VI.
Filippo Marliani abitava in una
camera di venticinque lire al mese in via Solferino.
Era una stanza che pareva creata
apposta per designare il carattere e l'ingegno di chi l'abitava. Per quanto
preoccupato, per quanto al verde, per quanto disgraziato un uomo di buon gusto,
non può vivere in certe camere mobiliate milanesi, ancorchè gentile ne sia la
padrona che la rigoverna soffice il letto e a buon mercato la pigione. C'è in
molt'uomini un sentimento delicato, ombroso, superiore ad ogni idea di
risparmio, inavvertito spesso, ma sempre vigile e tiranno per conto proprio, il
quale si ribella continuamente all'aspetto delle cose volgari o anche soltanto
sgraziate e brutte.
Filippo Marliani, che era pure quel
che si dice un bel giovane, e che era stato anche ricco, aveva il difetto di
essere assolutamente privo di ogni idea estetica, non sognava che a questo
mondo esistesse il sentir fine, non aveva alcuna nozione nè innata nè acquisita
del buon gusto.
Filippo, da parecchi mesi,
trovavasi in una terribile crisi finanziaria. Aveva fatte delle perdite grosse
al giuoco, e s'era ridotto in quella camera da venticinque lire al mese, dopo
d'aver venduto a poco a poco tutto ciò che teneva di bello e di ricco nel suo
antico quartierino da scapolo agiato.
*
* *
Il giorno dopo della sera che
Filippo rivide Nanà a teatro - era un sabato - si trovava possessore
dell'ultimo, unico, estremo suo biglietto da mille lire; con ottocento di esse
doveva soddisfare a un debito di giuoco rimastogli della sera innanzi, col
resto tentare per l'ultima volta la sorte. Se questa gli fosse stata avversa si
sarebbe fatto saltar le cervella. Lo aveva fissato e gli pareva di aver il
coraggio di non mancare al proposito.
L'incontro di Nanà a Milano era un
fatto che doveva influire grandemente su questo progetto. Egli non si accorse
di desiderare ancora ardentemente quella donna. La miseria è tal cosa che
tronca ogni desiderio superfluo. La galanteria all'aspetto di questa si
spaventa e fugge.
Nanà s'era accorta ch'egli doveva
essere in miseria. Le donne in questo hanno un fiuto straordinario. Essa che lo
aveva conosciuto a Parigi soltanto tre anni prima splendido e prodigo, vestito
assai bene, lindo, profumato, aveva capito a prima vista la differenza.
*
* *
Era di poco battuto il tocco quando
Nanà entrò nella camera di Filippo. Essa entrò sorridendo e mostrando fra le
labbra le sue mirabili due fila di denti, coll'aria trionfante di una donna la
quale sa di render all'uomo che essa va a trovare uno degli onori più grandi
che creatura umana possa fare ad un suo simile.
Ma dato un rapidissimo sguardo
intorno in quella camera di Filippo fece una smorfia colle labbra e cogli
occhi, nella quale si sarebbe veduto chiaramente un senso spiegatissimo di
delusione e di disgusto.
Filippo voltava le spalle all'uscio
pel quale Nanà era entrata, e stava tutto assorto, sotto ad una finestra, in
una operazione discretamente eteroclita.
L'aspetto di quella camera aveva
dato di botto sui nervi a Nanà. Eppure la era una stanzetta ordinata, pulita,
ammodo. La stiratrice che era venuta poco prima a recar a Filippo la sua scarsa
biancheria della settimana non rifiniva di lodarla. Ella trovava che ci si
sarebbe stati bene anche in due. Non un filo fuori di posto; non una macchia,
non uno sdrucito.
Ma agli occhi di Nanà c'era del
superfluo che guastava ogni cosa.
Sulle pareti, per esempio, in
cornici di finto ebano stavano appese quattro stampe rappresentanti quattro
episodi del vecchio testamento: abbominî di disegno, di composizione e di
colorito. E Filippo non se n'era mai accorto!
C'era un caminetto. A chiudere la
bocca di quel caminetto c'era un paracamino. Uno sciagurato imbianchino sulla
carta di quel telaio aveva dipinto un paesaggio al cader del sole così
obbrobrioso, da far venire in uggia la campagna ed il cader del sole.
E Filippo non se n'era mai accorto.
Sul piano del caminetto Nanà scorse
tre oggetti nefandi. Al posto del pèndolo, una grossa scatola col coperchio
tutto incrostato di conchiglie terrestri e fluviatili, e, da una parte e
dall'altra, due vasi barocchi con dei fiori di velo, sotto la loro brava
campana di vetro colla rispettiva ciniglia verdesporco, che ne cingeva la base
sul piedestallo di legno dorato.
Quei quadri, quel paracamino,
quella scatola colle conchiglie e quei vasi erano certo la parte
caratteristica, dirò così, di quella ignobile stanza, ma non erano ancora
tutto. Intorno intorno Nanà, con quell'ammirabile rapidità di sguardo ch'ella
possedeva quando voleva vedere, pari alla supina inerzia ond'era presa quando
non le importava nulla di sapere, ebbe un'altra impressione molesta; quella che
alla Francese si direbbe choquante.
Fu la presenza di un oggetto
preparato su una sedia a piè del letto, accanto ad una camicia di bucato: un
bel paio cioè di bretelle ricamate.
