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Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi
Nanà a Milano

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  • III.
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III.

 

Sulla fine dell'ammirabile istoria naturale di quella sua Nanà, - della quale non amo credere esistano troppi esemplari nemmeno a Parigi - Emilio Zola racconta che arrivò un momento in cui la sua posizione a Parigi le divenne insoffribile. Sopraffatta dai fantasmi miserabili e cruenti della sua opera di ruina e di morte; trovando che il suo appartamento era divenuto troppo idiota e troppo ristretto, in urto col suo impresario, che la voleva troppo sfruttare, un bel giorno aveva venduto ogni cosa, ed era scomparsa senza dire me ne vado, neppure alle più intime amiche.

Scomparve così segretamente, che a Parigi, durante parecchi mesi, nessuno potè dire con sicurezza dov'ella fosse andata a finire.

«Nanà, - scrisse lo Zola - brusquement disparut; un nouveau plongeon, une fugue, une envolèe dans des pays baroques.

«Des mois se passèrent. On l'oubliait. Lorsque son nom, retenait parmi ces messieurs et ces dames, les plus étranges histoires circulaient; chacun donnait des reinseignements opposés et étonnants. Elle avait fait la conquête du viceroi d'Egypte, elle regnait au fond d'un palais.... Pas du tout! Elle s'était ruinée avec un grand Nègre, une sale passion qui la laissait sans une chemise. Quinze jours plus tard ce fut un étonnement; quelqu'un jurait l'avoir rencontrée en Russie. Une légende se formait; elle était la maîtresse d'un prince.... on parlait de ses diamants.

«Maintenant on la nommait sérieusement, avec le respect réveur de cette fortune faite chez les barbares.

Come capita spesso in queste cose, tutto ciò che si diceva a Parigi di Nanà scomparsa, conteneva qualche poco di vero e conteneva assaissimo di falso.

Ella non era andata al Cairo e non era ancora stata in Russia. Ella non regnava menomamente in fondo di un palazzo saraceno; ella non s'era innamorata pazzamente di un gran Negro, che l'avrebbe lasciata senza neppur una camicia.

Era però vero all'incontro ch'ella s'era incapricciata di un grande biondo, incontrato a Montecarlo, dove s'era lasciata alleggerire un poco dei seicentomila franchi ricavati dalla vendita dei mobili fatta a Parigi.

Sarebbe arduo assai l'affermare in quale giorno preciso Nanà sia entrata in Italia da Marsiglia, dov'ella era andata direttamente partendo da Parigi. A Marsiglia un giorno s'erano perdute le traccie di lei e la cronologia stessa non ci è venuta in soccorso. Nulla toglie adunque, che prima di comparire alle Cascine di Firenze, un bel giorno di maggio del 1869, ella avesse fatto davvero una corsa nei paesi barocchi, come disse lo Zola. Chi lo sa? Certo è che prima di entrare nella classica terra delle arti, della musica e dei fiori, ella aveva arrischiata come dicemmo una gita a Monaco, dove aveva trovato chi le aveva fatto mutare itinerario.

E allora ella era stata presa da una grande curiosità di vedere questa Firenze e questa Milano di cui aveva inteso parlare qualche volta da suoi amici di Parigi, i quali non c'erano mai stati.

L'indubitato si è che ai primi di maggio del 1869, Nanà arrivò sola a Firenze, dove si mise a spendere e a spandere come la moglie d'un nabab, seguendo certi nuovi capricci della sua vita sfrenata e avventurosa.

Il soggiorno di Nanà a Firenze si lega strettamente ad uno dei periodi più funesti e più interessante dell'istoria sociale ed economica d'Italia. Esso non potrebbe essere tralasciato nella storia di Nanà, la quale prese una parte abbastanza viva nel guazzabuglio di quell'epoca, ancora oggi tutta piena di curiosi misteri per gli ingenui e per i moderati.

 

*

* *

 

Certo non è nostra intenzione di rimestare politicamente il fango della Regia Cointeressata. Noi non scriviamo un periodo di storia contemporanea, ma siamo pur tenuti a dirne quel tanto che basti a quei lettori, a cui ora sorride la più bella età della vita ed erano allora spensierati adolescenti. Questi non possono avere idea di quell'incredibile avvenimento, sul quale con molta generosità i liberali hanno steso un velo pietoso di oblio. Esso servirà a mostrar chiaro come luce di sole una verità fin d'allora soffocata nel silenzio, negata con albagia anche oggi da chi l'ha negata allora, e nella quale la bellissima Nanà avrebbe potuto dire una parola molto persuadente.

