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Gerolamo Rovetta
L'idolo

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  • PARTE SECONDA
    • XII.   Ugo Foscolo e il signor Tancredi.
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XII.

 

Ugo Foscolo e il signor Tancredi.

 

A Roma, col bel sole e le tepide giornate, Emma si era sempre figurata l’Argentera fiorita e ridente, e col desiderio avvicinava e affrettava l’ora in cui l’avrebbe rivista, mentre le più care memorie abbellivano quel momento, e il suo cuore salutava ogni punto ben noto della via maestra. Le cime verdeggianti, su cui si era arrampicata nelle sue passeggiate con Giordano, le folte boscaglie, le lunghe e tortuose stradicciuole fra le rive dall’ombra deliziosa...

Invece, prima per la nebbia, sempre la nebbia uggiosa, interminabile, poi per la sera oscurissima, Emma arriva all’Argentera, senza nemmeno averla veduta. Vi arriva stanca, intirizzita dal freddo, coll’anima desolata e la mente ingombra da tristi pensieri, da tristi presentimenti.

Carlo, Carlo! Povero Carlo!... Una tisi? «Spedito?...»

Ma come mai Emma non ci aveva pensato? Era stata sempre leggera, distratta, lo aveva sempre dimenticato... E lo aveva creduto guarito... Le avevano scritto che era guarito, poi che stava ancora poco bene, ma ammalato così gravemente, no! Una tisi, no!

Appena è smontata dalla carrozza, il signor Formenti le consegna due dispacci arrivati da mezz’ora. Uno è della mamma che le inviava mille tenerezze, l’altro di Giordano:

 

«Sempre teco: ansioso notizie: tutti miei baci».

 

Dopo tante ore di viaggio, sola, in mezzo alla nebbia, quei due dispacci le fanno piacere. Si sente correre nelle vene intirizzite come un senso di calore:

Com’è buono il mio Nino! Com’è stata buona anche la mamma! — E risponde sul momento, piena d’affetto, commossa:

«Verrò presto», alla mamma, — «Vieni subito», a suo marito.

Fa in fretta cinque minuti di toilette, poi scende per il pranzo e fa chiamare di nuovo il signor Formenti. In quella sala così ampia e così vasta e che dopo la illuminazione sfarzosa e gaia dei restaurants affollati e delle splendide sale dei palazzi di Roma, pare mezzo al buio, il posto vuoto di suo marito, e il servitore lontano che non si vede quasi, perduto nell’ombra, infondono in tutta la sua sensibilità eccitata un senso strano di malinconia.

Il signor Formenti (sempre un po’ curvo per esser pronto a inchinarsi) La signora si sentirà stanca del viaggio?

Emma. Un po’; ma più del viaggio mi ha stancata la nebbia. Non credevo di trovar tanta nebbia!

II signor Formenti. È il raccolto più importante di questi paesi! E non hanno ancora pensato di metterci la tassa.

Emma, sempre pronta a variar d’umore, ride alla spiritosità del signor Formenti; poi gli domanda conto della signora Giovanna, sua moglie, dei figliuoli e sopra tutto della piccola Emmina, ch’essa aveva tenuta a battesimo e che aveva promesso di tenere anche a cresima.

Emma. La mobilia nuova è tutta di sopra?

Sì, signora: la mobilia delle due camere da letto e dello studio.

E anche le casse, i bauli del padrone?

Sono nello studio nuovo del signor commendatore, come la signora padrona mi ha ordinato nella sua lettera.

Domani le faccia aprire; si sono perdute le chiavi.

Sì, signora; sarà fatto. — E il fattore rimane in piedi, immobile, senza più aprir bocca, aspettando nuovi ordini.

Emma (dopo un momento: quando il servitore è uscito per andare a prendere un’altra portata) Da qui a Val d’Olona, quanto tempo si mette in carrozza?

Un’ora, un’ora e un quarto; coi due sauri anche meno.

