IV.
In casa Martelli la conversazione,
tanto più se presente don Ignazio, era la cosa più gaia e più spiritosa che si
possa imaginare. E, sopratutto, libera assai. Bastava infatti, che non si
parlasse in alcun modo di donne, nè di romanzi, nè di santa Chiesa; bastava non
si parlasse male nè del sistema di governo, nè dei preti, nè dei carabinieri,
nè della Banca nazionale, nè della Perseveranza; bastava non si parlasse
bene nè dei repubblicani, nè di Garibaldi, nè di Vittor Hugo, del resto si era
perfettamente liberi di ragionar di tutto, e d'altre cose ancora.
La Elisa era la sola a cui suo
padre, volere o non volere, aveva dovuto fare qualche concessione. Non c'era
stato verso di farle dire, nè di farle tacere molte cose che certa gente seria
crede si debbano dire o si debbano tacere, dalle fanciulle bene educate. Essa -
che pur toccava ormai i 18 anni - parlava sempre con una verginità di
impressioni e con una schiettezza di frasi, che talvolta rasentavano la
crudità, anche per sua madre, che era pure infatuata di lei. Questa non
rifiniva mai di dirle che ella era troppo franca. Non c'era verso. Il di lui
modo di esprimersi, quantunque scevro di malizia o di ironia, era sempre così
vivo e così sentito, che gli amici di casa, gente avvezza a tutte le ipocrisie,
a tutte le smorzature, a tutte le banalità delle solite conversazioni,
ne restavano scossi e abbagliati. Perfino Aldo Rubieri, che era pur un artista
di vaglia, non approvava sempre certe uscite della Elisa, quantunque ammirasse
in lei l'ingegno originale e coraggioso, che gliele suggeriva. Suo padre, non
pargliamone! Suo padre, in cuor suo, deplorava di avere contribuito a dar in
luce una pazzarella di quel carattere, dal quale, secondo lui, un marito non
avrebbe cavato nulla di buono.
«Figuratevi! - pensava - alludendo
all'antico progetto - Testa falsa lei, testa falsa lui. No, no, no; cento volte
no!
Non c'erano che l'Enrico e il
marchese d'Arco, i quali la capissero pel suo verso e l'applaudissero. Essi
davano sempre ragione alla Elisa, il che talvolta faceva arrabbiare il notaio
fino all'escandescenza. Sua madre taceva e ne gioiva in segreto.
Spieghiamoci bene però anche su
questo punto. S'intende acqua e non tempesta! Quella facoltà molto decisa di
dir sempre le cose schiette e senza smorzature, non escludeva però nella Luisa
un'altra facoltà, senza della quale essa avrebbe potuto qualche volta sembrar
una scema in faccia a chi non l'apprezzava. Essa aveva molta schiettezza in
cuore, ma aveva pur anche molto criterio e molta finezza in cervello, e sapeva
a suo tempo e quando le conveniva, metter in pratica tutte le graziose astuzie
della diplomazia femminile.
Giacchè altra cosa è saper simulare
e altra cosa è saper dissimulare. La Elisa, incapace di simulazione, era forse
a tempo e luogo maestra di dissimulazione. Tanto è vero che se le avesser dato
un segreto da serbare, si sarebbe lasciata uccidere prima di svelarlo. Tutte le
arti, le grazie, le disinvolture, le furberie, le moinerie, le capestrerie che
il cuore detta istintivamente alle ragazze d'ingegno, essa le possedeva per
istinto. Poche fanciulle, pur senza scuola materna e senza buon esempio in
casa, sapevano acconciarsi stupendamente, mostrar, senza farsi scorgere, il
piede e la mano bellissimi, muovere il ventaglio, dar il colpetto di mano allo
strascico della veste, guardar in viso agli uomini con un sorriso modesto,
alzarsi e sedersi, comparire e scomparire, quanto lei.
Il fatto è che a dieciott'anni
l'Elisa era considerata da tutti come la testa più forte della famiglia. L'era
una idea codesta che stava nell'aria. La si capiva chiaramente senza che
nessuno l'avesse mai notata o lasciata supporre.