 

*

* *

 

Nei giorni in cui Nanà arrivava a Firenze un temporale si addensava mormoreggiando sull'orizzonte. Un vergognoso segreto - da pochi saputo e dissimulato gelosamente alle turbe - gettava gli animi, schiettamente innamorati del loro paese e della monarchia, nella sfiducia e nello schifo della vita pubblica.

Si cominciava appena appena a dimenticare la strage di Mentana; i prudenti, gli addormentatori ripigliavano a cantare la nina nanna alle aspirazioni verso Roma e domandavano con una convinzione profonda e sincera che cosa ci avessero mai guadagnato quei poveri figliuoli, che erano rimasti sul campo sotto le palle dei chassepots di Francia.

Nanà francese adunque non giungeva certo a Firenze in buon punto, se ella fosse stata una donna portata a conoscere i rompicolli e i liberali. Fortunatamente per lei, mentre i rompicolli, feriti, perseguitati, nascosti scontavano la pena delle loro impazienze e della loro piccola fede nei mezzi morali, la mania degli affaristi e le orgie dell'agiotaggio erano al colmo. I giornali onesti in que' giorni non parlavano che di crisi, di carrozzini, di apostasie, di coscienze vendute, di tradimenti, di debiti non pagati, e di altre cose molto concludenti per la felicità e per la grandezza della patria.

Il ministero era in quel tempo un sinedrio eteroclito e pazzo di personaggi spostati, ripugnanti fra loro ed assurdi; un cibreo, un baragozzo, una mascherata degna di giovedì grasso. Oggi ancora, chiunque con animo pacato si volge a giudicare quel ministero colla indifferenza filosofica di chi è sfuggito al danno e alla vergogna, non può far a meno che sentir nell'animo una grande amarezza mista a una compassione badiale. Quel ministero, di cui non si darà forse più l'eguale, era formato da un generale devoto a Santa Caterina, da un avvocato permanente, da un democratico rifatto, da un conte fallito, da un prodittatore di Garibaldi a spasso, da un impiegato della Gresham e da un marinaio che ne sapeva di politica come un ippopotamo.

A compiere la baraonda eterogenea s'era trovato perfino un eterno bimbo, il quale aveva accettato il portafogli di agricoltura e commercio da lui e da suoi amici, spesse volte dichiarato inutile e degno di abolizione.

La ragione di tanto aborto stava in parecchie cause segrete e complesse, alcune d'ordine politico, altre d'ordine finanziario.

Alle prime, ho già accennato; alle seconde vengo ora.

Tre o quattro giorni dopo l'arrivo di Nanà a Firenze, ella, nella sua vittoria a due cavalli, s'era incontrata alle Cascine col phaeton d'un personaggio, il quale, alla vista della cocotte parigina, s'era levato a sedere curiosamente e l'aveva seguita collo sguardo fino a perdita di vista.

La mattina seguente, a Nanà, che stava alla sua teletta, fu recato dal cameriere dell'albergo un biglietto di visita.

Lesse: Il cav. Bonaventuri, con quel che segue.

«C'è cascato!» pensò Nanà, e disse al cameriere di lasciar entrare la visita.

Il cav. Bonaventuri era un aiutante... di alcova. È assolutamente inutile, che noi ripetiamo qui il dialogo che accadde fra Nanà e quel signore, nè le proposte e le accettazioni che ne seguirono sotto il suggello del più alto segreto.

Il fatto è che il gran personaggio, dopo quindici giorni che conosceva Nanà, si trovò di essere più che mai in estremo bisogno di danaro.

A chi si sarebbe egli rivolto se non al conte di Schifanoja, ministro delle finanze, che, come Marco Minghetti, aveva accettato il portafogli per ispirito di annegazione?

L'incontro di Nanà alle Cascine aveva fatto traboccare nel personaggio la necessità di ottener una somma da un banchiere compiacente. E giacchè si doveva pensar al rimedio, si voleva che fosse radicale. Il bisogno era vecchio, ma Nanà gli dava l'ultima spinta; la domanda insistente cominciò a diventare un aculeo potente nelle costole del ministro delle finanze.

