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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE SECONDA (1849-1859)
    • APPENDICE
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APPENDICE

Sono qui raccolte la Dichiarazione 13 maggio 1848 e le Difese, secondo il testo dell'Omodeo del 1934.

 


Dichiarazione di Luigi Settembrini scritta il 13 maggio 1848 e non potuta pubblicare per la stampa

 

Immacolato venni all'uffizio di capo di dipartimento nel ministero dell'istruzione pubblica, immacolato ora voglio e debbo discenderne. Lo accettai non perché credetti di meritarlo, ma perché speravo che con una forte e santa volontà avessi potuto far bene alla mia patria. Ma ora siamo ridotti a tal punto che un uomo onesto non può fare il bene, non può stare in uffizio; onde io voglio che pubblicamente si conoscano le ragioni della mia rinunzia.

Il nostro misero paese è ridotto in miserrimo stato. I ministri, ed uomini nuovi alla difficilissima arte del governare, uomini deboli ed inetti, non hanno la forza di disprezzarci e di farci il bene nostro malgrado. Mentre da una parte gridano che la finanza è povera e fanno prestiti, dall'altra parte creano novelli uffizi, li dànno ciecamente e per quel buon cuore che è debolezza d'animo, impiegano quelli che strillano più lazzarescamente, i ladri conosciuti e già destituiti, i ladri novelli, le spie, gl'infami, e tutta quella ribaldissima schiuma ch'era ed è ancora a galla. Questa debolezza de' ministri fa baldanzoso il popolo: ognuno crede di poter salire a quell'impiego dove vede salito un malvagio o uno stolto: onde i tristi pretendono, i buoni si lamentano.

I ministri hanno colpa sì, ma la colpa vera l'abbiam noi, l'ha questa plebe affamata e vilissima, questa turba di scostumati pezzenti che stanno da mane a sera con la bocca aperta gridando: “impieghi impieghi!” Salgono tutte le scale, invadono tutte le case, minacciano con le armi, e i più forti gridatori di libertà sono i primi a chiedere, e chiedono sfacciatamente, oscenamente, ed avuto il tozzo rinnegano Dio e la coscienza. Gente meritevole di Del Carretto (e se non l'avesse meritato non l'avrebbe avuto) crede la libertà un banchetto, la costituzione una torta di cui ciascuno debba avere una fetta; non sa che oggi è tempo di sacrifizi non di pretensioni; che l'ordine è necessario anche tra briganti; che la legge e i magistrati debbono essere rispettati in ogni specie di governo. Oggi non vi ha più legge, non giustizia, non rispetto, non pudore: tutti dimandano, i peggiori ottengono, gli scellerati trionfano, si mischiano, intrigano, cospirano, van meditando sangue e rapine. Anche io sono assordato dalle grida di uomini sozzamente ambiziosi, e non posso stare più tra questa gente che ti fa venire a noia ogni cosa più santa. Io credeva di abbracciare una purissima vergine, ed ho trovata un'oscena meretrice. Oggi è vergogna avere un uffizio; e se io ritenessi quello che ho sarei creduto simile a tanti tristi, metterei la mano al parricidio della patria, ed io voglio vivere, come son vissuto finora, povero, onorato, incontaminato; e chi può dirmi il contrario si levi e parli contro di me. Taluno forse mi odierà perché dico verità troppo acri, ma tutti debbono rispettarmi perché dico il vero e senza paura o speranza, perché sono di nessun colore, ma voglio libertà con leggi, con ordine, con buona creanza; perché odio i tristi di qualunque condizione sieno, perché voglio premiato il vero merito, e puniti inesorabilmente i ribaldi di tutti i colori. Epperò guardiamoci bene: il popolo griderà, il ministero spropositerà, il Parlamento anche questa volta chiacchiererà, il Re contenterà tutti e si riderà di tutti.

Debbo aggiungere ancora altre ragioni particolari. Il ministero di pubblica istruzione, che deve sopraintendere all'educazione di sei milioni di uomini, che deve preparare la felicità di questo popolo sempre infelice perché sempre ignorante, che dovrebbe essere il primo e più importante ministero è tenuto come cosa da nulla, e si come giunta, ora a questo ora a quel ministro; e mentre che dovrebbe essere ministero modello e composto di uomini ottimi, è composto di uomini la più parte nulli. E da questi uomini dipendono chiarissimi professori e nobilissimi artisti, gli artisti che sono inferiori solamente a Dio! Anzi questi uomini sono pagati meglio de' professori e degli artisti; hanno sedicimila ducati l'anno di soldo: ed oh quanti valorosi ed onesti non han da mangiare! E quasi fosse poco il soldo che ciascuno ha, essendo ultimamente rimasto vuoto un posto con 80 ducati il mese, hanno abolito il posto, e diviso tra loro i danari. Io ho gridato ma inutilmente; onde inutilmente starei in uffizio, inutilmente proporrei quello che è utile ed onesto. Io so che è dovere di buon cittadino di servire la patria anche affrontando l'infamia, ma io sono inutile perché si vuole che io sia inutile. Onde io rinunzio non per puntiglio, per superbia, o per moda, ma perché la coscienza e l'onore me lo comandano, perché voglio la cosa e non il soldo, e non vendo l'onore e la coscienza né per 120 ducati il mese, né per tutto l'oro che cava dalle sue miniere l'imperatore delle Russie. Tornerò ai miei studi, tornerò a dettar lezioni di lettere italiane e latine ai cari alunni miei; educherò questa gioventù che ha bisogno massimamente di educazione, tornerò al mio pacifico e desiderato nulla, e pregherò Dio che dia senno a coloro che reggono la mia patria. Quando sarà frenata questa licenza scostumatissima; quando gli uffizi saranno non cresciuti ma diminuiti, e si daranno ad uomini non di colore ma di sapore, cioè onesti e meritevoli; quando i ministri si persuaderanno che dando un uffizio non danno roba loro, ma sangue e lagrime di una nazione sventurata che ora vorrebbe respirare dopo tante miserie; quando si vorrà far davvero ed istruire questo popolo ed educarlo, allora la patria se pur vuole, mi chiami, ed io son pronto a sacrificare la mia pace, i miei studi, la mia vita, la vita ancora de' miei figliuoli.

Napoli, 13 maggio 1848.                                                                                        Luigi Settembrini.


Al signor Presidente, Procuratore Generale, e giudici della Gran Corte criminale di Napoli

Luigi Settembrini prega la gran corte criminale di leggere questo scritto, prima di decidere alcuna cosa su di lui.

Fu arrestato nel 23 giugno 1849, perché un tristo l'accusava di far parte della setta dell'Unità italiana, e di aver scritto, fatto stampare, e pubblicato un proclama rivoluzionarlo. Ma vedendosi che l'accusa era una semplice assertiva, che poteva essere smentita con un'altra assertiva, lo avvolgevano nel processo del 16 settembre; e facevano dire da alcuni accusati di avere inteso dire che egli era uno dei capi e direttori della setta; che nelle prigioni di Santa Maria Apparente si era formato un comitato; che egli, Agresti e Pironti approvavano il luglio 1849 il disegno di uccidere il ministro Longobardi, il prefetto Peccheneda, ed il presidente Navarra. Infine il procuratore generale lo accusa di detenzione di stampe vietate. Onde egli è accusato,

1. come capo settario,

2. come autore di un proclama,

3. come detentore di stampe vietate.