Se qualcuno, a tavola o seduto in
circolo, diceva qualche cosa d'insolito o di bello, guardava in faccia alla
Elisa. Il sorriso di lei era il premio certissimo al buon senso o allo spirito
spiegato. Ella, dal canto suo, senza far mostra di accorgersi d'essere stata
consultata o preferita, dava uno sguardo repentino a sua madre, e se questa non
le diceva col cipiglio di tacere, si era certi di udirla esprimere la sua
opinione talvolta perfino tagliente e frizzante, come quella di un piccolo
Tayllerand in gonnella. Alcuni allora ridevano e commentavano l'arguzia della
fanciulla; altri tacevano, come sopraffatti, e si trovavano quasi a disagio nel
nuovo ambiente, che l'idea spiritosa dell'Elisa aveva formato intorno ad essi.
Un leggero, un lontano, un vago sospetto li prendeva: quello di poter sembrare
per avventura un pochino imbecilli in faccia a lei.
Un giorno, tra gli altri, il babbo
notaio ricevette la lettera d'un pretendente alla mano di lei; un giovinetto
della buona società, un conoscente di casa che da più mesi faceva una corte
tacita e modesta alla fanciulla, senza aver avuto da lei la benchè minima
lusinga.
Costui aveva sentito dire che ogni
idea di matrimonio fra l'Elisa e il conte Enrico O'Stiary era andata in fumo.
La dote e le speranze in fieri avevangli dunque dato il coraggio di chiedere la
mano della vergine bellezza.
La lettera giunse dopo pranzo,
mentre don Ignazio, colle due donne e il marchese d'Arco, stavano aspettando il
caffè nel salotto. Il notaio, dopo aver letto il foglio, lo depose sulla tavola
con un'aria fra il serio e il soddisfatto, ed espose ai presenti l'inaspettata
domanda.
- Diamine! - sclamò la madre. - Non
si usa, mi pare, a domandar la mano di una fanciulla per lettera. Si manda un
amico a far la proposta.
- Non ne avrà! - osservò la Elisa.
- C'è della gente che, temendo il
rifiuto, non ama che altri lo sappiano - osservò il marchese.
La Elisa intanto aveva messo, da
lontano, lo sguardo sulla lettera, quasi per indovinare chi potesse essere quel
pover'uomo, che veniva a chiederla in moglie, e aveva veduto in testa di quella
lettera una cosa che l'aveva fatta sorridere; e foggiò subito in testa la
risposta che avrebbe data a suo padre, se fosse stata interrogata sulla sua
intenzione. In mancanza di un'arma gentilizia, lo scrivente usava dei fogli di
carta, che portavano per cifra un ferro di cavallo.
- Che ne dici tu. Elisa? - le
domandò suo padre.
- Ma, io dico la verità - rispose
coll'accento più umile che potè trovare nella voce armoniosa la fanciulla - io
non mi sento voglia di sposare un maniscalco.
Il babbo, il marchese e la signora
Eugenia ruppero a ridere saporitamente. Supposero che ella credesse sul serio
che quella lettera col ferro di cavallo venisse da un maniscalco.
La disingannarono....
Elisa li lasciò dire.
- Ma - riprese ella, che sapeva
benissimo il fatto suo - perchè dunque questo signore mette in testa delle sue
lettere quell'insegna di maniscalco?
- È la moda del giorno - disse la
madre.
- L'insegna dei maniscalchi non è
così. È un ferro contornato da un'aureola di chiodi - osservò il marchese.
- E questa invece che cosa esprime?
- domandò la Elisa.
- È un mezzo qualunque per
esprimere la propria passione pei cavalli - soggiunse il marchese.
- Ah, se è così - disse la Elisa -
io temerei ch'egli dovesse amare più i cavalli di sua moglie.
Quel motto del maniscalco fece il
giro delle conversazioni milanesi. Per qualche tempo i cartolai che tenevano
della carta da lettera col ferro di cavallo per cifra, stupirono di non
vedersene più cercata da nessuno.
Oggi la voga ripiglia.
Fortunati cartolai!
*
* *
Fra le convinzioni più ferme di
Elisa, quella che sovrastava a tutte, la dominante, la sovrana, la
inespugnabile nel suo cuore, era quella di non poter essere felice al mondo che
unita al suo Enrico. L'affetto della impubere si era mutato, nei tre anni, in
sentimento gagliardo ora ch'ella s'era fatta donna. Già fin da bambina, del
resto, quand'essa aveva inteso per la prima volta il grido di Roma o Morte, si
ricordava che per associazione di idee nella sua testolina era risuonato un
altro grido consimile, essa aveva balbettato in cuor suo: Enrico o morte.