Domattina presto, prestissimo, manderà a prendere notizie del signor Borghetti.

Manderò alle sette; appena giorno. Ho sentito dire che il signor Borghetti sta molto male. È vero?

Emma non risponde, ma il sangue le fa un tuffo. Sente di nuovo la stessa impressione angosciosa: una mano che le stringe il cuore e la gola. E il fattore continua colla voce che gli diventa cupa, cavernosa:

Dicono che c’è la minaccia di una tisi! È un gran peccato!... Così giovane, bravo, ricco! Pareva il ritratto della salute e aveva tutto per essere felice a questo mondo!

... Non finisce mai! ... Non finisce mai di parlare

Emma (nervosissima) Adesso le darò un biglietto che farà consegnare al signor dottore.

È a Val d’Olona, dal signor Borghetti?

Sì. E manderà anzi il cocchiere colla vittoria a prendere le notizie, per il caso che il signor dottore volesse venire all’Argentera. Può andare, signor Formenti. Favorisca dire alla Carolina che mi prepari subito la camera. Buona sera.

Prima di andare a letto, stanca, svogliata, triste, col pensiero di Carlo che l’addolora e l’opprime, passa dalla biblioteca per prendersi qualche cosa da leggere: guarda...

Non c’è niente di nuovo. Non c’è niente di bello!... Cercherò domani, fra i libri di Giordano.

E va a letto senza più dire una parola, nemmeno colla Carolina, e si addormenta, sospirando, bagnando di lacrime il guanciale... E sogna di Carlo ammalato... lo vede morto nel suo letto... le fa paura, vorrebbe fuggire, ma non può muoversi, non può fare un passo. Poi non è più Carlo il morto, è suo marito... la faccia di suo marito, la faccia stanca, livida, la bocca storta, come nel viaggio da Napoli a Roma.

Si risveglia molte volte nella notte, di soprassalto, poi si riaddormenta; è sempre quell’agonia, quello stesso sogno. Ma poi, ad un tratto, sente dentro di un movimento, un urto... come un piccolo colpo...

È stata un’illusione forse?...

Emma spalanca gli occhi e ascolta, ascolta.... aspetta ansiosamente e non pensa più che a quella vita, che si è mossa, che si è agitata in lei la prima volta... Il buio le si riempie di stelle... e a poco a poco si addormenta placidamente e sogna gli angeli.

 

 

La mattina dopo:

Emma scende in giardino, avvolta in una gran pelliccia. Il Monterosa tutto bianco, immerso nel cielo azzurro, sembra vicinissimo; il sole, non ancora alto, fa scintillare come cristalli vaghi e striati i rami degli alberi coperti di ghiaccio e gli steli lunghi, sottili, diritti all’aria, dondolanti.

Emma (al giardiniere) Il fattore ha mandato a Val d’Olona?

Sì, signora. È andato il cocchiere colla vittoria, poco dopo le sette.

Il giardiniere conduce la padrona in giro pel giardino; le vuol far vedere certi lavori, certi scavi per la conduttura dell’acqua ordinati dal signor commendatore. Poi la conduce nella serra, dove le ha preparato una improvvisata: una grande fioritura di lillà bianchi.

Emma alla vista di quei fiori si entusiasma. Per un momento è tornata bambina. Che bellezza! Che bellezza! Ne manderà subito alla mamma, al babbo, ne manderà un grosso mazzo a Carlo!... Poi pensa fra : «A Carlo, subito, no». La felicità che le dànno tutti quei fiori la rendono ancora più buona, più amorosa, più innamorata. — E se il povero Nino fosse geloso?... Manderà a Carlo un bel mazzo di lillà quando suo marito sarà all’Argentera. Ma intanto, se Carlo guarisse!... Come si sentirebbe sollevata! Come respirerebbe felice, contenta, se non avesse quel rimorso, se Carlo guarisse!... Oh, allora come potrebbe godersi in pace i suoi fiori, il suo giardino, l’Argentera e amare il suo Nino senza rimorsi e non pensare ad altro, ad altro che a quella sua gioia grande, immensa che la rende beata.

