IX.
Piccole
miserie.
I
Precursori della Rivoluzione ottengono anche alla Palombella
il solito straordinario successo e il nuovo «finale» più
moderno è accolto, come l’antico, da un’impotente
ovazione. Ma i giornali? — apriti cielo! — Tranne i
pochissimi, prettamente ministeriali, che per un dovuto riguardo al
ministro dell’istruzione non dànno altro che un
brevissimo cenno di pura cronaca, tutti gli altri, in coro, a dir le
sette peste della conferenza e del conferenziere! Naturale, in tanto
accanimento, c’entra, in parte, anche la politica: i giornali
favorevoli al Governo, ma che non vogliono passare per ufficiosi,
approfittano dell’occasione e dicono corna del nipote per
affermare la loro indipendenza dallo zio, e quegli altri
dell’Opposizione... seguitano a far opposizione anche alle
spalle del professor Mari.
I
giornali del mattino lo attaccano allegramente, ridendo:
«Dopo
i viaggi delle nostre dive», comincia il Corriere romano,
«e dopo quelli dei nostri Commendatori... all’estero, v’è
qualcos’altro che minaccia di diventare ricorrente, opprimente,
schiacciante: le conferenze, o meglio, la conferenza-carillon
dell’illustre professore — professore di che? di che
cosa? — Giordano Mari. Io ho avuto la sorte invidiabilissima di
trovarmi a Napoli, a Milano e a Roma nel medesimo tempo del
conferenziere omnibus, e ho dovuto godermi, nei centri
intellettuali, la ripetizione fonografica dello stesso frammento,
istrionicamente rimpolpettato della prosa maravigliosa... del Taine».
E
un altro:
«Il
signor Giordano Mari, arrivato a Roma preceduto dalla fama di
pensatore, di filosofo e di prosatore illustre, ha dato prova
soltanto di memoria, di polmoni... e di molta disinvoltura. Ippolito
Taine è davvero un grande filosofo, un grande pensatore e un
grande prosatore, ma il signor Giordano Mari non è altro che
un conferenziere di grido... anzi, di grida.»
Poi
c’era il per finire:
«Da
Aragno, a mezzanotte:
«—
Sei stato alla conferenza di Giordano Mari?
— Ne
vengo via... sei mesi fa.
— ?
— Ero
a Torino lo scorso inverno. Cantava lo stesso pezzo... del Taine. Che
bella voce!
I
giornali della sera prendono la conferenza sul serio e versano
lacrime:
«Più
ancora della dedizione di una coscienza è triste
l’asservimento di un ingegno. Noi ricordiamo di esserci —
caso raro! — sinceramente commossi allorchè udimmo
Giordano Mari, a Genova, gittare ad un pubblico di anime giovani la
parola fiera e ribelle della ragione in conflitto col dogma, la sfida
audace dell’avvenire al passato e giudicammo quell’oratore
fervido e appassionato, un uomo di convinzioni e di battaglia. Lo
abbiamo udito ieri sera svolgere lo stesso argomento, o per meglio
dire, parafrasare quella che a noi era parsa una splendida
improvvisazione lirica e scientifica. Uscimmo dalla sala, scrosciante
di applausi, ancor più fragorosi forse della prima volta,
coll’animo addolorato. L’uomo si era per noi demolito: le
sue parole costituivano la più docile, la più utile, la
più ammirabile delle abiure filosofiche ed estetiche. Il
formidabile razionalista aveva inzuppata la sua prosa (e un maligno
aggiungerebbe anche quella del Faguet, del Taine e persino della
Sand) nell’acqua benedetta, e la chiave della brutta sciarada
la trovammo ricordandoci dei nuovi vincoli che il filosofo
opportunista ha accettato di stringere colle Eccellenze più
clericaleggianti, più conciliantiste. E dopo tutto,
perchè rattristarci? Invece di uno spostato, uno di più
che si è messo a posto, e che farà carriera.»
Soltanto
il Popolo di Pietro Schiavino è rimasto muto. Non ha
aperto bocca nè prima, nè dopo la conferenza. Non l’ha
annunziata e non ne ha riferito l’esito, nemmeno in cronaca. E
anche di questo contegno, Giordano Mari non sa bene se godersene o
dolersene. «Ricordatevi», gli aveva scritto l’Amodei,
l’editore, per confortarlo, i giornali, il maggior male lo
fanno col silenzio.
— Nemmeno
una riga dopo che, in fine, gli ho fatto l’onore di una mia
visita! — E non potendo pigliarsela col direttore del Popolo,
ne tiene il broncio al Cogoleto. Egli ha bisogno di sfogarsi. I primi
giornali gli hanno fatto rabbia; adesso, gli ultimi, lo avviliscono.
— Se
tutti si mettono d’accordo per buttarmi giù, precipito!
Infatti,
Giordano Mari non è salito sulla vetta a poco a poco,
faticosamente, come l’alpinista che prima di fare un passo si
scava da sè stesso, nella roccia, il posto sicuro, dove
mettere il piede, graffiandosi, scorticandosi, insanguinandosi le
mani. No, egli è stato portato su, e adesso lo buttano giù.
Prima, tutti i giornali, uno dopo l’altro, come le pecore,
scoprono in lui il grande oratore e «l’illustre
pensatore». Adesso, sempre come le pecore, uno dopo l’altro,
fanno la scoperta del Taine. E il povero conferenziere,
coll’angosciosa e ingenua maraviglia di una prima donna che,
diventata vecchia, si sente fischiare, domanda a sè stesso:
— Ma
perchè questo cambiamento? Perchè tanta ferocia? Io non
ho mai fatto male a nessuno!