Le bretelle all'imaginazione delle
donne rappresentano la vecchiaia dell'uomo che le porta. Eppure quelle bretelle
di Filippo erano bellissime per quanto logore e macchiate dal sudore. Erano un
avanzo dei giorni agiati e felici. Si capiva lontano un miglio che dovevano
essere state un dono di qualche umile e molto borghese amante. Le liste
maggiori erano minutamente ricamate in seta con leggiadro lavoro. Esse facevano
capo da una parte e dall'altra a degli anelli, da cui si biforcavano i minori
straccali di pelle liscia, che terminavano cogli occhielli, i coniugi legittimi
dei rispettivi bottoni dei pantaloni.
*
* *
Filippo stava, come fu detto, colle
spalle rivolte all'uscio d'ingresso, intento in un'operazione alquanto
misteriosa. Teneva piegata la testa e lavorava attento a due mani intorno ad un
oggetto che Nanà non poteva discernere.
Nanà, accortasi che egli non l'aveva
udita entrare, tossì.
Filippo si volse come sgomento, e
vedendo la bella donna lì sul limitare, arrossì tutto e portò le due mani
dietro la schiena.
Non ci riuscì a nascondere il
proprio delitto. Nanà aveva già veduto, aveva capito tutto ed era scoppiata in
un irrefrenabile riso.
Filippo nella destra teneva una
forbice inditata, e nella sinistra un solino da collo inamidato, al quale stava
facendo la barba.
Il far la barba ai solini da collo che
perdono la bava dall'orlo, è un'operazione che le stiratore non si attentano di
fare per loro conto, e che spetta a que' poveri diavoli, i quali non pensano a
provvedere dei solini nuovi, quando i vecchi sono logori. Certo è che codesta
operazione è fra le più gelose della vita, tanto che chi è costretto di farla,
si lascia vedere il meno possibile che può e tanto meno poi da una donna, e
tanto meno poi da una donna bellissima, alla quale già altra volta si è
protestato ardentissimo amore.
Nanà trattenne l'ilarità, che
mortificava Filippo e fu la prima ad aprir bocca, e senza il più piccolo
preambolo gli disse a bruciapelo:
- Cosa diamine è successo di te?
Sei dunque rovinato?
- Perchè? - balbettò Filippo.
- Ma lo si capisce. Sei venuto a
stare in una camera, dove io non ci starei nemmeno dipinta, e ti tocca, a quel
che sembra, di refilare i tuoi colli per poter uscire.
Filippo non rispose.
- Dunque non mi dici nulla a vedere
che io mi sono incomodata per te? - diss'ella che si era seduta frattanto
nell'unica sedia a braccioli che fosse nella camera.
E sdraiandosi in essa Nanà non
aveva mancato, come al solito, di scoprire per un buon palmo, con un colpetto
di mano, la stupenda gamba a Marliani già nota.
Filippo non aveva buon gusto; ma
contava, prima di tutto, soli ventisei anni, possedeva una salute di ferro e
una concupiscenza d'oro. Il suo temperamento sanguigno, irritabilissimo al
solletico del senso, era già stato scosso potentemente al primo incontro degli
occhioni di Nanà; Potete figurarvi cosa ne nacque alla vista del piede e della
calza di seta ond'era coperta la gamba della donna già amata alla follia....
Lasciò cadere a terra solino e
forbice, si avventò per così dire contro Nanà, con un moto di caldissima
tenerezza, e fece per stringerla al seno.
- Un momento! - sclamò Nanà
ritraendosi colla sedia; la quale avendo le rotelle scivolò indietro un bel
tratto. Filippo che s'era curvato innanzi, perdette l'equilibrio e stette quasi
per stramazzare al suolo. Lo scappuccio che egli fece mancandogli il centro di
gravità fu così comico che Nanà dovette malgrado dar fuori in un'altra grande
risata.
Nè faceva bisogno d'essere una cocotte
parigina per questo!
Filippo questa volta era
mortificato sul serio.
Nanà godeva immensamente in cuor
suo di riuscir con così poco a mortificare un pover'uomo! Anzi parendole venuto
il tratto per aumentar la dose di quella confusione, si volse, prese in mano
gli sciagurati straccali, che stavan sul dossale della sedia e presentandoli a
Filippo:
- Tu dunque - disse - ti sei messo
a tirar su i pantaloni con queste carrucole?
A Filippo s'affacciò per risposta e
per giustificazione una bugia.
- Li usai per montar a cavallo -
voleva dirle.
Ma pensò che Nanà se ne intendeva e
che nei bei tempi andati l'aveva veduto vestirsi una volta per montar a
cavallo, senza bisogno di quei tiranti. S'accontentò di rispondere:
- Il sarto m'ha fatto i calzoni
troppo larghi.
Per poco ancora stettero in
silenzio. Filippo divorava cogli occhi Nanà, che guardava altrove e diceva fra
sè: che grullo!
- E dunque? - ricominciò Nanà.
- Dunque, che cosa?
- Non mi conti nulla?
- Io nulla.
- Sei in collera?
- No, ma capisci bene.
- Che cos'è che debbo capire?
- Io avrei voluto abbracciarti e farti
un bacio e tu ti ritiri, che quasi mi facevi cadere e poi invece mi domandi se
tiro su i calzoni colle carrucole.
- Mi piace tanto a veder gli uomini
arrabbiare!
- Ancora?
Se Filippo non avesse avuto in
corpo quell'orgogliuzzo da dozzina, quel ticchio permalosamente goffo, che è
pure la caratteristica di tanti bei giovani di Milano e di altri luoghi, in
questo punto avrebbe trionfato immediatamente.
Ho detto che in fatto di
sensualismo Nanà non aveva ritegni. Contraddizione costante anche in questo. Essa
era a momenti una donna fredda come marmo o magari, a momenti, la più sfrenata
baccante della terra. Da madre natura ella pareva creata indubbiamente e
mollemente lasciva; i suoi occhi e le sue rotondità troppo chiaramente
parlavano; non si poteva pigliar abbaglio.