Un baby, un baby, un baby mio! Dio, Dio che felicità!

Il signor Formenti che corre?... Che c’è di nuovo?

Il signor Formenti, vedendo la padrona che si ferma per aspettarlo, si leva il cappello e corre ancora di più:

Natale, il cocchiere, ha incontrato il signor dottore in carrozza, che veniva da Val d’Olona e andava alla stazione. Era stato chiamato a Milano da un telegramma per un ammalato gravissimo. Ha detto a Natale di riverire la signora e di dirle che verrà, spera, domani mattina, o domani sera al più tardi, all’Argentera.

E il signor Borghetti?

Ha detto il signor dottore che da un paio dir giorni è quasi senza febbre e che oggi potrà alzarsi per un’oretta o due.

Dio, Dio, vi ringrazio! — esclama Emma con un gran sospiro di sollievo. Pensa che il babbo, e specialmente la marchesa Gonzales e il Barbarani devono certo aver esagerato colle loro previsioni. — Hanno esagerato, certamente!

In quella mattina piena di sole, col cielo così limpido e le montagne così chiare, nitide, vicine vicine, essa ritrova l’Argentera cara dei suoi ricordi, il nido amoroso, avventuroso, di tutte le sue gioie.

Ho un baby mio, tutto mio, il mio sangue, il mio respiro, le mie viscere, fatto da me!... Fatto da me!

Scrive una lettera lunga lunga a Giordano. Una lettera con tutto il racconto del suo viaggio, delle notizie ultime del caffè Cova; colle descrizioni e le impressioni dell’Argentera. Una lettera affettuosa e birichina in cui ogni parola, ogni scherzo è una carezza, è l’invito, la preghiera, lo stimolo di venir presto, di venir subito. Chiude nella lettera un piccolo ramettino di lillà e nel far l’indirizzo, ripensandoci, con una delle sue astuzie di donna innamorata, invia la lettera a Bologna, sperando così di farlo partire più presto da Roma e, in pari tempo, gli manda un telegramma all’Albergo Milano:

 

«Ho scritto Bologna: fa presto. Ti aspettiamo.

Emma».

 

Poi va di nuovo in cerca del fattore; non si fida altro che del fattore quando vuol essere ben sicura per la posta. Gli consegna la lettera e il telegramma e gli parla del cane da caccia come gli aveva raccomandato suo marito.

E la signora Giovanna?... Oh, ecco, appunto, la buona signora Giovanna!... — Ed Emma saluta allegramente, con affabilità ed espansione cordiale la timida fattoressa che non ha osato presentarsi la sera innanzi per paura d’incomodare la signora padrona, e fa molte feste a tutta la nidiata dei figliuoletti grandi e piccini; ma specialmente all’Emmina, che bacia, ribacia, che si stringe fra le braccia con trasporto

Com’è bellina! Com’è carina!... Tesoro! Adesso, quanto ha?...

Quasi tre anni, signora padrona.

Com’è grande e grossa! Che begli occhioni! Ha cominciato prestissimo, mi ricordo, a camminare?

A otto mesi, camminava da .

Cara! ... E non è mai stata ammalata, mai?

Mai; ha sofferto un po’ per il latte, ma l’ho divezzata presto e dopo è sempre stata bene.

Emma (diventando seria.) Soffrono tutti, soffrono molto i bambini per il latte?

La fattoressa risponde di no, e tutte le spiegazioni che desidera Emma, la quale continua a farle mille domande sopra ognuno dei suoi figliuoli.

Intanto il signor Formenti, che ha già mandato la lettera e il telegramma alla stazione, ritorna dalla padrona.

È stato tutto spedito in piena regola. Ha altri comandi da darmi? Ho già fatto aprire le casse e i bauli del signor commendatore, come la signora mi ha ordinato ieri a sera.

