, il
figliuolo risalito del piccolo merciaiuolo di piazza delle Erbe,
a Padova.
Giordano
Mari. Vuol
darmi il
braccio? Vuol
appoggiarsi, don
Carlo?
Carlo
Borghetti.
Grazie; no. (Si
appoggia invece, per tirarsi su, alla maniglia e borbotta colla voce
sempre più bassa, più fioca, più rauca,
soffermandosi quasi ad ogni gradino)
Si soffoca; Si soffoca, orribilmente.
Giordano
Mari. È
tutto chiuso. Vuol
darmi il soprabito?
Su,
nell’anticamera, Carlo Borghetti ostinandosi, arrabbiandosi,
prende lui in mano la candela e cammina innanzi per indicare la via
aprendo gli usci, sollevando le portiere,
Giordano
Mari (ad
un tratto, accorrendo)
A me! Dia a me, don Carlo! (Strappandogli
il lume di mano)
Imbratta colla cera tutti i tappeti, i mobili! È un peccato!
Attraversano
una lunga fila di sale, poi entrano nella camera da letto.
Carlo
Borghetti.
(Improvvisamente:
con un impeto di furore, si leva il cappello e lo scaglia sul canapè:
il cappello rimbalza, ruzzola per la camera: diritto, in piedi, con
gli occhi attoniti, egli lo guarda ruzzolare, perdersi nel buio; poi,
di peso, si lascia cadere, vinto, affranto sopra una poltrona).
La finestra... Aprite la finestra... Soffoco... soffoco... muoio.
Giordano
Mari (corre,
spalanca i vetri: accende un’altra candela e la pone come la
prima sul canterano: un mobile antico, dagli intarsi dorati: un capo
d’opera: a mezza voce, girando gli occhi attorno, ammirato)
Quanta bella roba! (Osservando
di qua di là, dove la camera resta illuminata: accanto al
letto, in una cornice nera sopra una mensoletta di bronzo vede il
ritratto di una signora: una vecchia fotografia di una giovane
signora, che somiglia molto all’architetto)
Sua madre, certo. Bella donna! (Ad
un tratto, sorridendo e prendendo il lume, per osservar meglio, più
vicino)
Tò, tò, tò! (Rivolgendosi
al Borghetti con un moto istintivo)
I Dionisy! La famiglia Dionisy!
Infatti,
sopra un elegante palchetto, coperto di stoffe antiche e ornato a
festoncini, c’è tutta una raccolta di ritratti di ogni
dimensione e di ogni epoca. Dalle prime fotografie del Duroni ormai
stinte e giallognole, alle ultime, le più recenti e più
artistiche.
C’è,
in grande formato «gabinetto», il cavalier Venceslao,
seduto al pianoforte, la testa pensosa, chinata con intimo
compiacimento sullo spartito del Trovatore; e c’è,
piccolo piccolo, il ritrattino più piccolo e più
scolorito, un bèbè in camicina.
Giordano
Mari (appressa
la candela e legge)
Emma Dionisy, di cinque mesi, alla zia Paola» (Vedendo
il ritratto della signora Letizia in abito da ballo: l’ultimo
suo ritratto: dal 1887 continua sempre a farsi far quello)
Che spalle!... Che... che busto!... Che maraviglia! (Lo
confronta con un ritratto di Emma recentissimo che le sta accanto)
Era molto più... bella, la madre! (Continua
a fissare il ritratto di Emma, spirante nel semplice vestito bianco
la sua fresca giovinezza: lo fissa studiandolo, esaminandolo, con uno
sguardo acuto, minuzioso, investigatore, ricercando somiglianze e
rapporti, tra la madre e la figliuola)
Anche la figliuola, è molto giovane ancora... si farà
una bellissima donna. E questo?... (È
il ritratto di Emma vestita per la prima comunione: la riconosce
subito e gli viene da ridere)
Ah! Ah!... La mocciosetta!
Poi
c’è un altra Emma colle gambine esili, e i piedi grandi,
ancora informi, sotto il vestitino corto corto; poi Emma, ragazzetta,
ma già più elegantina, e un po’ pretensiosetta,
colla grossa treccia pesante, sproporzionata, giù giù,
lungo la vita.
