XV.
A
Padova.
In
una casupola antichissima, sulla quale pesa la leggenda di un turpe
delitto commesso da Ezzelino da Romano. La facciata nera dà
sulla Piazza delle Erbe, ma vi si accede da un vicoletto
angusto e da una porticina alta, al primo piano, sopra una piccola
scaletta. Appena dentro, al buio, per un giro tortuoso di corridoi e
seguendo nel tanfo di rinchiuso certe zaffate di un puzzo più
forte di cavoli a lesso, si arriva dinanzi ad un piccolo uscio a
vetri, con una tendina stinta: di fianco, inchiodato sul muro, vicino
al cordone del campanello, un cartellino, con su scritto a mano:
Il
signor Tancredi
«Tancredi»
non è un casato, come si crederebbe a prima vista, ma soltanto
il nome del signor Mari.
— Che
importa aggiungere il Mari quando basta Tancredi? — Così
spiega, alla sua serva, la vecchia Veronica, il signor Tancredi Mari,
che risparmia sempre, su tutto.
— Chi
mi conosce, sa che il signor Tancredi sono io; e di chi non mi
conosce, non me ne importa.
L’appartamento
di Tancredi si compone di quattro stanze; la famiglia, di tre
individui: il padrone, la serva e Truffaldino, un galletto
vecchio e spennato.
Il
cuore espansivo della serva ha bisogno di amore; ma il padrone, al
galletto, avrebbe preferito un gatto. Il gatto si sarebbe mantenuto
da sè, mangiando i topi, e per di più avrebbe permesso
al signor Tancredi di papparsela allegramente, per una settimana, con
polenta, cavoli e Truffaldino... Ma quando egli espresse
questa sua idea, per poco la Veronica non gli cavò gli occhi.
Tancredi borbottò contro tutte le donne, capricciose, pazze,
romantiche... ma rinunciò al guazzetto di Truffaldino.
La
Veronica era l’unico essere al mondo che tenesse un po’
in soggezione il signor Tancredi, e al quale il signor Tancredi, a
modo suo, fosse anche affezionato. La Veronica era sempre stata in
casa; egli la pagava ancora, come l’aveva pagata suo padre,
sotto i Tedeschi, in ragione di sette svanziche al mese; e nascosta,
sotto il pelo del suo cuore, c’era una punta d’invidia,
di gelosia per la preferenza che la Veronica aveva sempre dimostrato
a suo fratello minore, quello spampanone di Nano. Nano, il
diminutivo di Giordano.
Nella
cucina, che serve anche da salotto e da studio: la Veronica, seduta
sotto la finestra e con un paio d’occhiali, colle lenti rotte,
inforcato sul naso, rattoppa delle calze blù, grosse un dito.
Truffaldino, in equilibrio sopra una gamba sola, si gratta il
becco, fra le penne. Quando entra Tancredi, Truffaldino
scappa, la Veronica non si muove.
Tancredi.
(ha la
faccia, tale e quale, di suo fratello Giordano; ma bucherellata dal
vaiolo e senza barba. Non ha quasi più denti, ma i pochi
rimasti sono bianchissimi come quelli di Giordano. Due, davanti,
quando parla si allungano per ballare. È vestito con un’enorme
giacca marrone che sembra un saio. Le brache larghe, sformate, gli
cascano da tutte le parti e gli nascondono, quasi, i piedi tozzi,
piatti, con certe scarpacce di tela greggia, come le pantofole da
bagno)
Anche per oggi, il pranzetto lo abbiamo guadagnato! E abbondante.
(Butta un
fagotto sul tavolo, e siede, ridendo sgangheratamente, sopra una
seggiola di paglia così bassa, che la giacca gli spazza per
terra).
La
Veronica (si alza lentamente, pone le calze sullo sgabello e gli
occhiali sulle calze; si avvicina alla tavola e comincia a sciogliere
i nodi del fagotto).
Tancredi.
(cogli
occhi da ghiottone e i due denti che gli ballano dalla gioia)
Una bella fetta di lardo, quattro carciofi, sedano, patate, cavoli.
(S’interrompe,
con un’altra risata di compiacenza).
