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Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi
Nanà a Milano

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  • VII.
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VII.

 

Fra le otto dichiarazioni d'amore, ricevute da Nanà quel tale venerdì, non ce ne furono che due fortunate e degne di risposta: quella del Marliani e quella del conte Enrico O' Stiary.

A lui Nanà rispose così:

 

«Signore,

 

«Voi desiderate essermi presentato? Io straniera, libera di me stessa, venuta in questa vostra bella Italia per dimorarvi forse a lungo, trovandovi un'aria confacente alla mia salute e al mio appetito, sul punto di rimettermi al teatro, avrei cattiva grazia se rifiutassi l'onore di fare la vostra conoscenza.

«Avendo stabilito adunque di riunire in casa mia i signori ai quali fui raccomandata e che ebbi il bene di conoscere in questi giorni di mia residenza in Milano, vi esprimo il piacere, signor conte, che avrei di vedervi da me a pranzo domani, sabato, alle sei e mezza, nel mio nuovo alloggio di Via Rastrelli.

«Teresa.»

 

*

* *

 

Fu uno de' non meno strani capricci da cocotte parigina codesto, di vedere riuniti a tavola tutti i suoi adoratori di Milano. - Anzi ella spinse il capriccio fino a trovar modo di averci presente anche uno dei non presentabili, il cameriere dell'albergo, che l'aveva servita a tavola ne' primi giorni, il quale, come già dissi, le aveva confessato, che se ella gli avesse comandato di buttarsi giù dalla finestra, le avrebbe obbedito sull'istante. Lo volle presente anche lui, e lo chiese in prestito all'albergatore per servire la tavola.

Nanà si riprometteva da quello spettacolo un gran divertimento tutto intimo. S'imaginava che nessuno di quegli otto o dieci signori sapesse dell'amore dell'altro, e godeva di vedere che muso si sarebbero fatto reciprocamente. Si ricordava della famosa cena data a Parigi, per festeggiare il successo delle Varietès, e contando sulle dita gl'innamorati presenti allora, trovò che a Milano erano aumentati di numero.

Il pretesto per quell'invito era trovato. Ella voleva posarsi come artista della Compagnia Blanche et Babil. Dopo pranzo, ella avrebbe cantati dei couplets e avrebbe fatta una scena a monologo per mostrar al direttore della Compagnia francese, che ella non era un'oca, come pur qualcuno insolente le aveva detto a Parigi.

Era dunque necessario un pubblico.

Quale pubblico migliore di coloro che le avevano già protestato ammirazione ed amore?

Il difficile era d'invitare i quattro spasimanti che non conosceva ancora. Ella non voleva disseminare in Milano i poulets. Le convenienze del resto non erano il forte di Nanà. Ad un'artista, dopo tutto, le eccentricità stanno così bene! Quanto più ella avesse fatte le cose fuor delle regole, tanto più ell'era certa di farsi della rèclame.

«Incaricherò quelli che conosco già, di invitare i quattro che non conosco ancora» pensò dessa. Dirò che un redattore del Figaro ed altri miei amici di Parigi mi hanno dato delle lettere di raccomandazione presso questi signori; che a me secca di andarli a trovare, ma che desiderando pure di essere a loro raccomandata, per non far torto a' miei amici di Parigi, li invito a pranzo. Così raggiungo il mio scopo e faccio buona figura.»

Andò ella stessa ad invitare madame Blanche. Questa le domandò:

- Ci saranno altre signore?

- Finora non potrei dirvi altra signora che la mia padrona di casa... una vedova coll'amante - rispose Nanà. - Io non conosco altre donne a Milano. Voi ne conoscete?

- Se volete, vi presenterò la prima amorosa e la grande coquette prémièr rôle.

Nanà accettò e invitò a pranzo anche la prima amorosa e la grande coquette prémièr rôle.

 

*

* *

 

Aldo Rubieri e Sappia, a cui s'indirizzò pe' primi, si schermirono di fare degli inviti per lei. Essi non conoscevano nessuno dei quattro signori che Nanà aveva loro nominati.

Allora ella mise tutto sulle spalle di Marliani, che quantunque le avesse lasciato credere d'aver fatta una grossa vincita in Borsa e che era comparso da Nanà vestito a nuovo ed elegante come nei giorni di abbondanza - era stato messo un poco da parte.

