ENTRATURA
Gli svegliarini critici dei nostri
giorni sono tanto scorbellati, che se l'autore d'un libro non ha la precauzione
di spiegarsi un poco, su ciò che ha inteso di dire e di fare, va a rischio di
sentirsene a dir delle belle.
Per prima questione s'affaccia
quella della scuola o del genere. Che ormai le panzane romantiche «fra il
didascalico e il rompiscatole» a situazioni in sospeso, a caratteri tirati a
pomice, e a personaggi tirati pe' capegli siano andate giù di moda e non
piacciano più neppure ai ragazzi non ci sarà forse a negarlo altro barbassoro,
fuorchè un professore famoso per un certo suo grido.
Dunque, se voi signori, che state
per leggere siete di quelli che nei racconti dei fatti contemporanei amano i babau
della sospensione romantica e si compiacciono di non tirare il fiato se non
dopo d'essersi bene assicurati che il fratello del figlio, del nipote, della
cognata, del protagonista è appunto il padre dello zio, del genero del cugino,
dell'eroina, e vogliono che l'intreccio incominci, si complichi e si sciolga
col finale trionfo di tutte quante le virtù e col suo bravo castigo di tutte
quante le colpe, se voi, dico, avete di queste fisime felice notte.
Oggidì, mi duole il dirlo, tutto va
a rovescio di quella conclusione, giacchè le virtù che trionfano e le colpe che
si castigano sono cose lasciate tutte all'altro mondo.
Dunque realismo!
E realismo vuol dire verità, vuol
dire ricerca di ciò che veramente succede, sia pur doloroso e brutto;
vivisezione, fisiologia palpitante, studia della vita quale essa si mostra,
senza rispetti umani e senza reticenze.
Chi scrive Nanà a Milano
ormai non ammette in arte che il realismo; giacchè egli segue il suo tempo e
nelle cose dell'oggi vede appunto la inesorabile verità, che fattasi
iconoclasta, abbatte dovunque le imagini della finzione romantica: il
cattolicismo è distrutto dal libero pensiero, la bibbia è annientata dalla
scienza, la filosofia è sconfitta del positivismo, la pittura dalla fotografia,
la scultura dalla galvanoplastica, la musica dall'aritmetica. Vedete persino
sul palcoscenico le illusioni che bastavano ai nonni come cedono il posto ai
simulacri della realtà: ai gabinetti e ai salotti dipinti a prospettive ed a scorci
si sostituirono dei gabinetti e dei salotti reali, per mezzo delle scene
parapettate; alle cascate d'acqua fatte, una volta, di tela d'argento girante
sul ròtolo, si sostituisce l'acqua vera, cadente dall'alto e spruzzante le
gambe delle ballerine... che magari non sono reali del tutto!
Se non che è noto che ci sono due
modi molto diversi di fare del realismo: c'è il realismo decente e c'è
l'indecente. C'è il realismo decente nella forma, indecente nella sostanza, e
c'è il realismo decente tanto nell'una che nell'altra. Tutta quanta la morale
femminile della nostra società frolla e senza convinzioni molto fisse, risiede
ormai nella decenza. In questa parola sta appunto anche l'avvenire della nuova
scuola naturalista, tanto osteggiata da chi non l'ha ancora capita, e tanto
compromessa da chi nella forma non ha saputo trovare il giusto mezzo fra la
verità nuda e cruda e la desiderata decenza.
Le trivialità, le bassezze, le
turpitudini, le laidezze e le miserie umane - le quali in passato furono lasciate
indietro da tutti i romantici, come cose da non svelarsi - devono essere
portate in pubblico, chiarite, discusse, sviscerate una buona volta, perchè
servano di leva al rimedio di ammaestramento, agli ingenui, di castigo e di
flagello ai viziosi.
Tutto sta dunque a saperle svelare
con decenza.
Emilio Zola, che è pur sempre
decente nella forma, ci presentò in Nanà una donna che nella sostanza
non lo poteva essere del certo. Puttana sbracata, rotta ad ogni turpitudine, in
un ambiente di cinismo e di depravazione, per conservarsi vera, e reale doveva
riuscire per forza molto indecente.