E l'accusa si poggia su di un'assertiva, e su di un avere inteso dire.

Questa è l'accusa apparente: ma l'accusa vera è la fama che Settembrini ha ingiustamente di fiero e velenoso scrittore, e di essere creduto autore di quanti scritti ingiuriosi si sono stampati contro il governo e contro i privati. Per questa fama che moltissimi hanno creduta senza esaminarla, senza parlare a lui, senza neppure conoscerlo, egli è odiato dal governo e da moltissime persone che si tengono offese da lui. Onde egli, che conosce pochissimi, che sente di non avere offeso nessuno, ed onora tutti, ha innumerevoli ed irragionevoli nemici.

Chi non lo conosce e non vuole conoscerlo, abbia di lui qualunque opinione; ma la gran corte che deve giudicarlo, deve conoscerlo bene, e non seguire le pazze opinioni del volgo vestito di vari colori che odia ed ama senza ragione.

In febbraio 1848 quando non si leggevano che sozze ed ingiuriose stampe, egli fu il primo che scrivendo una Lettera ai Ministri (18 febbraio) disse parole non sozzeingiuriose, biasimò i soprusi e le pretensioni, raccomandò l'ordine e la giustizia, disse cose approvate dai saggi. Comparve il giornaletto intitolato il Mondo vecchio ed il mondo nuovo, ed essendone creduto egli l'autore, fu odiato dagli offesi, fu minacciato di battiture e di morte. Comparvero altri giornali, e ne fu creduto anche egli uno dei compilatori. Invano il 18 marzo egli faceva stampare nel giornale il Lume a gas (ed il numero del giornale è nel processo) una lettera nella quale smentiva queste accuse: invano il 6 settembre 1848 faceva pubblicare nella Libertà italiana una protesta con cui dichiarava di non scrivere, non avere mai scritto, non volere scrivere alcun giornale. O non fu creduto, o non fu letto. Questa fama disgraziatamente era confermata da taluni, i quali profittando del suo nome lo mettevano in ogni cosa: se stampavano il prospetto di un nuovo giornale, dicevano il Settembrini uno dei compilatori: se stabilivano un circolo, dicevano il Settembrini uno dei fondatori. Si confuse l'uomo onesto e franco con l'arrabbiato e mordace. Onde il volgo, sempre bestiale e superlativo, lo credette un uomo pericoloso, un agitatore, un rivoluzionario. Tristi tempi in cui l'uomo onesto deve sforzarsi a dimostrare la sua onestà!

La cagione di questa fama non giova indagarla, né i giudici devono cercarla. Ma per conoscere come essa è esagerata e falsa, per vedere quali erano le idee e i sentimenti del Settembrini, in tempi che egli non poteva nasconderli, si legga il suo Discorso su lo scopo civile della letteratura, l'Elogio del marchese Basilio Puoti, l'Elogio di Giuseppe Marcarelli: nei quali egli ha consigliato rispetto alle leggi, alla religione, al principe, ai magistrati, a tutti, non ha detto se non quello che è virtuoso e santo. Quegli scritti son suoi, da quelli giudicatelo. E giudicatelo ancora dalle sue azioni; le quali egli non ricorda perché sono pubbliche e note, sono azioni di un uomo onesto che non ha mai venduta la coscienza, che non ha mai preteso alcuna cosa, che ha sempre detto il vero dignitosamente. Ora il Settembrini, che fece quegli scritti, è accusato come autore di un proclama furioso e pieno di orrori: Settembrini che non ha fama di balordo, avrebbe confidato il suo segreto ad un malvagio ignorante. Settembrini che ha sempre predicato virtù ed è vissuto sempre onoratamente, avrebbe approvato un disegno di morte: Settembrini, che ha patito molte sventure, che neppur conosce i circoli e quelle adunanze segrete o pubbliche, lecite in quel tempo (come egli dimostrerà con la testimonianza stessa degli agenti del governo che intervenivano nei circoli), il Settembrini è accusato come settario, dipinto come un malvagio. Egli è fieramente ed ingiustamente odiato: e chi l'odiava spingeva ad accusarlo un uomo, che egli proverà essere agente di polizia salariato, un uomo di quelli che per dieci carlini si prestano a tutte le voglie, sono testimoni in ogni processo, un uomo infame a cui un giudice non può deve aggiustar fede. E chi l'odiava vedendo che non poteva perderlo sicuramente, lo avvolgeva nel processo del 16 settembre.

Questo processo tessuto con intrighi, vendette, suggestioni, illegalità, è falso come l'anima di Giuda, 1. perché fatto in una fortezza, luogo non dipendente dall'autorità civile; 2. perché fatto (e sarà provato) alla presenza del prefetto Peccheneda, autorità che la legge non riconosce nell'istruzione, e, nella causa, parte offesa; 3. perché fatto da più stolte e crudeli sevizie. Dappoiché si proverà che tra gl'imputati chi fu tenuto a pane ed acqua cinque giorni, e spaventato da verghe immollate per batterlo: chi ebbe le mani e i piedi legati per più giorni, slegata solo una mano quando doveva cibarsi; a chi fu mostrata una palla di cannone per legargliela al collo e gettarlo a mare; a chi furono fatti vedere i soldati schierati e pronti a fucilarlo; a chi strappata la barba a pelo a pelo tra ingiurie, schiaffi, sputi in faccia; a tutti rasa la barba ed i capelli; a chi arrestata la moglie e tenuta cinque giorni in segreta nella fortezza; a chi dopo vari tormenti dato a bere un grande bicchiere di vino prima dell'interrogatorio; a chi interrogato dal comandante fu obbligato rispondere in iscritto. Queste cose già dette in parte nel costituto degl'imputati, i quali hanno solennemente dichiarato che le loro parole furono suggerite, queste cose si proveranno, si stamperanno, si leggeranno in ogni paese.