Giordano
soffre; diventa invidioso, sospettoso, velenoso, e del suo insuccesso
e di «tutta quella grande congiura montata contro di lui»,
quasi quasi non accusa altri che sua moglie:
— Non
mi lascia lavorare! Non mi lascia studiare! Mi ha fatto perdere il
tempo, la testa, l’ingegno, la memoria ed anche la popolarità
con quel bel regalo dello zio Eccellenza! (sospirando)
Mi han fatto venire fino a Roma per far che? Per pagare col mio nome,
colla mia fama il portafogli dell’onorevole Albertoni! Emma,
Emma! Tutta colpa sua. Non vede niente, non capisce niente, non pensa
a niente altro che a far toilette!
E mentre io soffro, mi rodo e mi ammalo, sembra che lo faccia
apposta, diventa ogni giorno più fresca e più (sta
per dire
bella, ma
cambia perchè è troppo arrabbiato)
e più grassa.
Ormai
egli non ha che una speranza: ottenere una rivincita col suo volume,
la sua monografia, la sua «opera colossale» Ambrogio
vescovo nella civiltà de’ suoi tempi.
Giordano
(fra
sè)
Ma, e quell’altro? Il cugino? Il malinconico e antipatico
signor Borghetti, diventato l’eroe del giorno, l’eroe di
moda, il primo amoroso della compagnia, per aver preso un colpo
d’aria in montagna? Ecco un uomo fortunato e che sa farsi la
rèclame
colle signore! Perchè mo’ non è rimasto a
Villach?
Giordano
Mari, ormai si era abituato a questo pensiero, cioé che il
Borghetti dovesse rimanere a Villach per sempre, e aveva già
ordinato telegraficamente al direttore della tipografia di sopprimere
la dedica.
Invece,
dopo tanto chiasso e tanto spargimento di lacrime, il Werter
meneghino si è rimesso, sta quasi meglio di prima e ritorna in
Italia! E a Giordano Mari pareva che ci venisse apposta per
intromettersi fra lui e sua moglie, fra lui e il suo
«Ambrogio».
Il
primo telegramma del dottore, da Villach, era stato un po’
inquietante, ma tutti gli altri, a mano, si erano fatti sempre
migliori e l’ultimo annunziava appunto il prossimo ritorno di
Carlo a Milano.
«Andamento
regolare — prosegue periodo lento miglioramento — anche
dopo secondo consulto professor Klebers preferibile stato attuale
trasporto Milano fermandosi Tarvis, Udine, Verona».
Emma
(a
Giordano: appena letto il dispaccio)
Facciamo trovare a Carlo un nostro telegramma a Tarvis. Vuoi?
Giordano
(con
un sorriso che mostra troppo i denti)
Volentieri, cara.
Emma
(siede
e scrive in fretta)
«Lietissimi felici tuo ritorno ti abbracciamo teneramente —
Emma, Giordano».
Giordano
(studiando
il dispaccio)
O «lietissimi» o «felici». In un telegramma
basta uno dei due. (Cancella:
«felici»).
Invece di «ti abbracciamo», «salutiamoti
fraternamente». Non si vanta sempre di essere tuo fratello?
(mentre
suona al cameriere e gli consegna il dispaccio, declama ironicamente
a fior di labbra)
«... ti chiamerò col nome dolcissimo di sorella, e mi
parrai cosa di cielo...»
Emma
sorride, ma il sorriso dei begli occhi innamorati ha qualche cosa di
diverso nell’espressione. Vi comincia forse a trasparire un
primo barlume di quell’indulgente umorismo ambrosiano, così
pieno di acutezza e di buon senso. Resta l’amore, ma l’orgasmo,
lo stordimento della passione si calma ed Emma osserva, studia suo
marito, non più dal basso in alto, tenendolo sollevato fra le
nubi, ma guardandolo vicino, faccia a faccia.
— È
geloso, gelosissimo, sì; ma perchè soltanto di Carlo? E
perchè diventa tanto più geloso dopo che i giornali
hanno detto male dei Precursori.
— I
giornali? — ha detto il Mari a sua moglie fin dal primo giorno
dopo la conferenza. — Tutti d’accordo! Mi fanno
scontare... tuo zio! — Ti prego, e se non basta, ti comando di
non leggerli.
Ed
Emma, sdegnosa e orgogliosa dell’ingegno e della fama di suo
marito, non se n’è curata, disprezzandoli; ma poi viene
a saper tutto lo stesso, dal Cogoleto che, furibondo, le riporta i
punti più salienti, soffiando come un gatto e schizzando bile
dagli occhietti bigi e dai baffi verdi incerati, e dallo zio
Albertoni che ne ride scetticamente. E pensa fra sè:
— Io
gliel’ho detto: «Siamo a Roma e non si scherza. Se non ti
senti, se non sei ben sicuro, se ti manca il tempo necessario,
rispondi di no. Prima o dopo non importa. Ma per Roma devi preparare
una conferenza nuova e bellissima: la più bella di tutte».
Ha voluto ostinarsi, e adesso si arrabbia anche con me perchè
la chiamano la conferenza-carillon!
Emma
è sempre buona, cara, affettuosa, amorosa,
innamoratissima....; pure succede adesso questo fatto curioso: che il
grand’uomo le sembra più grande quanto più è
lontano, e che suo marito torna ad essere il «suo Nino»
dell’Argentera soltanto quando egli non è presente.