Fu allora che il conte di Schifanoja venne autorizzato dalla Camera ad emettere in favore della Regia Cointeressata dei Tabacchi tante obbligazioni quante ne occorrevano, perchè entrassero nelle casse dello Stato cento ottanta milioni.

Ora avvenne che lo Schifanoja ne emettesse invece per duecento sette milioni; e allora ci fu chi cominciò a domandare dove mai fossero andati a finire i milioni che crescevano.

Nanà avrebbe saputo fin d'allora dirne qualche cosa.

Di lì a qualche tempo avvenne un fatto che gettò nel pubblico italiano un nuovo lievito di curiosità e aumentò i misteri di quella nuova Elensi. Fu uno scandaloso e inesplicabile voltamento di giubba. Un onorevole, fra i più baldi campioni di democrazia, un pubblicista che aveva passata la sua vita a dir male di Dio e dei santi, della corte e dei cortigiani, del sistema monarchico e di chi ne fa le spese, a un tratto, senza una scusa al mondo, senza ragione apparente, senza un appiglio palese, si era dato piedi e mani legate in balìa dei conservatori e dai banchi di estrema sinistra era passato con armi e bagaglio a sedersi in quelli da lui per sì lungo tempo vituperati.

Allora ci fu anche chi stette perplesso se più meritasse disprezzo il disertore o quei vigliacchi che lo accoglievano a braccia aperte dopo aver ricevuto da lui tanti schiaffi.

Ma i conservatori facevano il loro mestiere; il disertore invece appariva tre volte infame. Della fede lungamente ed efficacemente espressa da parecchi anni in molti giornali egli aveva fatto getto in un giorno solo; e con una disinvoltura ineffabile aveva compiuto uno dei più spudorati voltafaccia di cui s'abbia mai avuto esempio negli annali dei Parlamenti di questo mondo.

Costui era stato presentato a Nanà pochi giorni prima, e con lei aveva complottato molte cose.

Quella incredibile apostasia trovò un mondo di commentatori e di detrattori. Chi la scusava erano i nuovi amici della giubba voltata. «Imparino i signori democratici - dicevano essi - a trattare come trattano i loro uomini di merito!»

Ma tutta la gente onesta e senza ambizioni politiche provò per quel traditore uno sterminato disprezzo. Chiunque sa che cosa sia la nausea che nasce nel vedere, per esempio, degli ingordi invitati far a pugni per giungere a dare il sacco a un buffè, oppure nel veder un giovinetto povero ma aitante vivere alle spalle di una vecchia grima può farsi oggi un'idea del sentimento disgustoso die suscitò in Italia il voltafaccia di quel miserabile deputato.

Il mistero aumentava. La coscienza pubblica protestava, ruggiva, cercava la luce. A Firenze già parecchi segnavano a dito Nanà colla quale qualche volta il deputato traditore si mostrava in pubblico. Si voleva sapere come potesse accadere che ella già rovinata dalla roulette di Montecarlo pure spendesse dieci o dodici mila franchi al mese e il perchè, lui, il giubbarivolta, dopo avere per molti anni gridato contro il sistema di governo consorte e i carrozzini, si fosse di repente fatto sostenitore, oratore, paladino e complice di quelle brutte cose.

Allora venne proposta alla Camera una inchiesta parlamentare.

Veramente una inchiesta, fatta in mezzo a della gente, che a grande maggioranza non voleva saperne e che non dissimulava punto l'agonia in cui la si trovava a sentir menzionare quella fatale parola, che già una volta aveva macchiato in fronte il partito - non parve agli Italiani il mezzo più efficace per venir a capo di qualche cosa. Ma questa - si potrebbe ripetere col Manzoni - è una di quelle sottigliezze metafisiche a cui non si arriva facilmente.

Si capiva già prima che l'inchiesta si aprisse che ben poco sugo se ne avrebbe potuto cavare. La maggioranza aveva interesse a conservare il buio, e avrebbe fatto ogni sforzo per salvare i ladri. Che i milioni di messer di Schifanoja mancassero al conto tutti lo sapevano; dove fossero andati a finire, molti lo sospettavano, ma ben pochi lo dicevano perchè si andava anche a rischio di farsi far un brutto tiro. E i giorni passarono, e Nanà aumentava il suo lusso, le sue stranezze e le sue prodigalità.

