II.
Il ciclo
delle conferenze.
A
Bologna:
Giordano
Mari ed Emma sono appena tornati all’albergo, dopo la
conferenza sui Precursori della Rivoluzione. Sono soli, nel
loro salottino particolare. Carolina, la cameriera di Emma, è
andata nell’altra stanza a preparare tutto l’occorrente
per l’abbigliamento: il conferenziere e sua moglie, i nipoti di
S. E. il ministro dell’istruzione pubblica sono invitati a
pranzo dal prefetto.
Giordano
Mari (lasciandosi
cadere di peso sul canapè, affranto dall’emozione del
grande successo)
Che entusiasmo! Perfino sulle scale! Nel cortile! Sul portone! Un
vero delirio! Che bravi giovani! L’ho sempre detto! Nei giovani
c’è molto da sperare! (Asciugandosi
il sudore).
Mi hanno quasi commosso. E sì, che dovrei esserci abituato.
Emma
(un
po’ incerta: un po’ titubante: poi, finalmente,
arrischiandosi)
Ma... è stata ancora la tua conferenza... di Milano.
— Quasi;
press’a poco. Nella seconda parte, per altro, ho detto molte
cose nuove. (Con
grande sicurezza)
Te ne sei accorta?
Emma
(lo
guarda, rimane convinta e risponde di sì. Poi, dopo un momento
— Carolina è sempre nell’altra stanza —
corre a sedersi sulle ginocchia del trionfatore, buttandogli le
braccia al collo)
Come parli bene! la tua voce è una musica, un vero incanto! E
come sei bello, tu solo, in alto, in mezzo alla folla muta, estatica!
Io ti adoro! E come mi piaci quando fai dell’ironia; quando
ridi parlando. Ridi. Ti prego, ti prego: ridi.
L’altro
ride, ed Emma, finalmente, gli dà quel bacio che le era
rimasto sulle labbra per tutta l’ora della conferenza.
Giordano.
Se non si cambia vita, figliuola mia, sarà un affar serio.
Emma
(arrabbiandosi)
Hai promesso di non dirmi più figliuola
mia. Non
mi piace. Mi è antipaticissimo!
Giordano.
Vorrei soltanto persuaderti che, se per la conferenza mi son valso,
in parte, del materiale di quella di Milano, ciò dipende dal
fatto che non mi dai il tempo di studiare, di raccogliermi, di
coordinare i fatti, le idee, gli appunti presi. Insomma, per parlare
un’ora al pubblico bisogna avere la mente preparata, ben
nutrita di argomenti, e sopra tutto riposata.
Emma
lo guarda, e risponde: «Verissimo», ma come un’eco.
Si ricorda del loro primo colloquio in via San Paolo: «... Come
parlo per un’ora, potrei parlare per due, per tre, per un
giorno di seguito; le mie non sono conferenze: io parlo soltanto
perchè ho qualche cosa da dire». Fosse vero? Fosse
proprio stata lei, all’Argentera, a fargli perdere la
freschezza della mente, l’agilità del pensiero, a
intorpidirlo nell’ozio? Che rimorso sarebbe questo per lei! Che
gran rimorso!
Giordano
Mari. A che
pensi, carina?
Emma.
A Napoli. Per Napoli, preparerai una bella conferenza tutta nuova?
Giordano
(subito:
pigliando la palla al balzo)
Ma... secondo. Bisognerebbe indurci a compiere un ben penoso
sacrificio.
— Lo
farò! Lo farò!
— Tu
dovresti ritornare a Milano, dalla mamma, ad aspettarmi.
Emma
(spaventata)
Ritornare a Milano?... Sola?
Giordano.
Diversamente, con te vicino, mi conosco. (Abbracciandola
teneramente)
Tutti i più bei proponimenti sfumano.
Emma
(disperata)
Senza te? Senza te? Ma Nino, Nino mio, come potrei vivere un giorno,
soltanto un giorno, senza di te? Ma ti par possibile? Lo credi
possibile? Piuttosto ripeti la conferenza di Milano anche a
Napoli!... Napoli, come studi, come centro letterario, non è
più importante di Bologna.
Giordano
(tanto
per cominciare a mettere i piedi innanzi)
E poi? Quando saremo a Roma?