Tutta la poesia, tutto l’incanto sembrano dileguarsi e tutto lo
slancio del suo cuore sembra arrestarsi di colpo, appena si trova
dinanzi a quel suo viso preoccupato, torbido, imbronciato. Si sente
intimidita, si sente oppressa, si sente stanca. Giordano non sorride
più coi bei denti bianchi, scintillanti fra i baffi biondi; ma
sogghigna soltanto. Quando parla, non è più la sua voce
bella, dolce, armoniosa, insinuante, penetrante; è una voce
dura, aspra, ironica. E poi... arrabbiarsi e predicare; niente altro!
Predica la mattina, in letto, appena si sveglia; predica a tavola
appena ha finito d’ingozzarsi di rosbiffe e di bile, e continua
qualche volta a predicare anche quando dorme. Predica contro la
musica di Mascagni e contro l’espansione africana, contro la
Duplice, la Triplice e la guerra greco-turca; contro «l’asservimento»
della magistratura e il «torpiloquio» della stampa
venduta; contro la malafede, l’ignoranza «di una critica
sgrammaticata» e contro il Taine: sopra tutto contro il Taine!
Un
dopo pranzo:
Emma
e Giordano sono stati invitati dallo zio nel suo quartierino elegante
e lussuoso dei ricevimenti ufficiali. Giordano Mari, che ci ha presa
confidenza, e che in buona fede lo crede l’origine di tutti i
suoi guai, predica, s’intende, e tanto di più, anche
dinanzi al ministro Albertoni, il quale, durante le sfuriate, guarda
sospirando la bella nipotina, per farle capire che le sopporta per
amore di lei. E, infatti, egli diventa tutti i giorni più
paziente, più tollerante, più arrendevole.
Giordano
(rosso,
invasato: hanno pasteggiato collo sciampagna)
Il Taine! Sempre il Taine! come se io fossi un ammiratore del Taine!
Altro favolista! Secondo la sua teoria dell’ambiente, io dovrei
essere… un rigattiere! E secondo la sua politica, dovrebbe
esserci ancora la Repubblica di S. Marco! Egli disprezza nei popoli
latini precisamente tutte quelle doti che sono le mie. Già,
Robespierre è uno scrivano di notaio, Danton un facchino e
Bonaparte è la reincarnazione spiritica di Cesare Borgia! E
costoro, questi supercritici, a corto di sintassi, ammirano
l’Intelligence:
un libro bellissimo... perchè non si capisce. E il Taine che
trovava i precursori a Shakespeare e a Michelangelo, non ne ha mica
avuto lui dei precursori! Hanno letto il Taine... questi imbecilli:
ma se sapessero un po’ l’inglese! Che cosa avrebbe potuto
fare il Taine se non avesse saputo l’inglese?...
Emma,
in gran decolletè, per fare onore a Sua Eccellenza,
ridente e rosea, colle gemme che le sfavillano sul collo e fra i
capelli, e lo sciampagna che le brilla negli occhi, sta imparando —
è lo zio che le dà lezione — a fumare le
sigarette e a farle da sè. Ciò le occupa il dopo
pranzo, la diverte e le fa piacere.
Giordano
(continua
masticando un grosso avana)
E adesso, quando uscirò col «mio» Ambrogio,
mi par già di sentirli; diranno roba da chiodi! Tutti contro!
Quasi che, per aver la disgrazia di essere nipote del ministro
dell’istruzione pubblica, non si possa più, non dirò
aver diritto, ma nemmeno aspirare ad una cattedra!
Sua
Eccellenza (sorridendo)
Consolati: uno zio ministro è un male che dura poco.
Piuttosto… (s’interrompe:
prende una sigaretta, che Emma è riuscita finalmente ad
arrotolare colle ditina inesperte, l’accende, poi, dopo una
boccata di fumo deliziosa, ripiglia lentamente, facendo l’occhiolino
alla nipote e inviandole sospiri e tenerezze dietro una nebbietta
leggera, vagante, odorosa)
piuttosto... dimmi la verità: questa volta... sei ben sicuro?
— Di
che?
— È
tutta roba tua?
Giordano
(offeso)
Credo bene!
— E
allora... chi sa? Potremo fare qualche cosa anche da ministro. (Sua
Eccellenza colla punta del piede cerca il piedino di Emma, lo trova,
ma Emma gli sfugge subito e pur continuando a sorridere si alza e va
a sedersi più lontana, sul canapè).
L’Albertoni
ha inteso il latino senza aversene a male, e continua a parlare con
Giordano, occhieggiando sempre la bella nipotina attraverso il fumo
della sigaretta:
— E
poi... Perchè questo Ambrogio?
Questo Ambrogio vescovo?...
Non capisco.
Giordano
(scattando)
Ambrogio
vescovo nella civiltà de’ suoi tempi!...
È uno splendido titolo!
— Ma
non capisco il perchè di tante circonlocuzioni! Di tante
ipocrisie!
Giordano
(alzando
la voce: sporgendo il petto impetuoso e maestoso)
Ma io sono sopratutto sincero...
Sua
Eccellenza (con
un risolino pieno di arguzia)
E allora chiamalo Sant’Ambrogio
e che la sia finita! I titoli a chi vanno, ti dirò con...
come… appunto, con quel famoso personaggio del nostro grande
Alessandro! E poi... lasciati guidare da me. Adesso è troppo
presto; bisogna star quieto, farsi dimenticare. L’Italia è
il paese del genio, delle arabe fenici; però si rinasce
facilmente dalle proprie ceneri. A suo tempo, ti darò io
qualche buon consiglio. (Si
rivolge ad Emma per essere ringraziato da un sorriso de’ suoi
occhi) I
giornalisti poi, generalmente, bisogna trattarli come le belle
donnine. Quelli che non si vendono, bisogna comperarli facendo loro
un po’ di corte.
