II.
Aldo Rubieri, nel tempo che aveva molti
debiti e poche commissioni, abitava fuori di una porta della città. Si era
fatto corpisantino, e là nel sobborgo, teneva abitazione e studio. Pagava una
miseria di affitto, e dalle sue finestre vedeva d'estate molto verde, e
d'inverno, se fosse nevicato, molto bianco.
Quando poi diventò poco meno di
celebre, ed ebbe soddisfatti i suoi pazienti ed onesti creditori, egli si era
talmente affezionato a quella residenza che non aveva più voluto venir in
città, quantunque l'aria assai democratica, che tirava nel sobborgo non fosse
quella delle sue convinzioni assai moderate.
Comperò dunque la casetta, e in
essa si creò il suo nido dell'arte e della vita.
Lo studio, che solo conservò tal
quale, era per lui popolato da tutte le imagini, da tutte le finzioni, da tutti
i progetti della sua geniale fantasia; memorie imagini, finzioni che gli
avevano procacciata l'ambíta fama e la invidiata agiatezza.
Gli pareva che le vicende della sua
vita abbastanza travagliata, gli dovessero sfumar via d'un tratto, se avesse mutato
di casa e aveva giurato di finire in essa la sua fortunata carriera.
La casetta, dall'umile apparenza,
ma tutta leggiadra e artistica di dentro, era da vari anni visitata dagli
stranieri. Aldo Rubieri aveva scritto a Bedeker di farne un cenno, nella sua
nuova Guida d'Italia, e Bedeker infatti nel capitolo che riguardava
Milano, parecchi anni or sono, vi aveva fatte due aggiunte: il vaporino
illuminante in circolo la cupola della Galleria Vittorio Emanuele e lo studio
di Aldo Rubieri.
*
* *
Una piccola carovana, uscita
dall'albergo Reale un dopo mezzodì di agosto del 1869 s'avviò allo studio di
Aldo Rubieri. Per risparmio di ciceroni quella carovana era composta di
elementi assai eterogenei. In testa camminava un Francese con quella noncurante
serietà che caratterizza la gioventù della giovine Francia, più gloriosa ancora
dopo i rovesci, uno di que' Francesi che in Italia stanno sull'occhio per non
essere creduti, brillanti a spasso, e che non hanno difetti in fuori di
quello di sprezzar troppo la roba straniera.
Dopo lui scarpinavano, coi loro
piedoni piatti, due rappresentanti della vecchia Albione, un mister ed
una mistriss. - Anch'essi non presentavano alcuno di que' tratti
caratteristici e ormai diventati comunissimi, che si usa di attribuire molto volentieri
agli Inglesi in viaggio. Non enormi guide sotto il braccio, non indecenti
spolverine, non scarpaccie infangate ed eccessivamente lunghe. Di inglese essi
non avevano neppur il colore dei capelli.
Alla retroguardia seguivano altre
quattro persone, di cui tre uomini e una donna. Costoro che avevano veduta la
luce sulle sponde del Danubio erano invece biondissimi.
Il Cicerone dell'albergo chiudeva
la marcia.
La zitellona tedesca poteva avere
un trentatrè anni; più al di là che al di qua. A diciotto ella poteva essere
stata una bella biondona. Suo padre e suo zio, mercanti di oggetti artistici,
stavano disputandosi in dialetto viennese sul merito relativo degli scultori
italiani, le cui statue era capitato loro qualche volta di comperare a Milano
per cinque e di vendere a Vienna per cinquanta.
La zitellona camminava in mezzo a
loro due. Quello a destra, sosteneva che al giorno d'oggi non era possibile più
il vendere che pattini e quadri di genere; l'altro, che due giorni prima aveva
comperate parecchie tele di stile classico, negava che il realismo in arte
potesse mai avere fortuna. Entrambi però erano d'avviso che lo stile austriaco
non avesse confronti «quella maniera larga di dipingere in tinta gialla che fa
credere tutta roba da museo anche i quadri di un anno» essi la ritenevano la
miglior pittura che fosse al mondo.
Si sa bene che ognuno ha il suo
orgoglio nazionale!
A un certo punto s'interpose il
Cicerone. Era costui un personaggio autorevole in fatti di giudizî di pittura.
Lo aveva lodato perfin il povero Rovani, che certo non abusava della lode. Era
costui un Modello incanutito fra i cavalietti e gli scalpelli che adorava Aldo
Rubieri fino alla esagerazione, di quell'amore entusiastico e un tantino
irragionevole, di cui non sono capaci che i figli d'Italia:
- Scusino, signori - diss'egli in
tedesco - nessuno dei giovinetti che cominciano ora ad esporre promette di
giungere alla grandezza di Aldo Rubieri.
E nel pronunciare questo nome il
suo occhio semispento brillò di un insolito guizzo di luce.
- Da quanto tempo è diventato
celebre il nostro bravo Aldo? - chiese uno dei due viennesi, il padre della
zitellona.
All'udire quella frase
confidenziale il Cicerone ne fu quasi scandalizzato. Guardò l'austriaco con una
inenarrabile occhiata di compatimento, e disse:
- Conoscete forse mein herr,
il grande scultore Aldo Rubieri?
- Se lo conosciamo? Altro che! -
rispose l'Austriaco, guardando a sua figlia che si fe' un poco ciliegia, e che
sorrise misteriosamente.
- Ed è perciò che vi domandavamo da
quanti anni sia diventato celebre, giacchè noi sono ormai più di dieci anni che
non l'abbiamo più veduto, e quando l'abbiamo conosciuto noi non lo era ancora.
- Dal primo suo gruppo, che fu
premiato dall'Accademia e venduto per quarantamila franchi - rispose il
Cicerone.
- Bella somma! - sclamò lo zio.
- Un gruppo alto un metro -
aggiunse il Cicerone. - Ma la sua fama il signor Aldo la deve ancora più al suo
modo originale di trattare cogli eroi della democrazia che per altro. Le opere,
si sa bene, finchè un artista è vivo, saranno sempre criticate; ma la
indipendenza del suo carattere e il suo magnifico disinteresse faranno sempre
sul popolo un grandissimo effetto. Egli è capace, se non gli garba il soggetto,
di rifiutare una commissione, che gli frutterebbe molto danaro. Dopo l'immenso
successo del suo ultimo gruppo, il generale Garibaldi gli ordinò, un gruppo di
soggetto repubblicano che un Inglese gli avrebbe pagato cento mila lire.