Quel giorno, dopo tanto erotico
digiuno, ella sarebbe stata in gran vena di pazzie; e se Filippo avesse saputo
fare, ella sarebbe tornata sua amante d'un giorno, con entusiasmo, malgrado la
manifesta arsura di lui.
Povero Filippo Marliani!
Egli non s'accorse di essere un
uomo perduto. Il presentimento non gli disse che fra il suo suscitato
ardentissimo desiderio e la pur evidente condiscenza di Nanà, due elementi che
sarebbero stati lì lì per intendersi tanto bene, si era elevato un ostacolo insormontabile
nella mente e per ciò nei sensi di lei: il sentimento del ridicolo. Gli è in
questo senso che i Francesi dicono che il ridicolo uccide.
Egli non vedeva in quel punto che
la difficoltà di rompere di nuovo il ghiaccio.
Ebbe una sciagurata ispirazione.
Si mosse verso l'uscio.
- Che fai? - gli domandò Nanà.
- Chiudo l'uscio - rispose Filippo
con un sorriso tra l'ebete, il compiacente e il fatuo.
- A chiave?
- Sicuro a chiave.
- Non voglio.
- Perchè?
- Perchè m'hanno veduta entrare e
non voglio si dica che fui chiusa dentro a chiave con te. E poi del resto sai,
debbo andarmene subito.
- Che cosa sei venuta qui a fare
allora se vuoi andartene subito?
- Oh bella! Prima per domandarti un
parere per un'idea che m'è venuta, cioè per una proposta che mi fu fatta da un
impresario, che vorrebbe ch'io diventassi artista... poi per raccomandarti di
non parlar di me a nessuno... poi....
- Poi che cosa?
- Poi per vedere se tu mi potevi
prestare un migliaio di franchi.
Filippo si sentì come fulminato. Ma
non si tradì.
- E se io potessi prestartelo il
migliaio di franchi che faresti tu per me? - disse con voce leggermente tremula
di emozione.
- Nulla... cioè ti ringrazierei.
- In che modo?
- Colla bocca.
- Null'altro?
- Null'altro.
- Perchè?
- Perchè - rispose Nanà - non
vorrei che tu credessi ch'io voglia ripagarti del favore che mi faresti.
- Neppur un bacio?
- No. Un mio bacio o non deve valer
denaro o deve valere dei milioni.
- Poumh?
Filippo dalle sortite di Nanà era
continuamente disorientato. Quello spirito pieno d'ordine, abitudinario,
limitato e timido non capiva le eccentricità di Nanà. Lo facevano ammutolire.
Allora quello sventurato, che
teneva nel portamonete il danaro, col quale doveva pagare nelle ventiquattro
ore il suo debito di giuoco della notte prima, trasse di tasca il portamonete e
fece atto di cavarne il biglietto da mille.
- No - disse Nanà alzando la mano
verso di lui. - Ora non li voglio più.
- Perchè non li vuoi più? - domandò
con crescente esterefazione Filippo.
- Sei sfortunato oggi - sclamò Nanà
sorgendo in piedi e ridendo un poco sforzata. - Se tu mi avessi dati que' mille
franchi senza dir parola, se invece di pensare al compenso tu mi avessi fatto
vedere che non pensavi ad altro che a rendermi un servizio, puoi star sicuro
che.... Capisci bene; tu mi conosci già! Così me ne vado. Addio.
Filippo mise in tasca il
portamonete.
Lo sguardo con cui Nanà accompagnò
quella ritirata nelle tasche, mentre stava per volgere le spalle al giovane, fu
una piccola iliade di ironia e di disprezzo.
- Nanà, fermati - le disse Filippo
prendendole una mano.
Ella si volse.
- Io non ci capisco un bel nulla,
di questi tuoi capricci.
- Lo so bene che non capisci nulla.
Se tu li avessi capiti, non ci saremmo annoiati l'uno dell'altro in soli otto
giorni... ti ricordi, a Parigi. Oppure a quest'ora io sarei già stata tua di
nuovo.
- Ammetterai però d'esser un grande
originale!
- Sarà benissimo!
Filippo le recinse la vita colle
braccia, e Nanà le lasciò fare. La mossa, il gesto del giovane erano stati
fatti abbastanza bene, e ciò era bastato perchè Nanà non se ne fosse schermita.
Filippo curvò la testa sulla guancia di Nanà, la baciò ardentemente poi le
disse in orecchio:
- Che cosa dovrei fare per
ridiventarti simpatico?
Nanà ruppe a ridere. Filippo,
abbassando lo sguardo sul seno turgido e semicoperto della voluttuosa creatura
si sentì nelle vene un fenomeno, come se in esse fosse corso, non del sangue,
ma della lava incandescente.
- Che cosa dovresti fare per
diventarmi simpatico? - rispose Nanà svincolandosi da lui. - È più facile ch'io
ti dica quello che non dovresti fare. Vedi, Filippo, per me il cedere non è
questione come per tante altre, nè di tempo, nè di fatti, nè di gratitudine, nè
di compassione. A me gli uomini sono simpatici o sono antipatici a prima vista.
Dopo due minuti che li ho veduti o che li ho intesi a parlare, io potrei dirti:
di questo non sarò mai l'amante, di quello lo sarei stata in tre ore, s'egli mi
avesse voluta.
- Ma tu di me lo fosti già una
volta!
- Appunto perchè allora mi
apparisti amabile.