- Saremo in tanti uomini quante donne? - domandò il Marliani, che soffriva fremendo la nuova freddezza di Nanà.

- Non mi pare. Mancano ancora due donne.

- Ci penso io.

- Ma quali donne, di grazia?

- Non saranno principesse del sangue... ma via, demi-monde più o meno legittimo.

- E con chi verranno?

- Con me.

- Chi saranno?

- La Romea, che è libera perchè fu lasciata appunto la settimana scorsa dal suo Tizio; è una donna divisa dal marito, che ha una buvette molto chic sul Corso... e la signora Marco Polo.

- Mi fido?

- Fidati.

- Sono belle? Perchè io di brutte non ne voglio.

- Sono belle.

- Più di me?

- Farçeuse!

«Il mio divertimento così sarà completo - pensò Nanà. - Esse non sapranno magari parlar il francese e diranno spropositi da cavallo. Io godrò di vedere queste bellezze milanesi trascurate in un canto per me. In ogni caso, esse mi serviranno di rifugio quando fossi troppo assediata o stufa dei complimenti degli uomini.»

 

*

* *

 

Alle sei e mezzo Enrico arrivò e trovò già molte persone radunate in sala.

Alle sette gli invitati erano a tavola. Nanà aveva fatto il suo dovere di padrona di casa con un garbo perfetto. Si avrebbe detto che ella fosse stata allevata nel palazzo dell'Eliseo. Nessuno degli invitati certo - tranne il Marliani ed il Sappia - che però non l'avevan detto ad anima viva, avrebbe imaginato che quella Francese, la quale sapeva ricevere in quel modo, fosse stata un'allieva di madame Tricon.

Da una parte della tavola oblunga Nanà stava seduta in mezzo a O'Stiary ed a Sappia; a sinistra del marchesino c'era la Giannella che mangiava a quattro palmenti; poi veniva monsieur Babil, il direttore della Compagnia francese - poi la Luisa, amante del Sappia, - Marliani e madama Bianche.

Dall'altra parte, a destra del conte Enrico, sedeva la Romea, più imbellettata, infarinata e stupida che mai - quindi il Bonaventuri aiutante, la padrona della casa, - il conte di vieille roche - poi la coquette première rôle - poi Ernesto Cantis, lo scrivano dell'avvocato Delguasto, - la prima amorosa - e finalmente il banchiere Strunzinweill, di Francoforte sul Meno, che compiva il giro accanto a madama Bianche.

 

*

* *

 

In tutto sedici persone, otto uomini e otto donne.

Il cameriere dell'albergo che serviva la tavola, gettando spesso degli sguardi inquieti sotto di essa, tentava di scoprire il segreto lavorìo de' piedi di O'Stiary e di Sappia, e andava con ansia affannosa cercando di indovinare quale fosse fra quegli invitati il preferito da Nanà. Ma essa era impenetrabile; rideva con tutti e faceva bella ciera a tutti nello stesso modo.

Degli altri convitati nessuno sarebbe stato in grado di far quello studio del cameriere. Ciascuno era così occupato di sè stesso, così attento a dissimulare agli occhi di tutti gli altri, tranne che a quelli di Nanà, la propria cotta, che non aveva tempo di fare delle osservazioni fisiologiche sugli altri.

La grande faccenda per essi era di non lasciarsi scorgere preoccupati, e di cercar tutti i mezzi per comparire spigliati e brillanti in faccia a Nanà.

Enrico O'Stiary solo era serio e riservato. Egli non aveva ancora diretto un complimento a Nanà nè alcuna allusione alla propria lettera.

- Voi, conte, siete anche pittore, non è vero? - domandò Nanà ad Enrico sulla fine del pranzo, mentre girando la manovella a vite sgretolava nel casse-noisettes i gusci delle noci di cui era ghiottissima.

- Dilettante?

- Sì, signora.

- Di figura?

- Di tutto. Studio la figura e studio il paesaggio. Amo però la figura assai più del paesaggio.

- Sapete che Rubieri mi fa il ritratto?

- Altro che, e l'ho veduto.

- Come vi pare?

- Stupendo! Fortunato Rubieri!

«Finalmente!» - pensò Nanà.

E domandò come un'ingenua:

- Perchè fortunato?