Ad uomini così stranamente seviziati si è fatto dichiarare di avere inteso dal Giordano e dal Sessa che il Settembrini era uno dei capi della setta, e che in prigione egli cospirava, ed in luglio approvava un disegno di morte. Giordano e Sessa sono assenti: ma il Giordano, su cui cadevano tanti sospetti, chiamato molte volte dalla polizia, poi arrestato, con nuovo esempio di mansuetudine fu liberato dopo quindici giorni, pochi innanzi il 16 settembre, ed infine senza alcuna molestia uscì dal regno. Come la polizia spiegherà questa sua insolita bontà verso il Giordano? O essa macchinò, o essa provocò quel fatto col mezzo de' suoi agenti che ingannarono pochi stolti, ai quali co' tormenti si fece nominare il Settembrini ed altri più odiati. Eppure il Settembrini in carcere non vide altre persone che quelle della sua famiglia, come dimostrerà dalle note fatte dal custode di chi veniva e di chi era chiamato: eppure in luglio per la riforma avvenuta nel ministero, e per le voci sparse, egli con tutti gli altri, credeva e sperava un'amnistia. Or se anche coloro che lo accusano per avere inteso non si fossero disdetti, basterebbe il semplice buon senso per vedere che chi spera amnistia non cospira, che le cospirazioni nel carcere sono scellerate macchinazioni della polizia. E come la polizia abbia inventata questa, come l'abbia condotta, chi sia stato il suo agente, tutto si dirà nella difesa se sarà necessario.

Infine il Settembrini non crede che gli possa nuocere l'accusa data dal procuratore generale di detenzione di stampe vietate, perché in questo non è reato. Fu trovato tra le sue carte una stampaccia intitolata l'Eremita fra Giovanni, nella quale si parla ingiuriosamente delle persone reali. Questa carta non poteva essere approvata dal Settembrini né per la materia, che è sciocca, né per lo stile che è barbaro; né come documento storico che è una declamazione bestiale. Egli dunque non poteva stimarla, non poteva usarla, e chi lo conosce afferma che doveva disprezzarla. La teneva gettata, dimenticata; la teneva come molte persone oneste terranno ancora di quelle stampe disoneste: come tutti tengono il giornale il Tempo. Non v'è delitto senza volontà di delinquere; ed egli non poteva aver volontà di serbar questa carta sciocca; della quale la gran corte farà quel conto che si fa delle cose sciocche.

Il Settembrini spera che la corte troverà buone queste ragioni, e si persuaderà che egli non è né capo setta, né autor di proclami. Se egli sarà giudicato con la legge e con la libera coscienza del magistrato, questa carta basterà a chiarire come egli è scelleratamente calunniato dalla polizia e dalla fazione che lo abborrisce credendosi offesa; ma se l'odio antico calpesterà ogni legge, e si vorrà vendetta cieca e condanna, egli soffrirà tutto perché l'età, le lunghe sventure e gli studii gli hanno insegnato a sopportar dignitosamente ogni fortuna. La gran corte giudicherà di lui, ma essa sarà giudicata da Dio, dalla sua coscienza, e dalla incorruttibile opinione di tutta l'Europa civile.

Di Castelcapuano, 31 gennaio 1850.

Luigi Settembrini.


Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso dedicata alla Gran Corte criminale di Napoli

Ogni imputato politico ha due giudici; un tribunale che gli destina la legge, e la pubblica opinione. Il mio avvocato parlerà a voi, e mi purgherà dell'accusa che mi minaccia di morte: ma del mio onore, che mi è più caro della vita, debbo parlare io a tutti gli uomini che hanno buon senno naturale, e sono severi giudici dell'onore e dell'infamia. E perché tra questi uomini di buon senno siete anche voi, o giudici della gran corte criminale, io spero che vorrete leggere queste semplici e franche parole che io scrivo. Voi avete stampata l'accusa, io stampo la mia difesa: voi giudicherete di me, l'opinione pubblica giudicherà di me e di voi.

Capo I
Mia vita ed opinioni

Cittadini miei, io sono accusato di delitto contro lo stato, pel quale mi vorrebbero mandare alla forca: onde ho risoluto di difendermi innanzi la corte criminale ed innanzi a voi, perché le cause politiche non appartengono solamente a chi ha la disgrazia di essere accusato, ma a tutta una città, a tutta una nazione. Se mi siete amici o nemici, se mi credete del partito vostro o del contrario, per ora poco importa: ma se avete un poco di buon senso, abbiate la pazienza di leggere questo scritto; ché infine ci troveremo d'accordo; forse mi vorrete bene, come io ne voglio a tutti e sento di non odiare nessuno. Ma prima voglio dirvi quale è stata la mia vita, quali furono sempre i miei sentimenti e le mie opinioni; affinché non facciate come fanno tutti, i quali se odono una voce che dice, “il tale è un eroe,” tutti ripetono “è un eroe,” se dice, “è un birbone,” ripetono, “è un birbone.” Conoscetemi prima, e poi giudicatemi.

Io mi son uno che ho vissuto sempre fra i libri, dai quali sventuratamente ho cavato pochissimo profitto e molti dolori: nel mondo porto una faccia di mezzo balordo, e parlo poco perché non so parlare. Aveva ventitré anni, e dopo un esame in concorso fui eletto professore d'eloquenza nel liceo di Catanzaro. Dopo tre anni e mezzo nel 1839 fui accusato insieme con altri di appartenere alla giovine Italia e condotto a Napoli fui gettato in un criminale, dove stetti per ventisei mesi senz'altra compagnia che le mie sventure e quelle della povera mia famiglia. Fui giudicato dalla commissione di stato, tribunale che faceva spavento pel processo segreto, l'avvocato officioso, la procedura breve, e il presidente Girolami: ma, conosciuta la nostra innocenza, ci assolveva. Allora il ministro di polizia, che ci voleva condannati, diceva al re, che la commissione era stata ingiusta, noi rei: e però proponeva di far rivedere il processo, e mandar noi provvisoriamente in galera. Il re giusto non permise si violasse il giudicato, comandò che ciascuno di noi tornasse al suo paese; ed io perché napolitano rimasi in Napoli. Uscii finalmente nel 1842 dopo tre anni e mezzo d'immeritata prigionia, dopo quindici mesi che fui assoluto. Non ho cuore di ricordarmi quello che ho patito in quei terribili tre anni e mezzo, perché la memoria dei grandi dolori è sempre un dolore: e farei piangere ognuno se narrassi quello che patì la povera moglie mia, la quale mi diede una figliuoletta mentre io era in criminale e non potetti vederla e benedirla; la quale sofferì ogni dolore, ogni più crudele angoscia; parlò per me ai giudici, ai ministri, al re; sofferiva più di me, e mi nascondeva le sue sofferenze per non accrescere le mie. Ritornato fra gli uomini vivi, mi furono chiuse tutte le vie per procacciarmi un pane onorato, mi fu negato di aprire uno studio di letteratura, si volle che io vivessi soltanto per sofferire, si tollerò che andassi correndo ed insegnando per le case altrui. Strascinai questa vita sino al 1848 dividendo i pensieri e gli affetti tra la mia famiglia e i miei studii, ignoto quasi a tutti, sempre solitario, non diedi alla polizia alcuna cagione di riprendermi in minima cosa.