- Ed oggi no?
- No.
- Perchè?
Nanà, parlando girandolava per la
camera ed era giunta dinanzi al camino.
- Ecco, per esempio - diss'ella
alzando il coperchio della scatola fatta di lumachine e di conchigliette - ecco
qua. A me sarebbe impossibile l'innamorarmi di un uomo, il quale tiene in casa
sua di queste porcherie.
- Che ne so io? C'era, l'ho
lasciata e la mi serve.
Nella scatola, Nanà vide delle
fotografie. Ne levò una, la guardò con un sorriso pieno di ironia, poi domandò:
- Chi è questa?
- È la mia amorosa - rispose
Filippo con un'alzata d'ingegno.
- Davvero? Te ne faccio i miei
complimenti. È molto bella.
- Ti pare?
- C'è mai pericolo che essa mi
trovi qui?
- No. Essa non viene qui. Vado io
da lei.
- Perchè non me l'hai detto subito
che avevi un'amante di questa forza?
- Perchè essa ama me, ma io non amo
lei.
- Chi ami tu?
- Lo sai bene.
- Vorresti darmi ad intendere che
tu sei innamorato ancora di me?
- Ora che ti ho riveduta, sono
certo di esserlo, perchè tu sei sempre per me la più bella donna dell'universo.
Nanà vibrò al giovine uno di que'
suoi sguardi ben intenzionati, che avrebbero avuto la potenza di far rizzare i
capelli in capo a un morto.
Filippo spasimava.
- Nanà, sii buona - le disse egli;
e prendendole le mani se la attirò sul petto, la recinse col braccio, le disse
all'orecchio parecchie frasi insensate e senza sintassi, ma che volevano dir
tutte chiaramente la stessa cosa.
Nanà lasciava fare e udiva con
voluttà quel vaniloquio.
Ad un tratto sclamò:
- Mi hai detto che essa è
innamorata di te?
- Molto.
- E soffrirebbe se tu la dovessi
lasciare?
- Credo che ne soffrirebbe assai.
- Vuoi tu lasciarla per amor mio?
- Me lo domandi? - rispose come
gemendo lo sciagurato Filippo.
- Me lo giuri?
- Te lo giuro.
- Che pegno, che sicurtà mi puoi
dare che lo farai?
- Quella che tu vorrai impormi.
- Se io esigessi che tu non
l'avessi a vedere mai più?
- Obbedirei.
- Se io volessi che tu stracciassi
in mille pezzi questo suo ritratto?
- Ecco - disse Marliani facendo il
ritratto in pezzi.
- Se io volessi che tu gettassi
dalla finestra queste lumachine?
- Ecco.
E afferrata la scatola Marliani
aperse le imposte, diè un'occhiata di sotto nel cortile e vi scaraventò la
scatola.
- Se io esigessi che tu non avessi
più mai a portar le bretelle?
- Ecco!
E Marliani, raccolte le forbici che
stavano a terra, e presi in mano i tiranti, li tagliuzzò in varî pezzi.
- Sei contenta?
- Sì.
- Vuoi altro?
- No. Adesso che sono persuasa, va
pure a chiudere l'uscio a chiave.
*
* *
La mattina seguente al bel primo
svegliarsi si affacciarono alla mente di Filippo Marliani due imagini e due
idee importantissime, di cui l'una voluttuosamente splendida, l'altra
sgarbatamente molesta.
La prima era Nanà. Quella donna che
tutti desideravano, che aveva prodotta nella gioventù dorata di Milano una
insolita effervescenza, per posseder la quale molti avrebbero dato, se non la
vita, gran parte dei loro averi, era ridivenuta senza farlo basire, la sua
amorosa.
La seconda idea, che attraversava e
che smorzava quella superba gioia era la ripetizione di un fastidio e di un
rimorso che già egli aveva risentito il dì prima, non appena Nanà lo aveva
lasciato solo nella sua cameretta. Era prodotta da due fatti egualmente gravi e
umilianti: quello di trovarsi senza più il becco d'un quattrino indosso, e
quello di non aver potuto pagare nelle ventiquattr'ore il debito di giuoco di
ottocento franchi, contratto la notte dianzi.
Egli, infatti, di nascosto di Nanà,
la quale - credeva. - non avrebbe voluto più accettare il suo dono le aveva
scivolato nel portamonete il suo ultimo biglietto da mille franchi, che avrebbe
dovuto servire a quell'ufficio indispensabile per chi voglia comparire ancora
in una sala di giucco.
E si trovava perfettamente al
verde. E - ciò che non è indifferente a notarsi - non teneva più in casa neppur
un filo con cui far danaro. L'abbiamo veduto fare la barba ai solini da collo
sfilacciati. Segno di grande arsura!
Se non che l'anima umana è così
avida di felicità e si sottrae così volentieri al dolore e all'umiliazione, che
sulle prime il pensiero di Filippo figgendosi ardentemente nell'imagine di Nanà
gli fe' riprovare soltanto la gioia e l'estasi vivissima d'averla ancora
posseduta.
- Nanà, mia Nanà, bella Nanà terribile
- andava egli dicendo mentre si vestiva; e non si saziava di ripetere quel nome
come per tener occupata la mente e ributtar indietro le idee importune. - Che
splendida creatura! Che occhi, che capelli, che denti, che profumo di donna
sana! Ma l'orgasmo erotico durò poco.