Poi
Emma, nell’ammazzone, a cavallo, e tutti quei capelli cadenti
sulla nuca, sulle spalle e sporgenti in una massa enorme, sotto l’ala
del piccolo cilindro; poi Emma in costume Empire, come era
andata alla festa di casa Ottolini; poi Emma colla camicetta, il
berrettino e la racchetta del lawntennis...
Giordano
Mari (fra
sè, di malumore: deponendo il candeliere)
La raccolta è completa. Tutte le età, tutti i costumi,
e tutte le pose! (Si
volta verso l’architetto, guatandolo bieco, mentre a sua volta
si sente rodere da una punta di gelosia leggera, sottile... eppur
molesta).
Sono cugini; si sa: il cugino e la cugina! (Ma
è un lampo: rivede gli occhi di Emma innamorata, e torna ad
infischiarsene del Borghetti come del Sebastiani e colla fede nella
sua buona stella e nel suo talento e nella sua furberia gli ritorna
la sicurezza, la contentezza e l’audacia — Sente un
sospiro come un lamento: corre vicino al Borghetti)
Volete il servitore? Devo sonare, per chiamare il servitore?
Carlo
Borghetti.
No! No!... Sto troppo male: non voglio nessuno.
Giordano
Mari. Abbiate
pazienza, ma se non vi sentite bene, lasciatemi chiamare il
servitore. Vi aiuterà a mettervi a letto. Vi farà un
thè.
Borghetti
(alzandosi
in piedi d’un balzo, stravolto).
Ma non capite che non sono ammalato? Sto male perchè... ho
l’inferno. È l’inferno!... Qui!... Qui!... (si
batte sul petto violentemente colla mano ferita: si scioglie la
fasciatura).
Giordano
Mari (gli
afferra il braccio: gli tien ferma la mano)
Che fate?... Viva Dio! Perdete ancora il sangue! (E,
come prima aveva fatto Emma, Emma così affettuosa, Emma così
brava, ricomincia lui a fasciarlo di nuovo, ma con meno perizia certo
e con meno garbo).
Carlo
Borghetti (lo
lascia fare, guardandolo muto, pensando sempre a quell’altra,
poi ad un tratto, gli occhi gli si riempiono di lacrime; gli si
riempiono di lacrime il petto e la gola; si sforza, ma non può
più trattenersi; ha un tremito convulso, e quando il Mari ha
finito di fasciarlo e gli ripone la mano nella sottoveste, scoppia,
all’improvviso, in un pianto dirotto; dà un calcio
furioso a una seggiolina che gli impedisce il passo e si butta sul
canapè).
Giordano
Mari (lo
guarda: resta un poco a guardarlo: piano piano, gli si siede accanto,
senza parlare).
Carlo
Borghetti (continua
a piangere, a singhiozzare, a borbottare, a strapparsi i capelli, a
disperarsi: poi, a poco a poco, si calma, cerca un fazzoletto, si
asciuga gli occhi)
Perdonatemi! Perdonatemi, signor Mari! Sono pazzo e poi mi sento
tanto male.
Giordano
Mari (premendogli
una mano affettuosamente; con voce dolce, penetrante).
Piangete, piangete, sfogatevi. Questo solo vi può far bene.
Carlo
Borghetti (alzandosi
di nuovo con ira)
Ma no; no! Non ho nessun diritto nè di piangere, nè di
disperarmi! (Dopo
un momento di pausa: frenandosi, stendendogli la mano)
Ve lo giuro, signor Mari; sono un pazzo e un ragazzo. Un ragazzo
pazzo e ridicolo. Niente altro. Ve lo giuro.
Giordano
Mari (a
sua volta, stendendogli la mano con molta cordialità)
Non dovete nascondermi nulla. Non dovete chiudervi con me; non dovete
dissimulare. Siate sincero: la sincerità è gran parte
della bellezza e della bontà. Siate sincero con me. Io vi sono
amico; vi sarò sempre amico.
Carlo
Borghetti (colle
ciglia aggrottate, col suo fare burbero, ma risoluto)
Grazie; vi ringrazio. Ma vi ripeto, tengo a ripetervi: stasera il
caldo, il pranzo, lo champagne,
mi hanno fatto male. Si vede che ho il vino melanconico, triste.
