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Gerolamo Rovetta
L'idolo

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  • PARTE SECONDA
    • VIII.   «A la peau d’Espagne.»
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VIII.

 

«A la peau d’Espagne

 

Emma, appena vestita, corre a telegrafare alla mamma e al dottore.

Dio, Dio, povero Carlo!

È ancora agitata, commossa. Mentre se ne ritorna verso l’albergo, evitando il Corso, vede una chiesa aperta; pensa alla sua solita chiesa di Milano e vi entra con un sospiro, come attratta da un senso di sollievo, per pregare e per riposare. Sopra tutto per riposare.

Pregare?... Oh, ha pregato tanto, ha continuato a pregare fin allora! Mentre si vestiva, lungo la strada, scrivendo i due telegrammi, non ha fatto altro che mormorare fra : Dio, Dio! Carlo! Carlo! con tutto l’ardore più intenso, con tutta la fede e la tenerezza del suo cuore.

Dio, Dio!... povero Carlo! — ripete ancora, appena in chiesa; ma si lascia cadere come stanca, affranta, sopra una seggiola.

Quante emozioni quante angosce improvvise, inaspettate! E quanto dispetto, quanta rabbia!

Carlo!... Povero Carlo! — E Giordano? Che cattivo! In certi momenti non è più lui. Ha un’altra faccia. Diventa persino brutto; sì, brutto, bruttissimo!... — E le torna in mente anche «quell’altra cattiveria», la prima, durante il loro viaggio da Napoli a Roma, e rivede Giordano assonnito, livido, colla faccia storta, e ne risente la stessa impressione. Ma è un attimo, un lampo. — E prima, a Napoli, com’era buono! E all’Argentera? E a Milano? A Milano, quella prima domenica in via San Paolo? A Milano, sul terrazzo, quella prima sera?... — Emma socchiude le palpebre: una dolcezza cara, un’onda voluttuosa le riempie, le trasporta l’anima; tornano i vent’anni a trionfare, torna il sorriso, e sgombra le nubi dalla sua fronte candida e luminosa.

La chiesa è buia, tepida, quasi deserta. Appena pochi devoti, raccolti in una luce rossastra, presso un altare in fondo alla navata... Nella mistica quiete delle ombre silenziose, Emma sente maggiore la fiducia nel buon Dio e più viva la speranza.

Carlo è giovane, è forte; guarirà. E poi c’è il dottore!... — Emma sente che Carlo guarirà. Ne è sicura. — E quell’altro, il cattivo? il geloso?... E Giordano, cattivo, ingiusto, violento soltanto perchè è geloso, Giordano ritorna Nino, il «suo Nino».

Dice sempre che non è geloso!... Vuol darsi l’aria di non essere geloso!... Invece è gelosissimo, persino di Carlo! È un Otello furioso, l’illustre pensatore! — Ed Emma sorride al suo Nino, al suo incanto, al suo idolo, più che mai innamorata.

Borbotta a fior di labbra un’ultima preghiera, distratta, spinta dalla fretta, dalla solita fretta di correre a casa, di rivedere suo marito, di buttarsi fra le sue braccia. E questa volta non per domandargli perdono, ma per perdonare.

La gente si volta per la strada, si ferma a guardarla come il giorno innanzi; ma Emma non se ne accorge nemmeno, infervorata nel ripetere fra il discorsetto che avrebbe fatto a Giordano

Sei stato cattivissimo, ma ti perdono! Sono così contenta di perdonarti, perchè sono… così contenta che tu sii geloso. Sì, sì, sì, uomo grande; geloso, geloso; sei geloso della «tua piccola!» Ma però ti perdono ad un patto: devi confessare di essere gelosissimo e ti proibisco di chiamare il povero Carlo, questo signor Borghetti! Assolutamente no, o resto in collera e allora... più nemmeno un bacio. Più, più, più!

Emma (entrando nell’albergo tutta rossa, trafelata: al portiere) Mio marito è ancora di sopra?

Il portiere. Sì, signora. Non l’ho veduto uscire.

Emma, di primo slancio, corre verso la scala, poi si ferma, si volta: e Carlo? (Forte, al portiere):

Aspetto due telegrammi. Appena arrivano, badate di mandarmeli in camera, subito, subito.

Non dubiti, signora.

Emma è già su, al primo piano: infila il corridoio, mette la mano sulla toppa del numero 30... ma in quel punto si ferma, rimane perplessa un istante, poi piano piano continua diritta ed entra nel numero 31, e sempre adagio, senza fare il minimo rumore, si avvicina ansiosa, tendendo l’orecchio verso la stanza attigua. Ha il seno ancora palpitante per la corsa fatta, il viso ridente, gli occhi sfavillanti di piacere, di gioia...