Bisognava pensar all'avvenire, e
provvedere alla vita. Quell'ultimo biglietto da mille, che avrebbe dovuto
servire, per tre quarti a pagar un debito di giucco, e pel resto ad essere
arrischiato, e a produrre chissà che risorsa, sfumato in quel modo gli
toglieva la speranza di potere la sera tentare di nuovo la sorte. Ad ogni modo
in bisca egli non ci sarebbe andato che di sera. Ma intanto? I due piccoli
problemi della giornata: la colazione ed il pranzo, come si risolveranno?
«Potrei - cominciò passando in
rassegna i mezzi leciti - potrei andar in cerca d'un amico e farmi invitare da
lui dicendo di avere dimenticato a casa il portamonete. O potrei anche fingere
al restaurant di averlo lasciato a casa. Ma questo stratagemma andrà bene
un paio di volte! E poi? Chi me ne darà?
Erano però i due espedienti più
ragionevoli pel momento; risolse di metter in pratica l'uno o l'altro a seconda
del caso, e uscì.
Non trovando l'amico da cui farsi
invitare fece colazione come il solito al suo caffè, ordinò al cameriere di
fargli il conto, poi frugando in tasca colla più gran disinvoltura del mondo,
finse d'aver lasciati a casa dei biglietti da mille, che ci avrebbero dovuto
esser dentro, e si levò tutto turbato per paura che... la donna che rigoverna
la camera... non si sa mai!...
- Si figuri! - gli aveva già detto
il cameriere, prima ch'ei fingesse quelle smanie. - Pagherà domani!
Anche quel pagherà domani fece a
Filippo un effetto singolare...
«Chi è che mi insegna come si fa a
guadagnar danaro?» - pensava avviandosi senza saper dove. - Domani se non pesco
danaro non potrò neppur tornar qui a far colazione. Gli amici li ho già
gonfiati tutti. Non c'è più da cavarne nulla. È terribile!»
La farsa del portamonete lasciato a
casa fu ripetuto da lui per il pranzo in altro luogo.
Ma venne il vero punto tòpico,
anche per Filippo Marliani; quello cioè di non poter più passare dinanzi a
certi caffè nè a certe trattorie per non farsi vedere, e di non saper più quale
albergo scegliere ancora da mistificare.
Per capir bene questa situazione in
tutta la sua verità, in tutti i suoi spaventevoli particolari, in tutti i suoi
segreti inesplorati, è necessario saper bene che cosa voglia dire patir la fame
per mancanza fin di un paio di soldi da comperarsi almeno del pane.
E si badi! A questa fame, per
mancanza di pane, non vanno soggetti che gli uomini della condizione di Filippo
Marliani, a cui è vietato il guadagnar sia pure due soldi. Il miserabile, che
vuol lavorare, non sa che cosa sia. Se non trova da guadagnar i due soldi,
stende magari la mano all'elemosina e li raccatta. Marliani no. Per capir bene,
ripeto, questa situazione, è necessario l'essere andato qualche volta a letto
verso il tramonto, quando la fame più assaetta lo stomaco, a tentar di dormire
per non provar gli spasimi e l'umiliazione. È necessario sapere qual grado di
carattere e di probità abbisogni ad un uomo che veste di panno per affrontare e
cacciare indietro le idee invadenti, che fanno ressa e rivolta in faccia al
senso morale, protestando rabbioso contro la ingiustizia distributiva, contro
il sistema sociale, contro tutto ciò che i politici chiamano l'ordine
stabilito.
Filippo Marliani però non pensava
che del suo trovarsi in quell'orrendo disagio aveva colpa lui stesso.
Amava meglio prendersela contro
l'ordine stabilito.
Camminando alla ventura delle ore
intere, resistendo all'idea di andar a trovare Nanà, alla quale non voleva
presentarsi a mani e a tasche vuote, egli andava facendo, senz'accorgersi, una
quantità di ragionamenti nuovi e di piccole operazioni strane, inusate, senza
senso comune. Era capace di tener dei quarti d'ora gli occhi a terra, sperando
di trovare sul cammino un biglietto da mille, smarrito da qualche banchiere
distratto, o un brillante uscito fuori da un orecchino di donna, o una borsetta
piena d'oro, perduta da qualche inglese in viaggio. E in quel momento l'idea
dell'obbligo di portar queste cose al Municipio, non gli era nemmeno apparsa in
ombra. Nella sua testa non sbucciavano che idee malsane, come in un campo sterile
e dimenticato non germogliano che male erbaccie. Disperando a un tratto di
trovare pe' sassi qualche oggetto di valore, alzò gli occhi a caso e si trovò
accanto alla vetrina di un cambiavalute. Si fermò di botto ed ebbe anche la
stupidità di credere che questo fosse un buon augurio. Là dinanzi, cogli occhi
intenti sulle monete d'oro e sui biglietti di banca sciorinati nell'interno
della vetrina, il povero affamato sentì svilupparsi nel capo dei miasmi di
cupidigia morbosa, e nel pugno una smania di sferrar un colpo nella lastra di
vetro. Cose tutte che non aveva mai provate di sua vita. «Se si potesse far un
buco senza che nessuno se ne accorgesse? Lì c'è appunto un biglietto da mille.
Andrei a pranzo, poi stasera pagherei il debito, poi cogli altri dugento...
chissà!»
Guardossi intorno come trasognato.
Rinsavì; ebbe vergogna de' proprî pensieri; odiò quelle tentazioni; pure il suo
sguardo, tra lo spaventato e il suppligante, pareva dire ancora: Chi mi dà un
biglietto da mille?
