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Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi
Nanà a Milano

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  • I.
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I.

 

Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava un milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto espresso nel testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto e dispotico della sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava la legge cho vigeva al tempo degli Austriaci.

In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il severo babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: il Sacro Cuore di Gesù.

I titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano. Egli era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per correre a combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava irreligioso e liberale. Egli sarebbe riuscito, senza alcun dubbio, prodigo e dissoluto.

Il conte Guglielmo O'Stiary discendeva da una famiglia irlandese molto cattolica, stabilitasi a Milano nel secolo decimosesto.

Enrico O'Stiary ricevette la notizia della malattia mortale del babbo, quando questi era già spirato. La campagna contro gli Austriaci era finita. Chiese ed ottenne il congedo e partì, sperando di rivedere ancor vivo l'autore de' suoi giorni, che egli amava in cuor suo di grande e profondo affetto, malgrado la di lui severità piuttosto unica che rara. Quando giunse a Milano trovò che suo padre era già stato seppellito da una settimana.

E intanto l'esecutore testamentario, don Ignazio Martelli, di lui zio materno, aveva già pensato in fretta ed in furia a praticare certe operazioni e certe riduzioni nell'appartamento, nella cucina e nella scuderia, dalle quali si riprometteva di aumentare il reddito del pupillo di una mezza dozzina di mille lire all'anno. Il conte padre, anche dopo la morte della contessa sua moglie, e la partenza di Enrico per il collegio, non aveva mutati d'un pelo l'ordine e l'ampiezza dell'aristocratica magione. Ma ora? Che cosa avrebbe dovuto farne l'Enrico di sedici stanze? «Troppa grazia a sant'Antonio!», Fece dunque appiccar all'imposta del portone il suo bravo cartello col da affittarsi al presente, e dopo sei ore ebbe, il piacere di vedere, come disse lui, bruciato via l'appartamento e invaso da stranieri.

La creatura, che si dava maggiore affanno in palazzo, era la guardarobiera: una vecchia che chiamavano la balia, che aveva allattato il conte Guglielmo e portato in braccio il contino. Oh il suo non era certo l'affacendato ozio dei Ritratti Umani! Con che amore la buona donna mise in ordine il quartierino, che il tutore spilorcio aveva lasciato al di lei caro Enrico! Con che cura gli preparò la biancheria e fece rimetterle cortine alle finestre e gli fornì dell'occorrente la teletta, e dispose qua e là nelle camere dei fiori appena colti.

- Le pare, marchese, ch'egli sia alloggiato come un principino? - disse la signora Eugenia Martelli al marchese d'Arco, uscendo insieme dalle stanze destinate al giovine ereditiero. - Per dire la verità queste sono le camere migliori del vecchio appartamento. Che ne dici tu Elisa?

La Elisa, una fanciulla di poco più che quindici anni, una rosa thea appena sbucciata, una bellezzina molto distinta, con occhioni e denti da sbalordire, rispose con una piccola smorfia, un umh! che voleva come dire «per l'Enrico ci sarebbe voluto ben di più!»

- Io sono certo però, - disse il marchese d'Arco, - che l'Enrico avrà gran dispiacere di vedere affittate così subito e a della gente ignota, le camere dove tien raccolte le memorie della sua infanzia....

- Se sapesse quante volte ho detto anch'io questa cosa a mio marito! Non è vero Elisa?

- Sì, certo; ma il babbo non vedeva che la necessità di cavare di più dal palazzo.

- La casa de' suoi maggiori, - riprese con grande nobiltà il marchese d'Arco - va tenuta da conto e il lasciarla invadere dal primo che capita è un mancarle di riguardo.

- Che vuole marchese? Lei sa bene che mio marito non le ha mai capite certe delicatezze.

- Come! - domandò questa volta ingenuamente l'Elisa. - Il babbo non ha mai capite le delicatezze?

- Zitta Elisa - disse la madre stringendo, nel suo il braccio di sua figlia. Poi di nuovo al marchese:

- Del resto l'Enrico sarà, come si dice, in famiglia. Tra il suo quartierino il nostro non c'è di mezzo che l'anticamera e questa sala in comune.

- E noi per far tutto questo tramestìo, - disse la Elisa mostrando un gran dispiacere nella voce - abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e andare verso il giardino.

- Povera ragazza, guarda mò, - fece ridendo il marchese d'Arco - dover cambiare alloggio!

- E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada.

- Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada!

- Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese che è una condanna.... Io non ho che il giardino da vedere.

- Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo. - Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i tulipani.

- È vero, - sclamò la Elisa, - ma a me sarebbe piaciuto di più il poter vedere fiorir le rose in giardino....

