VI.
Pietro
Schiavino.
La
redazione del Popolo; l’ufficio del direttore: un
bugigattolo nei mezzanini, con un gran tavolo nel mezzo, pieno di
giornali sfogliati e tagliati, e accanto all’uscio, riparata da
un paravento, una scrivania sulla quale c’è appena il
posto per le cartelle e il calamaio, tanto è ingombra di roba:
libri, opuscoli, lettere e carte. Alle pareti: due sciabole
intrecciate, la maschera e i guanti da scherma; i ritratti di Mazzini
e di Cattaneo. Un caldo soffocante; un gran fumo di pipa; odore di
gas e inchiostro fresco, e continuo, assordante, il fracasso delle
macchine della tipografia vicina.
Sono
le dieci di sera: l’ora in cui comincia lavoro, perchè
il giornale esce al mattino.
Pietro
Schiavino (un
gran testone arruffato; una bella faccia onesta con una lunga barba
brizzolata: la sola vanità del direttore del
Popolo. È
dalle nove che s’è messo a scrivere l’articolo:
scrive irregolarmente, ma rapidissimamente colla mano storpiata,
senza un dito, perduto — ormai chi sa dove! — in Sicilia.
Un
ragazzo di stamperia, che fa anche da portiere, sguscia tra l’uscio
e il paravento e si presenta dinanzi al direttore, porgendo un
biglietto di visita.
Schiavino
(alza
il capo e fissa il ragazzo, cogli occhi stravolti, stanchi dal
lavoro)
Che cosa c’è?.. Ritorni domani.
Il
ragazzo (sempre
porgendo il biglietto di visita)
Ha detto che se adesso, lei, è occupato, aspetterà, o
ripasserà più tardi.
Schiavino
(prende
il biglietto, legge il nome e, subito, lancia un’occhiata
rapida, istintiva alle due sciabole appese alla parete)
Fa passare. No, aspetta! (Prende
le cartelle scritte e le dà al ragazzo da portare al proto in
tipografia)
Che si regolino: ce ne sarà ancora per una mezza colonna. Poi
fa entrare quel signore.
Uscito
il ragazzo, Pietro Schiavino si alza e va in mezzo alla stanza: vuol
esser pronto a difendersi, caso mai quell’altro fosse venuto
per insultarlo o per aggredirlo.
Giordano
Mari
(niente
soprabitone dalle faldi svolazzanti, niente cilindro: giacca bigia e
cappello basso. Inchinandosi, presenta una letterina al direttore).
Schiavino
(prende
la lettera, salutando con un breve cenno del capo; ma mentre comincia
a leggerla sempre in sospetto, tien d’occhio ogni mossa di
Giordano. Dopo aver voltato il foglio e vista la firma, con un —
oh! — di maraviglia).
— Stefano
Cogoleto!...
Giordano
Mari.
Siamo vecchie conoscenze di Venezia, di Padova. L’ho riveduto
questa primavera, di passaggio, a Milano. Ieri ci siamo incontrati
per caso e siamo andati a pranzo insieme.
Pietro
Schiavino si avvicina alla lampada a gas e ormai senza più
nessuna diffidenza legge attentamente tutta la lettera:
Camera dei
Deputati
Carissimo Schiavino!
«Se
la monarchia, presentemente, ci divide, il nostro cuore, il nostro
passato e la reciproca stima ci riuniranno pur sempre; ed è
con questa sicurezza, oso dire, con questo diritto ch’io ti
presento il mio egregio amico Giordano Mari. Egli desidera darti
alcune spiegazioni, ed io stesso lo ho consigliato, l’ho
indotto a questo passo dopo aver molto pensato e discusso e dopo aver
finito dove si avrebbe dovuto incominciare, col ricordarsi sopra
tutto che tu sei un uomo di primo impeto, ma di gran cuore, e agire
in conseguenza.
«Un
duello?.... Perchè?.... Anche Giordano Mari ha già
fatto e assai brillantemente le sue prove. Tutti e due avete da
lavorare; un duello sarebbe un perditempo inutile e dannoso, perchè
maggiormente divulgherebbe l’offesa e ne darebbe cognizione a
una persona cara, per la cui felicità e tranquillità
Giordano Mari è in dovere di compiere qualunque
sacrificio anche quello del proprio risentimento.
«Va
bene?