- Perchè egli ha trovato da ispirarsi ad un corpo di donna come oggidì non se ne vedono quasi più... a Milano.

Egli si arrestò; ma Nanà questa volta non gli porse la replica. Voleva vederlo venir a lei con qualche frase sentita, espressiva, infuocata, e non ci riusciva.

Sappia poco dopo si interpose, parlando di tutt'altro, e Nanà restò colla sua voglia in corpo.

 

*

* *

 

Poco dopo un immenso scoppio di riso si fece intendere dall'altra parte della tavola.

Bonaventuri stava dando ad intendere un'enorme frottola alla Giannella, che era cascata, come sempre, nella ragna.

Il Cantis poco prima aveva per caso nominati i volontarî di un anno.

- Volontarî di un anno? - aveva chiesto la Giannella a bocca piena - Possibile? Già volontarî a un solo anno?

Tutti avevano capito che essa stava per fare una delle sue solite confusioni famose.

- Sicuro! sicuro! - sclamò Bonaventuri, prima che altri pensasse a disingannarla. - È una trovata di Marco Minghetti, ministro di agricoltura e commercio. Ora abbiamo dei volontarî di un anno di fanteria e di cavalleria.

- Faccia piacere! - sclamò la Giannella.

- Ma come, non lo sa? Tutti gli Italiani devon esser soldati, d'ora innanzi, appena usciti dalle braccia della balia.

- È possibile? - ripetè la Giannella.

- Così è; il nostro Governo vuole che tutti gli Italiani imparino gli esercizi dal giorno che sanno reggersi in piedi. Si chiamano i volontarî di un anno per questo.

La povera Giannella in fondo non aveva tutti i torti di capir male il senso di quella frase. Essa è sbagliata di pianta. Infatti per esprimere quella idea la logica e la sintassi insegnerebbero a dire volontarî per un anno, e non volontarî di un anno.

- Il vostro bambino che età ha? - le domandò serio serio il Bonaventuri.

- Nove mesi.

- Bene, fra tre mesi egli entrerà nel volontariato.

- Chi me l'avrebbe detto! - sclamò la Giannella guardandosi sospettosa intorno e parendole di vedere sulle faccie degli astanti un sorrisetto tra carne e pelle... che tradiva la burla.

- Ma che cosa gli insegnano poi? - domandò perplessa.

- Gli insegnano la manovra, la tattica, e....

- Anche la balistica - aggiunse Sappia.

- Ma mi faccia piacere!

- Come! Voi dunque non sapevate che c'erano i volontarî d'un anno?

- Sì, li ho sentiti a luminare, ma non credevo poi che dovessero cominciar la manova a quell'età. Credevo che non la fosse altro che una iscrizione che facesse il Governo... per sapere poi... e che so io?

- Eppure è così come io ve lo dico, cara Giannella. S'è veduto che cominciando a istruire militarmente i bambini appena che sono spoppati diventano poi eccellenti coscritti.

Uno degli astanti non potè più reggere a star serio e tutti scoppiarono nella risata.

La Giannella, avvezza a queste cose, alzò le spalle, mescè un bel bicchiere di vino e se lo trangugiò in un fiato in santa pace.

 

*

* *

 

Allora la conversazione si fece generale, varia, moltiforme, intrecciata, da un capo all'altro della tavola. E le frasi, e i motti e gli scherzi venivano mandati e rimandati nel frastuono come il sughero pennuto colle racchette nel giucco del volante.

- Si dice infatti che Gounod voglia scimmiottare List ma non ci credo.

- Io conosco Gounod - sclamava Nanà - e vi so dire ch'egli è un libertino di prima forza, altro che prete.

Correva in que' giorni la voce che l'autore del Faust volesse farsi uomo di chiesa.

- Ma certo - rispondeva dall'altro lato il giovine di avvocato - che la causa Nunziante Antonelli farà un grande scandalo....

- Certe donne - sclamava a sua volta il Bonaventuri, parlando alla Romea - sono come le costolette. Quanto più le si battono tanto più diventano tenere.

- Stenterello spera bene nel contatore - si udiva uscir la voce fessa di un altro, che ciarlava col conte vielle roche. - Ne ha comperati mille in Francia e centoventi lire, mentre poteva averli qui in Italia a settanta.