Quanto alla giubba voltata, la sua condotta ormai interessava ben pochi. Era desso un voto comperato per far passare quel benedetto carrozzino della Regia cointeressata dei tabacchi? Chi non lo vedeva? Ma si diceva. Credete forse che l'inchiesta - ancorchè si faccia - metterà in sodo il mercato di quella coscienza? Neppur per sogno. I rei son tutti d'accordo e sono i più. Anche quelli che non son ladri davvero, non vorranno tradire i consorti che lo sono. Dove mai trovar delle prove? Non si lasciano fuori le prove di tali brutture. Tutt'al più ci saranno degli indizi; ma che cosa provano gli indizi per chi non li vuoi calcolare?

Questi e altrettali erano i ragionamenti della gente liberale e disinteressata.

Nondimeno gli amici della giubba voltata - che nomavasi il sor Civinini - fecero degli sforzi sovrumani perchè l'inchiesta non avesse luogo, perchè non si tentasse neppure di fare uno spiraglio di luce, e si mettesse tutto nel dimenticatoio. I Burgravi italiani hanno nel sangue quella stessa annegazione che fece dire alla vecchia guardia di Napoleone: «la garde meurt mais elle ne se rend pas

Ciò che essi fecero per scongiurare la vergogna dal capo della giubba voltata e da' suoi complici di cui si sussurravano i nomi alla sordina supera ogni umano credere. E con quanta annegazione si mettessero in questo còmpito, con quanto coraggio adempissero il loro vergognoso mandato, con quanto accanimento combattessero allo scopo di impedire si stenebrasse il laido mistero, basterà a capirlo quando si pensi, che allorchè ricacciati fin negli ultimi baluardi furono costretti ad accettar la inchiesta, perchè non accadesse di peggio, indovinate chi accettò di esserne il presidente?

Incredibile a credersi!

Incredibile a riferirsi!

Fu l'onorevole che nella Camera parlò più di tutti per farla abortire, fu lo stesso avvocato ufficioso del voltacasacca, uno sfregiato napoletano; fu l'uomo che aveva dichiarato pubblicamente essere la inchiesta una pazzia, un delitto, un obbrobrio; fu colui che le aveva dato contro il voto di biasimo più fiero e più solenne.

Nella storia parlamentare del mondo intero non crediamo che ci sia un'altra nota di infamia pari a codesta, che la Consorteria non ebbe riguardo di lasciar scrivere sul libro nero delle sue brutture.

L'incarico di nominare i commissarî della inchiesta era stato lasciato all'onorevole presidente della Camera. Dovere di imparzialità, rispetto di sè stesso, riguardo alla carica, deferenza verso i colleghi avrebbero imposto a costui di nominare a commissarî uomini indipendenti, spregiudicati, fuor di ogni sospetto e non coinvolti nella turpe lega!

E sopratutto una volta decisa l'inchiesta, la imparzialità ed il buon senso gli avrebbero dovuto imporre il dovere di far sì che la fossa fatta al più presto possibile.

Per ottemperare a questi due doveri, il presidente della Camera, avvocato Mari, nominò a commissarî dell'inchiesta quelli fra i deputati che si erano mostrati i più accaniti avversarî di essa, e perchè poi la venisse definita più prestamente, nominò due assenti e di ignota dimora.

 

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* *

 

Stavano così le cose quando si cominciò a spargere a Firenze la voce che due deputati, appartenenti alla camarilla degli affaristi, fossero stati colti colla mano nel sacco, dai democratici. Si parlava d'una certa lettera intercettata da questi, in cui ci era la confessione esplicita del furto di que' bricconi; si citavano certe frasi di essa, che se fossero state vere, pareva allora, avrebbero dovuto far sprofondare l'autore, il cognato, la Camera, il sistema costituzionale, la monarchia e tutti quanti.

Ma siccome nessuno aveva veduta questa lettera di cui pochissimi parlavano segretamente, da tutti si cominciava a gridar: calunnia, calunnia.