«Io
ti conosco; so, da tutta la tua vita d’uomo, di soldato e di
pubblicista (e di ciò ho reso convinto anche il mio egregio
amico), so che tu non attacchi mai nessuna persona con mire
indirette, o per partito preso. Avrai ragione, avrai torto, ma tu,
singolare temperamento di giornalista... politico, scrivi soltanto
ciò che ti esce dal cuore. Il tuo articolo, però,
a ragione o a torto, non è mai altro che un moto, un impeto
spontaneo e prepotente del tuo animo libero, fiero, generoso, ma che
può anche ingannarsi.... o essere ingannato.
«È
per tutto ciò, per questa tua bella e nobile schiettezza, che
i tuoi vecchi amici, diventati oggi tuoi avversari politici, ti
conservano per altro e ti professano intera e inalterata la loro
stima e contano, con orgoglio, sul ricambio della tua buona e fedele
amicizia.
«Io,
come te, avevo giudicato molto severamente il professore Mari.
Spero che tu, con me, finirai per ricrederti sul suo conto.
«Una
stretta di mano dal tuo caporale del ’60 e dal tuo colonnello
del ’66.
Stefano
Cogoleto»
Pietro
Schiavino, dopo aver letta tutta la lettera, è diventato
serio, triste. Gli succede sempre così, ogni qualvolta si
trova dinanzi il suo vecchio compagno d’arme, o si trova con
lui in qualche rapporto.
Quante
speranze, quante lotte, quanti sacrifici per un ideale comune, e
adesso?... Eppure Stefano Cogoleto, di Sarzana, è un
galantuomo, un gran galantuomo, un patriota e, per Dio, un fegato
sano!... Mah!... L’ambiente parlamentare!... È stato
l’ambiente parlamentare!.... Lo ha guasto e rammolito
completamente!.... Peccato!
Schiavino
(dopo
queste considerazioni e fatto un sospiro, si rivolge a Giordano Mari,
indicandogli una seggiola)
Prego; se vuol sedere.
Giordano
Mari.
Se in questo momento ella ha da fare, io tornerò più
tardi; anche domattina, se le fosse più comodo. Mi basta, per
il momento, di averle consegnato la lettera del colonnello Cogoleto e
di aver avuto l’onore di conoscerla personalmente. Vuol
fissarmi un’ora? Quando vuole. Sono sempre a sua disposizione.
Schiavino.
No, no; anche adesso; ciò che vuol dire, dica pure.
Giordano.
Ma... e allora, come si fa? (gli
indica un gran cartello appeso ad un uscio, sul quale è
stampato a lettere cubitali)
AVVISO
IMPORTANTISSIMO.
NON
SI ESPORTANO GIORNALI DALLA REDAZIONE.
LE
VISITE NON POSSONO DURARE PIÙ DI DIECI MINUTI.
ABOLITI
I COMPLIMENTI I TITOLI E LE PAROLE
INUTILI.
Come si
fa? Ho pratica anch’io di giornali, mi vanto di essere stato
anch’io giornalista e di esserlo ancora, un poco. So la fretta
e la furia di questi momenti e d’altra parte.... (sorridendo)
mi potrebbe occorrere almeno un quarto d’ora.
Schiavino
(parlando
in fretta, coll’aria di chi non può schivare una
seccatura, ma vuol sbrigarsene su due piedi)
Lei mi domanda un quarto d’ora ed io posso accordarle venti
minuti. Il tempo per comporre l’articolo che ho mandato in
tipografia. (indicandogli
a sua volta l’avviso stampato)
Soltanto tenga presente l’ultima raccomandazione: Sono abolite
le parole inutili.
Giordano
(siede
democraticamente, mettendo il cappello per terra e le mani in tasca)
Allora, eccomi a lei, francamente, lealmente, da gen... (stava
per dire
«gentiluomo»,
ma si corregge in tempo)
da galantuomo a galantuomo. Ho letto il suo articolo contro di me. Lo
chiamo articolo... (cominciando
a riscaldarsi),
ma potrei anche chiamarlo… con un altro nome.
— Lo
chiami come vuole. Soltanto, l’avverto: ho scritto ciò
che penso e non ritratto una parola.
Giordano
(con
fierezza: fissandolo in faccia arditamente)
So che non si viene da Pietro Schiavino per domandare una
ritrattazione. E tanto meno personalmente. In questo caso non sarei
venuto; avrei mandato. Indotto, persuaso anche dal colonnello
Cogoleto, io sono qui, ripeto, un galantuomo in faccia ad un altro
galantuomo, non per domandare rettifiche, ma per ottenere la sua
stima. Sissignore; perchè alla sua stima ho diritto… e
perciò anche il dovere di pretenderla.