Costui dava il sopranome di Stenterello al ministro Cambrai-Digny, che teneva allora il portafogli delle finanze.

- Oh la donna indovina se è amata assai prima che glielo si dica!

Questo aforismo era uscito dalle labbra della prima amorosa che parlava col banchiere Strunzinweill.

- Ma che genio, che genio! Lo ha fatto vedere or ora nello Spiritismo se ha genio. Egli deve accontentarsi di scrivere degli idilli... d'un atto e non tentar la grande drammatica.

- Eh già! Talvolta chi sa far delle conquiste colle madamine fa poi delle tòpiche colle grandame.

- Io ho in bottega del famoso Marsala Ingham - strillava la Romea che pensava a far la reclamé alla sua buvette.

- Ora che la valigia delle Indie passerà per Brindisi noi saremo salvi.

- Eppure - gridò Bonaventuri, già leggermente brillo - l'anno scorso a Montecarlo io coll'ultimo scudo, ho guadagnato otto mila franchi!

A questo punto Nanà si levò e tutti passarono nella sala a bevere il caffè.

 

*

* *

 

Que' signori avrebbero desiderato allora di mettersi un poco accanto a Nanà; ma tranne due arrischiati e positivi, il conte di vieille roche e Bonaventuri che la stringevano ai panni, gli altri quasi per timore di farsi scorgere troppo premurosi le stavano lontani. Da noi questa specie di spavento semi-fanciullesco è per così dire contagioso, tantochè lo subivano in quel punto perfino il Sappia e il banchiere di Francoforte che non erano poi novellini.

Anzi vi fu un momento in cui Nanà stupì di essere lasciata sola. Ella vedeva bene che gli occhi dei suoi adoratori, le erano continuamente tutti addosso e strisciavano continuamente su di lei, sfuggevoli, furtivi, come pavidi di essere colti in flagrante dagli altri. Ma tutti facevano il disinvolto; ella dal canto suo aveva un gran da fare a non mostrare predilezione per nessuno e a lasciar supporre a ciascuno di potersi credere il preferito.

Intanto però cominciava a provare un principio di dispetto che quel solo, ch'ella preferiva davvero, non si curasse di lei.

Enrico infatti s'era seduto in un angolo della sala, aveva acceso un avana e fingeva di stare guardando attentamente un album di fotografie. In sostanza spiava anch'egli Nanà.

A un certo punto questa s'attaccò al braccio di Sappia e lo condusse nella strombatura d'una finestra.

- Ascoltate - gli disse. - L'altra sera in teatro non potevo dirvi chiaramente quello che mi preme di dirvi ora. Voi, per mia sventura, mi avete conosciuta a Parigi in un luogo dove, Dio mi è testimonio, io c'era andata due o tre sole volte... per ragioni che se le sapeste mi compatireste assai...

- Lo credo - disse il Sappia con una certa convinzione.

- Mi giurate voi marchese che sarete abbastanza gentiluomo, per non dir a nessuno, almeno finchè starò in Milano, che voi mi avete conosciuta in quel luogo?

- Io ve l'ho già promesso una volta ed ora vi ripeto se volete il giuramento.

- Mi basta e vi ringrazio, - disse Nanà stendendogli la mano. - Voi avrete sempre in me una amica devota.

E stava per staccarsi da lui; ma il Sappia la trattenne.

- Ricordatevi però che fra i presenti io non ero solo a quel convegno, e che non fui nemmeno il fortunato.

- Lo so. Volete parlare di Marliani?

- Sicuro.

- Egli non dirà nulla. Me ne ha dato anche lui la parola d'onore. Egli mi ama ancora.

- Ora ditemi almeno che cosa posso io sperare da voi?

- Niente e tutto - rispose Nanà col suo più incantevole sorriso.

- Spiegatevi.

- Vi dirò; io non sono più la donna che voi avete conosciuta a Parigi, in un momento di crisi terribile. Io sono assai migliore. Sono diventata immensamente difficile e rangée. Ora è necessario conquistarmi per possedermi; sappiate conquistarmi e chissà ch'io non diventi la vostra amante.

- Ah! - sclamò il Sappia spiegando nella frase che stava per dire, un lato caratteristico dell'indole meneghina. - Volete farmi fare tanta fatica?