Tutta
quella «grazia di Dio» non gli costa un soldo. Gambe e
talento; ma del vero talento, del suo; di quello che frutta. E
gambe buone: fare un sei o sette chilometri, tra l’andare e il
tornare, sotto il sole cocente, lungo lo stradone, fuori di porta San
Giovanni.
Tancredi
negozia in effetti privati. Il tasso varia dal venti al trenta per
cento all’anno sugli affari grossi, e dal cinque al dieci per
cento al mese, sulle picciorlerie; cioè, sulle
cambialette di poche decine di lire. Pei grossi affari ha i suoi
agenti, le sue teste di legno. Le picciorlerie, invece, le
tratta da sè. Formano il suo passatempo, dal quale ritrae,
oltre al solito frutto del cinque o del dieci per cento al mese,
anche la piccola gioia quotidiana di un’economia sulle spese di
casa.
Per
ciò, questi suoi piccoli clienti li sa scegliere con molto
tatto.
Ha
le scarpe rotte?... Tancredi presta novanta lire per un mese, sopra
una cambialetta di cento, ad un calzolaio ed esige, per
soprammercato, in ricambio «dell’amicizia», una
buona rimonta.
E
così ha fatto quel giorno coll’ortolano fuori di porta
San Giovanni. Passando «a caso» per di là, è
entrato nel podere, per riposare un poco; e dopo quattro chiacchiere
sul prezzo dei cavoli, sul taglio del fieno e sull’Africa,
lasciando balenare la speranza di una rinnovazione, ha fatto, gratis,
la sua abbondante provvista per il pranzo.
— Sono
sicuro, signor Tancredi? — gli dice l’ortolano,
portandogli il fagotto fin sulla strada. — Sono sicuro? Mi fa
il rinnovo per un altro mese?
— Sicuro,
mai! — gli risponde Tancredi, con una cera misteriosa che lo
sbigottisce. — In affari, posso promettere; ma non mai
assicurare. Anch’io devo ricorrere alla Banca, e il Comitato di
sconto è ancora più terribile certe volte, del
Consiglio dei Dieci! Ma vi prometto, brav’uomo, tutto il mio
possibile, anche a costo di fare un sacrificio. — E col sorriso
e il saluto del generoso benefattore, preso il fagotto, se ne torna a
Padova.
Mentre
Veronica, pulita e tagliata la verdura, la mette nel secchio per
lavarla, Tancredi, che la sta osservando, sempre seduto sulla
seggiola bassa, sente il bisogno di una parola di lode, di
approvazione:
— Dunque,
Veronica, ho più talento io, che so conservare e far fruttare
i pochi soldi di mio padre, o quella tua «bardassa cara»
che ha dato fondo a tutto e si è riempito di debiti?
La
Veronica tace; butta sotto la tavola, a Truffaldino, le foglie
verdi dei cavoli e del sedano e comincia a mondare le patate.
Tancredi
(per
toccare il cuore alla Veronica)
Anche il nostro Truffaldino
fa la sua spappolata! Come becca di gusto! — Ohi! adagio,
Truffaldino!
Non mangiar tutto in un giorno, come Nano! (Tancredi
ride per far ridere la Veronica; ma questa rimane seria,
imbronciata).
Gli puoi dare anche la buccia delle patate; gli fa bene: è un
rinfrescante. (Chiamandola)
Veronica! (più
forte)
Veronica!
Veronica
(lo
guarda, imbronciata, affettando le patate in una scodella).
Tancredi
(strizzandole
l’occhio)
Mancano ancora quattro giorni soltanto, e poi la prima cambiale gli
va in protesto.
Veronica
(fissandolo
cogli occhi torvi, la voce roca)
Vergogna! Godersi del male di suo fratello! Vergogna!
Tancredi.
Starà allegro colla gloria e le sue contesse!... Ridi,
Veronica!
— No;
non rido.
— Adesso,
per altro, devi dire anche tu che Nano è un poco di buono e,
per di più, un asino.
— No;
non dico niente.
— Un
poco di buono perchè non paga i propri debiti.
— Se
non paga, vuol dire che non può. Del resto, ancora non si sa
niente. Non mancano quattro giorni alla scadenza?