Quand'ecco un bel mattino un giornale coraggioso di Firenze rende di pubblica ragione quella lettera, e in tutta Italia si ripete una frase incredibile di essa: facciamo quattrini colle immancabili speculazioni! e tutti i fogli liberali la commentano e lo scandalo si diffonde, si fa colossale, enorme, incredibile, e si chiede ad altissime grida che l'inchiesta parlamentare sia fatta immantinente.

E qui cominciò per l'Italia una iliade di vergogne tali che la penna istessa par si sdegni dallo scriverle.

Fu allora che Nanà intorno a cui la voce pubblica mormorava sempre più feroce, un bel giorno fu pregata di levarsi da Firenze e di cercare fortuna in altri lidi.

 

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* *

 

Essa arrivò dunque a Milano, da Firenze, quasi rovinata, un po' indisposta, un po' dimagrata, cogli occhi leggermente cerchiati, ma sempre bellissima, più bella forse che mai, giacchè quell'aria sofferente dava un nuovo risalto alla sua fisonomia e alla sua taglia, prima forse un po' troppo rotonda, troppo sensuale, troppo soddisfatta.

Essa non era più la cortigiana di Parigi. Essa aveva modificati immensamente i suoi slanci, le sue voglie, le sue idee. S'era moralmente e fisicamente mutata nella nuova vita di Firenze. E non poteva essere altrimenti. Una frase di Zola fa chiaramente presentire questa trasformazione. Il grande realista, come se avesse presentito che un Italiano avrebbe risuscitato questa donna in un nuovo ambiente per ripresentarla vivente a' proprî lettori, dice espressamente che essa già fin da Parigi sognava una vita diversa, qualche cosa di nuovo, qualche cosa di meglio.

«Elle revait quelque chose de mieux.»

Ma questo meglio l'aveva dessa ben definito nella sua testa, o non era piuttosto che un'aspirazione vaga, un desiderio indistinto?

Aveva dessa un progetto già pronto prima della sua partenza da Parigi nel suo cervello da enfant gatè, oppure ella si cullava in un nuovo sogno dorato colla arditezza sovrana di una donna che conosce la sua potente irresistibilità?

Eccola nel coupè tutta sola, che la porta da Firenze a Milano.

«Anche questa illusione è svanita - pensava. Oh, i grandi della terra come sono instabili nelle loro simpatie! Non pensiamoci più.»

Allora la sua fantasia tornò a Parigi e alla vita di pochi mesi prima.

«Addio, mio bel Parigi! Forse ti rivedrò presto! Per ora resta dove sei, maledetta città!»

Fa questo un affettuoso addio alla patria, come disse il Manzoni.

Ella si trovava sola, finalmente; cosa che non le era quasi mai capitato di sua vita. Sola, coll'amica più cara del suo cuore, sola colla creatura più idolatrata che avesse al mondo: sola con sè stessa.

La felicità che provò nelle prime ore del suo viaggio fu schietta e piena di sconosciuti incanti. Essa rideva forte da sè, come un fanciullo, mandava dei piccoli gridi di gioia, si agitava sul sedile e correva ora di qua, ora di là agli sportelli, si fregava le mani convulsivamente e stirava la persona, socchiudendo gli occhi con voluttà, come se le fosse capitata una grande fortuna.

Ed era stata, si può dire invece, messa alla porta da chi ella credeva di aver soggiogato per sempre!

Chi l'avrebbe capita in quel punto? Eppure ella tripudiava di sentirsi libera, d'essere uscita da una nuova pozzanghera, di non avere più intorno a sè della gente antipatica.

Si riadagiò nel canto del vagone cogli occhi fissati nel nulla, e cominciò a pensare... a pensare...

A che cosa?

Alla vita a cui andava incontro a Milano. All'ignoto.

La fantasticheria durò parecchie ore, e fu feconda di un'idea nuovissima in lei, insospettata sino allora, incredibile, che la colpì a un tratto, come una rivelazione dall'alto.