Credete voi che egli abbia accettata la commissione? Neppur per ombra. Io ero
presente quando Aldo Rubieri rispose al messo di Garibaldi, che era venuto là
in studio a portargli la ordinazione, credendo di fargli un grande onore:
«Dite al generale, che cento mila
lire per un gruppo alto un metro e mezzo è troppo! E che io non ho tempo per un
simile lavoro.»
- Ciò è bello! - sclamò la
zitellona.
- Ciò è stupido! - disse il padre.
- Ciò è assurdo! - osservò lo
zio....
- Un'altra volta, sarà una
settimana, cacciò fuori dal suo studio un principe russo che voleva sforzare la
porta per correr dietro alla signora Nanà.
Al nome di Nanà, tre esclamazioni
contemporanee uscirono dalle bocche austriache.
- Ah!
- Ih!
- Oh!
Il Cicerone, sorpreso, si arrestò
di botto.
- Chi è la signora Nanà? - fu prima
a parlare la zitellona.
- Chi è la signora Nanà? - disse
quasi contemporaneamente, il padre.
- Chi è la signora Nanà? - stava
dicendo lo zio a sua volta; ma si tacque, udendo che la domanda veniva già
fatta dagli altri due.
- Nanà è la più bella donna del
mondo - rispose enfaticamente il Cicerone. - Nanà è un'artista francese, che
ora serve di modella per la Venere contemporanea.
- Venere contemporanea? - sclamò
Leopoldina - cosa vuol dire?
- Vuol dire una Venere decente
- rispose il Cicerone - una Venere non del tutto ignuda; una Venere della quale
si vedano e si indovinino le forme divine in quelle parti decenti, che sono
divinamente formate dalla natura e si dissimulino le parti che le donne del
giorno d'oggi hanno meno belle, e che non si devono rappresentare.
- In tal caso - osservò con un
certo acume uno dei due Tedeschi - non arrivo a capire il perchè si parli di
Venere, che viceversa è il nome di una Deità molto classica e interamente nuda.
- È vero! - sclamò il Cicerone,
colpito da questa osservazione. - Ma debbo dire che in caso l'errore è tutto
mio. Io sono vecchio e non ho potuto ancora svestirmi totalmente dei pregiudizi
classici. La statua del mio maestro sarà un'opera d'arte che protesti
energicamente contro l'invasione moderna dell'impressionismo, del realismo e
della sprezzatura esagerata nella divina arte scultoria, che deve essere liscia
e finita e non brizzolata e rugosa come la robaccia della scuola nuova.
I forestieri capivano e non
capivano.
Il Cicerone era come invaso da un
santo sdegno.
- Ma dunque - uscì finalmente a
dire il padre - il signor Aldo crede ancora possibile una Venere, dopo tante
che ce ne lasciò l'antichità?
- Perchè no? - proruppe il
Cicerone. - La bellezza non è forse eterna? La bellezza del nudo non tramonta
mai!
- È tanto bella? - domandò di nuovo
la donna - questa signora Nanà?
- Bella è, secondo me, una parola
un poco insignificante per esprimere che cosa sia la signora Nanà. Essa è un
portento.
- Dicevate dunque - disse il padre
austriaco, quasi volesse stornar il discorso dalle imagini troppo estetiche....
- Io stavo dunque dicendo -
ripigliò il Cicerone - che Aldo Rubieri è ancora più in voga pel suo carattere
che pe' suoi lavori, e raccontavo che aveva cacciato fuor dallo studio il
principe russo, mentre il giorno dopo aveva spalancata la porta del suo più
segreto penetrale ad un povero pittorello di Roma, che viaggiava per istruzione
col sacco in spalla; egli fece colazione con lui nel giardino incantato.
- Ah, c'è anche un giardino
incantato? - domandò la matura fanciulla spalancando gli occhi grigi.
- Incantato, per modo di dire -
rispose il Cicerone - ma è tanto più incantato dopo che lo frequenta la signora
Nanà, giacchè, secondo me, un luogo dove regna e dove respira, foss'anche una
mezz'ora al giorno, una creatura come la signora Nanà, quello diventa per forza
un luogo incantevole.
I sei occhi dei tre personaggi
austriaci s'incontrarono.
Parvero dire colla loro espressione
desolata, il volgare «siam fott... o regina!»
*
* *
- Continuate - ripetè il padre.
- L'avere ricevuto così intimamente
lo scolaro povero, dopo aver cacciato, senza complimenti, un principe
arcimilionario, fece chiasso. Tanto più quando i giornali liberali, nemici di
Aldo Rubieri, raccontarono che il supposto studente di pittura di Roma non era
altro che un povero imbianchino di stanze. Allora egli fece una risposta che
chiuse la bocca a tutti. Egli dimostrò come un imbianchino valga sempre più di
certi giornalisti, per la ragione che questi, sporcando della carta bianca,
le toglievano ogni valore commerciale; mentre quello, imbiancando pareti
sporche, ridonava ad esse molto valore commerciale.
Quando poi lo scolaro andò a
scusarsi d'essere stato causa involontaria della polemica, egli lo consolò
dicendogli: «Lasciate scrivere. Sono i pittori invidiosi, che ispirano i
cattivi giornalisti. Ma io conosco degli imbianchini che valgono molto più di
quei pittori. Giacchè gli imbianchini raggiungono sempre e bene il loro scopo,
che è quello di pulire e render lieti i locali, mentre certi pittori, non solo
non lo raggiungono mai, ma lo tradiscono e lo deturpano, sporcando delle
candide tele. Del resto, che gran differenza c'è fra un pittore e un
imbianchino? La sola, veramente grande, è che il pittore adopera un pennello a
manico breve e la tavolozza, mentre voi altri adoperate il pennello a manico
lungo e la secchia. L'ingegno solo fa la grande distinzione; ed io, fra un
imbianchino d'ingegno e un pittore asino, scelgo subito l'imbianchino.
- Parlateci ancora di questo
giardino misterioso e incantato - disse la zitellona, crollando il
caposorridente per le sortite del vecchio Cicerone.
- Oh, molto misterioso! - sciamò
questi alzando gli occhi al cielo. - Si può dire che dopo me non vi siano a
Milano che tre persone, le quali abbiano avuto la immensa fortuna di spingere
lo sguardo in quel sacrario dell'arte viva.
- E voi siete del numero?
- Io sono del numero - rispose il
vecchio sollevando orgogliosamente la bella testa di Cristo invecchiato.
- C'è speranza che noi, colla
vostra autorità, e come amici vecchi di Aldo Rubieri, possiamo essere
introdotti?
- Voi, amici vecchi? - sclamò il
Cicerone.