Niente altro; ve lo giuro. Del resto, voi mi avete già dato
prova della vostra amicizia, stasera, in casa Dionisy, quando avete
accettate le mie scuse.
Giordano
Mari. Non
parliamone più. (Affettuosamente
sorridendo, mettendogli un braccio al collo)
Dite la verità: mi avete odiato molto, stasera?
Carlo
Borghetti (trasalendo,
scostandosi, fissandolo)
Non capisco, non vi capisco.
Giordano
Mari (fissandolo
a sua volta, ma con un sorrisetto pieno di furberia bonaria)
Eppure, sarebbe così facile intendersi. Basterebbe un po’
più di confidenza. Basterebbe ammettere da parte vostra, una
cosa sola.
Carlo
Borghetti.
Quale?
Giordano
Mari è ancora titubante: si alza, passeggia su e giù
per la camera.
— E
se il colpo non mi riesce? Se invece di un tratto di genio, fossi per
commettere un errore? In tal caso, pazienza: avrò perduta la
bella ragazza e il buon matrimonio, ma avrò salvata la mia
riputazione di uomo serio, di uomo di spirito... e di uomo d’onore!
Come
ha già detto a donna Fanny, egli non può sperare di
ottenere la signorina Dionisy domandandola ai genitori. Egli, anzi, e
più che mai, in faccia al mondo, in faccia ai parenti della
ragazza, deve aver l’aria di ritirarsi, di non volere, di
nascondersi, di sacrificarsi. Tocca alla ragazza di compromettersi,
tocca alla ragazza di fare il dramma, e imporre il lieto fine.
Carlo
Borghetti (che
ha notato l’esitazione, la lotta interna del suo nuovo amico,
gli si avvicina, ripetendo più lentamente)
Devo ammettere da parte mia una cosa?... Una cosa sola?... Quale?
Giordano
Mari (calmo,
ma con forza)
Dovete ammettere di essere molto innamorato della signorina Dionisy.
Carlo
Borghetti (prorompendo,
come spaventato)
No! No! No!
Giordano
Mari (mettendosi
un dito sulle labbra)
Zsst!... Non dite bugie, e non gridate tanto forte. Sveglierete la
casa. Tutti dormono ancora.
Carlo
Borghetti (il
viso smunto, lucente di sudore e di lacrime; gli occhi pesti,
bruciati dalla febbre: si guarda attorno, sorpreso, sbigottito. Il
chiarore mal certo delle due candele rischiara, or sì, or no,
un angolo appena della camera vasta, profonda. Dalle grandi finestre
spalancate si scorge un lungo tratto di cielo, fattosi più
chiaro, più alto, più diffuso. Un soffio, quasi un
alito fresco, leggero leggero, corre nella camera. È un gran
silenzio intorno: un silenzio di ombre, infinito; la quiete d’ogni
cosa viva. Come il mondo, tutto il mondo, sembra lontano lontano, in
quell’ultima ora della notte! Come sembra indifferente quella
moltitudine inoffensiva, quasi morta nel sonno).
Giordano
Mari (gli
prende una mano stringendola forte, con tenerezza)
L’amore, giovane amico mio!... L’amore non si nasconde.
Voi siete innamorato della signorina Dionisy.
Carlo
Borghetti.
Ebbene, sì; sono stato (con
uno sforzo)
innamorato della signorina Emma, ma la crisi, è passata.
(Nervosamente)
Ormai è passata, è superata. Non parliamone più.
Voi me lo avete chiesto: a voi, a voi solo, sento il dovere di
confessarlo. Ma colla stessa lealtà, colla stessa franchezza
vi ripeto: d’ora in poi, come sono amico vostro, sono amico
suo. Un amico onesto; un fratello per tutti e due: l’ho
promesso anche alla signorina Dionisy. Dovete credermi ed essere
sicuro di me, perchè mi dovete stimare.
Giordano
Mari. La
vostra amicizia? L’accetto, ne sono orgoglioso. Anzi, colla mia
testarda sincerità, vi dirò di più: la cercavo,
la desideravo. Dunque, «amico mio», sì. Ma...
volete essere soltanto amico anche della signorina Emma? Voi
l’amate... (s’interrompe:
si preme una mano sul cuore, come per soffocarne i palpiti
precipitosi)
Voi l’amate: soltanto amico, della signorina Emma?... Perchè?