Emma
(agitata,
impressionata, inquieta)
A Roma? A Roma?...
— Alla
Palombella. Lo zio mi ha scritto, che c’è già
un’aspettazione vivissima.
— Ma
a Roma c’è tempo! Sì! Si! Sì!... Per Roma,
preparerai la seconda parte del tuo ciclo; una conferenza nuova,
bella, la più bella di tutte! Me lo devi promettere. Prometti?
Giordano
(sorridendo
con molta diplomazia)
Io, per me, te lo prometto. Ma... sai bene. Non dipende solo da me.
A
Napoli:
A
Napoli, prima ancora del conferenziere, ottiene un trionfale successo
sua moglie, la nipote del ministro Albertoni, la ricchissima signora
milanese: — Una Dionisy!
Giordano
ed Emma sono arrivati a Napoli di lunedì ma la conferenza non
sarà tenuta, alla Filarmonica, altro che la domenica dopo.
Emma non è mai stata a Napoli; per questo, gli sposi hanno
anticipato di alcuni giorni il loro arrivo.
L’espansiva
cordialità meridionale si è rivolta, spontaneamente,
alla giovane signora, così bella e così elegante; così
gentile, amabile, briosa. Fra il gran codazzo della gente seria, che
circonda l’illustre pensatore per via dello zio Eccellenza —
professori, artisti, letterati di carriera; qualche vecchio tarlo
della burocrazia, qualche giovane postulante, con una raccomandazione
da fare, od una parola da far dire, una croce od una commenda da
ricordare, un posto od un avanzamento da ottenere — e fra la
schiera giocondamente disinteressata degli «elegantissimi»,
pieni di quattrini, di spirito e di titoli risonanti, che fanno la
corte alla moglie — si è formata attorno ai coniugi Mari
una folla, una vera folla, solo intenta ed instancabile nel
festeggiarli, nel rendere loro ancor più gradita, più
splendida e più simpatica la proverbiale ospitalità
napoletana.
Si
aspetta con ansietà rumorosamente cortese la conferenza alla
Filarmonica; ma intanto tutti corrono affaccendati vicino ad Emma,
smaniano e perdon la testa per lei, la donna «ideale» la
«soavissima», la «splendida milanese», la
«magnifica lombarda», «la divina»,
l’«incantatrice».
Ed
Emma? Emma è felicissima; è un sole raggiante. Essa
vede che tutto ciò lusinga l’amor proprio di Giordano;
che tutto ciò lo rende più allegro e più
amoroso, ed è lieta del suo trionfo, è contenta di
piacere perchè così sente, capisce di piacere molto di
più anche a suo marito.
Egli
infatti la guarda, sorridendole, con intimo compiacimento, come
scoprendo in lei nuove bellezze, come se si accorgesse adesso, per la
prima volta, che sua moglie è bella assai.
All’Argentera
erano soli; a Milano, Emma vi era nata, vi era cresciuta; che fosse
bella non era mai stata una novità per nessuno, nessuno quasi
ci badava, e però avea finito col non badarci, o quasi, anche
suo marito. E, come prima donna Fanny avrebbe perduto per lui tutto
il piccante della buona avventura e non sarebbe stata altro che una
faticosa servitù senza le feroci gelosie di Guido Bardi; così
adesso, quando egli rientra la sera l’Hotel des Etrangers,
e il Tedesco di guardia chiude la porta in faccia a tutta quella
folla desolata ed invidiosa degli adoratori di sua moglie, egli sente
il bisogno di stringere più forte il braccio di Emma e di
dirle con passione: Sei mia, tutta mia, soltanto mia.
E
poi all’Argentera, in quelle ultime settimane faceva freddo...
e a Napoli continua a far caldo; all’Argentera era inverno e a
Napoli una perpetua primavera; all’Argentera pioveva e a Napoli
brilla il sole; all’Argentera c’era il Monterosa che
intirizziva le gambe e a Napoli il mare e lo scoglio di Frisio che
invitavano a cantare «Santa Lucia...».