Mutarono i tempi ma io non mutai la mia vita ed i miei desiderii. Il re generosamente ci diede una costituzione, ed io me ne rallegrai, perché vedeva che questa sarebbe un gran bene pel re e pel popolo, perché sperava finiti gli abusi, le ingiustizie, gli arbitrii, che aveano prodotto per ventotto anni tanto male al nostro straziato paese. Onde tra i primi e pazzi furori della stampa io scriveva il 18 febbraio una lettera ai ministri, nella quale li pregava di essere forti e giusti, non distruggere tutto il vecchio perché il vecchio non era tutto pessimo; diceva non esseregiusto, né onesto, né utile che quegli uomini i quali in tempi corrotti servirono lealmente il re, e non abusarono del potere che avevano, fossero mandati giù in fascio coi ribaldi: diceva che resistessero forte alle sfrenate ambizioni di alcuni che si dicevan martiri perché avevan gridato un evviva o erano stati tre giorni in prigione: desiderava che la Sicilia fosse tornata al nostro principe, che nessuno avesse dormito, avesse mangiato, si fosse riposato, prima di finir questo affare: e pregava la maestà del re ed i ministri di provveder presto a questo male. Quantunque io avessi scritta questa lettera, nella quale io non raccomandava altro che la giustizia, e diceva cose approvate dai saggi; pure ebbi fama di fiero e velenoso scrittore, mi credettero autore di tutti i giornali, attribuirono a me tutte le stampe ingiuriose al governo ed ai privati; onde io fui, e sono ancora, fieramente odiato da molte persone che si tengono offese da me, il quale conosco pochissimi, onoro tutti, e non so offendere nessuno. Invano io diceva a tutti: “Non son io che scrivo, no, ma è chi è pagato per seminare discordie e partiti, per aizzar gli animi, per far nascere turbamenti, per toglierci la costituzione che il re ci ha data”. Invano nel mese di marzo io dichiarava nel giornaletto il Lume a gas che io non scriveva in alcun giornale, non offendeva nessuno, rispettava la Costituzione ed il re, badava ad ammaestrare i giovani, e consigliava a tutti di mettersi un sughero in bocca ed un rotolo di neve in capo. Fu tutto invano: quegli stessi che per prezzo o per malvagio animo scrivevano per turbare il paese, gridavano: “Settembrini scrive”: ed il volgo vestito di vari colori, sempre bestiale e superlativo, ripeteva, che io scriveva: gli offesi si sdegnavano contro di me, e taluno mi minacciò di battiture e di morte. La cagione di questa fama io non voglio dirla, ma tutti la sanno e la dicono. Ma io sperava nel tempo, sprezzava queste voci, ringraziava Iddio ed il re che ci aveva dato uno statuto: per me non voleva altro bene particolare che aprire uno studio, ammaestrare la gioventù, stampare senza revisione qualche mia povera scrittura letteraria: chi vive di studi non ha maggiori bisogni di questi.

Ma l'onorevole mio amico, ed ora compagno di sventura, barone Carlo Poerio, allora ministro della pubblica istruzione, credette che io potessi essere utile come capo di ripartimento in quel ministero, mi fece forza ad accettar questo uffizio, e mi propose al re, che benignamente approvò la proposta il 22 marzo 1848. Stetti in uffizio modestamente, non feci male a nessuno, feci tutto il bene che potei, non permisi si violasse la giustizia per favori di partito; e chi può rimproverarmi del contrario si levi e mi accusi. L'uffizio nuovo e grave per me vissuto sempre lontano dalle faccende, il continuo mutar dei ministri che pel breve tempo e le gravi quistioni politiche non potevano fare alcun bene, le ambizioni e la petulanza di molti mi turbarono l'animo, e mi fecero desiderare la pace della vita privata, e quei cari giovani che io ammaestrava, che io tanto amava, e che tanto mi amavano. E però il giorno 13 maggio, che fu sabato, scrissi la mia rinunzia e voleva farla stampare; ma non potetti la domenica, né il sanguinoso lunedì. Il 21 maggio scrissi quest'altra, che è breve, e la mandai al ministro Bozzelli: “Per non rubar tempo a lei, che è ministro, e per non perderne io, non vengo a parlarle: le scrivo ed è tutt'uno. Fin da sabato 13 maggio io aveva deliberato di rinunziare al mio uffizio di capo di ripartimento nel ministero d'istruzione pubblica, ne aveva scritto le ragioni, e voleva stamparle. Ora alle vecchie ragioni si aggiungono le nuove; per le quali tutte io non posso, non voglio, non devo rimanere più in uffizio: sarei inutile alla mia patria, di vergogna a me stesso. Si compiaccia V. E. di fare accettare dal re questa mia irrevocabile rinunzia”. Il Bozzelli non l'accettò, e non la ricusò: ma io non andai più al ministero, e mi posi tranquillamente ad insegnare.

Né mai si potrà dire che io rinunziai perché abborriva quel governo ed amava le sedizioni. Dappoiché nel mese di giugno, mentre più ferveva la insurrezione in Calabria, io invitato dal deputato Faccioli andai in sua casa, dove trovai i deputati Poerio, Wallin, Iacampo, ed altri, tra i quali si discuteva del modo di aiutare il governo costituzionale e persuadere gli elettori ad andar nei collegi e nominare i deputati. Si decise di fare un manifesto, e fu dato a me l'incarico di scriverlo. Io lo scrissi, ed approvato da tutti con poche modifiche fu stampato. Questo manifesto fu creduto allora una scrittura di un retrogrado, e fu bruciato pubblicamente in provincia di Lecce come cosa scellerata. Io che lo scrissi, ora sono accusato come autore di proclami rivoluzionari. Gli uomini non cangiano sì presto, né io ho mutatomuterò mai sentimenti.

Intanto il Bozzelli per buona opinione che aveva di me proponeva al re di darmi il terzo del soldo in pensione ma io gli scriveva questa lettera.

Sento il dovere di ringraziarla che ella presentando al re la mia rinunzia ha proposto che mi si dia una pensione di quaranta ducati al mese; e la prego di ringraziare in mio nome la maestà del re che generosamente ha approvata questa proposta. Ma ella mi permetta che io le dica di non potere accettare la munificenza del principe, perché io sono stato in uffizio un mese e mezzo, non ho reso alcun grande servigio, e non merito pensione. Non disprezzo un benefizio reale: ma io sono avvezzo a lavorare, ed esserne compensato: un dono mi umilia, e mi fa vile a me stesso. Se V. E. vuole che io abbia un soldo, e che io lo accetti, mi faccia lavorare come e dove le pare: ed io le posso promettere di servire esattamente ed onoratamente. La prego di far noti a sua maestà questi miei sentimenti, e di fargli leggere la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai al mio ufficio; affinché il re vegga quale uomo io mi sono, non quel tristo che la malvagità degli uomini ha voluto dipingere con neri colori.” Non so che fece il Bozzelli dopo questa lettera: la mia rinunzia non fu ancora accettata.

Allora mi chiamò il ministro delle finanze signor Francesco Paolo Ruggiero, e mi offerì un uffizio nel suo ministero con soldo maggiore di quello che aveva. Gli risposi che io non poteva accettarlo, perché non sapeva affatto di finanza, e in tutta la vita mia non aveva studiato che letteratura. “Per un uomo d'ingegno,” mi rispose l'eccellentissimo, “questa non è cosa difficile: anch'io non ne sapeva niente, ed in quindici giorni l'ho imparato e ne sono maestro.” “Ma io non posso paragonarmi con voi”: gli replicai, lo salutai, e me ne andai.