- Ma no! Voi siete uno dei giovani più simpatici e più ammodo ch'io abbia conosciuti. Non dovreste far tanta fatica! Vi basta? A rivederci. Non vorrei che la vostra Luisa si insospettisse di me.

E si allontanò.

 

*

* *

 

Mezzo minuto dopo la Luisa domandava a Sappia.

- Che cosa ti ha detto quell'antipatica pettegola?

- La mi ha detto, che il direttore le ha offerto mille franchi al mese per le parti di grande coquette. E la mi domandava se doveva accettare.

- E tu?

- Io le ho detto di accettare.

 

*

* *

 

Spiccatasi da Sappia, Nanà, s'incontrò in Ernesto Cantis, che la stava aspettando al varco con aria sorridente ma coll'agonia nel cuore.

Quel colloquio serrato e segreto col marchesino, avevano destate nel petto del povero giovinetto certe furie della gelosia che non aveva ancora provate in sua vita.

Era fatto così!

- Caro signor Cantis, che cosa mi contate di bello? - domandò Nanà.

- Che io muoio d'amore per voi - s'arrischiò di balbettare il giovinetto.

- Lo so, lo vedo.

- E null'altro?

- Ma che cosa vorreste vi rispondessi, mio Dio! - rispose Nanà sottovoce. - Io ci tengo che voi abbiate di me una buona opinione. Io sento che verrà forse un giorno in cui io potrò essere infelice, e voglio farmi dei veri amici, i quali abbiano per me dell'affezione calma e della stima. Se io vi dessi delle speranze, e che poi non dovessi esaudirle, mi farei un nemico di voi. È meglio che ci fermiamo qui.

E s'allontanò anche da lui.

- Oh Nanà! - sclamò il giovinetto vedendola staccarsi così presto. E disse quel Nanà come un uomo che s'annega e che cerca soccorso alla sponda.

Nanà comprese quello spasimo, e sorrise fra sè, beata. Essa lo considerava come un piccolo tributo dovutole, e ne godeva. L'idolo, sotto al cui naso si brucia tutto il giorno dell'incenso, ne sentirebbe forse ancora il profumo, per quanto avesse narici per sentirlo? Ormai ell'era troppo avvezza a vedere uomini agonizzanti di amore a' suoi piedi.

«Tutti fanno lo stesso a Milano come a Parigi! - pensa Nanà - Sarei quasi per desiderare che Enrico facesse diverso del solito! S'io giungessi a farmi sposare da lui a furia di amor vero, di amor sincero, che mi facesse redenta a' miei occhi... ed anche a' suoi, quando venisse a sapere il mio passato?

 

*

* *

 

Qualcuno in quel mentre si fece udire a parlare di Garibaldi e della guerra sui monti.

Nanà sapeva che Enrico vi aveva preso parte.

- Sì, sì - gridò. E tutti udendo la voce di lei tacquero come per incanto. - Conte raccontateci qualche aneddoto della guerra. A me piacciono le storie di guerra.

Enrico si schermiva. Il Sappia si alzò a magnificare un certo aneddoto dei piedi gelati, che secondo lui era una bellezza.

Non si è mai traditi tanto bene, come da' proprî amici.

- Ha un aneddoto che è delizioso - gridò il Sappia... - Racconta Enrico l'aneddoto dei piedi gelati.

- Sì, sì, vogliamo i piedi gelati - si gridò da ogni parte.

O'Stiary s'arrese.

- La cosa è semplicissima - disse. - Eravamo in distaccamento avanzato in cima a una montagna tutta coperta di neve. Faceva un freddo da lupi, e io lo pativo tanto ai piedi da veder le stelle anche di giorno. Non c'era nè bevere acquavite o rhum, nè portar doppie calze di lana, nè camminare e saltare, io li avevo sempre gelati. Un giorno mi lamentavo di questo incomodo con un vecchio garibaldino d'un altro battaglione, un povero diavolo, contadino di origine, che mi aveva reso qualche servigio, ma non mi conosceva più che tanto. Lo vedo spalancar gli occhi e dirmi:

«Ma diavolo! Perchè non l'ha detto prima a me?

«Che! Voi avreste un rimedio contro il freddo a' piedi? gli domandai io.

«Altro che! mi risponde. Un vero tocchesana, un rimedio infallibile, caro camerata.