Si staccò da quella vetrina - già,
per la intenzione, ladro! - proseguì il suo cammino sempre intontito e in preda
al più desolante scoraggiamento. La fame aumentava. Intorno a' suoi pensieri
scattavano, ondeggiando come in nebbia opaca, delle fantasticherie di delitto e
di rapina. A un certo punto fece anche improvvisa comparsa l'idea del suicidio,
ed ei l'accolse di fronte come un ospite che non si attende, ma che fa piacere
a vederlo.
«No - diss'egli dopo averci pensato
su qualche poco - sono sempre in tempo per questo.»
«E Nanà?»
Questo nome ch'egli aveva
dimenticato dacchè il pùngolo della fame era incominciato e il suo amor proprio
era stato messo a così dura prova dalla necessità di fingere parecchie volte la
scena del portamonete dimenticato - in tre o quattro restaurants dov'era
conosciuto - gli portò al cuore un'angoscia intollerabile.
«Ah, bisogna uscirne a ogni costo -
pensò. - Io non posso lasciare Nanà. Essa mi abbisogna più che il pane da
sfamarmi. Non vivo così! È troppo tormento! È necessario ch'io abbia molto
danaro. Essa non mi ama al punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu
mia ancora... senza interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse.
Ma non vorrei io stesso!»
La risultante di tale ragionamento
fu questa frase:
«È necessario aver danaro.»
E fra tutte le mariuolerie di cui
potesse avere in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in
pratica.
Tutt'a un tratto un'idea luminosa
lo colpì. Gli tornarono in mente certe parole misteriose che aveva udite per
caso, alcuni mesi prima... da un certo tale... parole a cui allora non aveva
posto la più piccola attenzione e che ora gli comparivano, come ad un brick che
naufraga, l'ancora di salvezza. Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la
speranza, la meretrice dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a
poco a poco emaciato, e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò.
*
* *
«Chissà che non sia in tempo io
stesso a pigliar quel posto» - diceva fra sè. - «Il signor Giacomino me ne
saprà dire qualche cosa.»
Andò difilato in piazza del Duomo.
Là cercò l'omnibus per Porta Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea,
senza pensare che non teneva in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si
cacciò dentro.
L'omnibus si mosse e il conduttore
gli stese la mano per avere il prezzo della corsa. Fu allora che Marliani si
ricordò di non aver danaro. Ma avvezzo ormai a fingere quella manovra del
portamonete, mise bravamente la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi
frugò di qua, frugò di là, fingendo una crescente inquietudine, e finì collo
sclamare:
- Cristo! M'han rubato il
portafogli!
- Màghero allora! - disse il
conduttore dell'omnibus.
- Sicuro. O me l'han rubato o l'ho
lasciato in... quella bottega.... Oh povero me!
- Scenda, scenda... non importa.
Pagherà un'altra volta.
Filippo non se lo fece dire due
volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada verso quella bottega, poi, quando
l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo verso Porta Garibaldi.
Giunto a un centinaio di passi
oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di parrucchiere - che oggi non
c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava là seduto su uno sgabello col
sedile a vite, ad aspettare forse qualche pratica, disse:
- Lei è il signor Giovannino, non è
vero?
- Per servirla. Vuol fare la barba?
- No, per ora. La faremo dopo, in
caso. Io sono venuto da lei per vedere se.... Si ricorda lei di avermi veduto,
sarà un paio di mesi, col signor Silvestre Bonaventuri?
- Mi ricordo. Lei è il signor
Filippo Marliani.
- Bravo! Allora ella disse al mio amico
che non gli era ancora riuscito di trovare un giovine un po' educato e vestito
bene, che volesse assumersi quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento
franchi al mese.... Si ricorda?
- Altro che ricordarmi.
- Ebbene, l'ha trovato? - domandò il
Marliani col cuore in sospeso; giacchè quella risposta poteva forse decidere
della sua vita.
- No - rispose il signor
Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in trappola.
- Si può sapere di che si tratta?
Se si tratta di avere del coraggio, sono qua.
Il signor Giovannino espose la
faccenda a Marliani. Questi domandò se si poteva parlare coi signori che
proponevano l'affare.
- Sicuro che si può. Me ne
parlarono giusto anche stamattina. La signora Bibiana sopratutti è scaldata e
vorrebbe trovare un giovine come dice lei, che sarebbe certo di far fortuna.
- Chi è la signora Bibiana?
- È quella che ha il morto. Una
vedovona, che ce ne voglion tre di noi per abbracciarla.
- Potrei parlare a questi signori?
- Lei? È pronto lei ad accettare?
- Sì - rispose secco il Marliani.
- È giusto l'ora che son riuniti in
bottega - soggiunse il parrucchiere.
- Andiamoci allora.
- Andiamo pure. Cecco, dove sei?
Cecco uscì dalla retro-bottega.
- Io vado un momento con questo
signore, e torno subito.
Così detto, uscì seguito da
Marliani.
Dati una ventina di passi parlando
fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò dentro in una bottega da rigattiere.
Una donnicciuola che se ne stava
ebetamente seduta in un canto di quella uggiosa camera all'avvicinarsi dei due
sconosciuti allungò il collo e ravvisato il signor Giovannino tornò a
raggomitolarsi nella sua cretina immobilità.
Il parrucchiere si avvicinò ad un
uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva nella parte di faccia all'entrata
e che metteva in una tetanzuccia o retrobottega e fe' cenno a Marliani di
fermarsi.
Mise l'occhio allo spiraglio e
pronunciò a voce melliflua:
- È permesso?
- Avanti - s'intese rispondere una
voce secca; e sgarbata dal didentro.
Il vecchietto si volse al suo
compagno gli fè cenno di venir innanzi e schiuse l'uscio.