- Non sapete forse che Aldo, quando
aveva 20 anni, era a Vienna con suo padre?
- Ah, è vero! - sclamò il Cicerone,
portando la mano alla fronte. - Non mi ricordavo più che egli è figlio di un
colonello di stato maggiore al servizio di casa d'Austria.
- Dunque?
- Dunque che cosa?
- Potremo noi vedere il giardino
incantato?
- Oh, impossibile!
- Potreste voi almeno
descrivercelo?
- Impossibile anche questo. Ho data
la mia sacra parola d'onore al maestro, che non avrei tradito mai il segreto
della sua dimora.
I tre Viennesi tacquero e ciascuno
si mise a mulinar a suo modo.
Ma in quel punto erano arrivati
dinanzi alla casetta di Aldo Rubieri, e s'arrestarono.
*
* *
A Milano, come dovunque, ci sono
delle abitazioni dove tutto va male, tutto dà noia, tutto vi sta a disagio; e
ve n'ha delle altre, dove tutto gioisce, tutto dà piacere, tutto risplende.
Entrando nelle prime, trovi un portinaio
ciabattino, che vive in un bugigattolo buio ed infetto. Il tanfo vi è
nauseante; sui gradini della scala vi si scivola; gli usci si direbbe si
lamentino di dover girare sui cardini; le persiane, spalancate, si rinchiudono
sgarbatamente in faccia; gli scarafaggi ed i topi sono padroni della cucina; i
cimici, del letto; le faine, del solaio; le lumache e gli scorpioni della
cantina; il pozzo dà l'acqua cattiva; un cane rinchiuso guaisce tutte le notti;
un ragazzo caparbio vi strilla ogni mattina; un suonatore di tromba vi studia
ogni mezzogiorno; delle casigliane pettegole vi si picchiano ad ogni calar
della sera; il padron di casa usa mandar delle lettere insolenti; il ragioniere
ha il fiato che ammorba... e via dicendo.
Entrando nelle seconde, il cuore si
allarga. Tutto vi spira l'ordine, la pulizia, la pace, il benessere. Si direbbe
che queste case benedette furono costruite da operai intelligenti, e siano
abitate da gente di buon gusto.
Tale apparve ai viaggiatori la
dimora di Aldo Rubieri.
Appena giunte, la zitellona alzò la
testa e s'imbattè in una scena graziosa.
Sotto un portichetto, lieto di
verdura in un angolo, una rondine aveva costruito il suo nido e giungeva
volando alla pensile capannina, nel momento che i viaggiatori si arrestavano
dinanzi alla porta della casa. Spaventata nel veder tanta gente, la rondine
svolazzava trissando intorno al nido quasi volesse attirare a sè tutta
l'attenzione di quegli stranieri per distrarla dai suoi cari implumi.
La zitellona si fece malinconica.
Forse un assalto di nostalgia l'aveva presa.
Non c'è come la rondine per
ridestar nel cuore la memoria della casa lontana.
In quel punto un colpo di martello
fece trasalire la Tedesca.
Il Cicerone aveva picchiato alla
porta chiusa col battente di bronzo.
In una delle imposte si vedeva
inchiodata una placca di terso ottone su cui stava scolpito un Rubieri,
senz'altro.
Doveva bastare!
*
* *
Il Cicerone dato il colpo si volse
a' suoi compagni e disse:
- Ora ci toccherà forse di
aspettare un quarto d'ora; ma guai se io rinnovassi il colpo; potremmo star qui
due ore, che nessuno più verrebbe ad aprirci.
- Perchè?
- Perchè la signora Marietta
pretende di non essere sorda, ma confessa di essere molto pigra.
Questa volta però il fatto smentì il
pronostico. La porta si schiuse poco stante, e una donna s'affacciò al varco,
domandando:
- Chi è?
- Forestieri che desiderano di
visitare lo studio e parlare al maestro - rispose il Cicerone.
E lanciò alla donna un'occhiata
espressiva che voleva dire: «Gente per bene, bisogna esser gentile.»
La donna aperse il battente, si
ritrasse, e pronunciò il sacramentale:
- Restino serviti.
La carovana attraversò un atrio
pompeiano, dove sul muro videro graffite delle figure bellissime di fanciulli
ricciuti, di vergini con anfore in mano e di satiri con tirsi inghirlandati di
pampini, saltellanti e festosi.
Il Francese che fu il primo a
vederle, ristette; e il Cicerone cominciò la sua spiegazione:
- Questo atrio venne terminato
soltanto l'altro giorno. Questo genere di pittura a chiaroscuri e con linee
profonde comuni a Pompei, si chiama graffito. Questo pattino che vedono, è il
ritratto del figlio della signora Nanà, sopra fotografia, giacchè il Louiset è
rimasto a Parigi colla zia.
Questo nome scosse nuovamente la
zitellona e i due Ausriaci. Ma nessuno dei tre osò fare una domanda sul figlio
della signora Nanà, che non era punto bello, ma che era maestrevolmente
disegnato.
Ammirato che l'ebbero, s'avviarono
verso il viridario contornato di portici, precisamente come si usava
nell'antica Roma. Una vaschetta di marmo bianco, con zampilli uscenti dal corno
di faunetti di bronzo, sorgeva nel mezzo del giardinetto spandendo intorno una
grata frescura.
- Questo lo vedremo meglio dopo,
uscendo per di là - disse il Cicerone svoltando a destra in coda alla signora
Marietta, che aveva schiuso un uscio.
Sulla soglia del quale gli
stranieri lessero il classico Salve, poi entrarono.
La scena mutava d'aspetto.
Pompei cedeva il campo al più
ferreo dei medî evî risuscitati.
Come una di quelle dimore di Fata,
che sorgono dal suolo nei sogni che seguono la lettura dei romanzi di Scott o
della Radeliffe, così il salotto dove erano entrati gli stranieri parve ad essi
la viva e reale imagine d'una stanza di antichissimo castello feudale.
Il presente scomparve ai loro occhi
come per incanto. Si guardarono l'un l'altro, quasi fossero sorpresi di
trovarsi vestiti di panno e col cappello a tuba in mano. Una specie di estasi
medioevale li invase, e provarono nell'anima un ridestarsi confuso di tutte le
memorie romantiche della lontana gioventù. Parte a parte non c'era moltissimo
da ammirare. Appiccicati alle pareti, non ricchi trofei di armi in simetria,
come è l'uso comune delle odierne sale d'armi. Ma si sarebbe detto da una certa
rastelliera e da certi cappucietti come dimenticati sul davanzale d'una
finestra, che un falconiere fosse uscito di là poco prima, dopo aver addestrato
il falco; si sarebbe detto che il giullare avesse lasciato su una sedia il suo
berretto a sonagli; che l'armigero e il balestriere avessero deposta poco prima
in un canto, uno la picca, l'altro la balestra; che la castellana passando,
avesse profumato quell'aura cogli aromi che il marito crociato le aveva recati
dall'oriente.