Ora se, partita da Parigi e
capitata per caso a Milano sullo scorcio del 1869, la Nanà di Zola si fosse
conservata tale e quale ce l'ha presentata il romanziere francese, io dal canto
mio non avrei fatta certamente la fatica di ricominciarne la storia da lui
lasciata a quel punto in sospeso.
Non l'avrei fatto, ancorchè avessi
potuto pensare che per quanto essa fosse rimasta la stessa sgualdrina, pure le
differenze di ambiente, di influssi, di contorni di conoscenze dovevano dar
luogo ad altrettante differenze di linee, di tinte, di chiaroscuri e di
avvenimenti.
Ma Nanà giunta a Milano non era più
nè poteva essere più la stessa donna ch'ella era a Parigi. Io l'ho conosciuta nei
pochi mesi che stette nella mia città, l'ho studiata e ho trovato che il
mutamento avvenuto in lei era cosa degnissima di studio attento e profondo, e
che il mondo milanese, che s'aggirava intorno a lei sarebbe stato un vero
peccato mortale se lo si fosse trascurato e non si fosse pensato da alcuno a
portarlo innanzi ai lettori fotografato e caldo in una fisiologia di costumi
contemporanei.
Quella cocotte francese,
sfinge non egiziana metteva tanta suddizione e pur tanta concupiscenza nel
cuore di certi nostri giovani i quali colle dame e colle crestaie concittadine
si mostravano audacissimi, e ha dato una tinta così speciale ai fatti; della
vita milanese e ai caratteri delle persone colle quali ebbe a che fare, nei
pochi mesi di sua residenza, che bisognerebbe essere proprio un balordo per non
cavarne un libro interessante.
In quanto a lei, chi avrebbe detto
che nel nuovo ambiente milanese, dovesse apparire assai diversa da quello che
ce l'ha descritta e tramandata lo Zola!
Nessuna donna forse ebbe più di
Nanà le doti che si attribuiscono al camaleonte; nessuna più di lei sapeva
trasmutarsi da un giorno all'altro, e da abbietta cortigiana diventar magari
una signora rispettata e superba.
Ed ecco perchè a me è venuto il
grillo di ripigliar da Zola istesso questa donna stranissima, che riuscì a miei
occhi un tipo unico di figlia di Eva del nostro tempo, un problema di isterismo
a freddo, una personificazione dello spirito scacciapensieri, una sintesi di
puttanesimo rapace, un'epopea: di calcolato disinteresse, un campo aperto di
capricci, di estri, di fantasie, di voglie, di brame, di vanità, di ambizioni,
di vaneggiamenti, di simpatie, di antipatie, di libidini, di freddezze, di
affetti, di passioni in continua contraddizione con sè stessi; anzi in continua
ribellione fra loro, un tipo di avarizia, un mostro di prodigalità, un ecatombe
di toilettes, un entusiasta del risparmiare, un apoteosi di poltroneria,
un prodigio di attività, un iperbole di egoismo, un miracolo di buon cuore, una
iena pazza di ferocia, un'incapace di veder soffrire una formica, una capace di
ripetere con Brillat Savarin che in una tal salsa avrebbe mangiato volentieri
suo padre!
Un ultimo avvertimento, perchè io
bramo sopratutto di essere sincero.
Qualche lettore, in questo mio
nuovo studio della vita milanese contemporanea, troverà delle scene che non gli
giungeranno sconosciute. Un episodio infatti di Nanà a Milano mi servì
già a scrivere una commedia che ebbe lieto successo sul teatro milanese. Alcuni
altri frammenti io pubblicai prima d'ora, in qualche giornale italiano e non
riusciranno nuovissimi a chi per caso li avesse già letti in que' periodici. Io
non saprei dir a questi signori se non che oggi li ritroveranno, se non
foss'altro, sotto la loro vera luce e al loro posto preciso.
Chi poi credesse di trovare in
questo libro, un dramma giudiziario con simulazione di parto, che levò
rumore grandissimo in questi giorni, si pulisca la bocca.
Cletto
Arrighi.
Milano, 20 giugno
1880.
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