La bella voce di Giordano (dal numero 30) «... così la filosofia s’alleava al cuore! Così si ponevano da lungi le basi di quella società futura, che noi tutti, o signori, vagheggiamo come una superba certezza e nella quale tutti, sciolti da ogni vincolo favoloso col cielo, possiederemo la piena libertà dell’amore...» (correggendosi, pestando i piedi) «possiederemo la piena signoria della terra in cui siam nati, e godremo piena la libertà dell’amore e del pensiero

Emma (fra ) Come? Ancora... la conferenza di Milano? (Lentamente comincia a levarsi il cappellino e la giacchetta: non sorride più; diventa seria).

Giordano (ricominciando) «Così la filosofia s’alleava al cuore! Così si ponevano da lungi le basi...» (Tossisce). — Sono rovinato anche nella voce Non ho più memoria e non ho più voce! (Torna a tossire). C’è una peste d’odore qua dentro! (Verso il numero 31). Viene di ! (Annusa forte con ira, brontolando) Già; sempre quella peau d’Espagne! l’emicrania e intacca la gola!

Emma (si fa piccina piccina e istintivamente si allontana dall’uscio: ode il rumore dell’acqua versata da una bottiglia in un bicchiere: è Giordano che beve, poi ripiglia)

Maestà... signori. — Bisogna aggiungere Maestà — (alzando il tono). «Le basi di quella società futura, che noi tutti, Maestà... signori...»

Giordano s’interrompe di nuovo ed Emma, a sua volta, crolla il capo disapprovando: quel «Maestà, signori» non va bene.

Si sente un pugno forte dato sopra un tavolino, della carta che si straccia, poi Giordano che brontola:

Impossibile! Bisogna cambiare la conclusione, il finale. Così non va! (Canta a mezza voce) Non va! Non va! Non va! Bisogna cambiar tutto! — E per più di un quarto d’ora, silenzio perfetto.

Emma, intanto, si sdraia in un angolo del canapè, ai piedi del letto, e inavvertitamente ritorna col pensiero a suo cugino ammalato, gravemente ammalato laggiù, in fondo alla Carinzia...

E se muore? Se morisse? Che disgrazia, che dolore, e che rimorso? Sarei stata io!... (congiunge le mani e torna a pregare intensamente con tutta l’anima) Dio, Dio!... Povero Carlo!

Guarda l’orologio: per la risposta del dottore è ancora troppo presto; ma il telegramma della mamma dovrebbe già essere arrivato!

A un tratto, tutta la bella voce di Giordano, colla solita enfasi, il solito accento di convinzione:

«Così la filosofia s’alleava al cuore; così si ponevano da lungi le basi di quella società futura che noi tutti vagheggiamo come una superba certezza e nella quale, sciolti sì da ogni vieto pregiudizio, ma, dopo tante negazioni e tante bestemmie, riconciliati col cielo, da cui piove la luce dell’ideale, possiederemo la piena signoria della terra su cui siam nati, pur chinando reverenti il capo innanzi al mistero da cui essa al par di noi è uscita!» — Benissimo! È anche più nuovo, più moderno. — Il razionalismo, il materialismo, il verismo, hanno fatto ormai il loro tempo. Adesso gli uomini, e specialmente le donne, tornano a credere e vogliono dell’ideale! (sempre più soddisfatto) E questa, caro signor Schiavino, è tutta roba mia; assolutamente mia! Qui, il vostro Taine non c’entra!

Una fregatina di mani: poi Giordano torna a ripetere due, tre, quattro volte, certo per impararlo a memoria, il nuovo finale della conferenza.

Emma è rimasta sempre sdraiata nell’angolo del canapè. Essa fa scattare nervosamente la punta sottile di un tagliacarte d’avorio. È diventata un po’ pallida; ha il visetto in collera, con una piccola ruga, forse la prima che le attraversa la fronte, e continua a scrollare il capo, in segno di malcontento e di disapprovazione, mentre suo marito, paziente e instancabile, seguita invece a ripetere la conferenza, collo stesso calore, le stesse intonazioni di voce, le stesse pause, i medesimi sorrisi, e le medesime cannonate, che hanno mandato in visibilio anche a Milano i pittori e gli scultori del Circolo artistico-letterario. Solo s’interrompe qua e per aggiungere e provare il suono di qualche «Maestà», di qualche «Graziosa Sovrana»; o per tossire, per borbottare contro il raschio che sente in gola, contro quel profumo à la peau d’Espagne, che diventa sempre più acuto, più noioso.