Carlo
Borghetti.
(ha un
lampo negli occhi, il cuore gli fa un sobbalzo, ma rimane muto,
incantato, guardando Giordano, senza osare di interrogarlo, di
parlare).
Giordano
Mari (si
preme la fronte e sospira: un momentino di pausa per raccogliere
tutte le forze; poi riprende a bassa voce, con gravità, quasi
solenne).
Siamo stati matti un po’ tutti; ed io, lo confesso, è
stato solo per cinque minuti, ma... (un
altro sospiro, l’ultimo)
sono stato matto più di tutti. (Mettendosi
a posto con un’alzata di spalle)
Io ero lontano dalla realtà, dalla verità, dal
possibile, persino dalla logica. Sediamo, torniamo a sederci, e per
cinque minuti parliamoci sul serio. Che cosa vi abbia detto la
signorina Emma per mettervi alla disperazione, non so, non voglio
sapere, non ho diritto di sapere. Sì, anch’io lo
confesso, anch’io ho la mia parte di torti, di colpa. Anch’io
ho subìto una seduzione dolcissima, un improvviso stordimento.
Non ve l’ho detto? Anch’io ho avuto i miei cinque minuti
di pazzia, ma, ripeto ancora, e posso dire con orgoglio, furono soli
cinque minuti. Quel primo giorno ch’ero a Milano, quel giorno
della mia maledetta, malaugurata conferenza; quell’espressione
incantevole di sincerità, gli occhi, la bellezza pura,
angelica, l’intelligenza della signorina mi hanno colpito,
colpito al punto... (con
un mesto sorriso)
che io, sin da quel primo giorno, a costo di sembrare ineducato, non
ho più cercato di rivedere la... la signorina; anzi, ho fatto
di tutto per sfuggirla. È stato quell’insistente
seccatore del Barbarani che, per forza, ha voluto condurmi e
presentarmi alla signora Letizia; è stato il cavalier
Venceslao che è venuto a cercarmi apposta, all’hôtel,
all’Archivio di Stato, all’Ambrosiana, perchè non
mancassi al suo concerto; e stasera, appunto, ho avuto un lungo
colloquio colla signorina, colloquio in cui le ho espresso la più
viva simpatia e l’ho pregata anche di volermi un po’di
bene... come una figliuola al suo babbo.
Carlo
Borghetti (vivamente).
Ma...
Giordano
Mari (con
forza, con maestà)
Come una figliuola al suo babbo; perchè io sono molto più
attempato della signorina Emma, e non mi sento di diventare ridicolo;
perchè la signorina Emma è molto ricca, ed io, che sono
quasi povero, non mi sento di diventare... un mantenuto di mia
moglie. Perchè io sono filosofo razionalista e la signorina
Emma è credente, è cattolica; perchè, infine, le
mie idee e i miei principî, le mie aspirazioni, in fatto di
politica e di ordinamenti sociali, sono precisamente agli antipodi
con tutto il legittimismo reazionario, con tutto il detrito
spagnolesco e austriaco di casa Dionisy. Parlo chiaro?
Carlo
Borghetti (con
impeto)
Ma Emma mi ha detto...
Giordano
Mari (imponendogli
di tacere: protendendo le due mani aperte: voltando, torcendo
indietro il capo per non sentire)
Quello che possa avervi detto la signorina, non so: non voglio
sapere; non ho diritto di sapere. Vi ripeto — sì, —
ho avuto cinque minuti di pazzia, come voi avete avuto la vostra
crisi... nervosa. Ma gli uomini devono guarir presto, e noi siamo
uomini: infatti voi ormai siete più calmo, ed io ricomincio a
ragionare. Vedete? (indicando
verso la finestra)
Ecco il mattino, come dice Shakspeare, che lievemente librandosi pare
in procinto di slanciarsi sulla terra! A letto, andiamo a letto,
amico mio; voi, per rialzarvi più forte, dopo qualche ora di
riposo, e con tutte le vostre più belle e più care
speranze nel cuore. Io, con un amico prezioso (con
mesto sospiro)
e colla costanza, la forza e il conforto del lavoro.