Nella stanza dove erano per entrare
il parrucchiere e Filippo Marliani stavano raccolte tre persone due uomini e
una donna.
Gli uomini erano entrambi in
quell'età che non è giovinezza ma che non si potrebbe ancor dire maturità.
La donna nei quarant'anni, che
vestiva con volgare eleganza e mostrava un viso campagnuolo e rubicondo da
farla giudicare per una fittavola o per la moglie d'un pizzicagnolo, era la
signora Bibiana.
Quelle persone se ne stavano sedute
in silenzio a ridosso della luce che entrava da due finestre a vetri
smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro uscio, che metteva nel cortile.
In tal modo i tratti del loro viso restavano in ombra mentre essi avevano il
destro di vedere perfettamente rischiarato il volto di chi fosse venuto a
parlar con loro. Facevano come certe donne sul tramonto che vogliono nascondere
le grinze ai loro visitatori.
- Venga avanti signor Giovannino -
disse un di coloro al parrucchiere, che aveva domandato licenza di entrare.
Questi si fermò accanto all'uscio
lasciando il passo a Filippo Marliani.
Gli occhi dei radunati si fissarono
curiosamente; nelle sembianze del giovane sconosciuto.
- La chiuda l'uscio - disse la
signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei - ripigliò volgendosi a Filippo
con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e s'accomodi.
- Comodissimo - rispose questi
sedendosi sulla prima sedia che si trovò d'accanto.
In questa il parrucchiere domandò
licenza di andarsene, ma venne trattenuto dalla donna.
- Che fretta! Stia qui un pò anche
lei a sentire. Poi voltasi al Marliani:
- Lei sarà già informato spero
della cosa.
- Gli ho spiegato io l'affare
all'ingrosso - rispose il signor Giovannino. - Egli è pronto a firmare il
contratto basta che entro domani gli sieno sborsate due mila lire.
- Andiamo adagio - sclamò uno dei
tre uomini levando la mano verso il vecchio - una cosa per volta e senza alzar
la voce che nessuno qui è sordo.
La donna volgendosi allora al
giovine riprese.
- Capirà anche lei... signor...
signor?
- Marliani - rispose questi.
- Signor Marliani, che prima di
stringere un contratto importante come questo, bisogna conoscersi un poco,
perchè dove c'è da obbligarsi in faccia ai terzi; le cautele dei galantuomi non
sono mai bastanti.
- Troppo giusto - disse Marliani
piegando il capo in segno di assentimento. Ma i suoi occhi si socchiusero nello
stesso tempo con una espressione di ironica malizia.
Quel sorriso non isfuggì all'occhio
della donna la quale dissimulando riprese.
- Dica dunque lei le sue intenzioni
su quello che già le comunicò il signor Giovannino.
- Il signor Giovannino mi propose
di entrare come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione
da parte mia di alcun capitale - rispose Marliani.
- Va bene - rispose la signora Bibiana.
- I signori che lei vede qui riuniti sarebbero appunto i soci fondatori di una
casa in pannine, di cui ella assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse
già conosce.
- Le condizioni sarebbero di
firmare col mio nome le cambiali della ditta.
- Primo.
- Nel caso di fallimento ch'io sia
pronto a subire tutte le conseguenze conservando il massimo segreto sugli
affari della casa.
- Va bene.
- Che in caso fosse necessario per
salvare la ditta di far in prigione l'anno ed il giorno, io debbo esser pronto a
prestarmi, e nel caso invece che la ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a
fuggire.
Il giovine si fermò per avere un
segno di assentimento. Le tre persone che gli stavano di contro erano immobili
come cariatidi.
- Non credo si esigano da me altri
sacrifizi - rispose il giovine con una espressione di mal celata amarezza.
Uno dei due uomini che non aveva
ancora aperta bocca, alla nuova intonazione con cui il Marliani aveva
pronunciate le ultime parole gli ficcò in viso gli occhi e disse:
- Non sono sagrifizî codesti; sono
condizioni naturalissime in chiunque si assume obblighi di questa specie. Non
c'è nulla che sia fuori del consueto, anzi non faceva neppur bisogno di
parlarne, giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in
prigione o di scappare.
- Ho voluto enumerarli! - rispose
il Marliani per mostrare a loro signori che io conosco le eventualità a cui
posso andare incontro mettendomi in questo affare e per togliere loro il
sospetto che io possa essere un novizio o un guastamestiere.
- Ora parliamo delle condizioni in
favore - disse la signora Bibiana. - Il signor Giovannino ha parlato di due
mila lire subito.
- Mi sono indispensabili.
- Due mila lire è una bella somma -
sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una piccola garanzia.
Marliani si alzò in piedi.
- Cari signori - disse - se avessi
una garanzia non sarei venuto a esporre il mio nome ai pericoli d'una gerenza
commerciale di cui non dovrò tenere la cassa, nè avere neppure una piccola
parte nell'amministrazione. Se avessi una garanzia andrei a levar i denari al
dieci o al dodici per cento dal primo onesto banchiere che passa in strada, e
il signor Giovannino non sarebbe venuto ad offrirmi di fare il prestanome.
- Lei s'inganna - rispose la
signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò che prima di tutto non è vero
che lei dovrà servire soltanto di prestanome perchè invece dovrà trattare in
persona con me gli affari della ditta, far qualche viaggio e avere la sua brava
parte di utili nei dividendi.
- Se ce ne saranno - osservò uno dei
tre.
- Sicuro già, se ce ne saranno! -
sclamò la donna stizzosamente. - In secondo luogo lei s'inganna se al giorno
d'oggi crede di poter trovar danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che
non porga la garanzia di un proprietario.