Benissimo! Bravo signor Formenti! Fa freddo fuori!... Così ho qualche cosa da fare in casa!... Venga ad aiutarmi, signora Giovanna!

Prima che Emma partisse da Roma, Giordano, fra tante raccomandazioni, le aveva detto ancora, replicatamente, di ricordarsi bene che al suo arrivo all’Argentera voleva trovar pronto il suo studio da lavoro e i libri messi a posto. In quanto all’altra roba, le casse, i bauli degli abiti e della biancheria, mandasse tutto in qualche stanzone a parte, o nel solaio. Lui, poi, con suo comodo, ne avrebbe fatto uno spoglio da regalare al fattore e ai suoi servitori.

Emma. Venga ad aiutarmi, signora Giovanna! Venga a vedere! Ci sarà forse qualche cosa, della roba ancora buona, che le potrà servire... per i bambini! (rivolgendosi ai ragazzi) Venite tutti! (prende per una manina la piccola Emma: corre innanzi con lei, facendo in fretta i passettini corti, imitando la voce, il cinguettare della bimba, ridendo e scherzando) Corri, corri, corri!... Piglia, piglia cavallin!...

Appena di sopra, i ragazzi si spingono innanzi tutti insieme per spalancare l’uscio dello studio.

Non c’è altro, signora Giovanna? — domanda Emma alla fattoressa. — È tutta qui la roba del padrone che è stata mandata da Padova?

Sì, signora. Due casse, un baule grande ed uno più piccolo.

Emma. Quando arriva il padrone, signora Giovanna, deve trovar tutto pronto: anche le due camere da letto, i gabinetti di toilette, tutto, tutto!

Emma comincia allegramente a vuotare una cassa di vestiti e di biancheria:

Questa è roba per lei!... Questo è per lei! — e così via, carica le braccia della signora Giovanna e dei ragazzi di abiti vecchi e di biancheria stinta, sdrucita, per quanto bene lavata e bene stirata.

Emma (fra ) È strano! Mio marito, tanto elegante, quand’era a Padova portava le camicie di lana coi solini e i polsini staccati! (forte) Prenda, signora Giovanna! Questa è tutta roba che può ridurre, che può esser buona per i suoi figliuoli!

E per mio marito!... È una provvidenza! Una vera provvidenza, signora padrona! Scusi!... Guardi. Su questa giacca, è puntata una carta. Prenda!

Emma prende, con due dita appena, il mezzo foglio di cartaccia grossa, ordinaria, da cucina — la nota, evidentemente di tutti gli abiti contenuti nella cassa — e si affatica, studia per poter decifrare quel carattere inintelligibile, quelle parole lunghe, storte, che sembrano sgorbi. Finalmente incomincia a capire qualche cosa.

Emma (legge a stento, compitando) «Nota di tuti li vistiti del Nano...» (ha una scossa s’interrompe e continua a leggere sottovoce; poi rilegge ancora tutto da capo, ma sempre sottovoce) «Nota di tuti li vistiti del Nano ricivudi in consegna da la Veronica»... Del Nano?... (pensa, ripensa, diventando a mano a mano sempre più seria) Del Nano?... (la nota corrisponde esattamente cogli abiti levati dalla cassa e gli abiti sono di Giordano) Dunque: Giordano... Nano. Dev’essere un soprannome. A Padova, suo fratello, tutti, lo chiamano Nano! È bruttissimo!... «da la Veronica...»? Questa Veronica, dev’essere la vecchia cameriera di sua madre, la governante, di cui mi ha parlato. «Li vistiti del Nano...»?

Ma poi, infilata sopra un paio di calze a mano, trova un’altra nota, simile alla prima:

«Nota di tuti li e feti di biancaria del Nano

Emma (alla signora Giovanna) Per oggi, basta. Sono stanca. Domani; continueremo domani.