- E spuntar i tulipani sul Corso? - domandò ridendo il marchese.

E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito:

- Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo!

- Oh marchese! - sclamò la fanciulla. - Ora non è più tanto un ragazzo. Ha quasi ventun anni ora. Cinque più di me.

- È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più.

- E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre? - domandò la signora Martelli.

- Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi egli non badava a nulla.

- Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa!

Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella frase, ripigliò:

- A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico?

- Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora - sclamò la fanciulla. - Lo sento quì! - E posò la destra sul cuore.

- Ma zitto Elisa!

- La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni.

- E quattro mesi! - sclamò la Elisa.

- Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa? - fece ridendo la madre. - È un capetto, mah!

- Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto.... mah!

- Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno!

Il marchese rideva.

- Dunque io ripasserò stasera, - soggiunse egli - e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux. E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto!

- Oh, anch'io, anch'io, caro marchese, - rispose con espansione sincera la fanciulla.

- Ora andiamo a vestirci subito, - disse la madre quando il d'Arco fu uscito, - che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo salare la messa.

 

*

* *

 

La Elisa era un capetto davvero.

Un tipo di fanciulla più simpatica, più piccante, più piacente di lei non lo si potrebbe imaginare facilmente.

Dove diamine la signora Eugenia ed il notaio Martelli fossero andati a pescar tanto spirito, per dare vita a quella loro creatura, è un mistero! La signora Eugenia era infatti una eccellente madre, una buonissima donnetta, una moglie irriprovevole, ma sgraziatamente peccava assai nel fisico; quanto al padre era sgraziato nel fisico e nel morale.

La Elisa appariva come la perfetta antitesi de' suoi genitori. Sua madre era piuttosto piccola e tozza, Elisa era slanciata e svelta come un giunco odorato. Sua madre era scarsa d'ingegno; sua figlia un genietto. Suo padre era taccagno e di idee ristrette; la Elisa era una socialista spiegata senza sapere di esserlo. Forse di lei s'avrebbe potuto dire, come della maggior parte dei figli unici, ch'era un enfant gatè. La mamma, le aveva sempre voluto troppo bene, le aveva fatte buone le innumerevoli fantasie, l'aveva sempre accontentata in ogni capriccio e baciucchiata troppo. Ma le madri che amano assai non ci sentono da questo orecchio. Quanto non si è detto contro il soverchio amore di certe madri? Ai fanciulli esse parlano incessantemente e quasi esclusivamente del bel musino, del bel vestitino, delle belle scarpette, e li baciano tutto il santo giorno con tali frenesie di tenerezza, che spesso i bimbi ne scoppiano in pianto. Cari e santi baci quei delle madri! Ma non pensano desse che, a lungo andare, anche quei baci riescono fatali, giacchè stimolando senza posa nei bimbi la delicata innervazione, sviluppano in essi una, per quanto inavvertita, troppo precoce sensualità. Amorevole, ma fatale stupro materno, che già rende colpevole l'adolescenza prima che essa abbia cessato di esser innocente!

Le madri romane si guardavano bene dall'insegnare la voluttà del bacio alle loro figliuoline. E quando alcuno lodava la bellezza d'una loro figlia in faccia a lei stessa, quelle madri nobilissime usavano di metter la punta del dito medio sulla lingua e di toccar con quella la guancia dell'adulata quasi a purgarla col materno amore da un maleficio straniero.

La Elisa aveva tra le altre cose una voce che agiva voluttuosamente sulla corda sensibile dell'udito. Nessuno ha mai ascoltato le arpe eolie, ma chi ha sentita la voce di Elisa Martelli, giura che non la cambierebbe con quella di un'arpa eolia.

E il sorriso?

S'ha un bel dire, ma dinanzi al realismo della bellezza e della gioventù restano eterne e immutabili anche le ispirazioni romantiche, alle quali fummo allevati. Elisa quando rideva, rideva tutta, come disse il Dossi, e s'avrebbe detto che facesse una luce maggiore intorno a sè, giacchè, il di lei sorriso alleandosi al nitor dei denti e lampeggiando nelle pozzette delle guancie e raggiando fuori collo splendor degli occhi pareva davvero la circondasse di una gioiosa aureola, che è luce appunto e delle più lucenti!

Queste doti, già s'intende, preziose per tutti erano difetti per quella lesina di suo padre. Egli avrebbe amato tanto una figlia belloccia sì... non dico! ma che avesse avuto il suo quietismo nel sangue, che andasse in cucina a sorvegliar la cuoca, che facesse tutti i rimendi alla biancheria e rivedesse i libretti della spesa. Ma non c'era verso, e la mamma su questo la difendeva a spada tratta e qualche volta la si permetteva di ricordare al marito una certa loro speranza, sorta si può dire il giorno stesso della nascita della bambina e nutrita religiosamente in famiglia:

- Pensa poi che la Elisa deve essere contessa e milionaria!

