XII.
Sant’Ambrogio.
Carlo
Borghetti e Giordano Mari entrano nello studio ancora buio. Carlo
Borghetti apre la finestra: è uno studio severo, raccolto; le
pareti ricoperte da alte e ricche librerie, ornate dall’ingorda
biscia Viscontea, e in perfetto stile coi mobili severi, massicci,
coperti di pelle a fregi istoriati. Non una penna, non un foglio di
carta fuori di posto: fuori di posto, in quel luogo, in quel momento,
sono quei due uomini dai frack polverosi, colle cravatte a sghembo, e
sulle cui facce stanche, smunte, giallognole stride la purezza della
luce mattutina.
Giordano
Mari. Quanto
ordine in questo studio! Chi direbbe che è l’officina di
uno dei nostri più instancabili lavoratori?
Carlo
Borghetti.
Non è lo studio dell’architetto; qui non ricevo i
clienti. È il mio studio particolare, in cui non entra, e
raramente, altro che qualche amico.
Giordano
Mari (pronto,
accettando per sè quell’«amico»).
Non abuserò.
Carlo
Borghetti cerca fra il mazzo delle chiavette; va ad aprire lo
sportello d’uno degli armadioli che formano il ripiano, tutto
all’ingiro, sotto gli scaffali dei libri, e ne leva una lunga
cassetta, anche questa pur chiusa a chiave, e la porta di peso sulla
scrivania.
Giordano
Mari (seguendolo
sempre coll’occhio: sempre in ammirazione)
Sei maraviglioso! Come hai tutto a posto: le tue carte in pieno
ordine, raccolte ne’ loro cassetti, come le idee nella testa.
Bravo!
Carlo
Borghetti (aprendo
e sollevando il coperchio della cassetta)
Sono un pedante. Il disordine, la confusione in chi lavora... è
un perditempo.
Giordano
Mari. Anch’io
sono come te. (Lanciando
un’occhiata rapida sui molti fascicoli e sui pacchetti di
cartelle, allineati, legati ad uno ad uno, numerizzati, che riempiono
tutta la cassetta: con una certa monelleria soddisfatta)
Ed ecco — non è vero? — gran parte di ciò
che rimane dello spirito, dell’anima... del nostro caro
Ambrogio.
Carlo
Borghetti.
Sì; del grande Ambrogio. Del santo,
veramente santo, nel senso filosofico della parola: santo
perchè giusto. E chi più giusto di lui? (Siede
alla scrivania e accenna al Mari una seggiolina accanto, più
bassa).
Quale poeta non ha sciolto un inno al sole? Eppure io sfido anche...
(prova
qualche difficoltà, per la sua naturale ritrosia, per la sua
selvatichezza, a dargli, così subito, del tu)
io sfido anche te, a dirmi di chi sia quest’invocazione, così
ispirata e pura, degna di Francesco d’Assisi:
Tu, lux, refulge sensibus,
Mentisque somnu discute...
(Gli dà
la cartella, lascia che il Mari, stupito, prosegua in silenzio la
lettura).
Giordano
Mari.
Come?... Ambrogio?... Sant’Ambrogio?...
Carlo
Borghetti.
(scegliendo
un altro foglietto)
È il canto del gallo. (E
mentre legge la prima strofa, la sua faccia sembra ricomporsi, il suo
occhio ritorna vivo, scintillante).
Surgamus ergo strenue,
Gallus iacentes excitat;
Et somnolentos increpat,
Gallus negantes arguit.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
«Dei
tristi che rinnegano
Il
gallo è accusator!»
Sono inni
armonici, canti descrittivi, liriche maravigliose, nella loro
semplicità. A te, prendi, leggi il canto del Natale: «A
solis ortus cardine — Ad usque terrae limitem». A te
il Passio Laurentii martyris (e ad uno ad uno gli passa
quei fogli preziosi).
Giordano
Mari (li
afferra con le dita tremanti, li scorre con uno sguardo rapido,
aggrottando le ciglia, fissando gli occhi bramosi, trovando subito la
nota, il riscontro, il punto più importante, colla pratica
dell’usciere che cerca una cifra in una carta bollata; poi,
sempre guardando, esaminando le preziose cartelle, si avvicina, per
vederci meglio, alla finestra aperta, mentre il cielo si sbianca
sempre più e di lontano, dalla via e dalla casa, giungono i
primi rumori, i primi indici del giorno che ricomincia).
Io non sapevo, cioè sapevo, ma non fino a questo punto.
Ambrogio poeta...
Carlo
Borghetti. (a
mano a mano, dall’abbattimento, dalla cupa taciturnità
di prima, passa ad un’espansione vivissima, cordiale, ad un
abbandono senza limiti).
Ambrogio poeta?... Ma è tutto un tesoro, tutta una
rivelazione, una miniera! Semplicità, ispirazione, impeto
lirico, fervore sacro...
Giordano
Mari. E mi
lasceresti vedere?... Potrei portare con me... per qualche giorno?...