La fattoressa se ne va, ringraziando, colla roba e coi figliuoli, ma la signora non risponde, non bada nemmeno alla piccola Emmina che le si era avvicinata aspettando un altro bacio.

Vieni! Andiamo! Presto! — E la signora Giovanna deve tirarsi dietro la bambina, pigliandola per un braccio.

Emma (rimasta sola, dopo aver girato gli occhi pensierosi su quella cassa, su quella roba, su quelle due noticine della Veronica che tiene ancora in mano: fra ) Mi prenderò un libro per leggere stasera... (e ripete macchinalmente a stessa ciò che ha già detto prima alla signora Giovanna) Poi basta per oggi; sono stanca...

Si avvicina al baule più piccolo: alza lentamente il coperchio: è pieno di libri, di manoscritti, di carte. Essa guarda, osserva, chinandosi un po’, appoggiandosi al coperchio alzato. Vede subito, dalla copertina rossa, alcune dispense della Revue des Deux Mondes, e, dalla copertina gialla, molti libri francesi.

Emma (s’inginocchia per terra, dinanzi al bauletto, e cerca fra i libri) Lavisse... Boissier... De Roberty... Paulo Sabatier, «Vie de St-Francois d’Assise...» Roba troppo seria per me!... Oh, ecco! Un volume del famoso Taine!... Ippolito Taine! Oh, che cosa c’è?... (dal libro è caduta una lettera e un piccolo mazzolino di fiori secchi) Oh! Oh! Povero Taine, a che cosa serve! (Prende in fretta la lettera: ha riconosciuto, sull’attimo, il carattere della signora Simonetti).

Restando sempre inginocchiata, tiene la lettera alzata fra le due dita e legge e rilegge l’indirizzo, scritto con quel bel caratterino inglese, lungo, aristocratico:

 

Signor Giordano Mari

Hôtel Bella Venezia.

 

La busta è stracciata in un angolo, scorge due o tre paroline color violetto...

Che tentazione! No! No!.. Proibito!

Ma pure quella letterina se la mette in tasca. La consegnerà lei, colle sue proprie mani, a suo marito. Vuol vedere che faccia farà!... Chi sa!... Chi sa, quell’antipatica!... Quante frasi infocate!... Poi pensa al gran mutamento e alla nuova virtù di donna Fanny e sorride:

Se questa letterina, la leggesse l’arcivescovo!...

E sempre inginocchiata per terra, appoggiandosi con un gomito al bauletto, continua a pensare a Fanny, e a sorridere... e l’acuto profumo d’ambra che esala da quella letterina elegante, le fa dimenticare, per un istante, le camicie di lana senza i polsini del Nano e le note della Veronica.

Ci sono anche i fiori!... I fiori appassiti sul cuore!... Questi, per altro, non glieli do! Basta la lettera! I ricordi del dolce peccato, si distruggono!

Ma guardando bene il mazzolino, guardando bene, sopra tutto, quel piccolo nastro azzurro e oro... non c’è dubbio, lo riconosce... è suo!... È suo!

I miei fiori! I primi fiori che gli ho dato, cacciati... dimenticati in un libro qualunque, insieme ad una lettera... una lettera di quell’altra!

Subito gli occhi le si velano di lacrime, ritorna seria, scrolla il capo tristamente, e sospira. Ormai conosce suo marito.

In quel momento ci sarà stato un bell’articolone da leggere, o avrà dovuto vestirsi in fretta per qualche gran pranzo o qualche visita ad un personaggio illustre e intanto i miei fiori e la letterina amorosa sono stati cacciati insieme, in fretta e furia, dove capita capita... e dimenticati! Ah, Dio mio!.... Mah!... Quello era il sogno, l’incanto... e la vita, la realtà, si sa bene, è sempre diversa... e brutta.

Continua a scrollare il capo, continua a sospirare e continua a guardare nel bauletto e a leggere svogliatamente i titoli delle opere e dei vari volumi che le vengono tra le mani.