....
Ma l’Albertoni, che ha fatto la pelle dura in mezzo
all’accanimento della politica, è troppo insensibile, è
troppo scettico. I giornali colle loro botte e i loro morsi contro la
conferenza e il conferenziere hanno prodotto un grave effetto: non
tanto sull’opinione pubblica, quanto certo sulla salute di
Giordani Mari.
Il
dolore, la rabbia, le continue irritazioni e, per conseguenza, le
cattive digestioni gli hanno guasto il sangue. Comincia un fignoletto
sul collo, poi un secondo, poi un terzo dietro la nuca, più
grosso e più maligno, che gli mette la febbre e non viene a
suppurazione nemmeno cogli empiastri e le pappe di lino.
— Bisogna
chiamare il chirurgo! Bisogna tagliare!
Giordano
Mari ha un po’ di febbretta, ma per non perdere nemmeno questa
occasione, finge il male anche maggiore. Sfoga contro sua moglie il
dispetto e la rabbia per il fiasco della conferenza, tiene il broncio
allo zio ministro e geme, piagnucolando, coll’onorevole
Cogoleto:
— Vedete
come mi ha ridotto quella gente?... Ditelo voi, ai vostri amici della
stampa!... Se proprio, me l’hanno giurata, se per partito preso
vorranno straziare, dilaniare a questo modo anche il mio povero
Ambrogio,
finiranno coll’ammazzarmi!
Il
Cogoleto, strizzando gli occhietti vividi sotto le sopraciglia
aggrottate, lunghe come mustacchi, gira, borbottando, le redazioni
dei giornali e torna all’Albergo Milano recando proteste
di stima e promesse di articoli. L’Albertoni raccomanda il
Sant’Ambrogio ad uno de’ suoi segretari
particolari, il solito che si tiene in contatto colla stampa.
L’Eccellenza
di Destra e l’onorevole dell’Estrema sono
più che mai presi dalla bellezza giovane e gaia, dalle grazie
affascinanti della moglie, e per amore di lei prendono sul serio
anche i fignoli del marito, tanto più poi che donna Emma,
buona e in buona fede, seconda, a maraviglia, il giuoco di Giordano.
Essa è inquieta, turbata, addolorata:
— Giordano
ha la febbre! Smania, soffre orribilmente! Bisogna chiamare il
chirurgo!... Bisognerà tagliare!
La
poveretta non sa, non pensa più ad altro. Il lieve umorismo,
la punta di critica è scomparsa; l’idolo risale al terzo
cielo. Il suo Nino colla febbre, che aspetta il chirurgo, il suo Nino
caro, sempre buono anche quando strapazza e brontola; il suo Nino che
ha sempre ragione, anche quando ha torto; che è sempre bello,
affascinante, anche col foulard delle pappe di lino attorno al
collo! Essa raddoppia le carezze ed i baci; lo veglia giorno e notte,
non lo lascia un minuto. La Carolina non c’entra, non deve
farsi nemmeno vedere!... La tenerezza della donna innamorata è
gelosa di quelle cure. È lei stessa, Emma, colle sue piccole
mani ingemmate, così bianche e così morbide, quelle
piccole manine che Sua Eccellenza bacia sospirando, e il Cogoleto
arrossendo fin sotto il verde dei peli irti, è lei stessa che
gli fa le pappe ben calde, che le distende sulla tela, sotto la
garza, che ne sente il tepore prima sulla guancia delicata, e che poi
lieve lieve gli avvoltola attorno al collo.
— Povero
Nino mio, ti fo male?
— Bene
no, cara; grazie.
E
tra un grazie e un cara, Giordano si fa curare e si fa
servire, senza riguardi, senza scrupoli, non lasciando a sua moglie
nemmeno il tempo di vestirsi, di dormire, di respirare.
— Fa
presto, cara; ti ho chiamata già due volte!... Grazie.
E
così, sempre con una parola amara sotto la dolcezza della
intonazione, come una bacca di tossico sotto una gelatina di zucchero
candito, egli diventa ogni giorno più fastidioso, più
permaloso, più sospettoso, più geloso. Geloso di una
gelosietta acuta, certe volte, come una punta di spillo, ma senza
collere, senza impeti, a estri, piena di rancori, di ironie, di
bizzarrie. È geloso di un cappellino, di un vestito di Emma,
soltanto perchè le stanno bene:
— Non
hai altro in mente; tutto il tuo studio è di piacere... agli
altri.
— Vieni
via, cara, da quella finestra: tu vuoi farti vedere, si capisce, ma
io piglio freddo!
— Non
scherzare, non rider sempre così forte! Io, cara, ho passato i
vent’anni... e anche tu!
E
nello stesso tempo si gode, si diverte alla corte che fanno ad Emma
l’Albertoni e il Cogoleto. L’uno, Sua Eccellenza,
amabilmente e allegramente, con grande spreco di dolci e di fiori;
l’altro, il vecchio colonnello garibaldino, furiosamente,
mangiandola cogli occhi e coll’aria di volerla mangiare anche
coi denti, e mettendo in fuga con le punte irte dei baffi verdi gli
adoratori del seguito, il «coro di donna Emma», che si
affollano al Pincio attorno alla sua carrozza, e a teatro ne
riempiono il palchetto.
