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Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi Nanà a Milano IntraText CT - Lettura del testo |
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VIII.
Lo studio di Enrico era piccino e modesto, un vero studio da dilettante di buon gusto; ma quanta luce e quanta bella roba in esso! Il sole vi entrava a larghe ondate, rischiarandolo tutto in modo uniforme e ricercando gli àngoli più riposti, dove il conte aveva collocati due capolavori della scuola moderna, due Meissonnier che gli erano costati ventimila franchi.
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Il ritratto di Nanà stava sul cavalletto. Fate conto che siano passati dieci o dodici giorni da quello del pranzo di Nanà. Il di lei ritratto era a buon porto, e molto riuscito. L'amore aveva fatto far miracoli al pennello di Enrico. Ma che sorta d'amore era il suo? Non amava egli già la sua Elisa? Ahimè! Quella sera che Enrico aveva veduta Nanà, per la prima volta, scender dal brougahm sotto i raggi del lampione del caffè dell'Europa ed entrare nella porta dell'Hôtel de la Ville aveva dovuto accorgersi che il sentimento casto, tranquillo, soave e profondo ch'ei provava per la cara vergine compagna della sua infanzia non era ciò ch'egli aveva imaginato dover essere l'amore. Il cuore egli se l'era pur sentito battere con forza anche la prima volta che aveva riveduta la sua Elisa di ritorno dal campo nel 1866 - ve ne ricorderete. La bella creatura era stata certo il pensiero costante de' suoi anni giovanili anche in mezzo alle sue scappate da figliuol prodigo... Ma ora non c'era paragone. Al cospetto di Elisa una dolcezza sovrana, una confidenza, una tenerezza priva di desiderî e purissima, una ammirazione della bella persona e del dolce e onesto sguardo, per così dire, lo ispiravano. Al vedere Nanà un tuffo violento nel sangue, un calor subitaneo in tutte le membra, una foga di desideri e di voluttà lo invadevano tutto. Pure egli con Nanà dissimulava assai bene quel delirio de' sensi. Nessun diplomatico avrebbe saputo vantarsi di coprire con più lieta disinvoltura i moti interni dell'anima e del sangue, dinanzi alla terribile francese. Sulle prime anzi ebbe qualche rimorso di tradire la cara fanciulla a cui da tanto tempo s'era promesso. Poi a poco a poco, senz'accorgesene stuzzicando Nanà quella riserva per lei tanto rara ed insolita, il di lui voto sincero di non tradire la Elisa sfumava, sfumava e il suo avvicinarsi a Nanà pigliava ogni giorno un andamento più deciso.
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Egli subiva il fascino del desiderio di quella donna magnetica, e la Elisa onesta, pura, più bella, più giovine, più fresca, più geniale, ma riservata a lui, soltanto col consenso del sindaco, scompariva a poco a poco a' suoi occhi di ventiquattro anni. La Nanà si era informata della relazione che esisteva fra Enrico e la signorina Elisa Martelli, e gliene aveva parlato e la si era messa sul serio e sul contegnoso. Anzi aveva sgridato severamente l'Enrico perchè avesse pensato di scrivere a lei una lettera d'amore. Enrico aveva troppo cuore e troppo carattere per dire a Nanà ch'egli non amava la Elisa. Era questo che Nanà voleva udire da lui. E non la ci riusciva.