E
poi... Giordano Mari le pensava tutte. Non sarebbe stato bene
prepararsi la scusa di Napoli per il caso che a Roma non fosse stato
in grado per la seconda conferenza del famoso ciclo? Già, era
più per Emma che gli premeva, non per il pubblico. Lo
conosceva bene il pubblico delle conferenze: beve grosso. Basta
parlar forte e non fermarsi mai... Quelli che stanno a sentire non
sanno fare altrettanto... e maravigliati battono le mani.
Ma
a Napoli, proprio a Napoli, gli succede per la prima volta di
confondersi, di incespicare: ad un dato punto deve fermarsi. Il
periodo gli sfugge ed egli rimane a bocca aperta, colla sua mente,
colla sua memoria smarrite dinanzi al vuoto. È il
balbettamento, l’ingarbugliamento d’un attimo; salta
tutto Diderot, si riprende con Rousseau, e la conferenza finisce con
un’imponente ovazione... venti minuti prima.
Nessuno,
meno Emma, se n’è accorto; ma Giordano ne rimane assai
impressionato, tanto più che la sonnolenza, sparita appena a
Napoli, gli ricomincia, improvvisamente, più grave, come un
affanno, come una pena, e il dolorino della nuca, rode, rode,
continua a rodere.
Giordano
(ad
Emma: l’ultima sera che restano a Napoli: invece di tenersela a
braccetto, la lascia andar avanti sullo scalone dell’Hôtel
des Étrangers e
le tien dietro, faticosamente, appoggiandosi, tirandosi su per la
ringhiera)
A me quest’aria calda del mare, questo continuo scirocco dà
maledettamente alle gambe. E a te?... No?
Emma
(voltandosi
in alto, sulla scala: tutta illuminata dalla luce elettrica, bella
come la salute, la giovinezza e l’amore)
No. Io mi sento benissimo! Mi piace tanto Napoli! (Sorridendo
a suo marito che si è fermato sulla scala, qualche gradino più
giù, per tirare il fiato)
«Oh dolce Napoli... Oh suol beato!»
Giordano
(brontolando)
Ed io non vedo l’ora di essere a Roma.
Il
giorno dopo, alle due, alla partenza del diretto per la capitale,
tutta la corte di Emma e di Giordano Mari si trova alla stazione,
sotto la tettoia, per i saluti. Gli adoratori di Emma le hanno
riempito il coupè di fiori; gli ammiratori
dell’illustre conferenziere gli hanno gonfiato le tasche a
furia di giornali colle recensioni, le note, i dispacci che riportano
il grande successo dei Precursori alla Filarmonica. Giordano
Mari vuol darsi l’aria di non leggere i fogli politici altro
che per avere le notizie d’Africa, ma invece ne è
ghiotto, smanioso. Li scorre tutti colla speranza, coll’ansia
di trovarvi il suo nome; e gli articoli più favorevoli se li
fa leggere ad alta voce da Emma.
Un
giovane «novelliere e pubblicista» che si è già
raccomandato per un posto di professore, anche straordinario, alle
scuole tecniche: gli si avvicina presso il predellino del vagone con
aria di mistero:
Una parola. Scusate, commendatore.
Giordano
(gli
sfugge un primo moto di noia, ma poi, dissimulando, scende dal
predellino e lo piglia affettuosamente sotto braccio per sentire).
Quell’altro
(sempre
più misterioso)
Voi, con Pietro Schiavino, ci avete del rancore?
— Pietro
Schiavino? Chi è?
— Il
direttore del Popolo.
Mentre
Emma faceva la sua toelettta la mattina o si abbigliava la sera per
il pranzo, senza dir niente nè a lei nè a nessuno,
Giordano Mari aveva fatto la sua brava visita a tutte le redazioni
dei giornali; però egli domanda assai meravigliato:
— Come?
C’è un giornale che si chiama il Popolo
a Napoli?
— No;
è un giornale di Roma; un giornale radicale.
Giordano
Mari (con
aria olimpica, stringendo sprezzamente le labbra, ma col cuore che
gli batte forte)
Io non mi occupo affatto di giornali; non ho tempo. Bisogna che me li
mandino o che qualcuno me li faccia vedere.
— Pietro
Schiavino è assai popolare a Roma, e il Popolo,
quantunque ai suoi primi numeri, ha una bella diffusione.