Nel mese di novembre 1848 si dovevano eleggere alcuni deputati; e molti mi domandavano se io voleva essere eletto. Bella e desiderata cosa è per un cittadino rappresentare la sua nazione: ma io non aveva l'ingegno e la parola pronta, non ancora era stata accettata, la mia rinunzia, non poteva essere deputato. Ma allora mi avvidi che il mio nome non vi era discaro, o miei cittadini; dappoiché voi nei collegi elettorali del 24 novembre con maggioranza assoluta di voti mi eleggeste a deputato, non richiedente anzi repugnante. Or difendetemi voi dell'accusa che mi da il Procuratore generale, che scrive: “che Settembrini in novembre 1848 aveva per mezzo di Iervolino fatto diffondere dei cartellini fra gli elettori per indurli ad eleggere deputati al Parlamento nazionale esso Settembrini, Nisco, e Turco”: dite voi, che lo sapete, chi ho pregato io? quali pratiche ho fatto? a chi ne ho solamente parlato? E poteva io parlarne all'Iervolino che è un garzone d'orefice, un miserabile, e non è neppure elettore? Ma l'avessi pur fatto: è delitto questo? Il ministero non ha mandato attorno le liste dei suoi candidati? In tutti i paesi costituzionali non si fanno le liste del candidati? è delitto esser candidato? E se non è delitto, perché il procurator generale me ne accusa? Io sono accusato di cosa che non è delitto, come Pasquale Montella è accusato “di tenere un proclama firmato Aurelio Saliceti, tendente a cangiare il governo in repubblica.” E questo preteso proclama sono le parole che il Saliceti disse in Roma quando si proclamò la Costituzione sul Campidoglio, non han che fare nulla con noi, furono stampate in tutti i giornali 4. Come l'Esposito è accusato che “conservava una fascia tricolore, e Molinaro deteneva del pari un fazzoletto tricolore, emblemi di setta.” E si chiamano emblemi di setta quei tre colori che per un anno e mezzo sono stati sulle bandiere napoletane. Come è accusato il Leipnecher, “che nella casa di lui rinvenivansi alcuni opuscoletti del Galanti che han per titolo La voce della verità e la bancograzia (sic), carte che del pari spirano principii liberalissimi.” E questi opuscoletti liberalissimi furono stampati col permesso del ministro Delcarretto, lodati nel giornale uffiziale dell'Anzelmi, ed in altri giornali letterari 5. Se il processo è riboccante di prove, come dice l'accusa, perché scegliere queste che non son prove, anzi per contrario provano brutte intenzioni?

Fui eletto deputato il 24 novembre, e finalmente il Bozzelli fece accettare la mia rinunzia; ma perché quando fui eletto non ancora avevan voluto tormi l'uffizio, io dissi che la mia elezione era nulla, rinunziai spontaneamente, e la Camera approvò la mia rinunzia. E questa sia la risposta che io fo a chi mi accusa che io brigava per essere deputato.

Disciolta la Camera, gli amici, i conoscenti, e quelli che non mi conoscevano, mi venivono attorno, m'investivan per le strade, e mi dicevano: “O Settembrini, vattene, muta cielo: tu sei odiato a morte e più di tutti: se ti afferrano, guai a te”. Io ringraziava tutti del consiglio, e rispondeva che io non doveva temere perché non mi sentiva reo di nulla, perché il governo sapeva le mie azioni e le mie temperate opinioni. E poi chi mi deve odiare, se io non ho offeso nessuno? chi può temere di me che in tutto il giorno non fo altro che studiare ed insegnare? Ma per non dare occasione a queste voci, per godere un poco di tranquillità, e per ristorare la salute della povera moglie mia, che da quelle antiche sventure non ha avuto più un'ora di bene, andai il 6 maggio 1849 ad abitare in un casino sulla collina di Posilipo; dove sperava di aver pace, donde non discendeva se non per le solite mie lezioni. Un tra gli ultimi di maggio discendendo dal casino incontrai nella strada di Chiaia il mio rispettabile amico Carlo Poerio, che da lungo tempo io non vedeva. Questi mi disse che in sua casa talvolta andava un tale Iervolino per cercargli protezione ed impiego, ma ch'era una spia salariata; che egli aveva avuto tra le mani un rapporto che costui scriveva al commissario di polizia Gennaro Cioffi nel quale parlava di esso Poerio e di me: e di me diceva che io gli aveva data speranza di prossima rivoluzione. Io risposi non conoscere neppure di nome quest'uomo: non mi curai di nulla perché avvezzo ad udire simili spaventi, perché era sicuro della mia coscienza, era sicuro che il governo mi conosceva, e non avrebbe commesso un abuso contro di me senza un'accusa legale. Ma il 23 giugno “in linea di prevenzione e per ordine di S. E. il ministro dell'Interno” il prefetto di polizia mi faceva arrestare.

Tutti questi fatti della mia vita e gli altri che dirò appresso, saranno da me provati innanzi la corte criminale con bei testimoni e con documenti. E quantunque da questi fatti si veggano chiare le mie opinioni, pure io voglio dire più apertamente ed al cospetto di tutti come penso e come sento.