Ugo Foscolo!... Un altro grand’uomo che in genere «donne» deve averne fatte di grosse!... «Opere edite e postume di Ugo Foscolo»; «Epistolario»; Le lettere! (vivamente, contenta, ammirando il volume) Le lettere di Ugo Foscolo!... Ho sempre avuto tanta smania di leggerle!... Devono essere bellissime, assai interessanti.... (guardando l’indice) «Alla contessa d’Albany», «Alla donna gentile», «A Silvio Pellico», «Alla marchesa Bartolomei...» (fa per voltare una pagina e il volume si apre da nel mezzo). Che c’è?... Un’altra lettera di donna Fanny?... Ah no, meno male!... È il conto dell’albergo. «Milano: Hôtel Bella Venezia». Che disordinato! Proprio che disordinato! Invece di conservare tutti i conti in ordine di data come il babbo, li caccia dentro i libri per segno... come i miei fiori e i bigliettini amorosi! (scorre qua e coll’occhio sulle due pagine del volume aperto: a un tratto rimane colpita da alcune parole che non le sembrano nuove, che ha già lette: rilegge tutto il periodo più attentamente:)

 

«.... Se l’infermità, se gli anni, se gli accidenti vi rapiranno la beltà e gli agi; se sarete padrona di voi, se sarete disgraziata; se vi mancasse nel mondo un marito, un amico, io volerò a voi; io vi sarò marito, padre, amico, fratello...»

 

Che combinazione!... Quasi le stesse parole! Emma torna indietro, guarda l’intestazione della lettera:

 

«Alla giovane signora F. Giovio».

 

Allora rilegge tutta la lettera, col cuore sospeso, senza batter ciglio, senza quasi respirare...

No, no! Che sospetto stupido, cattivo!... Eppure... qua e ... sì... Che combinazione strana, strana, strana...

E nella sua mente, quasi parola per parola, essa ripete quell’altra lettera, la prima, lettera di Giordano; quella lettera che aveva letta, riletta cogli occhi pieni di lacrime, che aveva baciato, ribaciato, ch’era stata il suo tesoro, la sua ricchezza, la sua felicità, la sua vita... che per tante notti aveva dormito con lei, sul suo cuore, e che per obbedire a Giordano aveva distrutta, bruciata, in quei giorni in cui stava tanto male... in quei giorni in cui aveva creduto di morire.

No! No!... È un’idea cattiva... È un sospetto cattivo. È tutta la mia cattiveria. Sono cattiva! cattiva! cattiva!

Ma adesso è con ardore, con ansia, colla febbre che cerca, che fruga fra quelle carte, fra quei libri... Non lo dice, non lo vuol confessare a stessa, ma è una prova che cerca, è una prova che domanda, che invoca, che implora al suo Dio, alla sua fede, a tutto ciò che l’ha sempre protetta, benedetta nella vita!... Una prova dell’amore di Giordano, una prova che riesca a calmare il suo cuore, a cancellare, a distruggere tutte quelle cattive, quelle tristi impressioni!

La scrittura di Carlo?... Che cos’è? Che cos’è?... La scrittura di Carlo? Ma perchè la scrittura di Carlo?

Sono alcuni fogli manoscritti; primi capitoli del Sant’Ambrogio.

Emma (leggendo) «Teodosio», «S. Agostino», «Ambrogio e Marcellina», «La verità e la leggenda nelle lotte di S. Ambrogio cogli Ariani».

Ma Emma ormai non pensa più al Borghetti; i fogli manoscritti le son caduti dalle mani; il suo viso è diventato pallido come la morte. Ella fissa immota un piccolo pacchetto di lettere avvolte da una striscia dell’istessa cartaccia mezzo sudicia, adoperata dalla Veronica per le sue note, con su scritto con un carattere grosso, rotondo:

«Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano».