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Tutt'a un tratto Nanà che stava posando, scoccò al suo pittore questa domanda a bruciapelo. - Se voi non foste già impegnato con quella bella signorina, che mi è tanto simpatica e che finirete a sposare... mi sposereste me? La domanda era audace. Enrico non rispose subito, sorrise e pigliò una scorciatoia: - Bisogna che io sappia prima se voi dal canto vostro sareste pronta a sposar me. - Io no davvero - rispose Nanà sforzandosi di ridere, - Si può saperne il perchè? - domandò Enrico che nascondeva a stento un crepuscolo di picca. - Perchè io non vorrei sposare un artista. - Il solito pregiudizio! Del resto io non sono artista; sono un dilettante. - Ma peggio! È segno che voi non lo fate per mestiere ma per passione. Siccome io vorrei essere idolatrata da mio marito e regnare unico pensiero della sua mente, esigerei che egli dedicasse a me tutte le sue giornate, e non soffrirei ch'egli tenesse l'arte come seconda amante, o fors'anche come prima. - Ah, se è così, è bello! - Non vi pare? Un artista non può amare una donna per lei stessa. Gli artisti hanno l'amorosa anteriore alla moglie e della quale alla moglie non è permesso neppure di essere gelosa, ma che li assorbe, li esalta, li accontenta e li distoglie da noi donne, peggio che se fosse una rivale in carne ed ossa. - Ma e gli affari allora? - osservò il conte - gli uomini d'affari non sono forse continuamente e peggio di noi colla testa e col cuore, nelle loro speculazioni? - Colla testa e col fegato forse - rispose Nanà, - col cuore no. L'uomo d'affari quando è chiusa la borsa o il banco non è più uomo d'affari. Voi altri artisti, no. Voi altri restate continuamente artisti in città ed in campagna, di giorno e di notte, d'inverno e d'estate. - Dunque voi Nanà sareste gelosa della mia tavolozza? - Non della tavolozza ma di ciò che ferve nella vostra testa, di quell'ideale che sta in voi e che è più potente delle mie grazie e del mio cuore. Enrico naturalmente depose la tavolozza e come attirato verso Nanà fece due passi verso di lei e si fermò a guardarla in estasi. Essa era la calamita. Egli il ferro. Nanà s'accorse che il suo pittore ricominciava a perdere la calma impostasi dacchè gli aveva detto sapere ch'egli amava la Elisa. E volendo gettare un poco di acqua su quella fiamma che si riaccendeva sotto la cenere, per avere il gusto di ravvivarla più tardi: - Del resto - disse - una volta che io fossi maritata non penserei più a nulla, non vorrei avere più nessuna responsabilità... giacchè è questa sopratutto che mi pesa; starei sdraiata tutto il giorno a leggere o a dormire. Lui dovrebbe pensare continuamente a volermi bene, a soddisfare i miei capricci, alla casa e ai figli se ne venissero.... Enrico s'era accostato a lei, e ridendo diceva: - Non sarebbe un marito, allora sarebbe un intendente, un ragioniere. - Ah, no, perchè poi io mi lascerei amare, vezzeggiare, importunare, adorare, malmenare tutto il giorno da mio marito se gli piacesse di stare molto con me. Così dicendo Nanà, colla più fredda disinvoltura della terra allungò le braccia verso il suo pittore, posò la sua bella testolina sulle spalle di Enrico con una specie di infantile ingenuità, e ne ricinse la vita stringendoselo al seno, ridendo. Tutto ciò fu fatto colla più grande noncuranza, come la cosa più naturale del mondo. Enrico per la prima volta in otto giorni piegò la faccia per farle un bacio. - No - disse Nanà sciogliendosi e tentando di coprirsi in fretta come donna che sorte da un sogno e che è pigliata da un subitaneo pudore. - Enrico, non facciamo confusioni! Restiamo amici, restiamo quello che dobbiamo essere. Per quanto un uomo abbia accortezza o esperienza in fatto di donne, per quanto in teoria egli sappia di quali istinti siano dotate certe creature - il cui trionfo, la cui voluttà suprema è quella di assassinare gli uomini e di spingerli al parossismo del desiderio, anche senz'ombra di progetti rapaci o ambiziosi, ma proprio soltanto pel gusto di soggiogare - sembra destino che in causa propria, nel momento critico, quest'uomo perda il sangue freddo, la coscienza e la sinderesi, vale a dire quel presentimento che avvisa segretamente come quella donna non spieghi le proprie arti per affetto e per passione, ma per una innata ambizione di far delle vittime umane e per smisurato amor proprio. I sensi, in un giovane di ventiquattro anni, sano, forte, ben costituito - come lo era Enrico - hanno quasi sempre un predominio fatale sulla ragione la quale dovrebbe essere invece - oh, chi non lo sa? - la regina e la sovrana del corpo umano. La natura, del resto, creando gli uomini e le donne così foggiate sapeva bene lei che cosa si faceva. Io credo - e non so se altri lo abbiano creduto prima di me - che se non esistesse il fenomeno dell'assalto sensuale contro cui non vale nè ragione, nè morale, nè timore della pena possibile, nè religione, nè nulla - a quest'ora il mondo sarebbe rimasto