— Che
cosa dice di me?
— È
un attacco sanguinoso. Si capisce che si sta preparando una guerra a
coltello contro di voi. Forse, perchè siete il nipote di Sua
Eccellenza.
Giordano
Mari (colla
voce alterata)
Già; questo zio ministro è un bel regalo di mia moglie!
— Io
vi sono amico dichiarato, e mi vanto un grande ammiratore vostro
anche in mezzo ai vostri nemici.
— Nemici?
Io non credo di averne.
Quell’altro
(cupo,
e più sottovoce: come fosse per svelare una congiura)
Moltissimi. Ma voi non dovete temere. Non ci dovete manco pensare.
Siete tanto forte, voi! Tanto grande! — E accettate un mio
consiglio. Vi accorgerete presto che io vi voglio bene veramente: più
assai di tutti costoro! (accennando
alla folla che circonda Emma)
Più assai! (Dandogli
il Popolo
col titolo
piegato,
nascosto)
Non lo dovete leggere questo giornale, lo dovete stracciare! E, sopra
tutto, state bene attento che qualcuno di questi falsi amici vostri
non lo faccia leggere a donna Emma.
...
Il treno, finalmente, si muove, parte: tutti salutano alzando i
cappelli, sventolando i fazzoletti, e gridando: «Arrivederci!
Arrivederci!» — L’espansione di quell’ultimo
addio è straordinaria.
Emma
(dopo
esser rimasta un pezzo col capo fuori del finestrino, rientra, ancora
tutta rossa, tutta commossa, e comincia a levarsi il cappellino).
Giordano
(si
è già accomodato, rincantucciato, nell’angolo
opposto, col pensiero fisso, inquieto, nel numero del
Popolo che
ha in saccoccia e che brucia di leggere; ma non si arrischia per
timore di Emma).
Emma
(con
entusiasmo pei suoi napoletani)
Quanto sono buoni! E come ti vogliono bene!
— Anche
a te, mi pare.
— Torneremo
a Napoli? Mi ricondurrai a Napoli, non è vero?
— Torneremo;
ma, intanto, se alzi il vetro del finestrino, mi fai piacere. In
questo maledetto paese, non si sa mai se fa caldo, se fa freddo,
quando è estate, quando è inverno: fa un po’ di
tutto, tutti i giorni.
Emma
(correndo
a sedersi sulle sue ginocchia)
Non essere cattivo colla mia Napoli! L’amo tanto! (Cantando
sottovoce e baciandolo sui capelli)
«Napoli! Napoli!... O dolce Napoli!»
— Dovresti
fare una cosa.
— Che
cosa, Nino?
— Dovresti
prenderti un angolo tutto per te sola; così si sarebbe in due
a stare più comodi.
Emma
si alza e si allontana mortificata, senza dire una parola.
Giordano
(premendosi
la nuca)
Ho il mio solito mal di capo. La conferenza di ieri mi ha stancato
assai. Scusami.
Silenzio.
Giordano Mari, mettendosi la berrettina da viaggio, lancia
un’occhiata a sua moglie: Emma, seduta immobile, al suo posto,
guarda ostinatamente dal finestrino. Giordano pensa che quello è
forse il momento opportuno per leggere il Popolo. Forte:
— Emma!
(chiamandola)
Emma! Vuoi leggere qualche giornale?
Emma
(alzandosi
e correndo accanto a suo marito con una gran voglia di far la pace)
Parlano della tua conferenza?
— Sì,
prendi; il Mattino,
il Corriere
di Napoli,
il Don
Marzio,
il Fortunio.
— Leggo
io?... Ad alta voce?
— No;
ti prego! Ne ho abbastanza di conferenze, di giornali, di articoli.
Dicono sempre le stesse cose! Non ne posso più! Lasciami un
momento tranquillo, te ne prego! (Premendosi
la nuca)
Sai bene, quando ho il mio dolore nevralgico, se posso chiudere gli
occhi un momentino, anche senza dormire, mi passa subito.
Emma
(alzandosi
lentamente, svogliatamente)
Allora, se mi prometti proprio che passerà... me ne vado coi
miei giornali. Addio.
— Addio
— Salutami...
almeno. (Gli
stende la mano).
