PARTE
SECONDA
I.
Il
principio della fine della luna di miele.
Il
commendatore professor Giordano Mari (anche professore, perchè
già prima del matrimonio aveva ottenuta la libera docenza
all’Università di Bologna per un corso sulle Origini
dei Comuni Italiani), il commendatore professor Giordano Mari ha
immaginato e proposto uno straordinario viaggio di nozze a Parigi, a
Bruxelles, in Norvegia, illustrato colle visite al Lemaitre, al
Brunetière della Revue des Deux Mondes; allo storico
Boissier; ai filosofi critici Faguet e De Roberty: poi al Brandes,
allo Strindberg, all’Ibsen, e, naturalmente, al Björnson.
Ma invece Emma, la timida e innamorata Emma, spaventata dall’idea
degli alberghi, della gente, del rumore, ha ottenuto di passare il
primo mese all’Argentera, la villa nel Varesotto, ch’essa
ha ereditato da uno zio materno e che gode tutte le sue predilezioni,
per esser quasi nascosta in una solitaria e fresca vallettina, in
mezzo ad un magnifico bosco di querci e di castagni.
Emma,
subito, non ha osato dire apertamente che quel primo mese, almeno,
avrebbe voluto passarlo nella tranquillità remota, nel gran
silenzio della verzura folta, appena interrotto dal canto
dell’usignuolo e dal mormorio delle acque correnti. Essa ha
bensì ascoltato estatica la descrizione del viaggio
interessantissimo e l’elenco di tutte le maraviglie e di tutti
gli illustri da visitare, ma poi, sul punto di dover cominciare i
preparativi, tremando un pochino, ed arrossendo molto, ha fatto
indovinare al suo signore e padrone quel suo immenso desiderio: e il
suo signore e padrone esita, riflette, si commuove e concede la
grazia.
Nel
cuore di Emma è sempre più viva e più profonda
l’adorazione per il suo idolo. È una adorazione tutta
poesia, tutto abbandono; timorosa quasi, tanto la bella fanciulla si
sente piccina davanti a quel Dio gigante!
E
Giordano Mari, dopo che Emma è stata gravemente ammalata per
le contrarietà, le angosce, il timore di perderlo, dopo che è
guarita solo per miracolo d’amore, perchè ormai tutte le
opposizioni sono state vinte, ogni ostacolo rimosso, Giordano Mari,
comincia ad assumere verso quella bimba innamorata un certo tono
olimpico di salvatore, di protettore... e di despota. Egli si lascia
adorare nella pomposa maestà del suo io magnifico,
tutto lustro e profumato, tutto nuovo e fiammante, sempre nel lungo
abito nero dalle falde svolazzanti. Si lascia adorare come
l’Altissimo, dettando leggi e concedendo grazie.
I
Dionisy, prima furenti contro di lui, poi rassegnati ad accettarlo,
avevano finito col dover pregare, inviando messaggi e suppliche. Era
lui, Giordano Mari, che adesso diceva di no. Per la propria dignità,
per gli scrupoli della propria coscienza, pure protestandosi
innamorato della ragazza, voleva partire, andare in America, non
farsi vedere mai più. Insomma, non poteva, non voleva
assolutamente accettare, concludere un matrimonio che per la distanza
delle due famiglie, per la ricchezza della moglie, lo avviliva nella
sua fierezza d’uomo, nella sua delicatezza forse eccessiva,
forse anche troppo sospettosa.
Il
buon dottore scrive per incarico della famiglia; poi fa una corsa a
Genova dove il Mari si è recato, e i più temono per
imbarcarsi:
— Insomma
— vero? — data, diremo, l’urgenza delle circostanze
sempre più critiche, bisogna mettere da parte e in certo qual
modo sacrificare, o modificare, un eccessivo amor proprio, quando ne
consegue la felicità, e più specialmente la salute, già
ormai compromessa, di una persona giovane, buona e che merita tutti i
riguardi, sicuro, tutti i sacrifici, oltre alle maggiori attenzioni
(pausa:
sospiro),
e verso la quale si dice e si protesta di nutrire, appunto, certi
sentimenti di... di devozione ed anche — vero? — di
affezione.