Tancredi
(arrabbiandosi)
Devi dire almeno che è un asino: lo devi dire! Quando non si
può pagare, si corre, si cerca, si domanda; non si aspetta di
aver l’acqua alla gola; non si lasciano protestare le cambiali;
non si disonora la propria firma, il proprio nome!
Veronica.
Ancora non si può dir niente sul conto del mio Nano. Ancora
non si sa che cosa farà!
Tancredi
Il tuo Nano!... Però,
se si lascia protestare le cambiali, questo sarà un disonore
anche per il tuo Nano! Sì o no? Sarà un disonore, sì
o no? (Non
ottenendo risposta, dopo un momento, con un impeto d’ira,
agguantando il galletto che continua a beccare sotto la tavola)
Rispondi, sì o no; o strappo la coda a Truffaldino!
Veronica
(avventandosi,
infuriata; togliendogli la vittima dalle mani)
Vergogna! Disonore è il suo di fare il Caino!... Caino! Anche
colle povere bestie!
Tancredi.
Caino! Perchè Caino?
È venuto forse, il gran talentone, a domandarmi qualche cosa?
Forse che io gli dovrei correr dietro a costo di sporcarlo, soltanto
a farmi vedere dalle sue madame, per ottener l’alto onore di
pagare i suoi debiti? (Facendo
colle dita il solito conto che seguita a ripetere da quindici giorni
alla Veronica)
Dunque quattordici, poi mille e cinquecento, poi altre duemila faremo
diciassette e cinquecento... in tutto ventimila lire! Ha mangiato
tutto il suo, più ventimila lire degli altri. Che appetito il
tuo Nano, la tua bella bardassa cara! Oggi — capisci
l’aritmetica? — ha bisogno ancora di ventimila lire,
soltanto per non aver un soldo! (Alzandosi,
irritato per l’atteggiamento e il mutismo ostile di Veronica)
Superbo, spampanone vanaglorioso e asino, con tutta la sua scienza;
(più
forte) un
bell’asino!
Veronica
(si
tappa le orecchie colle mani, allontanandosi per non sentire).
Tancredi
(la
segue gridando)
Un asino! Un asino! Un asino! (L’afferra
per un braccio e le urla sul viso)
Un porco!
Veronica
(divincolandosi)
Finiamola! Mi lasci andare!
Tancredi
(scotendola
brutalmente)
Devi dire che questa è un’azionaccia! Che non te
l’aspettavi da Nano.
Veronica
(tramortita:
senza fiato e senza voce)
No... non me l’aspettavo.
Tancredi.
E che io sono un galantuomo e Nano, invece, no.
Veronica.
Sì; sarà.
Tancredi.
Sarà? No, per Dio, è!
Veronica
(sciogliendosi:
stirandosi il braccio indolito)
È, è; sissignore! Ma è uno di quei galantuomini
lei... che fanno paura ai ladri.
Si
sente camminare in fondo alla scaletta, poi uno scricchiolìo
leggero di scarpe che sale e si avvicina rapidamente. Veronica e
Tancredi cessano dal bisticciarsi e guardano istintivamente verso
l’uscio. Truffaldino posa per terra anche l’altra
gamba, e fissando l’uscio a sua volta, emette dal gozzo un
corrocochè strozzato.
Dopo
un momento di sospensione entra Giordano Mari, senza picchiare,
spalancando l’uscio di colpo.
Giordano
Mari. Addio!
Tutti bene? Bravi! (E
va ad appendere il cappello al solito piolo, come se rientrasse per
il pranzo dopo la passeggiatina di una mezz’ora).
Veronica
(è
rimasta esterrefatta col mestolo in mano)
Gesù Maria! Il Nano! Proprio il Nano! (A
mano a mano, diventa rossa dal piacere e le rughe della sua vecchia
faccia sembrano spianarsi: rivolgendosi a Tancredi, sempre col
mestolo in mano e in aria di trionfo).
Vede, se io avevo ragione, di voler aspettare a giudicare? Eccolo,
che è venuto in persona.
Tancredi
(sogghigna
ironicamente, squadrando il fratello dalla testa ai piedi; fa una
smorfia; sprezzante in atto di stizza; si caccia le mani in tasca,
poi voltandogli le spalle, dimenandosi tutto e zufolando, passa
nell’altra stanza).