Giordano
(baciandogliela
per far più presto)
Ciao.
Emma
(cantando
«Oh dolce Napoli!» va
al suo posto. È inquieta: ci sono le mosche e il sole che le
dànno noia; poi si alza di nuovo perchè la tendina del
finestrino non vuol calare; si arrabbia, soffia, sbuffa, pesta i
piedi. Finalmente torna a sedersi, apre un giornale e cerca
l’articolo)
Nel Don
Marzio
non c’è niente?
— Sì,
in terza pagina!
Emma
(che
ha un prepotente bisogno di muoversi e di parlare)
In terza pagina? (Volta
e rivolta tutto il giornale)
Dov’è la terza pagina?
— Prima
della quarta.
Emma.
Ecco! ecco! Conferenze
e Conferenzieri
(Comincia
a leggere ad alta voce)
«Giordano Mari il più efficace, il più colorito e
certo il più impressionante dei nostri oratori, il prosatore
illustre, il filosofo critico della storia e della....»
Giordano
(interrompendola
per farla tacere)
Sst!... Emma, Emma... Ti prego.
Emma
continua a leggere, ma a bassa voce: Giordano, piano piano, si leva
il Popolo di tasca, lo apre e trova subito l’articolo. È
un assassinio, addirittura. È un attacco fierissimo,
sanguinoso; una demolizione spietata, completa. Giordano Mari è
fatto a pezzi, a brani, senza pietà, senza misericordia, come
conferenziere, come scrittore, come storico, come critico, come
erudito, come uomo. E nemmeno gli vien risparmiato il ridicolo: è
chiamato «il Gigione dell’eloquenza», il
«rigattiere della filosofia e della critica». Sono citati
autori da lui «saccheggiati» per la sua conferenza, le
intiere pagine del Michelet, del Fouillée, del Taine, sopra
tutto del Taine — oh quel Taine... Giordano Mari finisce
coll’odiarlo — E l’articolo, poi, così
conclude: «Altro che assimilazione! altro che plagio!
Un ladro! Un vero ladro! Un ladro sfacciato fino all’incoscienza
e imprudente fino alla stupidaggine!... E questo enorme kakatoa
predicatore, questo fanfarone della sincerità, è tutto
falso. Falso come scrittore e falso come artista; falso come filosofo
e falso come critico; in una cosa sola è tutto vero, è
tutto lui: nell’essere il mantenuto di sua moglie».
Giordano
Mari diventa pallido, verde. Prima lo piglia uno sgomento strano; gli
sembra che tutto il mondo debba aver letto quell’articolo, che
tutti debbano saperlo a memoria, e quasi quasi non vorrebbe mai
arrivare alla stazione di Roma per paura d’esservi fischiato.
Poi quest’impressione si dilegua, a mano a mano gli subentra la
stizza, la collera contro quello scriba spropositato, contro quel
volgare diffamatore.
Emma
(intanto
ha letto tutti i suoi giornali: si volta, lo guarda)
Ho finito.
Giordano,
per il rumore del treno, e sempre assorto nella lettura del Popolo,
non sente, non risponde. Emma allora gli si avvicina, allungandosi
sui cuscini del sedile e cerca di leggere il titolo del giornale
— Il
Pop... il Poppolo!
L’altro
si scuote, dà un balzo e piega subito il giornale.
Emma.
Lasciami vedere anche il Popolo.
Che cosa dice della conferenza?
Giordano.
Niente. Ancora non ne parla. È il numero d’ieri.
Emma
(ostinandosi
più per chiasso che per altro)
Lasciami vedere.
Giordano.
È un numero vecchio, ti ripeto.
Emma
(tentando
di strappargli il giornale di mano)
Voglio vedere.
Giordano.
No; è un capriccio!
Emma.
Voglio! Voglio! Voglio! (Afferra
il Popolo,
l’altro lo tira con forza, il giornale si rompe)
Oh, scusa!
Giordano
(gridando
forte)
Voglio
è una parola che non mi accomoda!... Ricordalo bene!
Emma
(spaventata)
Scusa! Ti domando scusa!