Giordano
Mari sospira profondamente, commuove il buon dottore asciugandosi una
furtiva lacrima, ripete di essere innamorato, perdutamente innamorato
della signorina Emma... e impone molte condizioni che, ad una ad una,
vengono poi tutte accettate. Sono, invero, condizioni, come quella,
per esempio, di ottenere una cattedra per potersi mantener
indipendente in faccia alla moglie troppo ricca e di una gran
famiglia, che potrebbero essere interpretate in due diversi modi:
come esagerazione del punto d’onore, od anche, in fondo, come
egoismo bello e buono; come furberia per mettersi a posto; come
orgoglio, ambizione, interesse e vanità personale. Ma, adesso,
per Giordano Mari spira l’aura favorevole. Se prima era di moda
ingiuriarlo, calunniarlo, vilipenderlo, adesso, invece, è di
moda l’esaltarlo. Qualunque cosa faccia o dica Giordano Mari, è
tacitamente convenuto che dev’essere una gran bella cosa. Tutti
i suoi sentimenti sono nobili, i pensieri delicati, le azioni da
perfetto gentiluomo. La D’Arborio gli ha mandato all’albergo
un suo manoscritto da leggere; al club lo consultano sulla biblioteca
e gli domandano, in confidenza, il valore, vero, delle pièces
dell’Ibsen; la marchesa Gonzales lo invita a pranzo ogni
giovedì, e donna Fanny, che è ritornata amicissima di
Emma ed ha imposto a Guido Bardi «che non si parli più
del Taine!», lo invita, invece, tutte le domeniche, con sua
suocera e coll’onorevole.
Nella
famiglia Dionisy, ormai, è tutto un entusiasmo per Giordano
Mari; entusiasmo accresciuto per l’odio ancora dissimulato, ma
accanito, esistente fra i Dionisy e i Sebastiani. Il cavalier
Venceslao non può più sonare un pezzo della Traviata
senza farlo sentire al suo futuro genero; la signora Letizia gli
confida, tra i profumi, le caramelle e i misteriosi allettamenti, nel
suo angolo buio, le illusioni e le delusioni di una salute troppo
gracile e di un cuore troppo sensibile; e il buon dottore, che, per
amore di Emma, lo veglierebbe anche di notte pur di risparmiargli un
po’ d’infreddatura, sta studiando e dosando apposta, per
il suo stomaco e la sua voce, un nuovo vino chinato, da bersi prima
delle conferenze.
Un
altro, invece, per amore di Emma, Carlo Borghetti, è andato a
fare un giro in Germania. Ha provato, ma non ha potuto resistere a
rimanere in quei giorni a Milano. È partito; è fuggito!
Ritornerà.... chi sa quando.... E intanto, anche Carlo
Borghetti, che, una volta lontano da Emma, sente il bisogno di
avvicinarsele, continua a scrivere a Giordani Mari, mandandogli
appunti, note, aggiunte, correzioni per l’Ambrogio vescovo.
Emma...
Emma sola non s’è mutata. Essa lo adorava prima, il suo
idolo, quand’era così mal giudicato; lo adora adesso che
tutti gli rendono giustizia, e si abbandona nelle sue braccia, tutta
cosa sua, come in quel primo incontro dei loro sguardi,
nell’attrazione arcana della simpatia, era corsa a lui, già
tutta sua, la sua anima.
E
quel primo mese all’Argentera è per Emma un dolcissimo
sogno, e per Giordano le più audaci speranze, le brame più
ardenti diventate realtà.
In
fatti, tutto ciò che egli aveva desiderato, voluto, ormai gli
appartiene: la bellezza florida della vergine innamorata,
appassionata, che nel candore ingenuo e nei trasporti del primo amore
fa quasi un umile omaggio di sè stessa al suo signore; e
insieme anche la bellezza fertile della villa magnifica, il giardino
inglese, il bosco immenso che la circonda. Egli, finalmente, ha
ottenuto colle gioie dell’amore anche gli agi della vita: le
lunghe passeggiate con Emma pei sentierelli fioriti e solitari,
complici e confidenti, i folti rami dei faggi e le spesse frondi dei
cerri e dei castagni, terminano sempre ad un dato punto prestabilito
dove trovano in attesa la comoda vittoria, coi due giovani sauri, che
non patiscono l’ombra.