Veronica
(gridandogli
dietro incollerita, mentre accende il fuoco sotto la pentola)
È suo fratello! Vergogna! E dovrebbe vantarsi di averlo per
fratello!
Giordano
Mari (intanto
fa i complimenti al galletto che gli si avvicina ciangottando
sottovoce)
Evviva Truffaldino!
Corrocochè!
Corrocochè!
Sempre di buon appetito e di buon umore!
Veronica
(pianino)
È tornato per le sue cambiali, non è vero? Ha fatto
bene. Adesso che è venuto, suo fratello gliele dovrà
pagare.
Giordano
Mari (fissandola,
un po’ inquieto)
Credi, Veronica?
Veronica
(indicando
Tancredi nell’altra camera)
Quel ladro, è pieno di quattrini!
Giordano.
Non ho bisogno di quattrini: basta che mi faccia rinnovare le mie
cambiali per sei mesi.
Veronica
(sicura
di quello che promette)
Lo farà; si tratta di suo fratello.
Giordano.
E di tutto il mio avvenire. (A
basa voce)
Prendo moglie!
Veronica
(tra
lo spavento e la contentezza)
Gesummaria! (Guardando
esitante verso la camera di Tancredi)
Almeno, la sposina, ha qualche cosa?
Giordano
(ancora
più piano: in un orecchio)
Più di mezzo milione!
La
Veronica rimane a bocca aperta, mentre il suo Nano entra nell’altra
stanza, lasciando l’uscio socchiuso.
La
camera da letto di Tancredi:
Un
lettone alto e gonfio colla coperta bianca e l’imbottita rossa:
seggiole di paglia; lo sciugamano appeso ad un chiodo, accanto al
catino. A capo del letto l’oleografia di una Madonna
addolorata, con una cornicetta nera, sottile, senza vetro.
Giordano.
Puoi ascoltarmi cinque minuti, tranquillamente, e senza ingiuriarmi?
Tancredi
(continua
a fissarlo, a squadrarlo, e ghignare: i due denti davanti gli si
allungano, ma per mordere)
Parlare con me? Oh, oh, che degnazione! Ma, caso mai, intendiamoci:
se tu mediti un colpo nella speranza di potermi imbalsamare
colla tua oratoria, hai preso un gambero, anzi un’aragosta
addirittura! (Ride
contento del motto spiritoso: continua a squadrarlo sbeffandolo).
Che lusso, commendatore! Non ti dico nemmeno di sedere. Sei vestito
troppo alla milorda
per le mie seggiole. Io, invece, come mi vedi, estate e inverno,
sempre lo stesso vestito! (Con
invidia per l’eleganza del fratello e colla boria esosa dei
propri quattrini)
Il che vuol dire che, non essendo un riccone milionario, come te, io
soffro il freddo l’inverno e il caldo l’estate.
Giordano
(Cominciando
a perdere la pazienza)
Mi vuoi ascoltare? Ho da parlarti di affari seri, che premono.
Tancredi.
A me, intanto, un solo affare mi preme; avvertirti che, se vuoi
danari, non ne ho. (Soffiandosi
sul palmo della mano)
Tabula
rasa. In
quanto poi al tuo avito patrimonio, rivolgersi per informazioni
all’avvocato Todeschini; e se hai fretta, gambe in spalla e
corri; Portici del Santo, n. 337.
Giordano.
Ho da parlare con te: con te.
Tancredi.
Non hai capito che non ho danari? Nostra madre ti ha lasciato di più,
nel testamento, perchè eri il più giovane, il più
bello, il talentone della casa. E dunque, se non hai più un
soldo, paga le cambiali colla bellezza e col genio.
Giordano
(per
la bile, gli diventa la faccia color di piombo; ma si sa contenere:
sedendosi)
Quando mi lascerai parlare, ti dirò che non ti domando niente,
nemmeno un soldo.
Tancredi.