Carlo
Borghetti. È
tutto tuo, roba tua. Prendi! Prendi! Fa conto che questo lavoro di
amanuense io l’abbia fatto per incarico tuo. Tu eri a Padova,
io a Milano: mi hai scritto, io ti ho servito, ti ho accontentato,
ben lieto di accontentarti.
Giordano
Mari (tra
l’ansia, l’inquietudine, un po’ di esitazione, e
nello stesso tempo la smania di avere tutto)
Ma poi, se qualcheduno venisse a saperlo ed esagerasse...
l’importanza della cosa? o svisasse i fatti per farmi danno?...
per combattermi?... È così pieno il mondo — e il
nostro mondo specialmente — di invidiosi, di calunniatori. Se
un giorno si venisse a sapere...
Carlo
Borghetti (distrattamente)
Sapere? Come? E poi sapere, che cosa? Non è mio, come non è
tuo: tutto questo è di lui. (Tornando
ad infervorarsi nel suo argomento)
È ciò che ha dato, ha creato, ha rivelato, anche nei
versi, quella sua mente poderosa, complessa di Romano fiorito sul
limitare della barbarie; ed io... io non ho avuto altro che la
pazienza di raccogliere, di ordinare...
Giordano
Mari (ripiegando
i foglietti dei versi per portarseli via)
E la fortuna di poter disseppellire, scovare.
— Già;
pazienza e fortuna. Ho rintracciato tutto, o almeno quasi tutto:
liriche, inni, salmi. Il Biagi ed il Venturi avevano intuito,
sospettato appena...
— Tu
hai avuto più fortuna, e colla pazienza sei andato fino in
fondo.
Carlo
Borghetti.
Fino in fondo: sì, proprio, fino in fondo. Oh, qui c’è
tutta racchiusa la grande anima! Tutto il pensiero di quell’uomo
strano che visse in tempi più strani ancora. (Traendo
dallo stipo altri fascicoletti di cartelle)
Ecco qui i ritratti di Ambrogio. Che gemme di miniature! Sono sulla
cartapecora: fregi di antichi messali. Guarda in questo pezzettino di
raso: che ingenuità di disegno, ma che vivezza di espressione!
Ecco un mio vanto. Chi mai ci ha pensato, ai ritratti di Ambrogio?...
E qui, le sue missioni politiche, ma le inedite. Poi, tutta la verità
contro la leggenda nelle sue lotte cogli Ariani. Poi la storia soave
e cara di sua sorella Marcellina... E qui la sua crociata contro il
lusso delle signore, a’ suoi tempi, e contro le crapule e i
banchetti. Sint
pura cordis intima...
E qui Agostino d’Ippona e la regina Frigitilla, e qui le
lettere e qui la morte... la morte. (Ad
un tratto l’immagine di Emma gli riappare più viva che
mai, più bella che mai: tutto il suo entusiasmo si spegne,
egli ricade di nuovo, affranto, esausto sulla poltrona, le gote
smorte, i lividi profondi, sotto gli occhi fissi, immoti. Con voce
cupa, con un atto che fa capire all’altro di andarsene, perché
egli ormai vuol restar solo: dimenticandosi di dargli del tu)
Prendete, prendete tutto. Andate; sono stanco. Vi manderò
tutto all’albergo.
Giordano
Mari. Oggi
stesso. Te ne prego: hôtel
Bella Venezia.
E poi, che serve? Dammi qua! Porto io, con me, senz’altro;
senza incomodar nessuno. Ecco un giornale! Il Figaro!...
E se non basta, ne prenderemo due. Permetti, non è vero?
Dopo
fatto il pacco
Giordano
Mari. Ed ora,
un ultimo favore.
Carlo
Borghetti (alza
appena gli occhi: lo guarda quasi con una timidezza supplichevole:
sente dentro di sè, ha lo sgomento, lo spavento che gli parli
ancora di Emma).
Giordano
Mari. Devi
permettere, mi devi concedere, che io intitoli al tuo nome, così
simpaticamente illustre, il mio Sant’Ambrogio.
Lo devo a te, per un debito di riconoscenza; e lo devo un po’
anche a me stesso: agli scrupoli della mia delicatezza. (Vedendo
che l’altro vorrebbe opporsi insistendo)
Va bene, va bene. Adesso non devi rispondere, adesso non devi dirmi
nè sì, nè no. Te ne scriverò... forse
domani stesso; da Padova.
Mezz’ora
dopo:
Carlo
Borghetti è ancora nel suo studio; è ancora seduto,
sprofondato nella poltrona, dinanzi alla scrivania, col capo fra le
mani. Pensa ad Emma, sempre ad Emma, con un rimorso nel cuore, che si
fa sempre più vivo, più acuto: ha dato al Mari, proprio
al Mari, gli ha ceduto le sue carte, lui così avaro, così
geloso de’ suoi studi, de’ suoi documenti, delle sue
raccolte. E lo ha fatto soltanto perchè egli parta; per farlo
andar via più presto.
Ed
Emma? Emma? Emma che lo ama, quel Giordano Mari?
Povera
Emma!
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