E
si gode, si diverte alle spalle di quei due assidui e fedeli
spasimanti, sfoggiando tutta la sua vanità di marito amato,
adorato:
— Quella
mia cara Emma, così docile, così sottomessa, così
amorosa! Non vive altro che per prevenire i miei desideri. In mezzo
ai miei dispiaceri, ho almeno sempre una parola dolce, una carezza,
un bacio!... È così bella! diventa ogni giorno più
bella! La mattina appena mi desto.... salta in camera mia... e vi
entra il sole! Ed è innamorata più ancora del primo
giorno!... Troppo. — Non glielo dite, non scherzate con lei in
proposito, perchè se ne avrebbe a male. Ma… volete
sapere sin dove arriva la pazzia di quella creatura?... È
gelosa della Carolina!
Giordano
Mari sente, peraltro, una gelosia vera, profonda, una gelosia esosa
come l’invidia, atroce come l’odio, per Carlo Borghetti.
Sempre e soltanto per Carlo Borghetti.
Adesso,
quando arrivano le lettere da Milano dirette ad Emma, egli dimentica
le solite professioni di delicatezza; le apre, le legge per il primo
e ne riferisce alla moglie quel tanto appena che gli accomoda. Donna
Fanny scrive a lungo «dell’interessante architetto»;
e Giordano, subito, impone ad Emma di troncare quella corrispondenza
e quell’amicizia.
— Te
ne prego, cara, assolutamente. E
mi farai il preciso favore, a Milano, di non salutarla nemmeno più.
Col suo Guido Bardi, e compagnia, è diventata una donna,
ormai, troppo, moralmente, avariata.
Ed
egli sta in guardia, e ancora più attento, alle lettere del
dottore. Una anzi, la fa sparire.
Il
buon dottore annunziava appunto in questa lettera la partenza di
Carlo da Milano per Val d’Olona, la campagna del Borghetti, non
molto distante dall’Argentera, e dopo una lunga e fitta pagina
di storia e di minuta diagnosi della malattia, concludeva «che
il lentissimo e saltuario miglioramento era, pur troppo, da ritenersi
più che altro apparente e momentaneo senza il concorso di
nessuna risultanza, di nessun dato favorevole che inducesse ad un
pronostico soddisfacente».
Emma,
finchè Giordano è ammalato, non s’arrischia
nemmeno di scrivere al suo povero cugino. Gli scriverà subito,
dopo, appena Giordano sarà guarito… e non avrà
più tante idee così strane per la testa.
— Adesso
non bisogna inquietarlo; soffre, ha la febbre.
E
Giordano ne approfitta per dire tutto il male possibile «di
quel Borghetti» e per mettere in ridicolo anche il dottore:
— Credi,
mia cara, il tuo illustre e straordinario cugino non è altro
che un erudito. E gli eruditi, sai che cosa sono?.... I nostri
rigattieri. Gli ho letto qualche capitolo del mio Sant’Ambrogio,
e ho fatto male. Per aver ascoltato il suo consiglio, ho troppo
abusato di note, di documenti, di erudizione. Di primo getto mi era
riuscito molto più agile! Mah! a Milano fate presto a
inventare i genî!... Come, per esempio, anche quel noioso e
interminabile funerale del vostro Esculapio a ripetizione!
Emma
(supplichevole,
colle lacrime)
Il dottore, no! Il nostro buon dottore, no! Ti prego, ti prego!...
Ma, pensa, quanto ha fatto per noi!... Devi voler molto bene anche tu
al nostro buon dottore!
Giordano.
Per noi?... Per te. Si sarebbe prestato ugualmente volontieri se
invece di me si fosse trattato (strizzando
l’occhio)
di Nino o di Carlino. Un matrimonio è quel che preme!.. Per
far moltiplicare i clienti!... Ma poi questo non toglie, cara, che
anche il tuo dottore, per quanto di moda, non sia un grande
esagerato. Tu, per esempio, a voler dar retta a quel Torquemada,
dovresti essere morta e sepolta! Invece sei una bellezza; la mia
bellezza cara!... La mia gioia! Vieni, dammi un bacio.
Spariscono
le lacrime. Emma, ridente, salta sulle ginocchia del suo «povero
Nino ammalato», e per quel bacio ch’egli le chiede essa
abbandona allo strazio dei suoi epigrammi il povero Carlo e il buon
dottore.
Giordano.
Del resto, se non sono diventati tutti imbecilli, e se non mi
vogliono veder morto per la solita invidia nazionale — dàgli
addosso a quel cane che si è innalzato sugli altri!...
accoppalo!... — se non è, dico, per questo, il mio
Sant’Ambrogio
avrà un successo straordinario. Me lo scrive l’Amodei.
Emma.
Sant’Ambrogio?...
Dunque, hai cambiato il titolo? Sant’Ambrogio
vescovo,
come vuole lo zio?
— No,
come voglio io. Sant’Ambrogio,
e basta. Io sono sopra tutto sincero e aborro i bigotti di tutte le
chiese, specialmente delle chiese nuove; i più fanatici e i
più ipocriti. — Santo;
sicuro. Sai che cosa vuol dire Santo?
— Uomo giusto; nient’altro. È l’ignoranza,
gioia mia, gioia cara, che impone la doppia servitù del
pensiero e della parola!
I
fignoletti sono scomparsi affatto, da parecchi giorni, e Giordano
Mari alle dieci del mattino è già uscito, ed è
già stato alla posta, ufficio Pacchi postali, nella
speranza di ricevere da Milano le prime copie della sua opera.