Nel mondo non vi sono altri che due soli partiti, gli uomini onesti, ed i birbanti. Io mi sono sforzato sempre di appartenere agli onesti, e non mi son brigato mai dei nomi, perché ho veduto molte opere nefande commesse da uomini detti o realisti, o liberali, o assolutisti, o repubblicani, o costituzionali. Io amo la libertà, la quale per me significa l'esercizio dei propri diritti senza offendere nessuno, significa giustizia severa, significa ordine, significa rispetto ed obbedienza alle leggi ed alle autorità. Questa libertà io amo caldamente, questa è la libertà desiderata dagli uomini onesti: e se amarla è delitto, mi confesso reo, e ne accetto la pena. Per ottenere questa libertà io desidero un governo con leggi giuste, e rigorosamente osservate da tutti senza distinzione: a questo governo date il nome che volete, che poco m'importa; ma leggi e non arbitrio, leggi e non partiti. Negli anni passati non avevamo molte buone leggi, e le poche buone erano violate e calpestate dall'arbitrio; onde nascevano tanti mali, tanto scontento, tanti turbamenti politici: e si vedeva manifesto il bisogno della nazione che voleva buone leggi ed osservate. Vedendo questo bisogno il provvido principe ci diede una costituzione, la quale giunse desiderata e cara a tutti, se non a pochissimi che son nati come i serpi per strisciare ed avvelenare. Per opera di questi pochissimi quella costituzione ora è straziata e lacerata in tutti i suoi ottantanove articoli. Credete voi che questo strazio e questa lacerazione non produrrà altri mali? o che li potrete impedire come vi piace? Voglia Iddio che io sia falso profeta! Io voglio per poco parlare a voi che abborrite la costituzione, che congiurate per rovesciarla interamente: che ne vorreste cancellato anche il nome: Capite voi quello che dite e quello che fate? Credete di amare e di lodar il re, ma voi lo abborrite e lo vituperate. Infatti chi dice che io ho dato una cosa per paura, mi chiama vile, chi dice che l'ho dato a chi non la desidera e non la pensava, mi chiama pazzo: chi mi consiglia di riprendere un dono che io ho fatto ed ho giurato di mantenere, mi consiglia di essere spergiuro. Vedete quale empietà commettete senza saperlo. Onde io grandemente mi maraviglio che il procurator generale, Filippo Angelillo, che è dotto ed egregio magistrato, sul principio dell'accusa abbia scritte queste parole: “In aprile 1848, rotto ogni freno di morale e di religione, i faziosi tendevano a slacciarsi pur da quello di un reggimento costituzionale, che la magnanimità di principe clementissimo avea generosamente donato, seguendo l'impulso del suo reale animo più che il supremo bisogno del sudditi, alla cui immensa maggioranza tutto nuovo, non desiderato, non pensato giungeva”. Queste parole calunniano la nazione, ed offendono il principe: il quale sapientemente ha voluto la costituzione, generosamente l'ha data, religiosamente l'ha giurata, e per sua gloria la manterrà. Chi dice il contrario, sì, offende il principe, ond'è ribelle e degno di pena. Io con tutti gli uomini onesti non ho mai diffidato della religione del principe; ho sempre creduto che egli ci diede uno statuto perché lo credette necessario al nostro bene, ed utile alla sua gloria; e spero fermamente che questo principe giusto e religioso avendoci data una buona legge nella costituzione, voglia farla rigidamente osservare, togliendoci da questo penoso stato d'incertezza, e punendo severissimamente tutti coloro (e me primo, se son reo) che con vari nomi infrangono la giustizia, turbano l'ordine, confondono ogni cosa. Dappoiché la vera cancrena che divora questo paese, la vera cagione che ha prodotti e produrrà tutti i nostri mali infiniti è appunto il non osservare alcuna legge. Or io domando a tutti coloro che mi odiano: Sono onesti questi desideri? sono giuste queste parole? Ed io sempre questo ho desiderato, sempre così ho parlato; eppure sono stato giudicato ingiustamente.

Capo II
Processo a me particolare - Addentellati in altri processi

Con questa vita, con questi sentimenti, con le più sante intenzioni del mondo io mi trovo quinto tra quarantadue persone, che il procurator generale ha chiesto di sospendere a quarantadue forche, perché ci accusa tutti di appartenere alla setta dell’Unità italiana, di cui i primi quindici sono capi, di voler cangiare la forma del governo, di cospirare contro la sacra persona del re, di avere stabilito di pugnalar ministri e magistrati, di voler rovesciare e distruggere mezzo mondo, e pone me tra i primissimi capi e motori di questa grande macchina di setta e di rivoluzione. In diversi tempi ed in vari luoghi la polizia aveva fatto processi contro varie persone per causa di questa setta: il procurator generale li ha riuniti tutti pel solo titolo della setta, senza badare che i fatti e le persone non avevano alcuna relazione tra loro; ha unito i briganti, i truffatori, i galeotti, gl'infami con uomini di chiara fama e di specchiata onestà, già stati ministri, deputati, magistrati, e con altra gente onorata, quasi per avvilirli e renderli spregevoli. Così è nato un mostruoso processo dove sono le più strane e scellerate fantasie che diconsi pruove: e da questa informe congerie si cava l'accusa, e si fa come chi volesse torre una storia vera dall'Orlando furioso. Io so che i grandi apparati nascondono sempre povertà; e pare che si sia accozzato un gran processo per fare una grande mostra ed un grande spavento sul volgo; ma chi non è volgo con un po' di giudizio e di pazienza osserva le cose placidamente, vede sparire di mano in mano il castello incantato, e sorride. Io dunque parlerò prima del mio processo particolare, e poi del generale per quella parte che mi riguarda.

I miei nemici che fieramente e ingiustamente mi odiavano e volevano vendetta ad ogni modo, dissero fra loro: “Settembrini fu altra volta accusato come settario, e lo dicono acre scrittore: facciamolo dunque accusare come settario dell'Unità italiana, e come autore di un proclama rivoluzionario.” Tra i delatori pagati, che sono testimoni in ogni processo, e che quantunque carcerati per truffe e per furti o per note calunnie, sono sempre carezzati ed adoperati, fu scelto quel tristo Iervolino, e fu comperato per accusarmi. Costui è un agente salariato della polizia, come lo mostra quel suo rapporto al Cioffi che sarà presentato dal Poerio, era un cagnotto del Cioffi, è un malvagio che riceve per prezzo d'infamia dodici ducati il mese. Nel 1844 si faceva accusatore di suo padre, dicendo che parlava male del governo con Gaetano Bracale, a cui il commessario Marchese mostrò la denunzia scritta dal figliuolo contro il padre e contro di lui: il Bracale disse a me quest'orrendo fatto. Ecco l'uomo che fu scelto.

Costui, il giorno 23 aprile 1849 scriveva un libello e diceva: che trovandosi senza lavoro e senza pane cominciò ad assistere il Poerio per avere un impiego, e non avendolo subito, pensò che l'indugio derivasse da non appartenere egli ad una società, onde fe' premura al Poerio di ascriverlo, sperando così di spingerlo a dargli impiego essendo lui il ministro di stato: che il Poerio accolse con piacere questa domanda, e lo spedì a Nicola Nisco, facendolo accompagnare da Nicola Attanasio: che il Nisco lo condusse in casa di Federico d'Ambrosio, il quale gli fe' prestare giuramento, gli dié parole e segni settarii: che il Poerio contento di tutto questo gli fece larghe promesse non mai adempiute, quantunque egli assistesse sempre il Poerio, il Nisco, il Settembrini (così io son nominato la prima volta, quasi caduto dalle nuvole): che da tutti noi ebbe incarico di diffondere tra gli elettori dei cartellini in istampa per far nominare deputato Settembrini, Ignazio Turco, e Nisco; e diffondere manifesti stampati coi quali si consigliava il popolo a non fumare, non giocare al lotto, non pagar fondiaria: che gli amici e confidenti del Poerio erano il Settembrini, il Nisco, l'Attanasio, il padre Grillo cassinese: confidenti del Nisco Luigi Tittipaldi e Giovanni Turco: gli amici e confidenti miei erano diversi, ma non sapeva il nome di alcuno.

Dopo 23 giorni, cioè il 6 maggio, chiamato dal commessario di polizia signor Maddaloni dichiara che il libello è scritto e sottoscritto da lui, che la setta è l'Unità italiana, che per la remotezza del tempo non ricorda il giuramento, le parole, i segni; che conobbe me per mezzo del Poerio; che il Poerio, il Settembrini, il Nisco, l'Attanasio, l'Ambrosio, il Grillo son tutti settari: che non può dar testimoni di questi fatti perché tutto avveniva nel segreto.