Carlo
Borghetti (senza
esitare, con uno slancio generoso)
Se non volete, se non posso dirvi di più, vi devo dir questo,
però: vi assicuro; voi siete in errore riguardo ai sentimenti
della signorina Emma.
Giordano
Mari (con
mestizia)
Ho quarant’anni, e sono quasi povero. Volete ripeterglielo voi,
da parte mia, a quella cara figliuola?
Carlo
Borghetti (torvo,
accigliato)
No.
Giordano
Mari. Sta
bene. Le scriverò io stesso, prima di partire.
Carlo
Borghetti (vivamente:
con un guizzo di gioia che non può frenare)
Partite?
Giordano
Mari. Appena
avrò pronto tutto il materiale che mi può occorrere;
documenti, note, memorie inedite per la mia monografia.
Carlo
Borghetti (subito)
So, so! Ambrogio
vescovo nella civiltà de’ suoi tempi.
Giordano
Mari.
Appunto. Anzi, vi dirò che il mio editore...
Carlo
Borghetti.
L’Amodei?
Giordano
Mari.
L’Amodei; mi ha detto che voi avreste potuto essermi molto
utile, per affrettare alcune mie ricerche.
Carlo
Borghetti (diventa
di nuovo melanconico, scrollando il capo, borbottando fra sè)
Tanto lavoro, tante speranze... Tutto inutile!
Giordano
Mari (sempre
attentissimo: studiandolo)
E non fu solo l’Amodei; tutti quelli cui ho parlato del mio
argomento, pareva lo facessero apposta, venivano fuori col vostro
nome. — Ma lei deve farsi presentare all’architetto
Borghetti! — Ma lei, deve cercar di conoscere l’architetto
Borghetti! — Ed io — vedete come sono sempre sincero? —
(ridono
gli occhi e sembrano ridere anche i denti bianchi)
io, a costo anche di riuscirvi importuno, non solo ho voluto
conoscervi, ma diventare anche vostro amico... per Sant’Ambrogio!
Carlo
Borghetti (ridendo
a sua volta, ma con un riso amaro che sembra errare tristemente sulle
labbra scolorite)
Vi avrà parlato di me, monsignor Strada?
Giordano
Mari. Il
parroco mitrato di Sant’Ambrogio? Altro che! Vi ha definito il
«Saturno degli archeologi» perchè vi mangiate i
vostri figliuoli... cioè, perchè i vostri studi, le
vostre note, i vostri commenti, li fate ingoiare dalle enormi fauci
dei vostri cassetti, sempre aperte per ricevere e sempre chiuse,
dopo.
Carlo
Borghetti.
Bel tipo, quel monsignor Strada!
Giordano
Mari (alzandosi
in piedi: la mano appesa col pollice, al taschino del gilet: la sua
solita attitudine di conferenziere)
Bel tipo; interessantissimo, e singolare. Un bel prelato del
Velasquez, ammorbidito, spiritualizzato da un pennello fiorentino!
Quanta irrequietudine intellettuale sotto quell’apparente
placidità fisica! E che passione gelosa, che ambizione
superba, da monarca, per la sua illustre basilica!
Carlo
Borghetti (stanco,
sudato, continua a ripetere)
Bel tipo!... (Ad
un tratto, gli passa l’immagine di Emma dinanzi agli occhi; si
scuote, si alza, trasalendo)
Colla sua mansuetudine e la sua transigenza politica e mondana, serba
la tradizione un po’ ribelle dei parroci mitrati, anche di
fronte alla Curia.
Giordano
Mari (come
il gatto che scherza col topolino: sempre pronto per ghermirlo)
Io me la godo, come suol dirsi, a osservare quella sua grave
pinguedine, la carnagione latte e vino, la mano morbida, dalle unghie
rosee, perlate, come quelle della più bella fra le sue
aristocratiche penitenti.
Carlo
Borghetti (corre
col pensiero alla manina di Emma, e gli par di vederla nella mano di
Giordano Mari: alzandosi di colpo)
E all’Ambrosiana? Avrete conosciuto il prefetto, don
Galimberti?