E
le sere?.... Oh, le sere deliziose! Lui solo che parla, esaltandosi,
vantandosi, improvvisando, mentre Emma lo ascolta fissandolo
estatica, incantata, in adorazione... e al tocco, al tocco preciso
delle dieci, Lorenzo, il cameriere, sempre in tutto punto nel frak
irreprensibile, che entra passo passo senza far rumore, portando il
servizio splendido del thè, tutto d’argento. E
l’assoluta rinunzia di Emma ad ogni atto di padronanza, ad ogni
diritto, su tutta la sua casa; la sua piena sommissione così
nell’intimità della vita, come nell’amministrazione
dei beni; e, per ciò, la deferenza del ragioniere, la
soggezione del fattore, le scappellate dei contadini e il suono, così
piacevole di quelle due parole: «signor padrone» che lo
accompagnano dovunque e che, mutate nell’espressione di un
sentimento più profondo, più squisito, più
poetico, egli legge persino negli occhi amorosi di Emma!.... Tutto
ciò è per Giordano Mari la felicità; queste,
sono queste le nuove gioie e i veri e sicuri godimenti dell’amore
matrimoniale; e però non con Emma soltanto, ma con Emma e con
tutta l’Argentera, compresi i cavalli, le carrozze, i servitori
e i villani, egli passa beato i suoi giorni nella più perfetta
luna di miele.
Ogni
mattina, dopo un ultimo bacio all’adorata, che lascia alle cure
della toeletta, scende in giardino, dove lo aspetta il suo
fattore per ricevere i suoi ordini. Nel letterato, coi nuovi
possedimenti, è divampata una nuova passione, quella
dell’agricoltura; e col fattore gira e discute a proposito
degli impianti dei vigneti e della peronospora, delle varie
coltivazioni dei terreni, della segatura, e del filugello, finchè
Emma lo chiama lei stessa dalla finestra, a terreno, della sala da
pranzo
— Vieni?
È ora di colazione!
— Brava!....
Portino in tavola!.... — continua a discorrere col fattore e a
farsi ammirare, spiegandogli come, per un po’ di nevrastenia
del suo stomaco, guadagnata col grande e continuo lavoro a tavolino,
in mezzo ai libri ed alle carte ingiallite, egli non può più
aspettare quando si mette a tavola. Diventa nervoso, furioso, e
perciò preferisce far aspettare sua moglie per esser sicuro,
quando arriva lui, di trovar tutto pronto e darci
dentro,
subito!
Ma
un bel giorno — come mai? — comincia a perdere l’appetito
e ad essere oppresso dal sonno. Dopo colazione, dopo pranzo —
di colpo — gli piomba addosso il sonno come una
schioppettata!... Egli deve fingere con Emma di aver qualche lettera
da scrivere, le bozze dell’Ambrogio da correggere; si
chiude nello studio e dorme. Che sia il vino?... Beve acqua e
continua a dormire. È un sonno pesante; una fatica, invece
d’un riposo, che gli aggrava lo stomaco e la testa. Poi, quando
vuol mutare il tempo, si sente inquieto, irascibile, gli par d’essere
di vetro; gli dolgono le giunture delle dita. — Che sia la
gotta?... — Poi un dolorino persistente alla nuca — una
punta come di tarlo che roda... — e un formicolio alle gambe...
Comincia a capire e si spaventa.
Basta,
basta, villa Argentera!.... Basta per il momento, e quando si
ritorna, bisogna riempirla di parenti, di amici, di distrazioni. Emma
è giovane, molto giovane, e ha diritto di godere il mondo, di
divertirsi!
Dopo
colazione: è arrivata la posta:
Emma
(è
seduta al caminetto. È d’ottobre, piove e fa freschino.
Legge una lunga lettera del babbo che le descrive il grande successo
ottenuto dall’Otello
a Parigi
con Tamagno, e le esprime tutto il suo grande compiacimento, come
musicista e come cittadino).
Giordano
(finge
di leggere il Corriere
della Sera,
e invece guarda, studia sua moglie: fra sè)
Che bella cera!... Diventa fin troppo grassa! (dopo
un momento, posa il giornale sul tavolino: si alza, passeggia; va
alla finestra).
E intanto continua a piovere!.... Quando piove anche la campagna non
è allegra.
Emma
(corre
anche lei alla finestra, pigliando a braccetto e stringendosi a suo
marito)
Perchè? A me, invece, piace tanto! Guarda! Non c’è
più nessuno! Non si vede più niente! Come tutto è
lontano, perduto! Mi piace tanto! (Abbracciandolo)
Mi par che siamo ancora più soli!