Io lo invitai a parlare. E lui cominciava:

«La si figuri che io appena venuto a far il volontario, specialmente d'inverno, pativo anch'io un tal freddo ai piedi, che.....

Io lo interrompevo spingendolo alla conclusione, e lui invece:

«Un poco di pazienza, mi diceva; bisogna prima che io vi faccia la storia del rimedio.

«No, non m'importa di sapere la storia; vorrei la pratica, replicavo io, ma non c'era verso. Da vero contadino zuccone, lui voleva andare per le lunghe.

«Dicono l'acquavite. sì, l'acquavite non dico. Se se ne ha, è buona anch'essa, ma quand'è passata fuori, lascia i piedi più freddi di prima.

«E dunque?» chiedevo io.

«Dunque invece io l'ho trovato il vero rimedio.

«Su dunque. Che cosa avete fatto?

«Una cosa di nulla, a pensarci sopra. Eppure è eccellente. Bisogna sapere prima di tutto, che io prima non avevo mai usato di portare le calze....

«Sì. Ebbene?

«Dal giorno che misi un paio di calze di cotone sotto alle scarpe, il freddo è passato come per incanto. Provate, camerata, e vedrete.»

L'aneddoto era buono e si rise. Allora Nanà si mise a magnificare il modo di raccontare del conte, e tutti o quasi tutti si diedero a raccontar il loro piccolo aneddoto. Fu una confusione da non dirsi. Tutti raccontavano e nessuno ascoltava.

 

*

* *

 

- Come mi trovate? - non potè trattenersi dal dire, a Enrico, Nanà, dopo d'essersi congratulata con lui della sua storiella.

- Io vi trovo degna di Vandick e di Tiziano. Nanà gli domandò chi fosse Tiziano.

E dopo:

- Io, partendo da Parigi, avevo idea di far questo viaggio in Italia, paese dell'arte, specialmente nella speranza di trovar un pittore che mi sapesse ritrarre come dico io....

L'invito era troppo diretto per non accoglierlo.

- Volete, Nanà, che io mi provi a dipingere questa vostra magnifica testolina?

- Provarvi in che modo? - domandò Nanà. E volgendosi repente a un invitato che s'era messo al pianoforte e vi traeva degli accordi, gli gridò:

- Ma volete finirla voi?

- Io vi propongo di farvi il ritratto, mezza figura, nel mio piccolo studio.

L'emozione di Enrico, mentre faceva a Nanà questa proposta, era grandissima. Egli sembrava di marmo, tanto s'era fatto pallido ed immobile aspettando la risposta di Nanà. La sua voce era tremolante.

Nanà sorridendo, cogli occhi abbassati, che si sarebbero fin detti modesti in quel punto, faceva saltar sul palmo la nappetta d'un cuscino che le stava accanto. E non rispondeva. Essa cominciava a trionfare e assaporava con voluttà il piacere della vittoria.

Enrico ripetè:

- Non volete?

Nanà gli stese la mano, e rispose:

- Ci si può riflettere.

E lo piantò là, perchè... forse... qualcuno l'aveva chiamata.

Nessuno assolutamente l'aveva chiamata.

 

*

* *

 

Tutti però segretamente la reclamavano. La conversazione, dove non era lei, languiva. Non per quello che ci mettesse lei, ma per quello ch'essa, senza volerlo, ispirava agli altri.

Un ah! generale fra gli uomini l'accolse dunque quand'ella si staccò da Enrico e venne a sedere fra la Romea e la grande coquette prémièr rôle.

Allora la conversazione si rifece generale.

- L'assenza dell'oggetto che si ama - sclamò Bonaventuri che non faceva segreti delle sue ammirazioni per Nanà - l'assenza dell'oggetto amato fa lo stesso effetto del vento sulle fiamme: spegne le fiamme deboli e aumenta le forti.

- Che filosofo!

- Non sono io. È Larochefoucauld.

- Voleva ben dir io!

- Che cos'è l'adulterio? Ne ho letta una definizione nuova non so dove... aspettate... Non mi ricordo. L'adulterio è una bancarotta fraudolenta della moglie a cui il marito resta sotto col proprio capitale. Va bene?

- Sì, e poi?