- Vedo insomma che lor signori non
sono disposti a sborsarmi le duemila lire di cui ho bisogno - disse il
Marliani.
- Caro signore - rispose la donna
sempre più dolce. - Il commercio è arenato. Per vivere col decoro che porterà
la di lei posizione di rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi
le fissiamo anche una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione
di due mila lire ci sarebbe impossibile.
- Di quanto sarebbe questa mesata? -
domandò il Marliani. - Di trecento franchi - rispose la donna. Marliani si alzò
e mosse un passo verso la porta lisciando il pelo del suo cappello a tuba e
disse:
- Siccome i patti non sono quelli
che m'aveva lasciato sperare il signor Giovannino, che mi parlò di cinquecento
franchi al mese, così mi duole di non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi
ad altre offerte.
- A un'altra volta - rispose uno
dei due uomini. - E nel caso che la ditta si risolvesse a fare maggiori
sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà.
Marliani uscì lasciando l'uscio
socchiuso.
*
* *
Si capiva che la signora Bibiana
era desolata.
Un bel giovine di quella fatta!
- La chiuda quell'uscio, Giovannino
- disse ella. Poi voltasi ai compagni proruppe: - Non bisogna lasciarlo scappare.
Sembra fatto a posta pel nostro affare.
- Ritornerà. Scommettiamo che
ritorna da sè senza mandarlo a chiamare?
- Ora una notizia - riprese la
signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary ci ho messo il Giacomo come
palafreniere. Egli mi ha dato nuove informazioni sullo stato delle sostanze del
conte Enrico suo padrone, che ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a
fine novembre.
- Sono buone queste notizie?
- Eccellenti. I fondi valgono circa
mezzo milione, il palazzo trecentomila, la rendita altri duecentomila. Con
Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso per quattrocentomila franchi, dei quali
fatto il calcolo, gliene avremo sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi
perduto molto al giuoco dalla Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi
danari ne saranno rimasti per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la
metà, dunque bisogna detrarla dai duecento mila. Restano
centosettantacinquemila. Sono dunque duecento venticinquemila lire nette in tre
anni! Faccio il calcolo che in un paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e
con disinvoltura potremo portargli via il milione netto come il pomo di Tell.
- Tanto meglio.
- Ecco dunque il da farsi per
domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere il signor Marliani e di indurlo ad
accettare la rappresentanza della ditta. Gli dica che ci ha persuasi di portare
la cifra della mesata a quattrocento. Gli dica anche che per garanzia della sua
riputazione commerciale la ditta è pronta a depositare presso la Banca
nazionale o presso la Banca Spagliardi una trentina di mila lire. Lei, signor
Bonaventuri - continuò volgendosi ad uno dei due seduti - domani andrà a
combinar l'affare con questa signora francese, che chiede cinquemila franchi a
tre mesi. Si faccia mostrare le gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei,
signor Paolino - ripigliò la signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui
trentacinque anni, anche lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito
mignolo e un catenone d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi,
andrà in conversazione dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte
O'Stiary e comincerà a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e
della sua intenzione di mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io
debbo andarmene. A domani qui, verso le due.
*
* *
Al domani il signor Giovannino andò
a trovare il Marliani che si lasciò persuadere a tornar nel luogo infetto.
La signora Bibiana, facendogli già
l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e cominciò a leggerlo sottovoce al
giovane e a' suoi compagni. Era il contratto per la fondazione della società di
commercio sotto la ditta Marliani e C.
Poi mise sul tavolo un biglietto da
mille e una cambiale che il Marliani firmò.
Furono fatte poche parole.
Quando anche l'atto fu approvato e
sottoscritto colla più grande serietà, come se fosse il più regolare e santo
contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola.
- Andremo poi dal notaio per le
altre formalità di legge. Prima però la permetta che le esponga qualche cosa.
Lei non è un ragazzo e deve avere una certa pratica di mondo; sapere perciò che
le parole sono parole e i fatti sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire
mille e le presentiamo inoltre un avvenire. Naturalmente la cambiale è in
nostre mani e sarà rinnovata alla scadenza fino a che a lei non piaccia di
pagarla... e basta così.
Marliani strinse le labbra.
- Dal canto suo lei dovrà
informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto ella dovrà sempre andar vestito
all'ultima moda, come si conviene al gerente della ditta Marliani e C., che
avrà depositato un capitale di trentamila lire presso la Banca. In secondo
luogo è necessario che ella cominci a mettersi in buona vista presso i
negozianti e presso i banchieri; e che non dia menomamente a supporre di
conoscerci e di essere nostro socio, giacchè siccome, glielo dico francamente,
noi tutti qui, qual più, qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così
è bene che alla Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra
noi.
- Ma - osservò Marliani - il
contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere noto?
- No signore; questo sarà un
contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in
caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di
Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve
persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che
l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai
molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi
credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare
dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di
battesimo è?
- Filippo.
- Conte Filippo Marliani andrebbe a
maraviglia.
- Le faccio osservare che io sono
già molto conosciuto a Milano.
- Bene, abbandoniamo la contea e
lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto.
- Ma io non mi presterò mai a
gabbare il mondo così - disse il Marliani.
- Lei non deve che lasciarlo
credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come
si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è
facile.
- Manco male! - biascicò il
Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un
fior di briccone.
- Fra quindici giorni esporremo la
ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le
circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il
locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo
andarvi insieme a vederlo.
Su questo invito della signora
Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham
e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il
Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille,
per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.
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