Giordano
(strappa
il pezzo di giornale che Emma, attonita, smarrita, tiene ancora fra
le mani, lo straccia col resto e lo butta dal finestrino)
E questo ti serva di lezione! (A
mano a mano arrabbiandosi sempre di più e sfogando con Emma la
sua ira, la sua collera contro Pietro Schiavino)
E dovresti aver capito una buona volta che ormai sono stufo, stufo,
stufo!
Emma
(gli
occhi pieni di lacrime, le mani giunte, tremando, balbettando)
Scusa... scusa, ti domando scusa.
Giordano.
Sono stufo di smorfie, di leziosaggini; di trovarmi tra i piedi una
bambola, un bèbè!
Hai passato i vent’anni, sei una donna, viva Dio!.. Finiscila
di essere ridicola!
Emma
(scoppiando
in lacrime)
Scusa... scusa... ti domando scusa!
Il
treno arriva a Teano: si ferma un momento, poi riparte subito.
Giordano Mari intanto si è calmato: guarda Emma, che continua
a piangere: è pentito; è dolente, le stende la mano:
— Facciamo
la pace?...
Emma
(balbettando
più forte, perchè si sforza per trattenere le lacrime)
Scusami... tanto… tanto.
Giordano.
Ma no, cara; anzi, sono io che ho avuto torto. Ho avuto uno dei miei
impeti nervosi. Ti prego, se mi vuoi bene, non piangere più.
Vieni invece a darmi un bacio.
Emma
corre, ma quando si sente stretta fra le braccia di suo marito ha un
altro scoppio di lacrime.
Giordano
(accarezzandola,
baciandole i capelli)
Perdonami; sono io che ti domando perdono. La colpa di tutto è
che tu… sei tanto più giovane di me. Io, per altro,
sotto questo punto, non ho rimorsi. Te l’ho detto.... a suo
tempo. Non sto bene; mi sento nervoso; la conferenza di ieri mi ha
stancato molto; per questo sono facilmente irritabile, irascibile. Ma
poi mi passa subito, e finisce sempre che chi ne soffre di più
sono io. Asciugati le lacrime adesso; ridi, così; brava! Se lo
zio, si sa mai, ci fosse venuto incontro e ti trovasse cogli occhi
rossi, chissà che cosa mai potrebbe credere. Mi vuoi bene?
— Sì.
— Ancora
come prima?
— Sì.
— Non
hai bisogno di niente? (Indicando
una piccola valigetta nella reticella)
Vuoi una menta? Un cioccolatino?
— No.
— Un
grano di zucchero, immolato in un dito di cognac?
— No,
grazie.
Un
altro momento di silenzio, poi un grosso sospiro di Giordano che
finisce in uno sbadiglio.
— A
Roma, avrò molto da fare. Aspetterò magari anche un
paio di settimane; ma darò la seconda conferenza del mio
ciclo. Il difficile sta nel ricominciare. Ho lavorato tanto, e avrei
bisogno adesso, lo sento... (un
altro mezzo sbadiglio)
di riposarmi un paio di mesi; anche tutto l’inverno. Non sai
quanto mi è costato l’Ambrogio?...
E il lavoro logora... esaurisce. (Emma
gli ha posato la testina sul petto: Giordano resta troppo incomodo
per dormire)
Non si arriva a Roma che alle otto. Non ti senti voglia di riposare
una mezz’oretta?
Emma.
Riposo qui.
Giordano.
Ma qui, cara, non sei comoda. Aspetta... (Tirandola
su; sorridendo)
Aspetta e lasciami fare. Vedrai come starai bene. Farai una dormitina
deliziosa. Così. Poi, a Roma, non sarai stanca. Andremo fuori
a pranzare, a passeggiare. (Mentre
parla, ha quasi portato Emma in un angolo del vagone. L’ha
distesa sul sedile: le ha messo un piccolo cuscino sotto la testa:
poi torna al suo posto, si accomoda, distende le gambe e subito si
addormenta: dopo un momento gli cade la testa sul petto e comincia a
russare colla bocca storta, la faccia stanca, livida.)
Emma
coi grandi occhi spalancati lo guarda senza muoversi: le par d’essere
sola sola in quel vagone che corre traballando, attraversando paesi a
lei sconosciuti, così melanconici e foschi, in quell’ora
del tramonto.
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