La Elisa aveva anch'essa, come Madame
Aubray, le sue idee, innate od acquisite, poco importa. Diversamente della
maggior parte delle nostre fanciulle di buona famiglia, dacchè aveva cominciato
a pensare al mistero della vita, non era rimasta indifferente agli innumerevoli
quesiti, che le si presentavano alla curiosità della mente. Voleva saper tutto continuamente
e tormentava sua madre, che talvolta, messa tra l'uscio e il muro, le
rispondeva frottole da non dirsi. Quanto più essa la pregava di non farle certe
domande, tanto più la Elisa si sentiva presa dalla smania di fargliene un
sacco. Su molti punti, specialmente del mistero immenso, essa dubitava ancora;
era scettica, non incredula; su altri, essa si era formata un'opinione tutta
propria ed incrollabile. In fondo, ell'era socialista senza saperlo. Nè quelle
sue verginali certezze erano frutto di lunghi pensamenti fra sè stessa o di
ragionamenti con altri; erano intuizioni lucide, portate dal buon senso e dal
criterio, che la inducevano a pensare certi veri nobilissimi, da nessuno
rivelati, ma dai quali le pareva che non si sarebbe scostata, ancorchè le
avessero inflitto il martirio.
Fanciulle siffatte sono rare a
Milano. Non tanto quanto si potrebbe credere, ma rare.
Certo, e forse a ragione, si dice
che un'Eulalia romana, al giorno d'oggi, non sia più possibile. Pure la Elisa
era proprio della stoffa di Eulalia romana. Eulalia, sapete bene, fattasi
cristiana a sedici anni, quando fu accusata e trascinata dinanzi al pretore,
avrebbe potuto avere salva la vita, soltanto che avesse consentito a metter un
granello d'incenso sul tripode, che ardeva dinanzi all'abiurato idolo pagano.
Ella era così giovinetta e così bella, che il pretore, estasiato, avrebbe
voluto, forse a suo malcosto, salvarla. Egli le offerse lo scampo. Eulalia
diede uno schiaffo all'idolo, sputò in faccia al pretore e fu mandata alla croce,
il patibolo dei cristiani.
La Elisa teneva di questa tempra
diamantina. Per una di quelle inesplicabili contraddizioni femminili, che
formano la disperazione dei fisiologi, ella era timidissima e arrossiva tutta e
quasi tremava se si trattava di mettersi in vista, di presentarsi in un salone
a spalle nude, vestita da ballo, o di entrare in un caffè affollato di gente,
che al suo apparire spalancavano gli occhi e la mangiavano cogli sguardi,
sussurrandosi all'orecchio le ammirazioni desiose e le frasi procaci. Ma se si
trattava di un pericolo serio, fosse pur stato imminente e misterioso, dinanzi
al quale tanti uomini smarriscono il sangue freddo, ella si mostrava calma ed
intrepida.
Suo padre le aveva severamente proibito
- non se ne parla - di leggere romanzi.
- Neppure i Promessi Sposi e
il Marco Visconti? - aveva domandato lei.
- No, neppur quelli!
Questa proibizione le aveva messo
indosso una smania cocentissima di leggerne assai più di quello che ne avrebbe
letti naturalmente, se suo padre non avesse parlato. Enrico era il di lei
complice, che le forniva nascostamente il pasto desiato. Nondimeno spesso la
Elisa trovava molto noiosi i romanzi troppo morali che Enrico le portava. Egli
era assai puritano in questo; aveva escluso tutti i moderni realisti, e, de'
vecchi, anche il Balzac.
Una sera l'Elisa mostrò a Enrico
desiderio di leggere l'Assommoir di Zola.
Enrico si rifiutò di portarglielo.
- Ho già fatto troppo - disse - a
concederti l'altro giorno: L'homme qui rit.
- Gran che! - sclamò la Elisa.
E la terribile fanciulla si mise a
sparlare di Vittor Hugo.
Enrico la pregò di non farsi
sentire da altri. Era come dire a un usignuolo di non cantar in primavera.
- Avrò torto - diceva la Elisa al
conte - ma a me Vittor Hugo qualche volta fa l'effetto di un uomo che sia lì lì
per diventar pazzo. Il marchese mi disse un giorno che questo è il carattere
del genio. Sarà! lo sfido a non ridere qualche volta di certe frasi di Vittor
Hugo. Per esempio mi ricordo questa:
«Un profondo rumore soffiava nella
regione inaccessibile.»