Giordano.
(scostandosi)
Bada! Può venire Lorenzo.
Emma
(tornando
a tirarselo vicino, nel vano della finestra, con le due mani, con
forza) Ma
no! Anche Lorenzo, adesso fa colazione. Da qualche giorno hai una
gran paura di Lorenzo!
Giordano
(guardando
sempre dalla finestra)
Che brutto tempo! E laggiù, come si fa sempre più
scuro! Ne avremo per un pezzo.
Emma
(in
estasi: sorridendo)
Magari! Mi par d’essere sola con te, in mezzo al mare! Di’,
Nino (stringendosi
di nuovo e molto)
non ti piacerebbe di essere in mezzo al mare?... Noi due soli —
soli, soli, soli. — Che incanto! Che sogno! Che felicità!
E tu? Rispondi, dunque! Ti piacerebbe?
Giordano
(dopo
aver starnutito perchè ha preso dell’umido)
Se hai sempre detto che lo soffri il mare?
Emma
(coi
begli occhioni che subito si riempiono di lacrime)
Come sei oggi... cattivo! Perchè mi rispondi così,
cattivo?
Giordano
(graziosamente)
Perchè sei una pazzerella. Carina tanto, ma pazzerella molto.
Emma
(torna
a sorridere: appoggia le due mani alle spalle di Giordano che sta
diritto: alzandosi in punta di piedi per dargli un bacio sulla bocca)
Io non ci arrivo! (Un
po’ dondolando: sull’aria della ninna-nanna)
No... no... no! Io sola non ci arrivo! No... no... no!
Giordano
(le
dà un bacio in fretta: poi subito, volendo cambiar discorso)
Ha scritto il babbo, non è vero? Oh, da brava! Sentiamo che
cosa scrive il nostro caro papà!
Emma
(mortificata:
gli dà la lettera)
Prendi; leggi.
Giordano
(con
molta nobiltà)
Oh, questo no; mai. Per massima, io non leggo le lettere che non mi
sono dirette; mi sembra un’indelicatezza, se non altro, verso
chi le scrive.
Emma
(lo
guarda e non può a meno di ammirarlo: suo marito ha sempre
ragione)
È stato a Parigi per l’Otello
e...
Giordano.
No, no, no, cara. Leggi,
adagio, tutta la lettera. Mi fa tanto piacere sentirti a leggere.
Leggi tanto bene, hai una voce tanto bella. Siedi al tuo posto, da
brava; vicino al fuoco. Dopo mi leggerai anche la lettera della
mamma.
Emma.
(lusingata,
legge le due lettere).
Giordano
(intanto,
seguita a camminare su e giù e pensa come intavolare il
discorso della partenza dall’Argentera. Quando Emma ha finito)
Brava! Tu sei molto brava e molto buona; e sei anche molto
ragionevole. Questa, anzi, è la tua miglior qualità,
perchè è la più rara di tutte; specialmente in
una figlia unica.
Esima.
E a che proposito mi dici tutto questo?
Giordano
(con
galanteria)
A proposito... del bene che ti voglio! (Torna
a passeggiare su e giù, un po’ per tenersi lontano da
Emma e molto per prudenza, perchè sente il sonno che è
lì lì per piombargli addosso)
Io, poi, devo essere ragionevole per forza; e sai come fo? Mi trovo
bene in un luogo, per esempio, e non ci posso più stare? Io
trovo il coraggio di dimenticare tutto il bello e tutto il buono di
questo luogo, per non vederne più altro che gli inconvenienti,
gl’incomodi; se non ce ne sono, li creo, e così parto
contento! All’Argentera, ecco... troveremo che ci dovrà
piovere per un pezzo!
Emma.
(si alza,
dando un balzo)
Vuoi partire? Nino! Vuoi partire?
Giordano
(con
un gran sospiro)
Non io, cara, voglio; ma lo vogliono gli altri; i miei impegni
precedenti. Le mie conferenze di Milano, di Napoli, di Roma, sui
Precursori
della Rivoluzione.
Emma
(col
più vivo interesse, avvicinandosi)
Le tue conferenze? Hai da riprendere le tue conferenze?
Giordano.
Certo: e non soltanto per la gloria, ma anche per la cattedra.