— Ancora
niente.
— Niente?
Torna
all’albergo brontolando contro la poca sollecitudine
dell’Amodei ed entra subito al numero 31.
— Buon
giorno, cara. È più tardi del solito e non hai ancora
finito di vestirti?
Emma
(come
sempre, appena lo vede all’improvviso, correndo ad abbracciarlo
con un grido di gioia)
Sei già stato fuori?
— Sì.
A comperarmi dei sigari.
— E
il libro è arrivato?
— Che
libro?
— Il
Sant’Ambrogio!
Giordano.
Non seccarmi sempre col Sant’Ambrogio!
Arriverà... quando arriverà.
Emma.
(ancora
colle braccia attorno al collo del marito, indietreggiando a un
tratto per guardarlo; per osservarlo bene)
Ma tu, scusa... (gli
tocca leggermente una guancia colla punta del dito).
Sicuro!... Sei gonfio!
Giordano.
Gonfio? (corre
a guardarsi nello specchio)
Che mi venga qualche diavolo anche in faccia?
Emma.
No, no! È un po’ di gonfiezza, soltanto. Apri la bocca!
Lasciami vedere in bocca!
Giordano
(opponendosi
vivamente)
Ma no, non seccarmi! Mi secchi! (Cambiando
tono, sorridendo)
Bambina!... Pare impossibile!... Sempre il mio tesoro di bambina che
giuoca! Adesso ti diverti a giocare con me «al signor dottore»
(Avviandosi
verso il numero 30)
Per te, i dieci anni non saranno ancora passati, nemmeno quando ne
avrai quaranta!
Emma
(per
seguirlo)
Vengo io!... Hai un po' di tintura d’iodio o di laudano?
Giordano
(con
fermezza)
Ti prego: c’è la Carolina per gli unguenti e per gli
empiastri. Fammi il piacere di sonare e di chiamare la Carolina.
Grazie.
Emma
(suona
mortificatissima e facendo il broncio).
Giordano
(tornandole
vicino, accarezzandole una mano)
Per un po’, sta bene; ma adesso, basta. Le tue manuzzole sono
troppo belle e desidero baciartele... senza sentir l’odore di
seme di lino!
La
Carolina (precipitandosi in furia) Sua Eccellenza! Il signor
ministro! L’ho visto adesso entrare nell’ascenseur!
Giordano
(ad
Emma)
Ricordati che io sono ammalato e che dormo! Già, non viene per
me; ma per te! (Passa
colla Carolina nel numero 30, e chiude a chiave l’uscio di
comunicazione).
Emma,
in un attimo, finisce di vestirsi.
Sua
Eccellenza (in
frak, decorazioni e un grande scatolone di dolci sotto il braccio:
fermandosi sull’uscio)
Troppo presto?
Emma.
No, no, zio! Avanti!
Sua
Eccellenza.
Vengo presto perchè più tardi, oggi, non posso.
(Sospirando)
E poi dicono che non si lavora per il nostro paese! Alle dieci del
mattino, come vedi, sono già in abito di fatica!
Emma
(ammirandolo)
Sei magnifico!
Sua
Eccellenza (avanzandosi).
Tuo zio dunque ti piace?
Emma
(birichina)
Moltissimo….. colla commenda.
— E
allora, perchè sei brava, eccoti il premio (Le
dà la scatola dei dolci e il solito bacio, paterno, sui
capelli).
Suo
marito le ha ripetuto tante volte che «non c’è
pericolo!» Ed Emma, ormai, chiude un occhio, e lo zio continua
a prendersi qualche piccola confidenza. Suo marito le ha sempre
predicato che non bisogna disgustarlo, anche per un riguardo alla
mamma, ed Emma ha finito per lasciarsi fare un po’ di corte,
ricambiandola con molta civetteria graziosa, briosa, spiritosa. Del
resto, con una lezioncina di tanto in tanto, Richelieu si tiene nei
limiti, e la sua corte non ha che un eccesso di espansione in fiori,
in dolci, in ninnoli. Sua Eccellenza è amabile, galante e di
buon umore. È un innamorato che sospira ridendo. Ride anche
donna Emma e comincia a divertirsi della corte dello zio, come si
diverte e ha preso piacere alla sigaretta. L’una e l’altra,
due cose che da ragazza non avrebbe nemmeno potuto provare; due
passatempi da maritata e che si risolvono in un po’ di fumo,
che non dà la tosse a nessuno.
Emma
(sdraiandosi
sul canapè nel suo cantuccio solito e cominciando a rosicchiar
dolci)
Sai che Giordano sta ancora poco bene?
Sua
Eccellenza (con
un’occhiata verso il numero 30)
Sempre a cagione del Taine?...
Emma
(seria)
Non scherzare; questo te lo proibisco. Scherza sul Cogoleto quanto
vuoi, ma non su mio marito. (Ad
alta voce)
Ha una guancia un po’ gonfia.
— È
a letto? Dorme?
— Credo.
Sua
Eccellenza si allunga sul canapè, avvicinandosi colla faccia,
fissando Emma.
Emma.
Vuoi… un cioccolatino?
Sua
Eccellenza (tenendo
strette le dita che gli offrono il piccolo dolce, lo avvicina alle
labbra di Emma)
Metà per uno.
Emma
(finge
di non capire, libera la mano e spezza il cioccolatino)
Ecco; prendi.
— Tutti
i giorni sempre più... cattiva!