Se invece di essere Vittor Hugo che
ha scritto questa frase fossi io, a quest'ora mi avrebbero condotta al
manicomio. Un profondo rumore che soffia? E nella regione inaccessibile? Ma
cosa vuol dire? La si capisce così a occhio e croce; ma è genio codesto? Il
genio, mi pare a me, dovrebbe consistere nel dir chiaramente le cose più
difficili ad essere pensate da altri, non nel paccucchiare delle frasi con
delle parole assurde. Il Rubieri per spiegarmi la cosa mi diceva che i romanzi
di Vittor Hugo vogliono essere tutti poemi cosmici, e che egli crede in buona
fede di essere il nuovo Cristo delle miserie umane; ma se è così egli è un
Cristo che ritiene i suoi discepoli e i suoi lettori altrettanti badaux,
che lo devono capire a lume di naso.
*
* *
La Elisa a dicianove anni era
dunque riuscita una piccola enciclopedia ambulante. Si guardava bene dal farne
sfoggio, ma lo era. Tutte le arti graziose essa le aveva imparate con una
rapidità sorprendente, quantunque sentisse che tutto questo attiraglio di
cognizioni superflue non le avrebbe servito a nulla nei suoi rapporti col
giovane al quale la si era votata.
Quanto agli altri che cosa
importava a lei di comparire più o meno istrutta?
Sciaguratamente l'Enrico diceva di
amarla, ma non l'apprezzava. Egli era freddo, preoccupato, distratto, sviato.
Egli era altrove co' suoi pensieri, co' suoi desideri, coll'anima, e pur troppo
spesso anche col corpo. Elisa capiva tutto questo, e ne soffriva, pur
dissimulando con dignità il suo dolore. L'allegria del conte quand'era con lei
era forzata. Le sue stesse espansioni, i ricordi, le tenerezze erano tutte
superficiali. Si capiva che dopo un'ora che era stato con lei il giovinetto
cominciava a trovarsi sulle spine, e desideroso di prender il volo. Altre
passioni, altre illusioni lo chiamavano altrove.
Egli aveva veduta Nanà.
La Elisa ne era mortificatissima;
ma non lasciava trapelar nulla neppur a sua madre.
Al marchese una volta aveva
lasciato capire qualche cosa del suo cordoglio. Ne era stata consolata con una
frase francese: «Il faut que jeunesse se passe.»
*
* *
Stavano dunque radunati nel salotto
attiguo alla sala da pranzo il notaio, le due donne e il marchese, che era venuto
come il solito, verso le otto a far la sua visita per trovarsi fra gli amici di
casa e per vedere l'Enrico.
Il babbo schiacciava un sonnellino.
Il marchese parlava colle due donne
di cose indifferenti. Elisa era distratta.
La Elisa quel giorno s'era levata
con un grande progetto in testa. Un progetto che le si era presentato come
un'enormità, ma che sentiva esser diventato necessario. Lo aveva pensato la
notte dopo avere sparso sul vergine origliere alquante lagrime di dolore, al
solo pensiero di trovarsi obbligata a metterlo in pratica, l'aveva covato tutto
il giorno, l'aveva rifiutato e riaccettato venti volte.
Il progetto era di mostrarsi molto
gentile con Aldo Rubieri, per vedere se Enrico se ne risentisse, per scuotere
quella mortale indifferenza in cui egli era immerso e che la faceva morire di
segreto cordoglio; per suscitare insomma nel suo amante un poco di gelosia.
Ella sapeva bene che questa piccola commedia le sarebbe costato un grandissimo
sforzo. Fingere? Lei? Eppure non le rimaneva altra speranza che quella. Se
l'Enrico si fosse mostrato insensibile anche a quel tratto, ella sarebbe andata
a farsi suora di carità.
È lecito pensare che lo sforzo del
far un po' la civettuola con Aldo Rubieri non fosse poi tanto sovrumano,
neppure per lei.
Aldo non era un uomo ordinario; ed
era bello, forse più bello del conte.
E poi la donna ha in sè un istinto
di civetteria così spontaneo, che nulla nulla se ne immischi il bisogno o se ne
presenti il pretesto, essa lo mette in opera quasi senza addarsene, forse suo
malgrado. C'è nella donna come un fuoco sacro, che non si spegne mai, ed è
quello sopratutto di piacere a tutti, per piacere di più ad un solo.
Quando Aldo si presentò - prima del
conte - la Elisa stava passeggiando al braccio del marchese il quale era beato
anche lui di sentire il braccio della giovinetta che doveva formare la felicità
del suo Enrico, pesare sul suo.
Ella gli stava parlando appunto del
conte.