(Guardando
Emma: sospirando melanconicamente)
Finchè resto all’Argentera, non mi passano ordinario; e
tu sai che io non sono ricco come te. Io ho l’obbligo, e tanto
più ora, di lavorare per vivere. Mi ha scritto il Consiglio
dell’Associazione Universitaria di Bologna, poi la Presidenza
della Filarmonica napoletana; poi tutti quegli altri di Roma. Sono
conferenze che dovevo tenere fin dallo scorso maggio. Le ho sempre
rimandate per te. Ed ora ... (un
altro sospiro, più profondo)
Desidererei, vorrei tanto, per l’egoismo mio, poter scrivere a
quella gente: non vengo più; non fo più conferenze. Ma,
come si fa? Il ciclo, capisci, resterebbe interrotto.
Emma
(vivamente)
No, no! Devi rispondere che vai! Rispondi subito che vai!
(Sforzandosi
per sorridere, mentre due lacrimone le rigano le guance)
E... dovremo partire... presto... non è vero?
Giordano.
Presto... secondo. Quando anch’io sarò pronto. Ormai,
son giù di esercizio, ho tutto dimenticato; anche i miei
studi. Una conferenza, specialmente la prima, a Bologna, alla
Università. Credi, cara mia, una conferenza, una vera e bella
conferenza, costa assai più d’un libro.
Emma
(con
entusiasmo)
Lo credo! (carezzevole,
consolandosi, rianimandosi)
Dunque, non si parte... così subito?
Giordano.
No, ma... (guardandola:
accarezzandole i capelli con aria e affetto paterno)
Intanto ho bisogno di molto raccoglimento; di quiete assoluta, per
poter riordinare le mie idee. Dunque, figliuola
mia...
(s’interrompe
sorridendo).
Emma
(lo
guarda: è la prima volta dopo il matrimonio che la chiama
«figliuola mia». Sorride anche Emma).
Giordano.
Dunque, mentre io dovrò passare le mie ore a leggere, a
scartabellare, a consultare carte e documenti, tu, pensa un pochino
alla casa. E finchè c’è tempo dinnanzi a noi per
far tutto con garbo e con comodo, pensa anche ai preparativi della
partenza. Ricordati che di queste faccende io non me ne occupo
affatto. Non so fare; e poi ho altro in mente. Quando ho preso con me
le mie carte, basta. (Sfiorandole
appena i capelli con un moto rapido delle labbra: poi, subito, con
serietà e imponenza, allontanandola da sè)
Ed ora, figliuola
mia, non
c’è tempo da perdere. Bisogna rispondere a Bologna, a
Napoli, a Roma. — Parla.
Emma
(lo
guarda, interrogandolo, coi grandi occhi incantati).
— Parla!
Che cosa? Devo rispondere di sì, o di no?
— Sì,
sì, sì! Devi rispondere di sì! Oggi stesso!
Subito! Ma pensa, io sono tanto fiera di te! Così contenta,
così beata, di saperti ammirato, apprezzato, desiderato! Io
che ti amo per te, e che ti adoro perchè sei così
superiore a tutti gli altri! Io che vivo della tua gloria; la respiro
come l’aria; mi fa bene! So che non ho nemmeno il diritto di
volerti tutto per me! Il tuo cuore, sì, non è vero?
(gli
mette, sul cuore la piccola manina bianca, ingemmata).
Questo, sì? Tutto, tutto mio! Ma lì (col
ditino, graziosamente, tocca la fronte del marito),
lì... ha diritto anche l’Italia... e tutti i popoli
civili! Tutti i contemporanei e tutti i posteri! (ride,
e guardandogli la bocca e i denti bianchi ha una voglia ardente di
dargli un bacio: poi, torna seria).
Come avrei rimorso di darti un dispiacere, così avrei pure un
gran rimorso di farti sacrificare per un mio capriccio, per me sola,
un’ora di lavoro. (Appoggiandosi,
abbandonandosi tutta sul suo petto)
Sento che sarei indegna di te; che non ti meriterei più...
(guardando,
con uno sguardo lungo senza alzare il capo, fissando ancora la bocca
di Giordano e sospirando)
più più... più nemmeno un bacio!
Giordano
(serio,
calmo, dignitoso: sollevando Emma colle due mani, tenendola ritta, un
po’ discosta)
Allora, se devo rispondere, lasciami andare.
Emma
(tenendolo
per un braccio)
Sì! Va! Va! Ma va!