Quand'essa si trovò sola, come uno schifo abbandonato in mezzo all'Oceano, quando il cinismo e la depravazione di Parigi e della provvisoria italiana ebbero cessato di agire come un influsso sui di lei nervi, sui di lei appetiti, sulle di lei passioni; quando non avendo più occasione di confidarsi agli adoratori, alle amiche, ai lenoni, fu obbligata di rientrar in sè stessa, di ascoltarsi, di frugare nei ripostigli più segreti del suo cuore inesplorato, ella sentì con non poca sorpresa sorgere in cuore un desiderio, un'idea, che fino allora le era sempre sembrata molto barocca ed assurda, ed alla quale aveva date tante volte la baia quand'erano gli altri che gliela proponevano.

Il lettore ha capito.

Le offerte di matrimonio fattele tante volte a Parigi ora portavano il loro postumo frutto.

Nanà era stata assalita ad un tratto dalle idee di faire une fin, di maritarsi con qualche ricco milanese, per vivere tranquilla e riabilitata agli occhi del mondo. Poco a poco quest'idea, che le era entrata in testa senza saper d'onde le fosse venuta, la invadeva tutta e faceva un cammino enorme nel suo cervello e l'avviluppava tutta in una specie di felicità, di cui non aveva gustato mai fino allora neppur il sospetto.

«Sì - pensava - io voglio, tornando a Parigi, che si dica, ecco la signora contessa di... quel che sarà, oppure, ecco la principessa di San... qualche cosa. Quel mio povero Mufe come sarà dannato quando lo saprà. E Satin dunque? E tutte quelle bougresses di mie amiche, come creperanno di gelosia e di rabbia quando mi vedranno sdraiata in un landau a fianco di mio marito, e sullo sportello tanto di blasone vero ed autentico!

A questi pensieri, in cui splendeva la bontà cristiana di quel cuore di donna parigina, ella sentì dei fremiti di felicità inarrivabile.

Poi fa assalita da un certo scoraggiamento.

«Maritata! Ma e poi? - pensava - Se mio marito fosse geloso? Se esigesse che io mi conservassi casta e tutta per lui?

Nanà si conosceva. Ella sapeva bene che di quando la sua natura ardente, le sue lubriche tendenze, i suoi capricci di donna dissoluta, avrebbero preso il sopravvento e le avrebbero fatto commettere dei famosi scarti.

Ma allora promise di cuore a sè stessa di essere se non casta almeno cauta, nè più nè meno di un buon curato di campagna. E dopo questa specie di giuramento si trovò la coscienza soddisfatta, incantata di sè stessa e circondata da una gioia viva e di buon augurio.

 

*

* *

 

Poco dopo tornava in campo qualche dubbio.

«Ma troverò a Milano l'uomo che mi conviene ora che sono io a desiderarlo? Egli vorrà conoscere il mio passato... vorrà sapere... scrutare. E se qui in questa capital morale d'Italia, come ho sentito dire, non trovassi nessuno che s'innamorasse di me al punto da farmi la proposta, che laggiù a Parigi tutti mi ripetevano?...»

Stette a pensare mestamente; poi soggiunse parlando fra sè ad alta voce:

«E me la fecero tanto seriamente, che si uccisero quand'io negai! È orribile! Bisogna che io vendichi l'ombra di quel povero Giorgio, che mi amava in quel modo! È impossibile che io non faccia il solito effetto su... codesti Milanesi... per quanto m'abbiano detto che sono seri egoisti e scorbellati. Noi vedremo.»

Quel nous verrons fu una specie di sfida alla gioventù dorata di Milano. I moti di modestia che talvolta sorgevano in Nanà finivano sempre con una sfida all'insensibilità mascolina. Ella si trovava tosto assai stupida e assai stupita di avere potuto concepire un dubbio sulla propria irresistibilità e mostrava immantinenti la nuova certezza nelle proprie forze conquistatrici, con un sorriso leggiadriasimo, in cui c'entrava però un poco d'amarezza e una gran dose di fatuità. Ella aveva sempre - e a ragione - una grandissima stima delle proprie attrattive e della flessibilità prodigiosa de' suoi mezzi uccellatori; ella si rammentava quante volte a Parigi degli uomini seri che pur conoscevano la sua origine bassa, e le sue pazzie sfrenate, e la sua vita vergognosa, si erano rotolati a' suoi piedi supplicanti, a mani giunte, per chiederle la mano di sposa... e si teneva certa di far il suo partito a Milano.