quasi spopolato. Ormai non sono più che i bigotti e i regnanti che fanno legittimamente all'amore per dovere o per calcolo. - Restiamo amici - aveva detto Nanà. - Non guastiamo il nostro bello idillio artistico con dei desiderî che siano precisamente come quelli di tutto il mondo. E poi che vale? Io credo di averlo già un amante, e mi sento ispirata a non tradirlo almeno per ora. - Chi è? - domandò Enrico che era tornato al suo cavalletto affettando molta freddezza nella voce. - Volete proprio saperlo? - Lo bramo. - È Filippo Marliani. - Ah! - Lui! - E ne siete innamorata? - Oh, no, povero Filippo. Non merita punto! - Come potete dire allora che egli sia il vostro amante? - Amante vuol dire: uomo che ama, ch'io sappia, e non uomo che è amato. Egli mi ama, ne sono certa, e io amo lui, ma non ne sono innamorata. - E questo basta per voi? - Finchè io non mi possa innamorare d'un uomo alla mia volta mi deve bastare, per forza! Che ho a farci io? - Credete voi di potervi riuscire ad amarlo questo signor Marliani? - Neppur per sogno. Manca di due o tre qualità indispensabili... - È ricco? - Era ricco. Ora è povero. - E voi siete ricca? - Lo era. Oggi sono ricca... di debiti. - E che cosa pensate dunque di fare della vostra vita? - Non lo so. - Non ci pensate? - No. Confido nella mia stella. Diventerò artista drammatica. - Ma che idee avete? - Idee! - sclamò Nanà ridendo. - Mi domanda che idee ho! - proseguì come parlando a sè stessa. Facciamo una cosa, Enrico, mettetevi ne' miei panni, nella mia posizione. Sareste capace di fare questa specie di astrazione? - Altro che. - Ditemi ora che idee avreste voi se foste me stessa? Sentiamo. Fatemi il vostro programma. Enrico si trovò dinanzi a un problema, al quale aveva pensato qualche volta senza trovarci uno scioglimento onesto. - M'avete detto che questo signor Marliani non potrebbe pensare a... ai casi vostri? - diss'egli schivando così di rispondere direttamente alle domande di Nanà. - No. Egli è completamente rovinato. Ma vedete che non avete saputo farmi il programma! - Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio? - Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che, amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non mi basterebbe un milione all'anno. - Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste voi? - Secondo. - Se il galantuomo fosse come me, per esempio? - Allora no. - Perchè? - Prima, perchè non vorrei che la signorina Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi. - Che importa a voi in caso che io mi rovini? Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che poteva essere interpretata in mille sensi. Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato! Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono.
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Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva: - Ho bisogno di dieci mila franchi. - Che cosa vuoi farne? - Ho paura di essere proprio innamorato. - Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti passar l'amore? - Non per farle un prestito indispensabile... - Si potrebbe sapere chi è? - Indovina. - Non saprei! - È Nanà. - Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto. - Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le cervella. - Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa stasera al club. - Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso. - Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare? - Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito.
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Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale, se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo passo al malcostume. Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo. Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary. Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila. E non erano che la metà de' suoi debiti. Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per puro favore. Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito! E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando li incontrava dalla Luisa! - Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi. - Ne conosce lei? - Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in commercio. - Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary. - Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi. - Come si chiama? - Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa. - Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani? - Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...! - Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine? - Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale. - Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro. - Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in qualche luogo. - Dove? - Dica lei. - Dalla Romea? - Va bene. Dalla Romea. E si lasciarono.
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