Oh, oh, ti conosco, mascherina! Quando non hai bisogno di niente, non
ti lasci vedere; non mi capiti fra i piedi. Allora, colla scusa di
lavorare, col pretesto degli studi, scappi lontano, il più
lontano possibile; e quando le tue contesse ti portano in trionfo nei
loro tiri a due, allora, fingi di non vedermi per la strada, perchè
hai vergogna di salutarmi!... Allora, quando ti domandano al caffè
Pedrocchi, se sei parente del Mari capitalista,
allora, per cavartela, rispondi ai tuoi nobili che ce ne son tanti
dei mari
e dei monti.
(Ridendo,
trionfando, la faccia rossa, invasata; gli occhi loschi, la boccaccia
enorme, sdentata che perde la saliva)
Fuori! Fuori di casa mia! Adesso ho vergogna io, di te! Sì,
io, l’usuraio! Io che pago i miei debiti; io che non mi lascio
protestare le cambiali; io che ho una firma onorata e alla quale
tutte le Banche fanno di cappello! Va via! Vattene!... Ce ne son
tanti di mari
e di monti:
io non ti conosco.
Giordano
(abbassa
la voce)
Ho un affare da proporti. Un buon affare anche per te.
Tancredi.
No, no, no; io sono l’usuraio dei signori. Lavoro sul sicuro.
Affari con te? Niente: (Gli
gira intorno di nuovo, osservandolo con dispetto e invidia per quella
sua eleganza signorile)
Certo che... a guardarti, a giudicarti dagli abiti... altro che
Rothschild!
Giordano
(con
la voce bassa e con un tremito che pare d’incertezza, mentre
non è che lo sforzo per trattenere la collera)
Sì... hai ragione. Non ho avuto testa, mi sono rovinato.
Speravo di ottenere dagli studi, dalle lettere, un compenso
materiale, molto maggiore. Invece (con
un sospiro)
non ho pensato che non siamo in Francia, ma nel paese più
cretino, più ignorante e più pitocco, dove non leggono
che i professori e i giornalisti... ai quali i libri bisogna
regalarli! Hai ragione; ho commesso molti spropositi, ma ormai sono
risoluto. Voglio cambiar vita.
Tancredi.
Cambiar vita, alla tua età? (Ghignando)
Fai ancora il biondino con abbastanza, disinvoltura, ma i quaranta
sono sonati anche per te. Troppo tardi per cambiar vita... quantunque
si direbbe che tu continui a mettere i denti. Una volta, o mi
sbaglio? Te ne mancava qualcuno.
Giordano.
Sono sul punto di farmi una posizione, di ottenere una cattedra, di
pagare tutti i miei debiti.
Tancredi
(interrompendolo)
Vuoi dar la scalata alla Banca d’Italia?
Giordano.
Aiutami, te ne prego colle lacrime agli occhi. Aiutami, è la
prima e sarà l’ultima volta. Non ti domando niente; non
ti domando un soldo. Sarai contento di me, e anche tu avrai fatto un
buon affare, te lo giuro. No? No? Ebbene, pensaci. Se non mi aiuti,
al punto in cui sono, al punto di raggiungere la felicità, la
fortuna e la quiete, perdio, mi ammazzo e sarà per colpa tua!
Tancredi.
Per colpa mia? No, caro. Ammazzati quanto vuoi; io non ho rimorsi.
La
voce di Veronica,
dalla
cucina. È
suo fratello, vergogna! Lo stia a sentire! Lo deve sentire!
Tancredi
(sottovoce)
Animo, spicciati, perchè devo uscire. Non vuoi niente? Non
vuoi un soldo? Allora, cos’è che vuoi?
Giordano.
Poter concludere un matrimonio; colla nipote di un ministro, molto
ricca.
Tancredi
(sogghigna,
mostrandosi incredulo; ma nell’espressione della faccia gli si
vede ancora la rabbia, l’invidia)
Bravo! Congratulazioni! E... giovane? Non sarà più
tanto giovane, voglio sperare; perchè sarebbe un altro
sproposito, per tutti e due.
Giordano
(risentito:
sincero)
Giovanissima; e parlane con tutto il rispetto; e se la sposo, non è
per interesse, ma perchè l’amo, appassionatamente,
perchè ne sono innamorato.
Tancredi.
Giovanissima? Male. La tua età è una brutta età
per il matrimonio in generale, e per sposare una giovane in
particolare. (Ridendo,
coi due denti che gli ballano)
C’è da diventar vecchi dalla sera alla mattina... e, al
solito, avresti fatto un altro debito, senza aver da pagarlo. La
nipote di un ministro! Salute, Eccellenza!