- Soltanto che invece di essere disonorato chi ha fatto fallimento resta disonorato chi ci resta sotto.

 

*

* *

 

Verso le undici venne il thè.

Nanà aveva dichiarato a' suoi amici che avrebbe recitata la sua scena e cantati i couplets dopo il thè, per tenerli tutti riuniti fino ad ora tarda.

Nel porgere la tazza ad Enrico gli disse sotto voce:

- Ora mi vedrete nel mio costumino di Parigi, pettinata alla greca; e se mi direte che ho proprio una testa artistica forse... forse mi deciderò a venire da voi.

Di lì a poco Nanà entrò nel suo penetral più sacro a travestirsi.

Comparve mezz'ora dopo in un delizioso costumino di fantasia che faceva risaltar in modo mirabile le forme opime.

Un applauso entusiastico l'accolse. Battevan palma a palma anche le donne, che pur fremevano di rabbia nel loro interno.

Nanà era così innamorata di sè e degli applausi che non s'accorgeva o non pensava al dolore che essa procacciava alle proprie amiche, alle quali toccava assistere a' di lei trionfi intimi.

Nessuna donna è più nemica di colei che si mostra seducente e adorata in sua presenza.

Guardate in una festa da ballo, dove compaia a un tratto qualche astro, e vedrete le occhiate bieche, e gli sguardi di traverso, in tutte le altre donne che prima comparivano sciolte, sorridenti e felici.

La Romea, per esempio, che si sapeva tanto diseredata di curve, arrabbiò come una dannata al mostrarsi di quella maravigliosa figlia di Eva, sfolgorante di gioventù e di bellezza, e si sentì presa a un tratto da un'immensa voglia di piangere. Fu la sola che non ebbe l'ipocrisia di battere le mani. Ben inteso che le altre fingevano di battere; ma accostavano adagino palma a palma per non aumentar il fracasso.

 

*

* *

 

Gli uomini invece pareva volessero impazzire di gioia e di ammirazione. E avevano perfettamente ragione. Chi non si scuote all'idea della bellezza artistica è un ciuco. Inebbriati da quella apparizione essi perdevano perfino la misura delle manifestazioni decenti e scordavano appunto che in mezzo a loro stavano sette infelici creature, che sorridendo si mordevano le labbra a sangue e soffrivano per quegli omaggi e per quei gridi, come se ricevessero in viso le più mortali ingiurie.

Ma è così.

Certi giovinetti non sanno dissimulare e mentire se non precisamente quando farebbero invece assai meglio a dire la verità.

Un «zitto, silenzio, basta» s'elevò da ogni parte quando Nanà fè' cenno che avrebbe incominciata la scena.

Ella si mise dunque a recitare abbastanza male un monologo che la si era fatta scrivere per un'occasione consimile, tutto pieno di motti a due tagli e di idee lascive.

Gli spettatori, tranne O'Stiary, giubilavano. Le donne facevano mostra qualche volta di scandolezzarsi onde aver il diritto di dire poi di Nanà cose oscene, per ringraziarla del pranzo.

Quel monologo era una birbonata qualunque, intermezzato da couplets, che Marliani accompagnava al piano.

Gli applausi scoppiavano fragorosi, pazzi, ad ogni refrain.

E le donne intanto sussurravano sottovoce agli uomini di condurle a casa. Una aveva l'emicrania, l'altra male al petto. La Romea protestava mal di denti.

Non c'erano, che la buona Giannella e la signora Fanny, che avessero pigliato il loro partito e che lodassero schiettamente l'artista e la donna bella.

Appena ebbe finito l'ultimo couplet, Nanà fuggì via con un fare modesto ed infantile, che piacque immensamente agli uomini, e che fece sempre più bestemmiar le donne, in petto. Marliani tentò da balordo di seguirla verso la stanza da letto, ma Nanà gli chiuse bravamente l'uscio in faccia.

Questo tratto sollevò una salva sterminata di nuovi applausi, e un ridere saporito e grasso in tutti quanti.

- Che ne dite? - domandò Nanà a Enrico tornando nel salotto vestita come dianzi.

- Voi siete adorabile, e io vi amo come un pazzo - disse Enrico.

Nanà trasse un lungo e tacito respiro dal petto.

- Verrete voi nel mio studio?

- Domani alle due aspettatemi.

 

 

 





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