Giordano
Mari parla chiaro, fissa bene in faccia, alza la voce, non ha paura:
al direttore del Popolo riesce simpatico.
Giordano
(continuando
sempre sullo stesso tono)
E intendiamoci bene, e subito. Non mi occupo nemmeno di quella parte
dell’articolo dove si fa la critica. Il letterato, non lo
difendo. In venti anni che scrivo, che lavoro, mi sono sempre
abbandonato tutto intero ai miei critici, perchè si divertano.
Ma si figuri! in vent’anni, non ho mai perduto la calma e
l’appetito, nemmeno quando c’è stato chi ha
trovato il suo piacere, o il suo tornaconto a darmi dell’asino!
A lei, perchè è
lei,
potrei soltanto replicare, così alla sfuggita, che se più
volte ho «saccheggiato il Taine,» l’ho anche più
volte citato, come potrà facilmente verificare quando le
manderò il volume delle mie conferenze. Potrei forse farle
anche osservare, che per conoscere bene quanto in me ci sia di falso,
come filosofo e come scrittore, bisognerebbe esser dentro nel mio
cuore, o aver vissuto con me. Ma di tutto ciò, ripeto, non mi
occupo. Ci vorrebbe altro! Ma lei, lei, proprio lei, mi ha insultato
come uomo; e il suo insulto è tale, che se mi fosse stato
lanciato da un cretino, prima lo avrei schiaffeggiato e poi gli avrei
tagliato le orecchie.
Schiavino
(alzando
la voce a sua volta.)
Prego! La prego!
Giordano
(continuando
più forte)
Se avessi avuto di fronte una canaglia, avrei fatto un processo.
— Può
risparmiare le sue... supposizioni!
— Ma
si tratta, invece, di Pietro Schiavino, e a quest’uomo che ho
sempre stimato, che devo stimare, coll’amarezza nel cuore e
colle lacrime in gola, dico soltanto: vi hanno ingannato! Sì!
Sì! Vi hanno ingannato! Dinanzi a voi — guardatemi in
faccia! — non c’è un uomo abbietto.. un… un
mantenuto... (la
tensione è troppo forte, non può quasi finir la parola
e si lascia cader di peso sulla seggiola, con uno scoppio di lacrime)
un mantenuto di sua moglie!
Schiavino
(pesta
i piedi con dispetto: gira per la stanza: poi si ferma: lo guarda:
gli si avvicina battendogli sulla spalla)
Su! Su! Per Dio!
E
torna a passeggiare borbottando. Pietro Schiavino ha visto degli
uomini cadere ai suoi piedi col cranio fracassato da una palla,
rimanendo impassibile; qualcheduno, ne ha ammazzato lui stesso, corpo
a corpo, alla baionetta. Ma ha sempre sofferto una debolezza nervosa:
quella di non poter veder piangere nè uomini, nè donne:
gli fa ira, dispetto, rabbia.
Schiavino
(battendogli
più forte sulla spalla)
Vostra moglie, stasera, era al Costanzi! In un palchetto col ministro
Albertoni! — È una donna... si capisce benissimo. Ve ne
siete innamorato e non avete avuto torto. Insomma finitela! Ve l’ho
detto avanti; non ho tempo da perdere.
Giordano
(alzandosi,
col viso ancora stravolto: fissando lo Schiavino)
Ebbene; no.
Schiavino.
No? Che cosa?
Giordano.
Adesso sì; molto. Ma prima non ero innamorato; anzi non
volevo, assolutamente. È stata lei. (Con
straordinaria gravità, ergendosi maestoso e stendendogli la
mano) Vi
domando il silenzio, sulla vostra parola d’onore.
Schiavino
(colpito
dalla maraviglia e dalla curiosità e attratto, tanto più
dopo aver vista la bella donna, dalla inaspettata confidenza del
marito)
Parola d’onore. (E
a sua volta gli stringe la mano).
Giordano
(parlando
sotto voce, rapidamente concitato)
Io ero pazzo per un’altra donna. Avevo un’altra
relazione, a Milano. Uno di quei legami colpevoli e fatali, che vi
turbano la ragione e la coscienza, da cui se qualche angelo, appunto,
non vi salva, vi fanno uscire fuor della buona strada forse per tutta
la vita. La signorina Dionisy, succede quasi sempre così,
colle ragazze, io la vedevo frequentemente; ma con lei avevo parlato
appena una volta o due; posso dire, non le avevo badato, non mi ero
accorto di nulla. Fu un mio amico, il presidente del Circolo
artistico-letterario di Milano, il nobile Barbarani...