Era la frase sacramentale, che metteva ogni pace e ogni buon umore in quella casa.

 

*

* *

 

Il contino arrivò, come aveva presentito la Elisa, mezz'ora dopo, mentre le donne erano a messa.

Montò quattro a quattro i gradini dello scalone, che non aveva riveduto da circa tre anni e tirò il campanello all'uscio di casa sua.

Il servitore che venne ad aprirgli non lo conosceva punto.

- Chi cerca di grazia il signore?

- Il notaio Martelli è in casa? - domandò Enrico con un mesto sorriso.

- No signore, - rispose l'altro, - il signor cavaliere Martelli è uscito.

Enrico si fece conoscere. Entrò, andò difilato alla camera dove era morto suo padre, e vi si rinchiuse. Poi mezz'ora dopo cogli occhi rossi di pianto, si fece portar nascosto in una carrozza al cimitero per visitare il luogo dov'era stato sepolto.

Di ritorno a casa Enrico trovò il notaio Martelli suo tutore, che lo aspettava per abbracciarlo.

Prima che questi tornasse a casa dal cimitero, il notaio avendo udito dal portiere, come il contino fosse arrivato, era salito frettoloso le scale, ed entrato in anticamera:

- Dov'è dov'è questo ragazzo? - aveva sclamato, non pensando che il ragazzo s'era fatto ormai un uomo di quasi ventun'anni.

- È andato al cimitero - gli rispose il servitore.

- Ah, povero figliuolo!... È vero! Bravo, bravo!

Così dicendo, attraversò l'anticamera ed entrò in uno studio attiguo, dove era solito stare qualche ora del giorno a sbrigare le faccende della tutela.

- Dì un po' - ruppe a dir egli quando fu seduto allo scrittoio rivolto al Leopoldo - sei stato dal Saulino?

- Sì, signor cavaliere.

- Cosa ti disse?

- Che verrà qui lui dopo pranzo.

- E dal Sala?

- Anche.

- E quello che cosa ti rispose?

- Mi disse che ora non ha voglia di comperare carrozze usate. Ma stamattina è stato qui un signore a vederle in rimessa e ha fatto un'offerta.

- Quanto?

- Mille lire.

- Non c'è male. Si può cederle a questo prezzo, mi pare.

- La scusi signor cavaliere se metto il naso anch'io in questa materia. È solo per avvertirla che lo steage è quasi nuovo, perchè l'ha fatto fare l'anno scorso il signor conte e l'ha adoperato non più di otto volte in tutto l'anno.

- Ebbene?

- Ebbene dico che si potrebbe tenerlo, ora che è arrivato il signor contino. È un legno del buon genere.

- Che cosa? Buon genere? Bagattelle! Quest'è una parola inventata adesso. A' miei tempi non si parlava punto del buon genere.

«Sicuro. Quando regnava Carlo V» pensò tra sè il Leopoldo.

- Io di carrozza non me ne intendo una maledetta - continuò il notaio - ma se questo steage è quel demonio di un carrozzone coi sedili fin sull'imperiale come una diligenza....

- Sì, sì, proprio quello!

- Allora ti dico addirittura di mettere da parte il pensiero, perchè a trascinare quella macchina non ci vorranno meno di due cavalli....

- Come due! La dica pur quattro.

- Figuratevi! No, no, no, vendiamolo subito.

- Lei signor cavaliere vorrebbe forse che il signor contino tenesse meno di quattro cavalli in scuderia?

- Ma che quattro, ma che tre, ma che due! - sclamò il notaio vivamente. - Adesso so che è di gran moda un legnettino leggero da un cavallo solo. Tanto più per un giovinetto della sua età. Bagattelle, anche troppo!

- La mi scusi don Ignazio - disse il palafreniere con voce insinuante - ma anche volendo tenere un cavallo solo da tiro ce ne vorrà sempre almeno uno di cambio e uno da sella.

- Ma che cambio, ma che sella! - sclamò il notaio inviperito. - Il cambio è perfettamente inutile, perchè se quell'altro fa il suo servizio bene, il cambio resterebbe in stalla a mangiar fieno e biada a tradimento. E quanto a quello da sella si può scusare con un cavallo a doppio uso.

«Bazzica!» pensò il Leopoldo. «Come il curato di Cilavegna!»