Ciascuno di quei viaggiatori ebbe
la propria impressione storica.
Al Francese parve di respirar
un'aria tutta pregna di effluvi merovingi.
Alla zitellona sembrò di calpestar
la polvere dei seguaci dell'interessante giovinetto svevo, venuto a morire in
Italia sotto la mannaia di Carlo d'Angiò.
Gli Inglesi credettero sentir un
bisbiglio di voci dei guerrieri di Riccardo Cuor di Leone.
Chi non provò nulla di tutto
questo, furono i due Austriaci. Non avevano l'incornatura romantica loro!
La carovana, ammirando in religioso
silenzio, passò ed entrò in una seconda camera tutta parata di giallo, in stile
moderno. Quelle fisonomie già pallide soffuse dal colore delle cortine e delle
tappezzerie si fecero cadaveriche.
L'artista aveva il capriccio di
vedere sulle linee faciali de' suoi visitatori questo effetto di tinte, non già
pel gusto di trovare il genere umano più brutto di quello che esso sia
realmente, ma per studiare il cambiamento di linee, di toni e di riflessi,
allorchè dal giallo i visitatori passavano allo scarlatto dell'attiguo salotto.
- Si fermino qui un momento che io
vado ad avvisare il maestro della loro venuta - disse Mattia il Cicerone,
mentre la signora Marietta era scivolata fuori dalla camera da un uscio di
fianco.
*
* *
Mattia Corvino - tale era il nome del
vecchio - s'accostò ad un uscio di contro a quello per cui era entrata la
comitiva, piegò l'indice della mano destra con una specie di religioso
raccoglimento e colla nocca picchiò un colpetto discreto, tendendo l'orecchio.
Egli era compunto. Egli stava per
comunicare coi due idoli del suo cuore, e l'atteggiamento della sua persona,
pigliava un'apparenza di devozione.
Nessuna risposta dal di dentro.
Tornò a picchiare più forte, tornò
ad origliare, e nulla ancora.
Allora alzò con una certa soavità
la mano alla maniglia dell'uscio, lo aperse e scomparve per esso, dicendo con
voce flebile l'indispensabile:
- È permesso?
Mattia Corvino era entrato nel
gabinetto di lettura di Aldo Rubieri.
Lo scultore infatti non aveva
soltanto uno studio, ma anche uno scrittoio. In faccia a qualche suo collega
scapigliato Aldo aveva un gran torto quello di non odiare la coltura e la
letteratura.
La stanzina parata di rosso
conteneva una bella libreria tutta piena di libri d'arte, di romanzi, e di
poesie. Una magnifica scrivania - come non se ne vedono certo in casa dei
letterati - tronava in fondo al gabinetto di fianco alla finestra.
Intorno intorno sulle pareti dei piccoli capolavori di pittura e di scultura.
Questo nido della intelligenza gli
aveva meritato da alcuni colleghi, il sopranome di aristocratico. Dico
alcuni, che per fortuna si possono contar sulle dita; e non sono neanche da
confondersi costoro, con quei molti, che detestano la letteratura soltanto in
apparenza, e non tengono in casa nè libri, nè calamai, nè penne, ma conoscono i
letterati e li ascoltano, e ne sono amici.
La è piuttosto un'abitudine e una
jattanza che un'antipatia; giacchè modesti e avidi di sapere, vivono talvolta
cogli uomini di lettere e di scienza meglio e più a lungo che coi loro stessi
colleghi.
I pochi invece che davano
dell'aristocratico a Rubieri nutrono un vero e alto disprezzo per tutto ciò che
non è colore o scalpello; negano che l'arte abbia bisogno di coltura, giacchè
per essi l'intenzione è tutto; chiamano imbrattacarte gli scrittori ed i
critici, e disprezzano e odiano la letteratura e anche l'acqua, tanto per uso
interno come per uso esterno.
Aldo Rubieri che aveva fatto anche
lui la sua carovana artistica ed era stato assai povero, per ispirito di
reazione, aveva forse esagerato il tipo opposto. Appena uscito dalle angustie
egli si era rifatto gentiluomo perfetto. Il cappello a tuba in capo, la
cravatta nera, le mani guantate, spesso gli stivali lucidissimi; in casa poi
aveva accomodato il suo studio letterario con infinita cura e lo aveva affidato
alle sollecitudini, allo strofinone e al pennacchio della signora Marietta, che
lo teneva lindo e splendido come un gioiello.
- Non c'è - sclamò Mattia Corvino,
dopo essersi guardato intorno. - Sarà dunque nello studio.
E ristette un poco pensieroso.
Mattia Corvino, lo sappiamo già,
aveva per Aldo Rubieri e da pochi giorni per la signora Nanà, una di quelle
adorazioni che in certe anime foggiate a bella posta, possono elevarsi fino al
sagrificio della vita. Quando entrava in quelle camere egli si sentiva preso da
un senso di altissima venerazione, come si dice che Mosè lo provasse
sull'Orebbo, quando s'accorse che il suo piede stava per calcare il sacro
suolo. Mattia era tale che se lo scultore glielo avesse permesso, si sarebbe
volentieri cavate le scarpe per entrare là dentro.
- Forse egli è là con quella
tentazione di sant'Antonio - pensò Mattia prima di ricominciare sul nuovo uscio
la stessa manovra di poco prima.
Egli chiamava a suo modo Nanà: la
tentazione di sant'Antonio.
- Alla fine si decise e diè un
altro picchietto sull'imposta.
- Una voce maschia e sonora rispose
di dentro:
- Chi è?
- Mattia - rispose il vecchio
trattenendo il respiro.
Un bisbiglio di voci, accompagnato
da un melodioso e fresco scroscio di riso accompagnò la risposta del Cicerone.
- È lei! - pensò.
E dovette sedersi per l'emozione.
- Dio fa ch'ella posi - continuò in
cuor suo e che essa non abbia oggi il capriccio di considerarmi come un uomo di
questo mondo.
*
* *
Questa frase di Mattia giungerà forse
oscura a qualcuno.