Schiavino.
Lo conosco.
Giordano
(con
entusiasmo)
Una bravissima, una simpaticissima persona! Fu lui appunto, che si
ostinò a volermi far notare, da qualche indizio, la simpatia
della signorina Dionisy per me; simpatia alla quale, naturalmente, io
non potevo, non volevo credere. Poi il Barbarani mi riferì i
discorsi che si facevano in giro, e che mi mettevano di buon umore
come altrettante storielle amene. La ragazza era stata ad una mia
conferenza; mi aveva veduto, sentito; io le era stato presentato e
l’avevo accompagnata a casa e subito — un colpo di
fulmine — era cascata, innamorata morta! Chi poteva credere a
tutto ciò? Nessuno, ed io meno degli altri; ma la prudenza, i
riguardi m’imponevano di non andare in casa Dionisy, ed io, in
fatti, più volte invitato, sollecitato, ho sempre cercato e
trovato qualche scusa. Di giorno, ed era vero, non avevo un momento
disponibile, tutto preso dalla mia opera sul Vescovo
Ambrogio,
che uscirà prestissimo in una splendida edizione illustrata.
La sera, ero occupato... diversamente. Ma un bel giorno, che succede?
Il padre, della signorina, un dilettante di musica assai appassionato
e intelligente, dà un gran concerto, e viene lui stesso in
persona alla Biblioteca di Brera a cercarmi, ad invitarmi. Non vi
posso dunque mancare, tanto più che anche quell’altra
persona
si recava al concerto. Vado; mi trovo colla signorina Dionisy,
scambio con lei qualche parola e subito devo accorgermi che il
Barbarani ha ragione. Che cosa fo? Scrivo una lettera alla ragazza,
nella quale, molto francamente, le dico questo: che io non sono ricco
e che per età potrei essere quasi suo padre. Dunque sarei
ridicolo e colpevole lusingandola e lusingandomi d’amore.
Schiavino.
Benissimo!
Giordano.
E che in ogni caso — queste sono le precise parole — non
sarebbe mai stata mia moglie, fino a quando io potessi comparir vile
dinanzi a me stesso, seduttore verso i suoi parenti, interessato in
faccia alla società,
Schiavino.
Benissimo! Bravo!
Giordano
(continuando,
sempre più infervorandosi, riscaldandosi, coll’accento
della verità e della passione)
E lei allora, la signorina Emma che cosa mi risponde? «Sono
giorni terribili, sempre in urto, in collera con tutti i miei; ma
sono contentissima di soffrire per te, sono tua e sarò sempre
tua con tutta l’anima, con tutto il cuore.» Che cosa
avreste fatto voi nel mio caso?
Schiavino
(si
accarezza la barba e non risponde).
Giordano.
Sareste partito? Sareste fuggito?
Schiavino
(accarezzandosi
sempre la barba)
Probabilmente.
Giordano.
Bravo! È quello, appunto, che ho fatto anch’io. Lascio
Milano e vado a Padova. La ragazza mi tempesta di lettere. Io, prima,
non rispondo; poi, costretto, rispondo tanto freddamente che la
poveretta ne soffre, comincia a star poco bene. Intanto quell’altra
persona,
di cui vi ho parlato, si mostra indegna di ogni affetto serio,
profondo, e questo disinganno, questa delusione, è naturale,
spinge il mio cuore sanguinante verso la dolce, la cara fanciulla.
Essa in quel momento è il conforto, la vita nuova dell’anima.
Pure, anche questo sentimento lo chiudo, lo soffoco dentro di me e
continuo a non scrivere, altro che assai raramente e assai
freddamente, finchè un giorno, uno della famiglia stessa dei
Dionisy, un cugino, l’architetto Carlo Borghetti...
Schiavino.
L’archeologo?
Giordano.
Precisamente! Carlo Borghetti mi scrive che la fanciulla sta molto
male e mi prega di ritornar subito a Milano. (Si
leva un grosso portafoglio pieno di lettere dalla tasca interna della
giacca, e lo tiene sempre in mano finchè parla).
Voglio mostrarvi questa lettera...
Schiavino.
No, no; vi credo!
Giordano.
Come avreste fatto anche voi, corro a Milano...