Il 29 maggio scrive un altro libello che diceva: essere andato in casa Poerio, avervi trovato un farmacista, il deputato Cicconi, e tre altri ignoti, i quali tutti parlavano di un cancelliere ucciso negli Abruzzi per opera di una setta che voleva uccidere tutti i nemici de' liberali: il Poerio averlo spinto a venire da me; egli venne per sapere alcuna cosa di nuovo, io gli dissi non saper nulla, ma gli dimandava quanti uomini egli aveva alla sua dipendenza e quanti armati; ei mi disse una bugia, io me la bevvi, e gli dissi di tornare altra volta.

Ecco l'accusa, ma vaga e preparatoria; ma diretta principalmente contro il Poerio e contro me: tutti e due dovevano essere colpiti, io prima, egli dipoi: per tutti e due bisognava un fatto, per me fu facile trovare un proclama, per lui dovettero fingere una lettera speditagli dal Dragonetti. Circolava per Napoli un proclama sedizioso, si pensò di attribuirlo a me, e di trovare così un fatto pel mio arresto. Questo pensiero trasparisce chiaramente dal vol. 20, fol. 3, processo a mio carico, dove è scritto. “Certifico io sottoscritto cancelliere di polizia che emergendo da indicazioni riservate di alta polizia che l'orefice Luigi Iervolino avesse scienza e potesse somministrare chiarimenti intorno alla diffusione di un proclama sedizioso, circolato nei scorsi giorni per questa capitale, il commessario di polizia don Giuseppe Maddaloni in seguito d'incarico superiore ha disposto chiamarsi il suddetto Iervolino onde sentirlo opportunamente. Napoli 6 giugno 1849.”

Che cosa sono queste indicazioni riservate? Iervolino che è diligentissima spia e scrive tutti i suoi libelli, come non scrive un altro libello per dire che egli sa del proclama? come la polizia sa che egli lo sa? se lo sa dall'Iervolino, perché non c'è una dichiarazione o un libello di costui? perché costui parla di poi? Perché prima non sapeva niente. Infatti nello stesso giorno va innanzi il commessario, e dimandato, non risponde a voce, non fa scrivere le sue parole dal cancelliere, ma le scrive egli stesso, cioè presenta il libello datogli e da lui copiato: nel quale dice: che mi conosce da più tempo, ed è varie volte venuto in mia casa, perché io son dell'Unità italiana, alla quale anche egli fu affiliato. Che il 2 giugno venne in mia casa, io gli dissi di andare da Ludovico Pacifico, che egli chiama mio fido, per farsi dare un proclama che io gli aveva dato; che egli vi andò, non l'ebbe, tornò da me che gliene diedi quattro copie con l'incarico di diffonderle, e che egli consegna alla polizia: che avendomi veduto spesso nella libreria di Gabriele Rondinella crede che costui abbia fatto stampare il proclama.

Tutti questi libelli scritti di mano dello stesso Iervolino con molti grossi errori di ortografia, ma con accorte e maliziose parole e con regolare filo d'idee, mostrano chiaramente che furono copiati da lui, inventati da altri. E veramente il Maddaloni, vecchio e sagace commessario di polizia, che aveva per mano altri processi settari, con insolita bonarietà si contenta di queste dichiarazioni, e non dimanda al denunziatore mille cose e del Poerio, e di me, e degli altri tutti. Intorno a me per esempio poteva dimandargli: “Non ricordi il tempo preciso che conoscesti il Settembrini? Ti ha dato mai catechismi, diplomi, o altre carte? Ti ha mai parlato della setta? Ti ha detto a che tendeva? Se andavi spesso in casa sua, come non conosci il nome di nessuno de' suoi amici? Quanta è questa remotezza di tempo che ti ha fatto dimenticare le parole ed i segni della setta? Come sai che il Pacifico è fido di Settembrini? gli hai veduti mai insieme, e come, e dove, e quante volte? Conosci tu il Rondinella? l'hai udito mai parlar col Settembrini, e di che?” Nessuno dirà che il Maddaloni non fece queste dimande perché mi voleva bene e non voleva scoprire il vero; non si può dire che non le fece per ignoranza, perché egli sa bene il suo mestiere, e le son tali che anche un bambino le avrebbe fatte. Si dee dunque dire che le dichiarazioni scritte gli furono mandate, ed ei dovette rispettarle perché la fazione che mi odiava e che gliele mandò non sapeva far di meglio, e credeva che quello che era scritto bastasse a perdermi, perché si voleva un pretesto per arrestarmi, non una regolare accusa. Se la denunzia fosse stata vera, il commessario l'avrebbe sminuzzata in minime parti, avrebbe fatto ben tornar la memoria al denunziante, lo avrebbe ritenuto come complice non come testimone a carico, avrebbe chiarito ogni cosa, e in quello stesso giorno 6 giugno, avuto facilmente il permesso del ministro, avrebbe fatto arrestar me, cercar la mia casa e la libreria del Rondinella: ma per contrario si da tutto il tempo di diffondere i proclami per l'Europa, perché io sono arrestato il 23 giugno, e la libreria del Rondinella è dimenticata; e solo in luglio, e per ordine di un altro commessario, è ricercata, e non vi si trova nulla. Se opera così chi vuole scoprire il vero, io rinunzio alla qualità di essere ragionevole. Il commessario dovette tacere e rispettare i libelli avuti: e capì che era un pretesto messo in mezzo per arrestarmi, e mi fece arrestare. Il Poerio fu colpito di poi, il Nisco era già in prigione: gli altri furono tenuti in serbo, perché meno odiati.