Mattia Corvino s'era infiammato di
Nanà come s'infiammano talvolta certi vecchi artisti dopo averla veduta a
posare nuda nello studio del suo scultore.
La artistica nudità femminile al
giorno d'oggi ha perduto - per colpa de' gesuiti - tutta la famosa ingenuità
del mondo antico. Noi non sappiamo più imaginarci un corpo di donna bella,
quale pur fu creato da madre natura, senza dei sussulti peccatori. Le innocenti
nudità sono un mito per noi.
Nei boschi della Grecia le Driadi,
e le Nereidi sulle rive del mare, noi non sappiamo più imaginarcele; come non
sappiamo più vedere nè Veneri, nè Ninfe, negli studi dei nostri scultori. Le
Driadi e le Nereidi del giorno d'oggi tutt'al più si chiamano forosette
e bagnanti e osservano fior di regolamenti della scuola di nuoto e
pagano fior di multe se li trasgrediscono. Quanto alle Ninfe e alle Veneri
negli studi degli artisti oggidì si chiamano semplicemente Modelle.
- Entra Mattia - disse la voce -
dopo un breve silenzio, durante il quale il Corvino era stato ad aspettare
origliando all'uscio, coll'ansia istessa con cui un imputato sta ascoltando il
presidente che gli legge la sentenza di assoluzione.
All'invito il vecchio sprigionò dal
petto un sospirone, schiuse l'uscio ed entrò.
*
* *
Lo spettacolo che s'offerse agli
occhi di Mattia non era nuovo per lui ma era solenne.
Nondimeno Nanà con un moto
istintivo, aveva rilevato fino all'anca il lembo dell'arazzo che le stava a
larghe pieghe posato sotto i piedi nudi, e aveva guardato placidamente, e come
se nulla fosse, in viso a Mattia Corvino che entrava.
È assioma che la mano, la quale
pudicamente rialza o abbassa un velo, fa pensare assai più a ciò che essa vuol
nascondere che al pudore che nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a
qualche lettore, che si ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva
detto ch'ella avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore
che doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto:
«Je
me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra.» Se quel moto di pudore, ripeto,
paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè egli non conosce
ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà aveva subita nei pochi
giorni di sua dimora a Milano.
Nell'ambiente serio e sconosciuto
nel quale s'era messa «la bonne fille» subiva un cambiamento ne' suoi istinti
di donna, la quale non sarebbe apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il
cinismo degli uomini non l'avesse resa tale.
- Che c'è? - domandò Aldo Rubieri.
Mattia distaccò a stento gli
sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in su gli si presentava di
contro e rispose con voce commossa:
- Forestieri... seccature che
vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di visita d'una signora.
Aldo lo prese:
- Leopoldina Rickherwenzel! -
sclamò con grandissimo stupore. - Chi vedo! Che fosse colei? A Milano?
Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha?
- Bionda..., magra, alta....
- È lei, è lei!
- Che età?
- Io le darei dai trenta ai
trentaquattro anni....
- È lei! Non c'è dubbio!
- Dev'essere stata bella, da
ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un conoscitore.
- Dovrò io riceverla? - pensava
intanto lo scultore.
- Chi è questa donna che cerca di
voi? - domandò Nanà in discreto italiano.
- Oh, una vecchia conoscenza di
Vienna.
- Una antica amante?
- Pressapoco.
E qui successe un poco di silenzio.
- Se io vi pregassi di non ricevere
questa vostra antica fiamma, cosa direste di me? - fece Nanà questa volta in
francese.
- Davvero? - sclamò Rubieri con una
punta di ironia nella voce e nello sguardo. - Chi l'avrebbe detto!
- Chi l'avrebbe detto? - ripeto
Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una impertinenza?
- No - rispose lo scultore - è
semplicemente un'esclamazione.
- Ebbene - ripigliò Nanà - senza
tanti discorsi, ditemi francamente se mi fate o se non mi fate il sagrificio
che vi chiedo.
- È impossibile!
- Perchè?
- Ma perchè la sarebbe una specie
di furfanteria se rifiutassi di rivedere una donna alla quale tra le altre cose
ho promesso di sposarla e che è venuta a Milano, dopo dieci anni, per
rivedermi.
- Ma tanto più! - sclamò Nanà
ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se voi la rivedete potete star certo che
io non metterò più il piede in questo studio.
Lo scultore fu colpito vivamente da
questa uscita così perentoria di Nanà. La guardò con malcelato stupore. Poi le
si accostò e le prese la mano.
- Nanà - disse - spiegatevi allora.
Questo vostro capriccio ha bisogno di un poco di luce.
- Ecco gli uomini! - gridò Nanà
sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da non permetterle di parlare sul
serio. - Non si può avere un suggerimento dei nervi senza che essi subito ci
vogliano vedere un capriccio di... tutt'altra cosa.
Rubieri vedendo di essere stato
capito al di là di quello che supponeva e che desiderava, abbandonò la mano di
Nanà e restò un pochino interdetto.
Nanà continuò:
- Voi non mi conoscete Aldo, che da
otto giorni, e sta bene; se staremo insieme da buoni amici come spero per un
pezzo vi toccherà di udirne e di vederne di quelle anche più strane e non per
mia colpa, ve lo giuro. Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io
sono una buona figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il
mio di sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me
stessa. Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata
così. È la qualità del legno - proseguì in italiano - come diceva la Sarah, a
Firenze. È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi.
- Dunque che cosa dovrò dire ai
forestieri? - si permise di interrogare Mattia Corvino che, aspettava da cinque
minuti la risposta.
- Dì loro che se ne vadano pe'
fatti loro - rispose Nanà.
- No aspetta - interruppe Aldo. Poi
voltosi alla donna,
- Via non siate irragionevole. Vorreste
che quegli Austriaci pensassero di me che son diventato un mascalzone?
- Gli Austriaci pensino di voi,
quello che loro più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella
donna. Ve l'ho detto; non sono io che comando sono i miei nervi.
- Bene bene - disse Aldo
accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non posso riceverli. - E più
sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo albergo domani.
Nanà si lamentò di quella frase
detta a bassa voce.
- Ho capito. Gli avrete detto che
tornino domani quand'io non ci sarò.
- No -
disse Aldo.
- Che cosa gli avete detto dunque
sottovoce?
- Nulla.
- Bugiardo. Nulla non è una
risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria - se io so che voi, mi avete
disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta, e anche la Venere resterebbe a
mezzo.
- Ah questo è proprio assolutamente
troppo.
- Mi promettete di non andarla a
trovare?