Schiavino.
S’intende.
Giordano.
Ma resisto ancora; resisto sempre. Oh, se fosse stata povera, quella
ragazza! Ma era ricca, ed io ho sempre sacrificato tutto al mio
onore, al mio orgoglio. — No! No! Non voglio! — Ma la
povera ragazza, intanto, sempre male, sempre peggio! I genitori,
prima, naturalmente, contrarissimi ed accaniti contro di me, dopo si
mostrano arrendevoli, per finire col pregare, col supplicare. Io fo
loro dichiarare dal Barbarani e dal Borghetti, li conoscete tutti e
due, di esser pronto a partire, a scomparire per sempre dall’Italia,
dall’Europa; e disperato anch’io, anch’io
coll’amore e colla morte nel cuore, parto, fuggo, vado a Genova
per imbarcarmi! (Cercando
colle dita tremanti un’altra lettera nel portafoglio)
Sentite che cosa mi scrive, appunto a Genova, il dottore della
famiglia.
Schiavino
(a
sua volta stanco, vinto, nervoso)
No; ma no! Facciamo presto; vi credo, dunque basta. L’avete
sposata e avete fatto bene. Basta.
Giordano.
No; non basta; perchè se avete pubblicamente stampato che io
sono il mantenuto di mia moglie, lo avete anche pensato. Il dottore
mi scrive queste precise parole: «Per un falso, un malinteso
principio di amor proprio non avete il diritto di porre a gran
repentaglio la pace, la felicità di una rispettabilissima
famiglia, che merita tutti i riguardi, e forse compromettere anche la
vita stessa di una giovane, buona, affettuosa, la di cui salute è
già molto scossa e vacillante.» — Io non rispondo
subito; il dottore viene a prendermi Genova, mi porta per forza a
Milano, e a Milano, pure protestandomi innamorato della ragazza,
dichiaro a lei stessa, che mentre io mi tenevo impegnato per tutta la
vita, lasciavo lei, ancora, perfettamente libera; dichiaro ai suoi
parenti che io sarei stato felice quel giorno soltanto, in cui avessi
potuto sposare la signorina Emma, ma che per arrivare a quel giorno
volevo prima assicurarmi, obbligandomi con un editore e coll’ottenere
una cattedra, una rendita certa di almeno sei o settemila lire.
Questa rendita, senza contare altri lavori straordinari, avrebbe
garantito la mia indipendenza e la mia dignità, colla
sicurezza del pane quotidiano. E così ho fatto (Aprendo
ancora il portafoglio)
Volete vedere i documenti?
Schiavino
(suonando
al ragazzo perchè gli porti le bozze dell’articolo)
No! No!
Giordano
(mettendosi
il portafoglio in saccoccia)
Prevedevo e quindi disprezzavo anticipatamene le calunnie, le infamie
degli invidiosi, dei tristi; ma mi premeva, volevo essere giudicato
onesto dagli onesti. (Incrociando
le braccia sul petto e fissandolo)
E adesso, rispondetemi: che cosa pensate di me?
Schiavino
(stendendogli
la mano, e anch’egli oramai, dopo il calore e l’intimità
del colloquio, continuando famigliarmente a dargli del voi)
Lavorate di lena, e amate vostra moglie! (Prende
le bozze dalle mani del ragazzo di stamperia che entra in quel punto,
si mette al tavolino e comincia a correggerle).
Il
ragazzo.
Aspetto?...
Schiavino.
Sì. (A
Giordano: sempre correggendo le bozze)
Del resto... avevo sentito qualche cosa di questo vostro... romanzo a
Varese, dove ho una sorella maritata e dove vado a passare le mie
vacanze. Ma c’è tanto poco di vero... anche nei romanzi
che non si stampano!
Giordano.
(avvicinandosi:
aspettando ancora un momento)
Dunque il letterato, lo storico... (sorridendo)
il conferenziere sopra tutto, ve lo abbandono; ma, come uomo, posso
contare, ormai, sulla vostra stima?
Schiavino
(seccato
d’essersi lasciato sorprendere dalla commozione e volendo far
capire al Mari che è ora di andarsene, continua a correggere
le bozze, senza più rispondergli, nè guardarlo).
Giordano
(abbottonandosi
la giacca)
Una sola promessa dovete farmi: quando saprò che sarete a
Varese e verrò a prendervi colla carrozza per condurvi a casa
mia all’Argentera, per presentarvi a mia moglie, non dovrete
dirmi di no.
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