— Proibito
parlare sottovoce!
Sua
Eccellenza (forte)
Allora vengo a prenderti colla carrozza prima di pranzo e stasera ti
conduco a teatro, alla prima della Manon.
Emma
gli accenna ripetutamente di no, scrollando il capo.
Giordano
(dall’altra
stanza, parlando colla bocca chiusa)
Vieni a prenderla prima di pranzo colla carrozza; e stasera la
condurrai a teatro.
Finchè
la moglie è gentile, Giordano sa di poter essere sgarbato
collo zio ministro, e però si sfoga per mostrare la propria
indipendenza col trattarlo quasi arrogantemente.
Giordano
(rivolgendosi
dopo un istante a sua moglie, con un tono più sommesso e più
affettuoso)
E tu farai, almeno per questa volta, come ti dico io. Per guarir
presto, ho bisogno, sopra tutto, che tu mi permetta di fare a mio
modo. Ho bisogno di quiete, di silenzio assoluto, di dormire, di non
mangiare e di non veder nessuno. Ti mando un bacio, cara. Buon
giorno, zio!
Sua
Eccellenza (subito,
ad Emma, sottovoce)
Allora vieni a pranzo con me!
Emma.
Ti par possibile?
Sua
Eccellenza.
Col deputato Cogoleto; coi nostri soliti! (nomina
due o tre dei più assidui frequentatori di Emma).
Emma.
Sola, senza Giordano e con Giordano che non sta bene? Mai più!
Anzi, régolati: non venirmi a prendere, oggi, colla carrozza.
Non voglio assolutamente.
— Hai
sentito? Tuo marito me lo ha ordinato.
— Dirai
a mio marito che hai avuto Consiglio; che non hai potuto.
— E...
in compenso della bugia?
Emma.
Verrò, forse, a teatro. (Sdraiandosi,
sporgendo il piede che vede ammirato dallo zio, sul panchettino di
velluto)
Che cosa guardi?
Sua
Eccellenza.
Quel piedino! Quel piedino! (Mettendosi
il pince-nez e chinandosi per ammirarlo più d’appresso)
Oh! il piedino delle signore milanesi!... Come il cielo di Lombardia,
così bello, quando è bello!
La
nipotina ha detto di no, ma Sua Eccellenza ritorna verso le sei colla
carrozza: tentar non nuoce.
— Non
gridarmi! Non sono venuto a prenderti
Soltanto
desidero avere le notizie di tuo marito. Come sta? (guardandola:
abbassando la voce) Hai pianto?
— No.
— Sì.
— No!
— Hai
gli occhi rossi!
Emma.
In tutto il giorno non ho potuto vederlo. Ecco che cos’ho!
Tutto il giorno la Carolina, soltanto la Carolina!
— E
tu lascialo colla Carolina, e vieni con me!
La
voce di Giordano (ancora più soffocata per la pappa di
lino) Sei tu, zio?
— Sì,
ma... (per
obbedire ai cenni della nipote)
ma devo scappar subito! Abbiamo Consiglio!
— Allora
dopo. Vieni col Cogoleto! Venite a prendere Emma! Io sto meglio,
grazie, ma non posso parlare e non sopporto la luce. Invitate Emma a
pranzo!
Emma
(rivoltandosi
furente verso il numero 30)
Io fuori, a pranzo, non ci vado! A teatro, non ci vado! Dici sempre
che ho passato i vent’anni? Sì! Sì! Sì! Ho
passato i vent’anni, sono una donna e non sono più un
baby
da condurre a spasso! Voglio fare quello che voglio! Voglio restare a
casa mia, a casa mia! Voglio restar sola, a casa mia!
Sua
Eccellenza se ne va, in punta di piedi, sospirando, e senza
sorridere. Giordano non fa sentir più la sua voce per tutta
quanta la sera.
Emma,
seduta, sprofondata nell’angolo del canapè, ha un libro
in mano sul quale tien fissi gli occhi, senza voltar mai le pagine.
Batte nervosamente la punta del piede sul panchettino, ha le ciglia
aggrottate. Silenzio perfetto al numero 31: silenzio profondissimo al
numero 30. Soltanto la Carolina va innanzi e indietro, e gira intorno
alla padrona che non la guarda, che le tiene un muso tremendo. La
Carolina soffia e sbuffa; vorrebbe forse parlare... dire alla signora
qualche cosa, ma guarda verso il numero 30 e non si arrischia.
— Le
fo portare da pranzo, signora? Sono le nove!
— No.
— Ma
non vuol prendere nulla? Ha mangiato così poco, quasi niente,
anche a colazione!
Emma
non risponde: rimane immobile, gli occhi fissi sul libro che tiene in
mano.
La
Carolina, avvicinandosi, molto sottovoce:
— Lei,
se continua così, domani sarà ammalata e, invece, il
signor padrone, glielo assicuro io… starà benissimo.
Emma,
le ciglia sempre aggrottate, alza il capo dal libro e fissa la
cameriera. Perchè sorride?... Che cos’ha da ridere, la
sciocca?...
Carolina
in punta di piedi, va fin presso all’uscio del padrone, ascolta
attentamente, poi, passo passo, si avvicina di nuovo alla signora:
— Non
c’è pericolo!... Dorme a suon di musica! (guarda
fissamente Emma: torna a sorridere).
Emma
(alzandosi
d’un balzo: gettando via libro)
In fine, che cosa c’è?
Carolina.