E non disse più nulla, giacchè cominciò a mulinare come qualmente per rubare la biada ad un cavallo solo non gli sarebbe più convenuto di star in quella casa,

- Dunque? - domandò il notaio.

- Ma ecco, se il signor cavaliere mi permette di parlare.

- Te lo permetto.

- Le faccio presente che se il cavallo a doppio uso si ammalasse....

- Oh, allora poi, bagattelle, si va un po' anche a piedi... pedibus calcantibus.

«Ah sicuro!» pensava fra sè quello scorbellato di Leopoldo, «un bel paio di scarpe nuove e avanti.»

- Io sono bene andato a piedi tutta la mia vita! - riprese il notaio.

«E sì, che è un cavaliere!» pensava l'altro.

- Se poi il mio signor pupillo non volesse proprio degnarsi di andar a piedi ci sono sempre dei buoni omnibus a dieci centesimi.

«Ma sì, guarda me! Non ci pensavo. Ci sono questi omnibus? Adoperiamoli.»

- Qualche volta ci vado anch'io in omnibus; non però quando non ho fretta, perchè allora arrivo prima colle mie gambe.

- Lei è il padrone! - conchiuse Leopoldo. - Faccia lei.

- Sicuro che debbo far io - sclamò il notaio. - Anzi, ti avviso di non mettergli in testa all'Enrico delle fisime inutili. L'economia è la madre di tutte le virtù, e quando un solo cavallo può far il servizio di tre, non saprei come possa venir in testa ad un cristiano di tenerne tre invece di un solo. Questi cavalli a doppio uso ci sono o non ci sono? Saranno ben stati inventati per qualche cosa, io credo? Adesso chiama la balia, che mi deve dar la nota della spesa della guardaroba.

 

*

* *

 

Chi era la balia?

Poco prima che il notaio arrivasse a casa, una vecchia sbacando fuori da una scaletta interna, che metteva nelle cucine del palazzo, aveva sclamato tutta intenerita:

- Oh, ch'io lo veda questo mio signor contino, ch'io lo stringa ancora una volta al seno prima di morire.

Il palafreniere, che aveva condotto il padroncino nella camera del conte padre, pose l'indice attraverso le labbra e additando alla balia la stanza dove era entrato Enrico, aveva risposto:

- È là dentro e non vuol essere disturbato. Piange.

- Povero ragazzo! - sclamò la balia con amore. - Starò qui ad aspettarlo.

Così detto si adagiò, trasse di tasca la corona e cominciò a biascicare orazioni.

Ma il palafreniere non le lasciò il tempo di finire il panem nostrum quotidianum, che le domandò:

- Voi balia che dovete esser vecchia di casa....

- Altro che vecchia di casa! - interruppe questa. - Io sono nata nel castello dei conti O'Stiary, ed erano già sessantanove anni che ci stavo prima di venir giù a Milano. Io ho allattato il povero conte Guglielmo che è morto or ora; e sono stata la balia secca del contino Enrico.

- Tanto meglio! Io volevo domandarvi conto di questo signor marchese, che è venuto un'ora fa a a vedere se il contino era arrivato.

- Il marchese d'Arco?

- Sicuro. Mi pare di aver capito ch'egli abbia un grande attacco pel giovinetto che deve arrivare, e m'è passato per la testa, così per dire a dire, che egli fosse stato l'amante della mamma.... Si sa bene!

La balia levò lentamente la testa canuta, con un fiero rimprovero negli occhi:

- Dica, signor Leopoldo; la si ricordi che non è di moda in questa casa il fare dei giudizii temerarii. La contessa Irene era una santa donna e il bene che il signor marchese le voleva era come quello che noi altri cristiani vogliamo alla Madonna.

- Tanto peggio per lui! - rispose cinicamente il palafreniere.

Leopoldo fece entrare la vecchia e don Ignazio stava per interrogarla, quando s'intese il campanello dell'uscio d'ingresso e poco stante comparve sulla soglia dello studio il giovinetto conte.

Vedendo la balia, la quale si era voltata al rumor dell'uscio che s'apriva, Enrico le corse incontro, colle braccia tese e le saltò al collo.

- Oh Teresa, la mia buona Teresa, quanto tempo che non t'ho abbracciata!

Ma poi vedendo il suo tutore, che s'era levato dallo scrittoio e gli si avvicinava colle braccia protese, si staccò dalla balia e andò con premura verso di lui.

- Scusami, caro zio, se il mio primo saluto fu per la Teresa, che mi ha veduto nascere e che mi ha portato tanto in braccio.

La balia si asciugava col lembo del grembiale i luciconi.

- È naturale, caro Enrico - disse il tutore - Guarda che l'hai perfino fatta piangere di consolazione.