L'idea di accasarsi nobilmente, la speranza di poter entrare nel gran mondo, il pensiero di trattar al tu per tu le dame che l'avevano tanto disprezzata, la soggiogavano. Le difficoltà stesse ch'ella prevedeva dovessero insorgere per giungere alla stretta dei nodi, aguzzavano smisuratamente quel suo nuovo desiderio e gli davano una spinta poderosa. Ella stessa si maravigliava, a certi punti, di trovarsi così salda in un proposito e di scoprire ancora in sè stessa, tanto lievito di volontà, di speranza e di entusiasmo.

 

*

* *

 

Giunta a Milano di notte, Nanà senza aver pensato a farsi dare a Firenze una indicazione di albergo, disse al cocchiere del calesse di condurla al primo hôtel, al più chic!

- E i bauli? - domandò questi.

- Li manderemo a prender domani! Sono dieciotto!

Il cocchiere naturalmente la condusse all'albergo della Ville.

Ora avvenne che seduti agli ultimi due tavolini del caffè dell'Europa, verso la porta dell'albergo, si trovassero in quel punto Enrico O'Stiary e il marchese Sappia, che eran usciti in quel punto dalla Luisa e pigliavano un grog. Un po' discosto da loro Ernesto Cantis, il giovane di avvocato, beveva una birra.

O'Stiary e Cantis videro prima passar dinanzi nel calesse Nanà, poi videro il legno arrestarsi lì accanto all'albergo. Il conte mandò una piccola esclamazione, che fè volger il capo al Sappia. Ma il Sappia, lì per lì, non ravvisò nella bella viaggiatrice la donna, che tre anni prima egli aveva con tanta ansia aspettata invano per tanto tempo, dalla Tricon! Il Sappia aveva la luce delle lanterne negli occhi e non poteva veder bene nelle tenebre. Ma O'Stiary e Cantis, che la luce l'avevano a ridosso, scorsero abbastanza per restarne molto colpiti entrambi. Era l'effetto che faceva sempre Nanà a chi la vedeva per la prima volta.

Fu allora che Nanà per discendere dal legno mentre allungava sulla predella il suo piedino, quale a Milano se ne vedono di rado, scoccò senz'accorgersi un'occhiata curiosa, che parve assassina, e scomparve nella porta della Ville accompagnata dal guarda portone che era venuto ad aprirle lo sportello.

Cantis balzato in piedi era andato dinanzi alla porta dell'albergo e aveva accompagnata Nanà fin sotto il portico, collo sguardo; e gli era parso, al poverino, di vedere che la bellissima sconosciuta si fosse voltata indietro quasi a salutarlo di nuovo prima di montar le scale.

Quella notte aveva creduto bene non di dormire un solo minuto.

Una ventina di giorni dopo, il Cantis aveva riveduta Nanà al teatro Milanese.

Figuratevi come restasse poi quando il giorno appresso la vide venir dal suo avvocato.

Egli le aveva scritta la lettera famosa!

Anche Enrico era rimasto assai colpito della bellezza della sconosciuta viaggiatrice e il giorno dopo era ritornato alla Ville a chiederne notizia; aveva saputo il di lei vero nome e cognome e l'aveva riveduta al balcone dell'albergo più bella e più elegante che mai.

 

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* *

 

Lo credereste?

Dopo pochi giorni di residenza a Milano, Nanà si accorse senza grande maraviglia, d'essere già desiderata alla follia e contemporaneamente da nove persone molto diverse fra loro di età e di condizione: dal pubescente liceista al vecchio libertino di sessant'anni, dal signor conte di vieille roche, al galloppino dell'albergo che le serviva il pranzo, dal banchiere milionario al parrucchiere che la pettinava ogni mattina.

Nove dichiarazioni, delle quali otto in iscritto, ed una col mezzo d'un paraninfo e tutte nello stesso giorno, e in venerdì, era proprio la prima volta che le capitavano!

A Parigi non le era mai successa una cosa simile.

«C'est l'embarras des richesses» pensò Nanà.

Essa non potè a meno di riderne.

Tanto più che in ciascuna di esse Nanà scoprì un certo non so che, da doverle trovare eccessivamente strane. Quelle nove proteste di amore, o piuttosto di desiderio, che per combinazione le giungevano in frotta come una volata di passeri, e in venerdì per giunta, erano tutte impregnate dalla più deplorabile fatuità.