Nel corridoio: un passo risonante, chiaro, diverso dai soliti, si avvicina rapidamente al numero 30:

Giordano (di dentro) Chi è?

Il fattorino del telegrafo. Un telegramma. Signora Mari!

È mia moglie. È uscita. Lasciate il telegramma dal portiere.

Emma (balzando in piedi e correndo fuori della stanza) Qui! Qui! A me! (Prende il telegramma, firma la ricevuta, e rientra in camera nello stesso punto in cui Giordano spalanca l’uscio interno di comunicazione).

Giordano (con impeto) È un pezzo che sei tornata?

Emma. Sì.

Stavi qui ad ascoltare?

Sì.

Questo non mi accomoda.

Neanche a me! (Emma agitatissima, straccia mezzo il telegramma per la fretta d’aprirlo).

Giordano (alzando la voce) Cioè?... Che cosa vuoi dire?

Emma (riferendosi al dispaccio ricevuto) Non è del dottore. È della mamma.

Giordano (sempre più forte) Che cosa volevi dire? Che cos’è che non accomoda neanche a te?

Emma (fissandolo a sua volta con arditezza) Sì; e te lo dirò, se vuoi sapere! Non mi accomoda che tu ripeta anche a Roma, proprio a Roma, l’istessa conferenza di Milano, di Bologna, di Napoli! Piuttosto niente! O una nuova, o niente. Aspetta un altr’anno; questa primavera.

Giordano (frenandosi a stento) Dovresti abituarti a pensare soltanto ai tuoi cento cappellini e alle tue mille sciocchezze!

Emma. Invece no! «Abituarmi» no! — Io non sono fatta per «abituarmi»; io non mi «abituerò» mai, mai, mai... a niente!

Giordano (sogghignando) Sicuro; nemmeno... a ragionare.

Emma (offesa) Nino, ti prego; Nino!

Giordano. Intanto vuoi parlare, parlare, parlare, e, come al solito, non sai niente! La conferenza è alquanto modificata, così nella forma, come nella sostanza. Dirò... moltissime cose nuove.

Tutte cose che non pensi, e le dirai soltanto per far la corte a mio zio!

Per tua regola, io non ho mai fatto la corte a nessuno, e tu ne sai qualche cosa. Dovresti imparare a riflettere quando parli con me, e sopra tutto quando parli di me. Bisogna pensare, bisogna sapere ciò che si dice!

So, so, so benissimo, sempre, ciò che mi dico. Anche troppo!

Davvero? Una cosa per altro non sai (Si chiude la bocca con una mano per non parlare).

Emma. Quale? Quale? Che cosa? Sarà un’altra cattiveria! È un’altra cattiveria! Sentiamo.

Giordano (prorompendo) Che con una donna come te, la quale fa perdere la pazienza dieci volte in un’ora, non si può lavorare, studiare, pensare! Bisogna diventare per forza un cretino, un imbecille!

Emma (colla voce bassa, rotta, strozzata) Mi sta bene; ti ringrazio. Grazie.

Giordano continua a camminare su e giù arrabbiandosi, pestando i piedi. Emma torna a sedersi sul canapè e torna a far scattare il tagliacarta: gli un colpo troppo forte; lo spezza.

Giordano si volta, la guarda e scoppia in una risata. A poco a poco è riuscito a calmarsi. Con voce dolce, affettuosa, sedendosi sul canapè vicino alla moglie, cercando di prenderle la mano:

Vedi, cara, che ti succede a far la cattiva?

Alla parola «cara» gli occhi di Emma si riempiono subito di lacrime. Ma non può parlare, non vuol parlare; è ancora in collera, non vuol esser toccata e allontana Giordano con un moto dispettoso delle spalle, delle braccia.

Vedi, cara, che ti succede a far la cattiva?... (Languidamente, ponendo la sua testa accanto a quella di Emma sullo stesso cuscino) Sai, come, in che modo, mi fai perdere la pazienza dieci volte in un’ora?... Perchè, quando so che sei qui, qui, vicina — mia — non penso ad altro… che a questo. (Fa per darle un bacio).

No. Va via.

Emma si alza, lo respinge e si allontana, sempre molto seria, sempre molto in collera.

Basta. Ho detto basta. Mai più!

Giordano protesta, smania, prega, supplica... ma dopo inutili sforzi deve frenarsi e rassegnarsi. Sospirando, con aria docile, sottomessa:

E la mamma? Che cosa, dunque, ha telegrafato la mamma?

Emma (getta il dispaccio sul canapè e va alla finestra).

Giordano (prende il dispaccio e lo legge ad alta voce) «Anch’io manco notizie; telegrafato dottore per averne — VillachCarinziaAustriaHôtel Orso nero. Speriamo bene. Abbracciovi. — Mamma» Come vedi, tesoretto furioso, io avevo ragione! Il telegramma alla mamma potevi risparmiarlo.