Per amor del cielo! Ho promesso al padrone, ho giurato al padrone che
avrei sempre taciuto, taciuto con tutti, ma specialmente con lei! Si
figuri se io avrei mai parlato! Ma... è tutto il giorno che la
mia signora piange, soffre; sembra in collera anche con me! Io non ho
coraggio di vederla così disperata per una sciocchezza, per
una debolezza!
E
Carolina, anche colle lacrime negli occhi per il gran bene che vuole
alla padrona, non può a meno di non continuare a ridere.
Emma
(nervosissima)
Insomma… che cosa c’è?
Carolina.
Badi, signora — mi raccomando! — Il padrone ha minacciato
di mandarmi via, su due piedi! È una sciocchezza, le
ripeto!... Poi, dicono, le donne! Ma se gli uomini sono in tutto e
per tutto molto più donne di noi!
— Che
cosa c’è? Senza tante chiacchiere!
— Ha
tre denti finti... Ma mi raccomando, per amor del cielo! Lei deve
continuare a non accorgersene!
Emma
fissa la Carolina come per voler intender meglio, bene; poi passeggia
per la stanza e diventa ancora più seria. La piccola ruga
apparsa in quei giorni per la prima volta sulla fronte limpida,
intatta dei bei vent’anni, si fa più viva e più
profonda.
Sì,
pensa Emma fra sè, è una sciocchezza; ma come si può
fingere, come si può mentire, anche per una sciocchezza, con
chi si ama, a chi si vuol bene? Io non gli ho mai potuto nascondere
nemmeno un punto solo, un respiro, il respiro più lieve della
mia anima!
Carolina.
Ma perchè non ride? Si metta di buon umore! In fine, che c’è
di male? È un bell’uomo; ci tiene! Mi promette, non è
vero? Giura di non tradirmi col signor padrone?
Emma
(seriamente)
Basta! Basta! So ciò che devo fare. Tu, per altro, quando ti
dicono di tacere, devi tacere.
Carolina
(piccata)
Se ho sbagliato, scusi; è stato a fin di bene! Sembrava in
collera anche con me! Non mi diceva più una parola!... È
naturale!... Prima lei, che è sempre stata la mia padrona, di
tutti gli altri!
E
la Carolina se ne va, anch’essa un po’ imbronciata, dopo
aver augurata la buona notte alla signora.
Emma
(fra
sè)
Quando egli mi guarda, mi legge subito in fondo del cuore. Io,
invece, no; capisco, non so leggere nel suo cuore; non ci vedo; è
buio, è chiuso! Dio, Dio, se non mi volesse bene! Che gran
dolore! Che fine di tutto! Che morte! E che orrore! (si
copre il viso colle mani, mentre un brivido le corre per la vita. Si
è data, si è abbandonata così interamente, così
appassionatamente: si sforza per calmarsi: sorride, ma con molta, con
profonda tristezza).
Anch’io sono una gran sciocca stasera; mi monto la testa;
esagero! Ma pure, io gli avrei detto tutto, qualunque cosa, grande o
piccola; fosse pure un’inezia e anche un torto mio; fosse pure
una colpa. Impossibile tacere sotto i suoi occhi, Impossibile!
Impossibile! Solo a guardarmi saprebbe sempre tutto. Invece, lui, mi
fa una gran commedia per una ridicolaggine inconcludente!... Un
pasticcio, segreti, misteri colla Carolina, colla cameriera, che
scherza poi, e ne ride! E peggio ancora! Peggio ancora!... Ha il
coraggio di restare un giorno intero senza vedermi; ha il coraggio di
farmi soffrire un giorno intero! È troppo! No, è
troppo! (Comincia
a svestirsi sempre più eccitata e vibrante: i piccoli bottoni
di madreperla saltano lontani, e i cordoncini di seta si
aggrovigliano fra le dita nervose).
Che donna mi crede? Come mi giudica? Ha più vanità per
sè stesso — sì, vanità, vanità,
vanità! — che non amore per me! Una vanità
piccola, meschina, ridicola. E colla cattiveria di lasciarmi sola,
tutto un giorno sola, senza poterlo vedere, inventando mille bugie,
mille finzioni per allontanarmi! Voleva mandarmi fuori a pranzo, a
teatro collo zio, col Cogoleto, con tutto il mondo! Perchè non
ho accettato? Perchè non ci sono andata?... Oh, ma un’altra
volta!.. Lo merita.
Emma,
sempre colle ciglia aggrottate, pallida, smorta, senza mai guardare
verso l’uscio del numero 30, ha finito di spogliarsi. Salta in
letto, spegne il lume e si caccia sotto... voltando le spalle al
numero 30!
Chiude
gli occhi, ma non riesce ad addormentarsi: resta immobile,
rannicchiata, senza voltarsi, senza distendersi, presa da un senso
d’inerzia, di freddo. È tardi; lo scricchiolio dei passi
e le voci lungo il corridoio si fanno più rari; i rumori
dell’albergo si allontanano, si perdono e nella camera buia,
silenziosa, a poco a poco, prima leggero, interrotto, poi, più
forte, più lungo, entra il gran russare di Giordano,
accompagnato da un sibilo, da un fischiettio, che varia tutti i toni.
Emma
si rannicchia ancora di più; caccia la testa sotto le coperte,
per non sentire; ma quel rumore sempre più forte, continuo,
misurato la tien desta, l’opprime, la soffoca, riempie tutta la
camera... e, sembra, tutto l’albergo.
Emma
(sotto
sotto, cacciandosi sempre più sotto)
Dio, Dio, sentiranno? ... Sentiranno nelle altre stanze?
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