Il marchese a dir vero - uomo di
studio che aveva il capo ne' suoi incurabili e nelle sue medaglie - non sapeva
nulla della vita di Enrico. Questi per coprire ai di lui occhi i suoi errori,
gli aveva restituiti dopo pochi mesi i tremila franchi che il marchese gli
aveva prestati, dicendogli una piccola bugia per giunta.
Vedendo dunque entrare lo scultore,
la Elisa premette sul braccio del marchese e gli fece fare una mezza girivolta.
- Come va la vostra Venere
contemporanea? domandò a Rubieri andandogli incontro.
- La creta o la creatura? - domandò
Rubieri.
- Ma la creta! - rispose la Elisa -
di una modella che non conosco io non mi curo certamente.
Ella non sapeva la povera Elisa,
che a quella modella di cui non si voleva curare, il suo Enrico aveva scritta
una lettera di fuoco.
Ella non sapeva d'essere tradita
per colei.
- La creta è quasi diventata una
creatura - rispose Aldo Rubieri. - Ne sono contento.
Egli andò poi a salutare donna
Eugenia e il notaio che s'era messo a leggere il Corriere della Sera,
crollando spesso il capo, e dichiarando che alla fine del trimestre avrebbe
lasciato l'abbonamento, perchè quel foglio da qualche tempo tirava al liberale.
Aldo ritornò verso la Elisa che lo
aspettava. Ella lo fece sedere accanto, per domandargli se era vero ciò che le
aveva contato la mattina suo padre...
- Cioè?
Che il sindaco gli avesse annunciata
la sua nomina ad assessore municipale.
Aldo annuì. La Elisa sostenne la
conversazione variata, saltellante, frivola fino al momento in cui dal
campanello capì che chi entrava era il suo Enrico.
Allora ell'ebbe un movimento
sublime di civetteria; disse tutt'a un tratto a Rubieri:
- Lei non s'è neppur accorta che
quest'oggi io ho cambiata pettinatura.
- Altro che me ne sono accorto -
rispondeva Rubieri mentre il conte si presentava sulla soglia dell'uscio della
sala.
- Come la mi trova dunque? Le piaccio
così?
- Ah, Elisa, lei è adorabile ancora
più del solito - rispose Aldo che volgeva le spalle all'uscio e non poteva
accorgersi che Enrico era entrato.
Infatti la Elisa quella mattina
s'era fatta tagliar i capelli alla Vallière, sulla fronte, e stava superbamente
bene.
Aldo se n'era accorto, ma la
fanciulla lo aveva talmente coperto di domande nel frattempo che egli non aveva
avuto neppur l'agio di muoverle un complimento.
Ora trovandosi così interrogato con
voce più viva del solito aveva risposto:
- Oh, Elisa, lei è adorabile più
del solito.
Era tutto quello che la fanciulla
potesse desiderare. Mentre l'Aldo diceva questa frase Enrico gli passava
rasente e la udiva. La Elisa non guardò in viso al conte. Finse di essere tutta
intenta a quello che le diceva Rubieri.
Il conte passò fingendo di non
udire le parole di costui. La Elisa ne fu piccata in modo che raddoppiò i
graziosi atteggiamenti in faccia allo scultore, e la più glaciale indifferenza
pel suo adorato.
Era la prima volta che a Rubieri
succedesse di veder una cosa simile. Enrico, salutata la madre e il notaio,
venne a stringer la mano a Elisa e ad Aldo Rubieri.
- Buona sera, Enrico - disse la
Elisa sorridente disinvolta.
Poi senz'altro si volse a parlare
di nuovo allo scultore, che nel frattempo aveva corrisposto alla stretta di
mano di Enrico.
Il quale, per non aver l'aria di
ascoltare il colloquio fra la Elisa e Aldo, si ritrasse colpito dal nuovissimo
contegno della fanciulla. Il marchese in quella lo abbordò parlandogli di cose
indifferenti. Egli lo ascoltava e gli rispondeva macchinalmente, ma colla coda
dell'occhio andava spiando le mosse di Elisa che proseguiva con Rubieri la sua
piccola manovra da figlia di Eva.
Ella si accorse di avere destato in
Enrico qualche cosa di insolito, senza mai far mostra di accorgersi di lui; ma
pur strisciando, collo sguardo girante, sullo sguardo del conte, s'accorse
ch'egli la studiava ed era sorpreso. Essa continuò ripromettendosi il trionfo
finale.
Ma per quella sera non vi fu
spiegazione alcuna fra loro.
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