Emma si è cacciata macchinalmente una mano sul cuore; ma il cuore non lo ha più; non lo sente più! Soltanto la testa... la testa che le brucia... le tempia che le martellano violentemente:

Dio! Dio! Io divento matta! Io sento che divento matta!

E rilegge, deve rileggere per forza, per forza, ciò che è scritto su quella striscia, su quella cartaccia...

«Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano».

Sono, infatti, le lettere di Emma; Giordano Mari, nel rinnovare le cambiali, le aveva pagate per un terzo e la Veronica aveva imposto al signor Tancredi quella restituzione.

È una vergogna!... Adesso lei è sicuro dei suoi denari!... Gli restituisca le lettere.... È suo fratello!.. Vergogna!...

E il signor Tancredi ha restituito le lettere di Giordano, il quale non le aspetta che all’estinzione totale del debito, e per risparmiare le spese di posta le ha date alla Veronica da mettere nel baule colle altre carte di affari e di famiglia che appartengono al fratello.

«.... Cambiali e lettere della moglie consegnate alla Veronica e da restituirsi al fratello Nano...»

Emma, ad un tratto, afferra quel pacchetto e d’un balzo si alza in piedi stracciando l’involto... Non ha più scrupoli, non ha più timori non ha più riguardi:

Sono le mie lettere! Sono le mie lettere! Sono le mie lettere!... E quest’altri fogli sudici, pieni di cifre, di bolli, di timbrature, che cosa sono? Ma che cosa sono?... — «Caro Nano?...»

Emma si ferma ancora un istante, esitando, tremando. «Caro Nano?...»; poi gli occhi le cadono sulle parole «tua moglie» e allora legge tutto ciò che il signor Tancredi ha scritto al fratello dietro una cambiale estinta:

 

«Il Finardi mi ha assicurato che quegli altri possono presentemente accontentarsi della tua firma senza bisogno di garanzia o pegno, e perciò ti rimando le lettere di tua moglie. Ciao e sta sano.

Tancredi».

 

«PS. — Raccomando di essere puntuale anche alla prossima scadenza e di pagare un altro buon acconto a scanso di dispiaceri».

 

Emma non dice una parola, non fa un gesto, rimane immobile e muta, con le ciglia aggrottate, mentre la ruga in mezzo alla fronte diventa sempre più profonda a mano a mano ch’essa, nel disordine, nel turbamento delle sue idee, del suo cervello, riesce ad afferrare la verità, a indovinare, a capire tutto, tutto, tutto!

«... senza bisogno di garanzia o pegno, e perciò ti rimando le lettere di tua moglie».

A un tratto sente camminare nel corridoio; un grido e si precipita contro l’uscio chiudendolo a chiave; ma in quell’urto, in quell’impeto, in quell’impressione di spavento, ha esaurito tutte le sue forze e si appoggia, cade quasi contro l’uscio, affranta, mezzo svenuta.

Signora, signora! (è la voce del servitore). Signora, signora padrona!

Cosa c’è?

Un telegramma.

Emma aspetta ancora qualche momento. Poi apre l’uscio, prende il telegramma e torna a rinchiudersi a chiave nello studio. È di nuovo sola in quella stanza e torna a guardarsi attorno smarrita, perduta: — È vero?... È proprio vero?... È proprio vero?...

Quei libri, quei fogli, quella roba sparsa, buttata per terra, sono brani del suo cuore, sono tutte le sue illusioni, sono tutte le sue speranze e tutta la sua vita...

Finalmente apre, strappa, legge il telegramma

 

«Sant’Ambrogio e Martellina successo immensoVero trionfoOvazioni delirantiCommosso ti mando tutti i miei baci.

Giordano».

 

No! No! No!

Emma straccia in cento pezzi quel telegramma e con un brivido, un fremito d’orrore si nasconde il viso colle mani come per respingere quei baci, per difendersi, per salvarsi da quei baci...

No! No!... Oh! No! No! No!

 

 




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