Giordano
(scattando:
afferrandogli un braccio)
Finiscila di scherzare! Finiscila di ghignare!
Tancredi
(spaventato:
diventando livido, gridando)
Veronica! Veronica!
Giordano.
Non c’è da gridare, non c’è d’aver
paura. Il tuo ghigno offende quella ragazza, e non lo voglio, perchè
devi rispettarla. Hai capito? E devi ascoltarmi: ascoltami.
— Ebbene
non ti ascolto, perchè non ti credo.
— Non
mi credi?
— No.
— Non
credi al mio matrimonio?
— No.
— Ma,
allora, perchè te lo avrei inventato?
— Per
farmi pagare le tue cambiali.
— Ma
ti giuro che è vero; verissimo; te lo giuro!
— No.
Non ti credo; non credo niente.
Giordano
(afferrandolo
per una mano; sottovoce)
Mi prometti di tacere? È la signorina Emma Dionisy di Milano;
la nipote dell’onorevole Albertoni, ministro dell’istruzione
pubblica. Scrivi a Milano, a qualche tuo corrispondente d’affari,
ti diranno se non è vero. Mi basta che tu, con una tua parola,
mi ottenga la rinnovazione di tutte le mie cambiali per sei mesi. Sai
che anch’io sono stato vittima di una disgrazia. Se quell’altro
non falliva, col mezzo del Finardi ero certo di rinnovare. Pensa che
colpo, che disgrazia sarebbe per me... e anche per te. Prima di
ammazzarmi, penserei anch’io a vendicarmi. Lo direbbero tutti i
giornali, che Giordano Mari si è ammazzato perchè tu,
suo fratello, tu ricco, tu il capitalista, l’usuraio, ti sei
rifiutato, non lo hai voluto aiutare.
Tancredi
(colpito)
Sei sempre stato... una disgrazia per tutti.
Giordano.
Per nessuno; e per te ancora meno; ma per te, al caso, potrò
diventarlo.
Tancredi
(lo
fissa cogli occhi sbigottiti: ha una gran paura istintiva dei
tribunali, dei giornali, di tutto ciò che può mettere
in pubblico i suoi affari e la sua vita... specialmente quella di
notte. Se un cronista pettegolo avesse fatto cantare le ragazzette di
una vecchia sarta in Prà della Valle, che egli, non ostante la
sua avarizia, regalava di dolciumi... e di certe piccole statuette in
legno rappresentanti sant’Antonio col bambino?)
Ne anderebbe di mezzo anche il tuo nome; sono sempre un Mari come te.
Giordano.
Vedi dunque? Bisogna star uniti, per l’interesse del nome,
della famiglia, per l’interesse comune. Fammi rinnovare le
cambiali, per sei mesi, soltanto. Ti regalerò cinque,
diecimila lire.
Tancredi.
Come vai di carriera! Si vede che hai in animo di amministrarla bene
la dote di tua moglie. Le hai dato ad intendere, anche, di essere un
milionario?
Giordano.
Sa che sono povero.
Tancredi.
E dunque?
Giordano.
Altra cosa è esser povero... dall’essere un fallito.
Tancredi.
Tu sei un letterato; non sei un mercante. Dunque tu non hai paura del
fallimento. Non mi hai scritto, l’ultima volta, che ti avevano
offerta la collaborazione in tante Riviste tedesche, inglesi,
francesi? Ebbene, vuol dire che diventerai un collaboratore... anche
del Monitore
dei protesti!
No;
ti dico di no. La mia parola vale la firma e dovrei pagare per te.
Ventimila lire! Sei matto!
Giordano
(è
agitatissimo: un tremito delle labbra, delle mani mostra la sua
nervosità, il suo dispetto, la sua rabbia, il suo timore di
non poter riuscire)
Ebbene, come ti ho detto, informati a Milano. Non adoperare,
s’intende, il primo che capita, ma uno dei tuoi manigoldi; uno
molto prudente e che abbia rapporti coll’aristocrazia. Bada
bene: sono i Dionisy, che hanno un palazzo in Monte Napoleone.