- Ma che v'importa, Nanà, che
v'importa? - domandava ansiosamente lo scultore che non giungeva ancor a
spiegar a sè stesso quel fenomeno.
- Nulla, ma non voglio. È un
puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono avvezza a non veder cedere. Sono otto
giorni che noi ci conosciamo. Se non cedete nei primi otto giorni, quand'è che
vorreste cominciare? Me lo promettete?
E fra sè pensava «Ces fichus
d'Italiens!»
- Bene ve lo prometto - disse Aldo
per troncare il diverbio.
In quella, Mattia rientrò.
- Il signor conte sindaco è in
salotto che avrebbe a dirle due parole.
- Il sindaco benvenuto - sclamò
Rubieri deponendo gli utensili del lavoro. - Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo
domani. Addio.
E uscì.
Dal canto suo, la dilettante di
nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne andò a vestirsi dietro certi
arazzi che formavano in un angolo l'appartamentino per le modelle.
*
* *
Che cosa veniva a fare da Rubieri
il conte sindaco? Chi era il conte sindaco?
Egli era un ometto, così; nè bello,
nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni, grassottello e nello stesso tempo
arzillo e svelto come un pesce; il che implica una certa contraddizione, che
invece non esiste. O se la esiste, si può dire che questa contraddizione fisica
sia appunto la caratteristica del nuovo personaggio.
Tutto infatti, nel conte sindaco,
sentiva di contraddizione lontano un miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo,
era stato fatto conte; aveva degli istinti liberali ed era un gran
conservatore; aveva dello spirito, ed era senatore; aveva sortito da natura le
inclinazioni del viveur e del barzellettista e come senatore,
banchiere, sindaco e conte, gli toccava di essere l'uomo più lavoratore e più
serio dell'universo.
A chi gli avesse fatta osservare
quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli fosse sortito da natura per
essere piuttosto quello che i Francesi chiamano un homme de loisir che
un gran lavoratore - egli avrebbe recisamente negato, e gli avrebbe risposto
che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito di lui, e nessuno
poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava credergli. Ma è da
notare che, prima la spinta della necessità, poi quella dell'interesse, poi
l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin dalla puerizia
un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa spensieratezza, era
divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta da lui stesso in conto
di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no; perchè il nostro ometto era
nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire dalla sensualità e dalla
voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori della sua vita. Quando
parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche sconsigliato consigliere
del Municipio, egli godeva mezzo mondo. Mangiava poco, ma avrebbe dato dei
punti a Brillat Savarin, come buon gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le
ballerine del palcoscenico del teatro della Scala come si sgranavano que' suoi
occhietti verdognoli e arguti alla vista della grazia di Dio. Come era
eloquente il suo sorriso, pur restando sempre un sorriso da sindaco, da conte,
da banchiere e da senatore!
Nella sua qualità di capo
dell'amministrazione comunale, egli era indubbiamente tenuto come uno dei meno
peggio d'Italia, così ricca di sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco
istruito in gioventù e lontano dal mondo diplomatico, avesse attinta quella
finezza moderna, quell'arte del barcamenare, quella dissimulazione preziosa,
che sono indispensabili a chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo
saprebbe dire. Egli non aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini
possedevano come lui quella dote utilissima ai governanti, la quale consiste
nel non dimostrare mai al prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia.
Anche lui le provava talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle
così bene, sapeva reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo,
sapeva far tacere così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva
dividere in così giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie
declinazioni, da meritarsi da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino,
il quale sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande
imparzialità.
Riusciva dunque difficile il dire
se egli fosse un conservatore o un liberale.
Egli non aveva preferenze pei due
partiti, in cui - come in politica - si divideva il Municipio della sua città.
Stando a cavallo, ei si serviva ora della opposizione dei conservatori, ora di
quella dei rompicolli, a seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di
quella, e ne usciva sempre ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo.
*
* *
- Sono venuto io stesso - diss'egli
a Rubieri, che si scusava di riceverlo in abito da lavoro - sono venuto io
stesso a darle una buona notizia. Ella è nominato assessore, e io sono certo
che ella accetterà.
- Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo
una grande sorpresa. - Non si potrebbe dispensarmi?
- No, no, tutti lo desiderano -
rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista in Consiglio.
- La avverto caro signor sindaco
che io sono corpisantino e che mi metterò nell'opposizione.
- Non lo credo! Io non gliene darò
mai l'appiglio. Io conosco il di lei criterio abbastanza, per sapere che invece
noi andremo perfettamente d'accordo.
- Se lei mi parla così a me tocca
d'accettare - disse Aldo al sindaco stringendogli la mano.
- Bravo! Così mi piace, senza tante
smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io non credo che lei avrebbe ugualmente
la possibilità di farmi l'opposizione ancorchè si mettesse colla montagna. Io
sono proprio stanco, e non per convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da
tutti gli uomini, ma stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore.
Provino, provino quanto sia facile far il sindaco di Milano!
Il dialogo tra il sindaco e Rubieri
andò per le lunghe e divagò poi in cento argomenti.
Ma noi crediamo di far bene ad
arrestarci avendo riferito di esso quello che importa alla nostra storia.
*
* *
Ora sarà bene che vediamo in che
modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli Austriaci che erano venuti a trovarlo
prima del conte sindaco.
Bisogna dunque sapere che il padre
di Aldo Rubieri era stato colonnello di stato maggiore al servizio
dell'Austria.
Nel 1850, quando Aldo non aveva che
dodici anni, ed era accasato con suo padre a Vienna, il rinnegato italiano
godeva settemila fiorini annui come impiegato nel ministero della guerra.
Suo padre aveva sposato una
baronessa polacca. Si capisce facilmente quale potesse essere stata
l'educazione politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859.
Sua madre gli era morta in
quell'età.
Quand'egli cominciò a provar nel
cuore il bisogno di voler bene a una creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi
come si usa a 19 anni, di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva
veduta per la prima volta al Prater.
Una di quelle lunghe occhiate
reciproche dalle quali i fisiologi dicono emani del fluido magnetico, era corsa
fra loro; e due giorni dopo, mentre entrambi stavano credendo di udire la messa
nella cattedrale, una seconda occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva
suggellato il loro amore.
L'effetto di quello sguardo era
stato decisivo per entrambi.
Poco stante era cominciata la corrispondenza.
In tre pagine di quelle proteste e di quei giuramenti senza fine, che
scaturiscono tanto spontanei dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava
alla sua Leopoldina di futuro matrimonio.