- La m'ha scusare - fece la balia, colla voce ancora fra le lagrime - ma non avrei potuto far di meno, e ora posso morire contenta. Avevo tanta paura di morire prima di poterla rivedere.

- Ma ho da sentir di peggio? - disse Enrico alla vecchia. - Dammi subito del tu come mi hai sempre dato in castello.

- Ah caro lei, adesso è impossibile signor conte. Adesso lei è un uomo.

- No, no, non importa. Ti comando espressamente di trattarmi ancora come pel passato.

Poi si volse al tutore.

- Ma sicuro che mi sei diventato un uomo! - sclamò questi, - tu mi mangi la torta in capo ora. Bravo, bravo! Bene bene! E dimmi un poco. Hai già vedute le mie donne?

- No, - rispose Enrico, - non mi ero ancora mosso dalla camera del povero babbo.

- Sono andate a messa, - disse la balia. - La signorina Elisa non vede l'ora di vederla, - aggiunse ella sottovoce, mentre il notaio s'era voltato.

- A proposito, - ripigliò questi - tu l'avrai già sentita la santa messa?

- La messa? Ma no, a dirti la verità. Sono arrivato di buon mattino, ho viaggiato tutta notte... non saprei neanche dove avrei potuto averla sentita.

- Bene, bene, per questa volta...! Oh, dimmi un poco, tu forse non avrai con te altri abiti che questi che hai indosso, non è vero? In ogni modo ti abbisogna un vestito di lutto.

- Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei uscir di casa.

- Leopoldo, - disse il tutore al palafreniere, - andate ad avvisare il mio sarto che venga qui subito.

- Il suo sarto? - domandò Leopoldo con ironia. - Il portinaio di casa...?

- Ma sì, ma sì, il mio sarto, - replicò don Ignazio, - ci vuol tanto? Andate.

Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava:

- Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei prezzi. Vedi quest'abito? - Così dicendo voltava al contino le spalle per mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle pieghe da tutte le parti. - Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene, indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere, bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma?

Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose:

- Caro il mio zio, non me ne intendo davvero,

- Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e rivoltare.

Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello.

- Saranno le mie donne, - disse il notaio. - Vedrai, vedrai anche la mia Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e donna.

Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue.

Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla messa.

 

*

* *

 

Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più, tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata.

I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da qualche tempo a considerare apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non l'avrebbe essa desiderato per marito?

Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là!

Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese d'Arco.

- Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene?

- Oh sì, - disse la Elisa, - come tutti, del resto.

La madre diede a sua figlia uno sguardo significante.

Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di invitare l'Enrico a pranzo.

- C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo.

- Non faceva però bisogno d'invitarlo, - rispose don Ignazio, - dove vuoi che vada a pranzare oggi se non è con noi?

- Aldo Rubieri, il bravo scultore? - domandò Enrico.

- Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari, - rispose il notaio.

- Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme - aveva sclamato intanto l'Elisa battendo le palme una contro l'altra.

Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato di nuovo lo sguardo severo di sua madre.

 

*

* *

 

- Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi sentimenti? - le diss'ella quando furono sole.

- Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che sono destinata ad essere la sua sposa?

- Certo - disse la madre - ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è necessario....

- Ch'io finga di non volergli bene? - interruppe l'Elisa.

- Non dico questo.... Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti.

- Ah, non troppo poi! - sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa - io ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè ne avrò venti.

- Oh! - sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta, - esse credono di esser già vecchie a venti anni!

 

*

* *

 

Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui.

- Tu sai come ti ha trattato tuo padre? - gli domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione.

Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose:

- Sì.

- E quali sono le tue intenzioni in proposito? - domandò il marchese con una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge sarai maggiorenne.

E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era ansioso.

- Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre, - rispose il giovane alzando la testa con molta naturalezza.

Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono. Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza.

A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di suo padre!

«Bisogna dire - pensò fra sè - che la cosa a Milano non sia creduta molto facile.»

Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento.

Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E s'ingannava!

A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una sanzione!

Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia.

- Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora discorriamo un poco del tuo avvenire - soggiunse egli col suo miglior sorriso.

Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto.

- Via Enrico - disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento - non rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita.

- Son qua, se lo crede necessario, - disse il giovinetto.

- Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita? - cominciò a bruciapelo don Ignazio.

- Quello che vorrò farne della mia vita? - ripetè Enrico - -ma credo che farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri.

- Gli altri, gli altri! - sclamò il tutore con una smorfia - chi sarebbero secondo te questi altri?

Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma dissimulando rispose:

- I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di collegio... non saprei io... quelli che conoscerò in società... per esempio, mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo... ti ricordi zio? precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio....

- Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un predicozzo sui cattivi compagni, però....

- Come! - interruppe Enrico - mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Santalbano sarebbero cattivi compagni?

- Non dico questo... non faccio il nome a nessuno io... parlo in generale. Ti basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e i quattrini in cavalli, in cene, in ball... in baldorie, in frascherie insomma, e che so io.

- Io non ho davvero queste intenzioni - disse Enrico seriamente. - In collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo che possa far onore al proprio paese.

- Tu mi consoli, caro Enrico - sclamò con giubilo don Ignazio. - Mi piace sentirti a parlare così dei Barnabiti!

Enrico sorrise.

- Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio.

- Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso, quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino a Milano....

- Come! come! Ti sbagli,

- Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me, caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi posti.

- Io viaggio sempre nei secondi.

- Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un compagno a cui bisogna li rimandi subito.

- Cominciamo male! - disse il tutore grattandosi in capo. - Dunque non hai più neppur un centesimo?

- Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui debbo un altro paio di franchi.

- Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della stazione.

- Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli.

- Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni.

- Sarà benissimo.

- E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione, che passa qui davanti alla porta.

Enrico cominciava sul serio a inquietarsi.

- Ti dicevo dunque - continuava il tutore - che per metterti nella società che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in tasca.

- Lo credo io!

- Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi pupilli. Quanto ti pare che ti dovrà abbisognare per le tue spese fuori di casa?

- Caro zio, ti ripeto che non ne so nulla. Potrei dirti troppo, potrei dirti troppo poco. Mi fido nella tua esperienza.

- Io sapevo che tu eri un bravo figliolo - sclamò il tutore tutto contento - noi andremo perfettamente d'accordo. Ebbene io avrei pensato che duemila franchi ti dovrebbero bastare....

- Ma anche di troppo! - sclamò ingenuamente Enrico battendo palma a palma. - Duemila franchi al mese sono un assegno principesco!

- Oh, Oh! Bagatelle! Come corri! Io m'intendevo dire duemila franchi all'anno.

- Ah! - sclamò il giovine mortificato - allora mi sembrano ben pochi!

- Perchè, diciamola qui fra noi; a che cosa ti devono servire questi benedetti denari fuori di casa? Ad essere buttati via in cose inutili, in cose da nulla, in sciocchezze, in frascherie. Un qualche capiler al caffè, quando tu voglia leggere i giornali, una qualche corsa in omnibus....

- Una qualche scampagnata cogli amici....

- Ah! le scampagnate, mio caro, costano troppo. E poi, adesso vedi, è diventato quasi inutile l'andar in campagna. Abbiamo il nostro bel giardino pubblico. Io ci vado spesso e talvolta mi par proprio di essere in Svizzera sulle Alpi.

- Oh, diamine! Ma, e il teatro?

- Se vorrai andar a teatro ti procurerò i biglietti pel Filodrammatico. Tutti i venerdì ci va anche mia moglie coll'Elisa.

- Sì? coll'Elisa? - disse vivamente Enrico. - Volontieri ne approfitterò.

- Io credo dunque che con duemila franchi all'anno, che sono per così dire sei franchi al giorno, tu potrai fare una bella figura in società e forse anche qualche risparmio.

- Risparmio! - sclamò il giovine - perchè dovrei fare dei risparmi? Mi fu detto che io potrò disporre di circa ventimila franchi all'anno. Mi pare che tu zio ci pensi ora già abbastanza a fare per me dei risparmi. Duemila all'anno mi paiono pochi davvero!

- Bene, facciamo cifra tonda: duecento franchi al mese - disse il tutore mordendosi le labbra. - Del resto, come dico, in casa troverai tutto ciò che ti sarà veramente necessario.

- Basta così - disse Enrico che cominciava oltre al resto ad annoiarsi fieramente di quel dialogo.

- E di cavalli ne sono rimasti in stalla? - domandò egli dopo breve pausa.

- Oh, no - rispose il tutore - l'Elisa e mia moglie avrebbero ben voluto che li tenessi, ma io ho pensato che sarebbero rimasti in scuderia a mangiar fieno e biada a tradimento.

- Il poney almeno m'avresti fatto proprio un gran regalo a conservarmelo, caro zio!

- Ma sei un benedetto ragazzo - rispose il tutore - non capisci che il poney, come dici tu, è stato quello che mi ha compensato delle perdite che ho dovuto fare sulle quattro rozze da tiro.

- Lo credo bene!

- Ieri sono stato io stesso a vederne uno che par fatto apposta per te.

- Tu zio, sei stato a veder un cavallo per me? - disse Enrico ridendo.

- Sì, perchè?

- È bello?

- Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi certo di portarglielo via per un tozzo di pane.

- A chi di grazia?

- Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di Milano. E nota che è a doppio uso.

- Chi, il sensale?

- No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella.

- Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io.

- Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per pagare i debiti.

- Ma è impossibile!

- Si può sapere il perchè?

- Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno di quella.

- Tutt'altro invece. Vedi come sbagli - sclamò il tutore credendo aver trovata una gran ragione in contrario. - Quel mio amico non si è mai rotto l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta.

Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta senz'accorgersi una minchioneria.

- Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti darmi il cavallo dell'Apocalisse? Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo Pio Trivulzio!

- Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi, - disse don Ignazio levandosi - Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima quindicina dei minuti piaceri.

- Cento franchi?

- Cento franchi.

- Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti crudele verso di me.

- Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni.

Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno appunto di quattro anni.

 

*

* *

 

Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e, cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita. L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli fosse capitato sulle spalle.

Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria?

Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango, obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal bel principio la strada al disastro?

Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati!

Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa.

- Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo? - sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia.

- Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione.

Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa.

- Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero.

- E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino.

- A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio.

- Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente...

- Bene lascia stare la genealogia!...

- Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio!

- Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te.

- Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di questo non c'è salute.

Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui.

- Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio.

- Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi.

- Ah sei stato a Parigi?

- Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto.

- Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava.

- Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una bellezza superlativa.

- Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico.

Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via.

- Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora.

Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora.

Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà....

Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme.

Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse:

- Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene?

- Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari....

«Ahi,» pensò Enrico.

- La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo.

- Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere....

- Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia.

- Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary.

- Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. - Comincerò col presentarti alla mia amorosa.

- Chi è?

- Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti.

- Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato - riprese facendosi serio ad un tratto.

L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto.

- Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale.

- Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne, come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più.

- E la ragazza è contenta che la si tratti così?

- Contentissima. L'abbiamo lanciata noi?

- Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è?

- Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa.

- E tu? - domandò il conte.

- Oh, io non mi lascio pigliare!

Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani.

- Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi.

Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa.

Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà.

- Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto.

A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon, dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza.

Fi donc!

E avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon, proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri:

«Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero?

«Italiani - aveva risposto il Sappia.»

E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto:

«Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata.»

Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora:

«Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche.»

La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon.

«Va, va, ma fille! - diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront

«Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient

Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria.

Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso.

Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo.

I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso.

La sorte aveva favorito il Marliani.

La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro.

Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous anche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto:

«No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?»

«Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me.»

«Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!»

Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte.

Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano.

La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare.

Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio.

Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia.

Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme.

Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati.

Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo.

 

*

* *

 

La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni.

Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro.

Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri.

Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino.

 

*

* *

 

Chi era la Luisa?

D'onde veniva?

Come aveva conosciuto il Sappia?

Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori.

Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta.

La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. «Un mestiere come un altro» diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo.

Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura.

Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità.

Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito.

- Che hai Gana? - domandò la madre.

- Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde.

- Che prezzo?

- Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia!

- Babbo! - fece la Luisa.

- Che vuoi, pettegola?

- È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo?

- Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto?

- Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina.

- Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar....

La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile.

Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre.

- Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente.

Non l'avesse mai detto!

Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa.

La madre svenne di spavento.

Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti.

Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione.

In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata.

 

*

* *

 

Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro.

Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza?

- Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so.

- Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî.

«Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere.»

- Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione?

- Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato.

- Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo.

- Cerca qualcun altro allora.

- A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere?

- Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola?

- In che modo buona figliola?

- Mettendoti ancora a lavorare!

- Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei.

- T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora?

- Oh, come lo sanno loro?

- Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero?

«Ho capito» - pensò fra sè la Luisa.

- Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna.

- Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza?

L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì.

Il delegato capì e non insistette.

- Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni?

- Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta.

- Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie.

- Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame.

- Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci?

- Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere?

- Questo ti riguarda, Arràngiati.

La Luisa continuava a far l'innocentina.

- Cosa vuol dire arràngiati?

- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me.

- Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora.

E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina.

- Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare?

- Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro.

- Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così!

Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria.

Essa c'era riuscita!

E infatti pensava lei a un dipresso: «È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa.»

La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute! Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame.

E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato!

 

*

* *

 

Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena.

Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi.

Quando le fu d'accosto:

- Centini mundi! - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo?

Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla?

La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza:

- Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto?

- Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo.

In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente.

In dialetto, monte e mondo, hanno lo stesso suono.

- Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano?

- Che vuole, cara Luisa! E lei?

- Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare.

- Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi! S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi.

- Me lo disse poc'anzi anche il...

Voleva dire il delegato, ma troncò la frase.

La vecchia però aveva già mangiata la foglia.

- Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù?

La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto.

- M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola.

- Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino.

- Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire.

- Un messere, centini mundi! Chi vuol che sia?

- Chi è desso?

- È un banchiere.

- Giovane?

- Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco.

- Quanti anni avrà, insomma?

- Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue.

- Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo!

- È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana.

- Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero!

- È capace di farle una posizione.

- Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore?

- Questo poi non lo so, perchè è ammogliato.

- Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora!

- Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il....

- Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica.

- Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo?

- In casa mia, se vuole.

- Lei sta ancora laggiù?

- Sì, cara.

- E quando?

- Magari domani. Il tempo di avvisarlo.

- A che ora?

- A mezzogiorno.

- Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei.

E si lasciarono.

 

*

* *

 

La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla.

Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto.

- Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta?

- Lei è ben curioso!

- Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa.

- Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo.

- Perchè non può darmelo?

- Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe?

- Che la curiosità è la madre della voglia di sapere.

- Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali?

- No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda?

- Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia....

- Bene, parlerò più facile. Come avete nome?

- Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi.

- Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile.

- Me l'hanno detto degli altri.

- E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso?

- Mi par bene che stiamo facendola....

- Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi.

- Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei.

- In casa sua dunque non ci si può venir davvero?

- Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo.

- E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta?

- Dove, per esempio?

- Non saprei.... All'Isola Bella.

- No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia.

- Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza.

- Come vuole.

Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia.

Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo.

Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno.

 

*

* *

 

- Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi?

- Davvero? Ciò mi rende orgogliosa!

- Naturalmente voi non siete ancora a quel punto....

- Oh, lo credo!

- Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama.

- Ho capito!

- Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria.

- Vuoi dire che li spendeva.

- Sicuro!

- Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle.

- Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà.

- Che non spende trentamila franchi al mese, però.

- Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi.

- Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano.

- Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi.

- Voi ci tenete ad essere solo?

- Perchè questa domanda?

- Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico....

- Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo

- Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, n'è vero?

- Neppur per sogno.

- Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto.

- Accettato.

- Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa.

E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico.

 

*

* *

 

Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna.

Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni, sera a persuaderla che bisognata dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en titre, l'altro lo spunta-pesi segreto.

Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore.

 

*

* *

 

- Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary.

E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte.

- Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò:

- T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume.

Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto.

La Luisa lo invitò a sederle accanto.

- Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne. Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova.

I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto.

- Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero?

- Ora torna dal campo.

- Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi.

- Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri.

- Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa.

- Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame.

- Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare?

- Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità.

E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary.

- Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete.

- Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata!

- Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. - Ecco i miei cinquanta franchi.

- Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa.

Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore.

- Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso.

«Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - «Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me.»

 

*

* *

 

Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso.

Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo.

La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa!

Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche!

A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero.

Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte.

Sappia gli andò vicino:

- Non fai conto di giuocare tu?

- Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere...

- Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa.

Enrico si fece tutto rosso in viso.

- Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto?

- Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino.

- Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo.

- Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo:

- Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora.

Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino?

Andò al tavolo verde.

 

*

* *

 

Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi.

La Romea gliene aveva beccati fuori la metà.

Sappia gliene prestò subito altri mille.

Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza.

A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola.

Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse:

- Mi pare ora di andarcene.

- Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata.

Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea,

Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime.

Il Sappia dovette scuoterlo più volte.

- Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea.

- Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti.

Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone:

- Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa.

- Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza...

«Buono a sapersi» pensò il Sappia fra se.

 

*

* *

 

Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più.

Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile.

A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi.

La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo.

Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura.

Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco.

Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco.

Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase:

- Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile!

Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore.

- Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra.

- Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese.

- Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa.

- Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton, non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me.

- Possibile?

- Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più.

E qui si mise a parlargli di tutt'altro.

Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato.

Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni.

- Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte?

- Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte.

Il marchese crollava il capo sorridendo.

- Ah, entusiaste!

- Non lo crede lei?

- Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni?

- Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...!

- Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo?

Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione.

Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto:

- Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare.

Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza.

Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne.

Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento.

Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di champagne, ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle.

Poi, con Sappia, ritornò a casa.

- Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri? Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri!

Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese.

- Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa?

- Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi.

- Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io!

- No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda, È meglio ch'io mi stia ai primi danni.

 

*

* *

 

Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna.

Il tutore non badava più all'Enrico.

Disperava di cambiargli la testa. «Chiudeva un occhio per non inquietarsi» come diceva lui.

Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore.

Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte.

Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto!

Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico.

Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese.

Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto.

Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia.

La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio.

Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli.

- Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi.

La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò:

- Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo?

 

*

* *

 

Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove.

Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno.

Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista.

Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno!

L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare.

 

*

* *

 

Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato?

Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

 

 

 





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