Giordano
(con
gravità)
Lasciami andare davvero; si fa tardi per la posta. (Assumendo
un’aria paterna)
E poi anche tu, cerca di occuparti, come ti ho detto, di far qualche
cosa. Sei ancora troppo giovane per restare tutto il giorno a
dondolarti in ozio. Guai, abituarsi! Finiresti come le donne turche o
come tua madre, a passar tutta la vita sdraiata sopra una poltrona.
Bisogna muoversi, camminare, stancarsi qualche volta, stare in
esercizio colla mente e col corpo. Mentre io sono nel mio studio, per
esempio, a lavorare, tu dovresti fare qualche bella passeggiata,
arrampicarti su per il bosco.
Emma.
Piove.
Giordano.
Non dico per oggi; ma per un altro giorno. E poi, leggi qualche cosa;
mettiti un po’ al corrente colle ultime pubblicazioni, colle
novità più importanti. Pensa che a Bologna, a Napoli,
Roma, devi vivere con me in un mondo intellettuale! Quand’eri
ragazza, mi piaceva tanto la tua passione per i fiori; occupati del
giardino.
Emma
(guardandolo
con un sorrisetto assai espressivo, tra il timido e il birichino)
Piove.
— Piove
oggi, ma non pioveva ieri e, speriamo, non pioverà domani.
Sona un po'. Hai fatto malissimo a trascurare il pianoforte. Sai
quanto ci tiene anche il papà! Sonami qualche cosa. Io di là,
mentre scrivo, ti sento e mi diverto; mi fa tanto piacere!
Emma
(carina
molto: ricordando il loro primo colloquio, la sera del concerto e
guardandogli sempre quella bocca, che vuol far la cattiva, e i denti
bianchi)
Sonerò le Trascrizioni
di Liszt sull’Aida.
Vuoi?
Giordano
(che
non può più lottare contro il sonno: senza capir
niente)
Ma sì, appunto! Sona qualche cosa! Quello che vuoi! Per me fa
lo stesso! Io penserò che sono le tue manine care (le
bacia, una dopo l’altra)
e sarà per me uno squisito godimento spirituale. (Fa
di nuovo per avviarsi verso lo studio).
Emma
(lo
lascia andare fin quasi sull’uscio, poi gli corre dietro e lo
ferma ancora).
Giordano.
Ma che hai, cara? Perchè mi guardi così. Piangi? (Colla
voce un po’alterata per un principio di collera)
Ma che cosa vuoi, infine? Ebbene, risponderò a Bologna, a
Napoli, a Roma, risponderò di no! Ma o sì o no, devo
rispondere; non sono un ineducato! — lasciami andare!
Emma.
Sì! Sì! Non ho detto di sì? Và subito a
rispondere di sì! Voglio! Non è questo! Non è
questo che mi affligge, che mi rende melanconica, triste...
Giordano.
E allora? Che cosa?
Emma
(balbettando)
Che dolore, che gran dolore dover lasciare l’Argentera! Dio,
Dio! Pensandoci, mi sembra che in quel giorno in cui dovrò
partire finirà qualche cosa... una parte della mia vita! Che
dolore sarà quel giorno, per me... E per te, Nino?...
Giordano
(cogli
occhi semispenti)
Anche per, me, sicuro, un grandissimo dolore! Ma torneremo, questa
primavera. Persuaditi, cara figliuola mia, per l’autunno,
specialmente quando cominciano le piogge, e qui poi non finiscono
mai, non è un posto molto sano. La villa è troppo
bassa, e per ciò non può a meno di essere umida.
All’Argentera, per star bene, ci vuole il sole e il caldo.
Emma,
malinconicamente, va al pianoforte, ma senza più nemmeno
pensarci, non sona le Trascrizioni di Liszt sull’Aida.
Sona svogliata, distratta una cosa qualunque, tanto per sonare,
mentre guarda dalla finestra: il giorno è diventato bigio,
oscuro, triste. Continua a guardare, continua a sonare, e quella
pioggia, tutta quella pioggia minuta, fine, silenziosa, che gocciola
dai rami senza foglie le penetra, con un brivido, nelle ossa e
nell’anima.
...
Giordano Mari, entrato appena nel suo studio, vi si chiude dentro a
chiave; mette uno sull’altro i cuscini del sofà; si
sdraia comodamente con un oh! di sollievo e quasi subito si
addormenta e comincia a russare con un sottile fischiettio.
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