Tancredi
(con
un’alzata di spalle)
Che ci siano i Dionisy e il palazzo non vuol dire.
Giordano
(con
qualche esitazione: poi vincendosi)
Fa domandare se non è vero che la figlia unica dei Dionisy,
la... (soffre
nel dover dire quel nome a suo fratello, il cui occhio, il ghigno
della boccaccia lurca, hanno dell’osceno nella loro volgarità)
la signorina Emma, era quasi fidanzata ad un ricchissimo giovanotto,
il signor Sebastiani; e se non è vero che il matrimonio è
andato a monte perchè si è innamorata di un letterato,
di Giordano Mari di Padova.
Tancredi
(con
sprezzo)
Peuh! Sarebbe una bella matta da legare; ma non ti credo. Sei sempre
stato un bugiardo, questo lo diceva anche nostra madre e arriva ad
ammetterlo anche Veronica: tu mi vuoi gabbolare
per via delle cambialette. Alle ragazze piace di scherzare, di far le
civette anche coi disperati: ma sposano i quattrini. In ogni modo,
lontan dagli occhi lontan dal cuore, e quando le diranno che sei uno
spiantato, un letterato collaboratore del Monitore
dei protesti
per la picciorleria
di ventimila lire, ti volterà le spalle e sarà come non
ti avesse mai conosciuto. (Vede
di aver punto suo fratello sul vivo; contento ripete le stesse parole
con una sghignazzata).
Giordano.
Ah, no! Anche volendolo, non lo potrebbe più fare. È in
mano mia.
L’altro
continua a sghignazzare. Ma bisogna aver pazienza, ingoiare gli
scherni, gli insulti, soffrire e soffocare la collera; bisogna che
suo fratello gli faccia rinnovare le cambiali o è perduto:
perduta Emma, perduto tutto! Bisogna smuoverlo, bisogna convincerlo.
Ha creduto la cosa assai più facile e sopra tutto sicura. Una
firma; del danaro, più o meno, da sborsare dopo il matrimonio.
E se, invece, quella canaglia si ostinasse? Se non vuole saperne ad
ogni costo? Se lascia protestare le cambiali?... Egli trema convulso
e ansima per la rabbia repressa, per l’orgasmo e per lo
spavento dell’ultimo pericolo. Da plumbeo, è diventato
livido: gli occhi affossati, cattivi. Non è più lui,
Giordano Mari, il bel conferenziere, il gonfio e pettoruto padrone
del mondo: è un altro: un vecchio dalla faccia losca, truce,
curvo, schiacciato sotto il peso del delitto che sta per commettere.
Giordano
Mari (afferrando
ad un tratto, stringendo una mano di suo fratello: la voce alterata,
tremula)
Se ti fo vedere le sue lettere?... È una prova?... Ti
basta?... Mi fai rinnovare le cambiali?
Tancredi
(ha
un lampo negli occhi: il desiderio, la curiosità di quelle
lettere per sè stesse: delle parole amorose, delle smorfie,
dei baci; perchè ci devono essere anche i baci)
Vediamo: fuori le letterine!... Due sole?
Giordano.
Questa l’ho ricevuta a Milano; all’albergo (Gli
dà, infatti, la prima lettera di Emma).
Tancredi
(l’apre,
la legge, slargando la boccaccia, coi due denti che sembrano cadere
dalle gengive scoperte. Sente un profumo delicato uscir dal
foglietto: lo fiuta a lungo, poi sternutisce per fare una buffonata
spiritosa)
E l’altra?... Vediamo l’altra?
Giordano
(Gli
dà anche l’altra da leggere)
Questa l’ho ricevuta adesso alla posta, prima di venir qui.
Non
sono che due parole:
«Tua
Emma.»
Tancredi
non ride più. Sente tutto il veleno della gelosia,
dell’invidia, della rabbia contro suo fratello:
— Sai,
che anche questa qui... è un bel capo? Buttarsi via in tal
modo, senza nessuna vergogna, col primo che capita?
Giordano
(gli
salta alla gola, strozzandogli le parole).
Tancredi
(gridando)
Veronica! Veronica!
Giordano.
Canaglia d’una canaglia! Bada come parli!
Tancredi.