Giordano
Mari. Oh
anche lui; tante volte mi ha fatto il vostro panegirico! Vi vuol
molto bene. Ha per voi una grande ammirazione. (compiacendosene:
con ambizione)
Che buon uomo! Sapete? Siamo diventati quasi amici. (Riprendendo
la conferenza e di nuovo facendo penzolare la mano sul gilet)
Quell’uomo serio, macilento, tranquillo, è un mostro di
erudizione. Fa spavento. Io lo stavo a sentire queste mattine, magari
per un’ora intera, e ne rimanevo sbalordito.
Carlo
Borghetti (socchiudendo
gli occhi, come evocando l’immagine del buon prete; poi
sorridendo, accarezzandola con uno sguardo affettuoso)
Con quella sua vocetta sommessa, rassegnata, che sembra una
preghiera, vi dice una dopo l’altra le cose più
complesse, più remote, più varie...
Giordano
Mari (interrompendolo:
tuonando)
E che memoria! Le date poi!.. L’anno, il mese, il giorno! È
portentoso!
Carlo
Borghetti. E
par sempre che domandi agli altri; che non ricordi, che dubiti!
Giordano
Mari (cambiando
voce: fissandolo negli occhi: lentamente)
E tanto monsignor Strada, quanto don Galimberti, mi hanno assicurato
che voi possedete tesori… tesori. — Aiutatemi!
(Risoluto,
con un’espressione strana, che il Borghetti osserva a volo, con
un tremito, diventando prima rosso, poi ancora più pallido)
È perchè voglio partire, devo partire. Soltanto per
questo vi dico: aiutatemi!
Carlo
Borghetti (un
po’ balbettando)
Sì, infatti. Anch’io, per molto tempo, ho lavorato, ho
pensato allo stesso vostro soggetto.
— Tesori!...
Tesori, m’hanno detto. Avete raccolto tesori.
— Poi
un bel giorno... Un bel giorno? Un giorno qualunque. Non ci son mai
stati bei giorni per me. Un giorno, mi vien dato l’incarico
della ricostruzione del monastero di Pontida; e allora, addio
Sant’Ambrogio e Teodosio; addio Marcellina e Susanna; Susanna
la vergine caduta, la vergine innamorata. — L’amore,
sempre l’amore! — E invece, Federico Barbarossa e la Lega
lombarda — il Carroccio
e la battaglia di Legnano...
Giordano
Mari. E
Sant’Ambrogio?...
Carlo
Borghetti (di
nuovo stanco, abbattuto, la testa pesante)
A dormire... (sbadigliando)
L’ho messo a dormire.
Giordano
Mari (afferrandogli
tutte e due le mani)
Fatemi partire. (scotendolo)
Fatemi partir subito da Milano.
Carlo
Borghetti (rimettendosi:
fissandolo a sua volta)
Tutto ciò che vi occorre, è vostro: ma non per farvi
partire: restate.
Giordano
Mari. Quando
posso venire? Quando mi volete? Oggi? (Coll’aria
d’esser lui che compie un sacrificio e insieme un atto
generoso)
Voglio oggi. Dopo colazione? Al tocco? (si
ricorda del suo appuntamento con Fanny, e non lo vuol perdere, tanto
più che — non si sa mai! — potrebbe essere anche
l’ultimo)
No; dopo colazione non posso. Mi devo trovare all’Archivio di
Stato. (Tirando
il colpo)
E adesso? Un momentino? (prendendolo
sotto il braccio, stringendolo con effusione, guardandolo sorridendo)
Un momentino?... Adesso?... Sì?... I nostri studi
prediletti!... Sono la nostra forza! Il nostro conforto! La vita; la
vita nuova. Dopo una cattiva notte, ricominciamo una buona giornata!
(Tenendolo
sempre stretto affettuosamente sotto il braccio, indicando appunto
dove immagina sia lo studio del Borghetti, quasi coll’invito,
col molle atteggiamento di una cocotte)
Là?...
Carlo
Borghetti. Mi
promettete prima di non partire? Resterete a Milano?
Giordano
Mari (baciandolo
sulla fronte)
Quanto sei buono, grandemente buono!
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