Leopoldina aveva allora 21 anni,
tre o quattro più del giovanetto.
Pochi giorni dopo la signorina
viennese e il figlio del rinnegato Italiano, s'abboccavano al passeggio e si
giuravano anche a voce eterno amore.
- Mio padre non mi permetterebbe
certamente di sposarti ora; - disse Aldo - avrai tu pazienza di aspettare che
io sia uscito di minor età?
- Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva
la bionda figlia del Danubio, alzando i suoi occhi grigi e innamorati in viso
del bell'Italiano. - Io non sarò che tua o della morte!
*
* *
Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di
non avere più voglia di sposare la Leopoldina.
Essa non gli era stata crudele; il
matrimonio, ai desideri di Aldo, compariva superfluo.
Ma quando il padre di Leopoldina
s'accorse dello scapuccio di sua figlia, manovrò come manovrano tutti i padri
viennesi in tale circostanza.
Egli era un furbo matricolato. Capì
che da quel giovinetto avrebbe potuto cavare, un giorno o l'altro, molto
profitto e aveva lavorato a questo scopo.
Il Rubieri s'era lasciato andare a
firmare un atto di donazione alla figlia Leopoldina, nel caso che avesse
mancato alla promessa di sposarla. Una bagatella di venti mila fiorini in testa
al nascituro.
Poco dopo venne il 1859. Aldo
Rubieri non era certo da giovinetto, quel fino calcolatore, che coll'età e
coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin d'allora l'istinto delle proprie
convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione d'essere figlio di un rinnegato,
sospetto, malveduto in paese straniero e nemico, senza avvenire possibile;
sognava in nube la probabilità della riabilitazione. In questa idea l'amore di
patria c'entrava fino a un certo punto; l'amore di sè stesso in gran parte.
Egli andava pensando che se il figlio del generale italiano al servizio
dell'Austria fosse disceso in Italia con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano
ne avrebbe parlato e la sua sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi.
La imprudente promessa di quella
somma, strappatagli dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo
decise sempre più.
Fece la risoluzione di lasciar
Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo padre, e di venir in Italia per
entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse quanto più potè di danaro e un
bel giorno partì nascostamente e venne a Milano; fece la campagna del 1859, poi
mise studio di scultore e si fece nome.
*
* *
Aldo Rubieri si ricordava benissimo
di avere lasciato alla Leopoldina di Vienna quell'atto di donazione; temendone
le conseguenze, andò a trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto
cordialmente e gioiosamente si può imaginarlo.
La prima cosa che Leopoldina gli
confidò fu che il loro figlio era morto, e Rubieri tirò un lungo fiato.
Quando la fase sentimentale del
richiamo delle memorie fu cessata, e Rubieri si disponeva già a congedarsi,
colla speranza che gli Austriaci avessero deposto ogni altro pensiero, il buon
babbo, accostatoglisi colla grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli
Austriaci abbiano ereditata dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce
col più tedesco dei sorrisi possibili:
- Per l'affare poi che lei sa, e che
riguarda mia figlia, potremo parlare più tardi... un'altra volta... n'è vero.
- Che affare? - domandò Aldo
Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole.
- Come! Ma la scrittura... di
donazione... alla mia Leopoldina nel caso... che non fosse accaduto il suo
matrimonio.
- Ah, bene, bene - disse Aldo per
pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo.
E s'accomiatò.
Gli Austriaci lo aspettarono al
domani, poi al posdomani, tre, otto giorni, finchè il padre risolvette di
ritornare lui stesso in cerca di Rubieri.
Naturalmente non fu ricevuto.
Ma la sera istessa la signora
Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo ex-innamorato le diceva chiaro e
tondo come egli non volesse più essere importunato e le ricordava senza
complimenti come in tutti i codici della terra esista la legge che dichiara non
valida la promessa di matrimonio, nè di un qualsiasi indennizzo....
I tre Austriaci, testardi come sono
gli Austriaci quando hanno ragione, fissarono di spuntarla.
Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma
il padre e lo zio erano feroci, e la persuadettero che si doveva ricorrere alla
legge per farlo pagare per forza.
Risolvettero di consultare un
avvocato per sapere se l'atto fosse in piena regola e se con esso si potesse
sperar di vincere una causa.
L'albergatore indicò loro il primo
avvocato che gli si parò alla mente.
Ed essi andarono difilati
dall'avvocato Delguasto.
Quando furono sul pianerottolo
dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero per rifiatare e per consultarsi.
Il primo poi stava per tirar il cordone del campanello, quando Leopoldina gli
trattenne il braccio, additando ciò che stava, scritto sull'uscio:
- Che c'è? - domandò il padre in
tedesco.
- Avanti - disse la
zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti, vuol dire:
Allora spinsero l'uscio ed
entrarono.
Nell'anticamera, seduto dinanzi ad
una scrivania stava un giovinetto, dalla faccia di furfantello, che s'avrebbe
detto fosse stato messo là dall'avvocato per schizzare la caricatura a tutti i
clienti che entravano.
Lo zio, vedendo quel piccolo
Mefistofele, disse a suo fratello una frase in tedesco.
Quello smaliziato d'uno
scritturale, che stava col capo sullo scrittoio, intento, l'alzò repente,
aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e di insolenza, fingendo
che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui, disse:
- Non potrebbero farmi la finezza
di parlare in italiano? - disse - La sua lingua a Milano, signori belli, non è
di moda. È antipatica.
- Parlare noi molto malissimo -
rispose il babbo, che non aveva capita la portata dell'insolenza di quel
monello seduto allo scrittoio.
- Non fa niente. Capirò lo stesso.
Per quanti strafalcioni lei dica in italiano farà sempre più bel sentire che a
parlarmi benissimo il suo tedesco.
- Mia figlia parlare piccolo poco.
- Tanto meglio. Allora ho l'onore
di domandar alla signora a che cosa il signor avvocato dovrà aver la fortuna
della loro visita?
Non è da credere che Ernesto
Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto, trattasse con tanta disinvoltura
tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se così fosse stato. Ma egli aveva
udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto dall'aspetto che quei tre signori
dovevano esserlo puro sangue, e non aveva potuto trattenersi dalla smania di
mostrar loro la sua innata antipatia. Egli amava i Tedeschi in genere come...
l'olio di ricino, e gli Austriaci in ispecie come il tartaro emetico.
- Noi voler parlare con herr
avvocato - disse Leopoldina.
- È impedito. Si accomodino pure.
E senza dir altro, abbassò la testa
sullo scrittoio e si rimise a scrivere.