Emma (con un’alzata di spalle, senza voltarsi) Vuol dire che se anche avrò telegrafato una volta di più a mia madre, poco male.

Giordano. Certamente! Sicuro! Desidero soltanto giustificarmi! (Sempre pensando al modo di potersi liberare di sua moglie per un paio d’orette) Ti avevo detto, anzi — ti ricordi? — quando torni dalla messa, fermati nella sala di lettura, dove c’è tutto l’occorrente, e scrivi alla mamma una bella lettera... lunga.

Emma. Scriverò oggi, più tardi. Voglio prima aspettare la risposta del dottore.

Ma non dimenticarti che hai da scrivere anche al babbo, così buono colle sue piccole manie! (Ridendo) Il Quadrelli è lo stesso scultore che ha fatto il busto anche a Verdi! Se non scrivi adesso... che cosa vuoi fare fino all’ora di colazione?

Emma (guardando fuori dalla finestra, dietro i vetri) Aspettare che mi venga appetito.

Giordano (ridendo) E allora, perchè ti venga appetito, sai che cosa dovresti fare, cara la mia figliuola?

No, caro papà.

Una bella passeggiata, e se non vuoi uscire a piedi, prendi una carrozza. È una mattina deliziosa, primaverile! Non avessi da lavorare, ti avrei condotta al Gianicolo, o a San Pietro. Appunto, perchè non andresti a fare una scarrozzata fino a San Pietro? Poi ritorni, con tuo comodo, ti fermi giù nel restaurant, per non seccarti a far le scale, e mi mandi a chiamare.

Emma (sempre immobile, senza voltarsi) San Pietro non mi piace.

Giordano (maravigliato) Non ti piace? San Pietro? Perchè?

Emma. È troppo grande. (Comincia a suonare un valzer sui vetri, colle dita).

Giordano Mari ha un impeto di stizza, che riesce ancora a frenare. Torna a ridere; si avvicina ad Emma, le cinge la vita con un braccio e l’obbliga a voltarsi:

Senti, amore. È una debolezza... di nervi, ma non posso vincermi. Io non resisto a lavorare quando ti so qui ad ascoltarmi, a criticare, a far niente. È impossibile.

Emma (risentita: diventando ad un tratto la signorina Dionisy) Prendi un’altra stanza più lontana. Capirai, per i tuoi nervi, e per i tuoi comodi, io non mi sento di girare come una matta... i sette colli!

Giordano si piglia la lezioncina, e rientra, sbattendo l’uscio, in camera sua. Emma non si muove dalla finestra. Suo marito brontola, pesta i pugni sul tavolo, straccia della carta, ma Emma seguita impassibile a suonare il valzer.

Giordano (dopo aver molto tossito e annusato furiosamente) Ah! Ecco, viva Dio! Il veleno! Il puzzo! (Presentandosi sull’uscio con due grossi pacchi, uno per mano, trovati sotto un paltò accanto all’armadio) Cos’è questa roba? È roba tua? I tuoi profumi, i tuoi soliti pasticci!

Emma. Sì; il mio sapone, la mia acqua di toilette, tutta roba mia; l’ho presa ieri alla Farmacia Inglese.

Giordano. E mi ha rovinato la gola; mi ha fatto svegliare col dolor di capo! Ti prego, un’altra volta, di dare il tuo nome e non il mio, e il numero della tua camera (Butta i due pacchi, sgarbatamente, sul letto di Emma).

Emma (seria, pallida, colla voce alterata, mettendosi il cappellino per uscire) C’è il conto? Avranno mandato insieme anche il conto?

Giordano (respira: sua moglie finalmente se ne va; apre uno dei due pacchi e trova il conto) Sì, cara. Eccolo.

Dammi i danari. Prenderò una carrozza; andrò a pagarlo.

Subito!... Quanto ti occorre?

Non so; guarda.

Giordano (dopo aver aperto il conto e letta la cifra: scattando) Duecentoquarantacinque lire! Quasi duecentocinquanta franchi... in tanto sapone! (A mano a mano riscaldandosi sempre di più) Ma c’è da lavare... un reggimento di Turchi! Duecentocinquanta franchi! Ma tu diventi matta, cara mia! Ci vuol altro! Non sono un milionario! E tu non hai più vent’anni! Dovresti moderare le tue voglie, i tuoi capricci, le tue stranezze! E poi… hai cuore, sì o no? In tal caso, non dovresti mai dimenticare che sei la moglie di uomo che lavora! Che lavora per vivere.

 

 




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