Veronica!
Giordano.
Non sei degno di baciare, colla tua bocca schifosa dove questa
creatura mette i piedi.
Tancredi.
Aiuto! Veronica!
Veronica
(sull’uscio)
Gesù Maria! Cosa succede?
Tancredi.
Mi ammazza per le cambiali!
Giordano.
(spingendolo,
buttandolo contro il letto)
Va via! Sei una canaglia e un vigliacco!
Tancredi.
Te lo giuro, Veronica. È per le cambiali! Ha tentato di
ammazzarmi per le cambiali! Perchè gli ho detto di no!
Giordano.
Sì; per cattiveria, sai, Veronica?... Mi ha detto di no! Per
cattiveria! Perchè mi vuol vedere rovinato, morto. Lo sa,
gliel’ho detto che mi ammazzo. E lui non ci rimette un soldo:
sa anche questo. E gli ho fin promesso diecimila lire di regalo.
Veronica.
Vada di là; si calmi. Parlerò io col signor Tancredi:
lo persuaderò io.
Tancredi.
Dopo che mi ha messo le mani addosso? Piuttosto morire!
Veronica
(spinge
Giordano nella cucina: chiude l’uscio, rimane qualche momento
sola con Tancredi, poi torna da Giordano: piano)
È ancora troppo presto: bisogna lasciare che si calmi. Poi
lasci fare a me. So che cosa devo dire. Gridavano tanto che ho
sentito tutto. Lei, adesso, vada all’albergo. È alla
Stella
d’oro?
Va bene. Più tardi glielo mando io, il signor Tancredi, o le
faccio sapere qualche cosa. Aspetti un momento! (E
la Veronica corre a prendere una spazzola, e pulisce dalla polvere il
cappello e i vestiti del suo Nano, come faceva quand’era
ragazzo, prima di mandarlo a scuola).
Mi deve promettere però...
— Che
cosa?
— Una
volta che l’ha sposata, quella sua signorina di Milano... di
farle buona compagnia. Pensi alla sua povera mamma. È morta
giovane; e lo so io di che male. È morta di lacrime, la
poveretta!
L’arrabbiarsi
non toglie l’appetito a Giordano Mari, e le ultime parole della
Veronica sono state per lui un buon cordiale. Ha fatto onore, dunque,
al pranzo della Stella d’oro: poi, preso il caffè,
ha speso un’altra mezz’oretta fumando, centellinando il
cognac, immollando nel bicchierino tutti i pezzetti di zucchero che
gli sono rimasti. Ma poi, a poco a poco, è tornato inquieto, e
non può più star fermo. È ormai notte; si alza e
va a girare in piazza, tenendo sempre d’occhio il portone
dell’albergo.
Non
viene nessuno.
— Come
mai? Che anche Veronica, non abbia ottenuto nulla?
— Addio
Nano! — È Tancredi che lo ferma, sbucando ad un tratto
fra le colonne dei portici.
— Buona
sera.
— Sono
stato dal Finardi. Ho parlato del matrimonio: riuscirò a
persuaderli. Rinnovazione a sei mesi: ci metteremo d’accordo
per la regalia. Li ho persuasi che protestando adesso, non c’è
più niente da sperare; mentre, aspettando, possono fare un
buon affare, oltre al ricevere i loro quattrini. Domani fisseremo
tutto. Dammi, intanto, le lettere.
— Che
lettere?
— Le
lettere della ragazza.
— Perchè?
— Le
voglio io, come documento. Se le tue sono cabale... io voglio aver
tanto in mano da giustificarmi con quella gente. Non ti persuade?
Allora a monte e buona sera.
Giordano
Mari (fermando
Tancredi che fa per allontanarsi)
Aspetta! Un momento! Ti darò una copia.
— Bravo!
Per farmi dare anche del minchione.
Giordano
Mari (impallidisce
di nuovo. Guarda, fissa suo fratello)
Mi devi giurare che queste lettere non usciranno mai dalle tue mani.
A questa sola condizione...
Tancredi
(interrompendolo)
Le condizioni le metto io, che ti faccio rinnovar le cambiali; e non
ne ricevo. C’è poco da scegliere; o dammi le lettere, o
niente di fatto!
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