Ecco che cosa stava scrivendo
Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si accomodavano per aspettare l'avvocato.
«Signora.
«Io credo che una donna non debba
mai essere offesa nel sapere che c'è un uomo al quale il cuore batte per lei
cento battute al minuto di più di quello che gli batteva prima di averla
veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi apparve per la seconda volta, e il
fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu tale che a costo di diventar
ridicolo io non ho potuto trattenermi dal farglielo sapere. A me parve, sarà
forse superbia, ma a me parve di non esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la
bontà di rivolgere verso di me spesse volte que' suoi occhi immensamente belli,
ed io sono in un tale stato di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho
che vent'anni, e non sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non
debba gettare lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo
faccia capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo
schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese e
avrò nell'occhiello del mio abito un garofano. Quando la vedrò porterò il mio
fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto per dimostrarmi che io non debbo
disperare affatto.
«Ernesto
Cantis.»
Riletto il foglio, lo piegò
accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse l'indirizzo di Nanà. Avvolse
la lettera in un foglio di nitida carta, poi si alzò e andò ad una sedia su cui
stava un manicotto di martora e, come se i tre stranieri non fossero stati,
presenti a quell'operazione, vi infilò la sua letterina.
Comparve l'avvocato accompagnando
una signora fin sulla soglia dell'anticamera.
Il giovane balzò all'uscio
impallidendo visibilmente.
La signora era Nanà, la quale aveva
posato il suo manicotto su quella sedia poco prima di entrare nello studio.
- A rivederla, dunque, caro
Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi volse il capo come cercando
qualche cosa intorno.
- Il suo manicotto è qui - disse il
giovinetto precedendola all'uscio della anticamera.
Nanà strinse la mano all'avvocato
ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe volte le spalle, si fe' sentir a dire:
che angelo!
*
* *
- In che cosa posso servirli? -
disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano levati in piedi duri come
stoccafissi in estate...
- Noi essere fenuti da voi per
avere bisogno di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti.
E li fece entrare nel suo studio.
- Loro sono dunque venuti? -
cominciò l'avvocato.
- Ecco herr avvocato.... Tocca
parlare io, perchè mio padre e mio zio non conoscere italiano.
- Dica pure... dica pure, tanto
meglio! - sclamò con una punta di galanteria l'avvocato.
- Lei dovere sapere che io avere un
documento con promessa di donazione di un uomo che doveva sposare me, e che poi
non ha sposato per sua colpa.
- Una promessa di donazione? -
ripetè l'avvocato. - In regola?
- Noi credere essere perfettamente
in regola.
- Si può vederla?
- Certamente. Ecco.
- E la signora Leopoldina cavò di
tasca una carta la quale, col lungo passar di mani in mani austriache, non si
poteva dire del certo gareggiasse per candidezza colla neve caduta di fresco.
L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè
e sclamò sorridendo:
- Ma questo è in tedesco!
- Lei, herr avvocato, non
conosce nostro bello linguaggio neanche in scrittura?
- Io no, signora. Ne faccio senza,
e non ho mai pensato ad impararlo.
- Posso io tentare traduzioni! -
domandò la zitellona.
- Sicuro!
Leopoldina cominciò:
«In questo giorno, 6 novembre,
dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di mia piena e spontanea volontà, nè
spinto da altri riguardi se non da quelli di una sincera affezione per la
signorina Leopolda Ernesta Federica, la quale trovasi in istato interessante
per mia colpa, prometto di farle donazione di fiorini trentamila, nel caso che
giunto all'età di ventiquattro anni io non dovessi mantenere la parola data a
lei di essere suo sposo.
«Per fede
«Aldo
Rubieri.
«Vienna, 6
novembre, 1864.»
- Aldo Rubieri! - sclamò con una
certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro bravo scultore?
- Ya mein herr, ya! -
rispose il babbo che aveva capito a lume di naso.
- Sarebbe ella compiacente di
spiegarmi come e in quali circostanze sia avvenuta questa donazione?
Leopoldina con molta fatica e con
molto rossore cominciò a raccontare all'avvocato quello che noi già sappiamo.
- E quanti anni aveva il signor
Aldo Rubieri quando la fece?
- Come italiano egli era
maggiorenne o quasi.
- Suo padre era italiano o
austriaco?
- Suo patre non aveva perduta sua nazionalità
italiana, quando stare in Vienna colonello di Stato Maggiore.
- Allora si può benissimo far causa
- disse l'avvocato.
- Essere noi fenuti per questo.
- Hanno già parlato loro col signor
Aldo Rubieri?
- Sì, otto o dieci giorni fa.
- E che cosa ha detto?
- Detto nulla, ma avere scritto di
non essere intenzionato mantenere suo promesso.
E gli porse da leggere la lettera
con cui Aldo si schermiva di pagare la somma promessa.
- Herr avvocato! - disse la
zitellona - Credere lei che vinceremo?
Negli occhi dell'uomo di legge
passò un lampo d'ironia.
- Sicuro che vinceremo. Sono loro
pronti a fare le spese necessarie?
- Quanto volere?
- Il deposito da farsi subito è di
tremila franchi non un quattrino di meno.
I tre Austriaci si guardarono in
viso esterefatti.
- Tremila franchi! Senti? Più di
mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò in tedesco lo zio.
- Non si può far a meno. La
giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo sotto i baffi l'avvocato che
godeva di veder gli Austriaci in ansia.
- Bene - disse il padre a
Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo avere il tempo di pensarci sopra.
Ma poi ravvisandosi:
- No. Prima domandagli quanto verrà
poi a costare la causa finita.
Leopoldina tradusse questa domanda
all'avvocato.
- Ma secondo che la si vinca o che
la si perda. Vincendola può darsi ch'io riesca ad affibbiar le spese
all'avversario. Può darsi anche che il tribunale dichiari di far a metà le
spese. In caso contrario, sta il viceversa.
- Domandagli ora - ripigliò il
padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta la risposta dell'avvocato - quanto
ci potrebbe toccar di spese nel caso che vincessimo, ma che dovessimo pagare a
metà.
- Dai dieci a dodicimila franchi
colle mie competenze - rispose l'avvocato con grande franchezza.
- Farflucter! - sclamò lo
zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene, allora gli comunicherai quello
che ti dicevo - conchiuse il padre.
- Come vogliono! Io sarò sempre ai
loro comandi. Quando loro si saranno decisi, non avranno che a ritornare da me.
E così s'accomiatarono.
*
* *
Il giovinetto scritturale non
s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come aveva fatto con Nanà.
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