Ella si accorgeva che quei nove individui nutrivano già in cuor loro una grande speranza di essere corrisposti e subito; dalla loro protesta d'amore trapelava una certa persuasione di esserle già molto simpatici. Nessuno naturalmente le aveva scritto o detto o lasciato capire chiaramente una tanta immodestia, ma la trapelava, ed essa la subodorava in tutti. Quei nove - non uno eccettuato - alludevano o parlavano chiaramente di una certa sua maniera di guardarli... di una certa sua occhiata assassina... ah, quell'occhiata! Mio Dio! chi non darebbe la vita per una simile occhiata?

Nanà aveva un bel rammentarsi le proprie occhiate non giungeva a raccappezzarne una sola che avesse voluto dire qualche cosa di serio. In sostanza però, ella doveva persuadersi che que' suoi nove adoratori credevano tutti di essere stati quasi invitati, accalappiati, fulminati da una di lei occhiata.

Ed essa sapeva di non averne data neppure una sola da cui spirasse, o che potesse ispirare la benchè minima simpatia.

Questo fenomeno a dir vero non era la prima volta che capitava a Nanà.

Ma sopra nove persone, in un colpo solo, le pareva proprio un po' troppo!

«Bisogna dire che a Milano le donne abbiano lo sguardo delle Arpie quando fissano gli uomini» pensò Nanà.

Le sventure passate, il rimorso e la superstizione le avevano messo nella guardatura e nel muovere delle pupille una particolarità degna di attenzione. Que' suoi occhi, più grandi del vero, a prima vista parevano supplicanti e desiosi.

Voi credevate in buona fede che ella vi avesse fissato in quel modo, perchè la vi trovasse bello o piacente, perchè la vi desiderasse, perchè forse... oh Dio! già segretamente la fosse presa delle vostre fattezze. E allora mille fuochi e speranze avvampavano o scattavano nel vostro interno. Avvampavano se avevate il temperamento sulfureo, scattavano se lo avevate fatto a molla.

Ebbene?

Quand'essa distaccava da voi lentamente le sue pupille, se voi eravate filosofo, se nello sguardo altrui sapevate discernere il vero sentimento che lo ispirava, vi sareste accorto che ella, non che fissarvi, nè desiderarvi, nè amarvi già in segreto, non la vi aveva nemmanco notato, non la si era neppure accorta di voi, non la vi aveva veduto passare che tampoco.

Nanà non aveva sguardi che vedessero davvero, se non per le cose che appetiva o per le persone che odiava.

Non parlo di quelle che essa amava, per una ragione semplicissima.

Che ella, come non aveva amato mai davvero, così non amava nessuno ancora.

Fontan lo aveva subito più che amato. Era stato piuttosto un bestiale istinto che una pena di cuore la sua.

All'oggetto desiderato o alla persona odiata nessuna creatura al mondo sapeva guardare meglio di Nanà. Ma gli indifferenti? Essa non li vedeva. I suoi occhi difficilmente si occupavano del mondo esteriore, se non per raccogliere alla sfuggita e all'ingrosso i taciti omaggi dei passanti. L'orgasmo continuo e febbrile della sua ambizione non le permetteva di discernere se non quello che premeva a' suoi istinti felini di donna e alla sua smisurata vanità.

Nanà ormai guardava più spesso all'indentro di sè stessa che non al di fuori. Le imagini sanguinose, i fantasmi della sua vita passata non erano scomparsi mai dalla sua fantasia. Essa portava con sè la catena d'un rimorso non vivo, nè salutare certamente, ma molesto e perenne. Talchè giammai quella sua plastica bellezza era stata così pericolosa e più procace!

 

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Una delle otto lettere d'amore noi la conosciamo già. Nanà l'aveva trovata nel manicotto uscendo dall'avvocato Delguasto, dov'era andata a consulto, per una certa coda di processo ch'è inutile richiamare in questo punto.

Nanà ebbe un bel domandare a sè stessa come mai quella lettera avesse potuto capitare nel suo manicotto, e non trovò la risposta. Ella non s'era nemmeno accorta di Ernesto Cantis, non l'aveva veduto, o per meglio dire, non l'aveva osservato. E lui credeva, il povero ragazzo, ch'ella nutrisse già per lui una segreta simpatia!

 

 

 





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