Legalissimamente, cioè in linea di prevenzione e per ordine del ministro dell'interno, fui arrestato dagl'ispettori fratelli Cioffi, i quali accompagnati dal loro vecchio padre, che si tenne nascosto nelle scale, vennero in mia casa, cercarono e frugarono per tutto con assai diligenza. Era con me il mio egregio amico, avvocato Nicola Mignogna di Taranto, e fu arrestato anch'egli, perché, secondo dice il verbale, “sfornito di carte giustificative e per conservare diverse carte”; mentre egli è in Napoli da venti anni, ed aveva in tasca citazioni sentenze, ed altri libelli giudiziari. Sopravvenne un distributore di libri a nome Angelo Barrafaele romano, che soleva portarmi libri a dispense, e fu arrestato col pretesto di esseresfornito di carta di soggiorno, e per avergli trovate carte manoscritte addosso”; ma la causa vera fu perché seppero che era romano e parlava un orribile dialetto. Sopravvennero dei giovani studenti: gli ispettori videro loro libri e carte, e forse ebbero vergogna di arrestarli. Fummo condotti in prefettura: quei due gettati nei criminali e misti ai ladri, io in un luogo men reo. Anche legalissimamente dopo quattro giorni fui condotto innanzi al commessario Federico Bucci incaricato della istruzione del processo; il quale con modi assai garbati esaminò le mie carte, e non vi trovò nulla che avesse potuto farmi temere o arrossire. Poi m'interrogò e disse: “Voi siete negli arresti perché imputato di far parte della setta nominata Unità italiana, e di aver diffuso un proclama col quale si eccita il popolo ad armarsi contro l'autorità reale, cangiar la forma del governo, ed eccitar la guerra civile nel regno”. Allora seppi finalmente l'accusa che era il pretesto della mia prigionia, e risposi non conoscere questa setta nemmeno di nome; per indole, per ragione, e per trista esperienza abborrire le sette, e sprezzarle: cercai, ma inutilmente, di sapere chi fosse il mio accusatore, di vederlo in viso per confonderlo; dissi di non aver mai dato proclami, chiesi leggere quello, e mi fu letto. Era una sozza e pazza scrittura. Io allora con un poco di santa superbia rammentai e feci scrivere tutte le azioni della mia vita, rammentai le antiche ed ingiuste cagioni che mi facevano odiare, rammentai gli scritti da me pubblicati nei quali si scorgono franche ed oneste opinioni; e col semplice tuono della verità dissi cose per le quali il commessario faceva atti di maraviglia, e mi pareva dicesse fra sé: “Questo è quel terribile uomo che mi hanno detto?” Infine divenimmo quasi amici: e pochi giorni appresso egli disse ad un mio amico che a me lo ripeteva: “Io non so perché si debba temer tanto del Settembrini ed odiarlo, mentre egli è un onesto uomo”. Se tutti quelli che mi odiano volessero vedermi e parlarmi, forse mi diverrebbero amici. Fui condotto nelle prigioni di Santa Maria Apparente, e non fui più interrogato: intanto il processo seguitava.

Il 30 giugno il commessario chiamò l'Iervolino e gli dimandò: “Se tu sei stato più volte in casa Settembrini, chi vi hai trovato?” E quegli, che aveva detto di non conoscere il nome di alcuno dei miei amici, subito nominò il Mignogna che era stato arrestato con me. E poi disse che egli veniva in casa mia quando la polizia mi arrestava, onde corse a darne avviso al Poerio, il quale lo mandò subito ad avvisarne l'architetto Francesco Giordano: ei va, non lo trova nel caffè dove soleva trattenersi, e per dargli l’avviso del mio arresto non trova altro espediente che scrivere il suo nome su di un pezzo di carta, e darlo al caffettiere incaricandolo di farlo capitare al Giordano: ripete che mi conobbe per mezzo del Poerio; dice che non ha mai veduto in casa mia il Rondinella, che non lo conosce nemmeno di vista, ma che arguisce la nostra intimità perché m'ha veduto spesso nella libreria. Dall'intimità che un uomo di lettere ha con un libraio si arguisce che costui abbia stampato un proclama. Logica di polizia!

Interrogato il Mignogna dice: non conoscere l'Iervolino, non averlo mai veduto in casa mia: messi a confronto entrambi, ognuno sostiene il suo detto. Ma il Mignogna gli dimanda: “A qual ora mi hai veduto?” e quei non ricorda. E dopo tutto questo, dopo che il Mignogna fu arrestato per caso, e accusato come mio complice e settario, e pena ben sette mesi in prigione, allora si cerca la libreria del disgraziato Rondinella, e non si trova nulla: si esaminano le carte trovate in casa del Mignogna e del Barrafaele e non si trova nulla: si cerca la casa di Pacifico, e nulla, e lo lasciano pacificamente. Solamente in casa del Giordano il 4 luglio trovano un notamento di 87 persone con sopra questo scritto: nota di Sessa, ed un altro notamento di 90 persone: ma il Giordano non è arrestato, e solo dopo sei giorni, il 10 luglio, è chiamato dalla polizia a voler dare spiegazioni su quelle note. Et dice: che in febbraio 1848 un tale Siniscalchi di Salerno gli diede quelle note di persone cui si dovevano dare soccorsi gratuiti: non saper del Sessa: conoscer me fin dall'infanzia in Caserta, dove suo padre era tenente di gendarmeria, e mio padre era impiegato nell'intendenza. (Il buon padre mio era un onesto e libero avvocato, e non fu mai impiegato d'intendenza. Io conobbi il Giordano nell'infanzia; ma nella giovinezza e nella virilità nol vidi più, e per diversità di studi e di occupazioni non ebbi mai dimestichezza con lui): disse non avere intime relazioni col Poerio; non conoscere l'Iervolino; aver saputo nel caffè che una persona lo cercava, ma non aver avuta la carta col nome. Si cerca delle persone notate, e si trova esser poveri ed arrestati. Chiamato e richiamato il Giordano, finalmente il tre agosto dice aver saputo che quel Siniscalchi era morto il 15 maggio 1848. Il commessario se ne contenta, e lo fa rimanere in prefettura per esperimento, dopo che lo fece star libero un mese dalla ricerca fattagli in casa. Intanto la polizia verifica la morte del Siniscalchi, e non potendo sapere altro dal Giordano, il 19 agosto lo libera. Un uomo accusato come settario, come amico mio e del Poerio, la qual cosa suona peggio di settario, un uomo a cui si trovano in casa due note di 177 persone è liberato. La polizia fu giusta ed umana questa volta. Il povero Barrafaele dopo due mesi, e dando cento ducati di cauzione, poté finalmente uscire di carcere.

Qui finisce il mio processo particolare, il quale comincia dalla denunzia scritta dall'Iervolino il 6 giugno: le altre antecedenti servono per dar principio al processo contro il Poerio, arrestato circa un mese dopo di me, il 19 luglio; il quale esporrà egli e confonderà le stoltissime ed invereconde accuse a lui fatte. Qui io debbo dire che egli dice di conoscere l'Iervolino, perché quand'era direttore dell'interno, questi gli chiedeva un posto, che ei non potette dargli perché non c'eran vacanti: quando egli era deputato, quel tristo gli chiedeva un posto subalterno alla Camera ed egli con lettera lo raccomandò al presidente signor Capitelli. Non avere avuta altra relazione con lui, non averlo mai mandato da me. Lo scelleratissimo uomo si vendette l'anima al Cioffi, che la comperò per 12 ducati: cominciò dal calunniare chi gli aveva fatto bene e non aveva potuto fargliene maggiore: poi si prestò a tutte le voglie, fu strumento di tutte le vendette.

Ecco la sostanza del mio processo, dal quale non risulta altra pruova contro di me, se non un'assertiva che può essere smentita da un'altra assertiva; un'assertiva di un malvagio la quale è solennemente mostrata falsa da tutta la vita di un uomo onesto; un'assertiva di una spia salariata a cui la legge stessa comanda che non si presti fede 6. E nessuno gli prestava fede, e la polizia stessa vedeva e sapeva la nullità del processo: onde non faceva istruzione su i libelli, non incarcerava alcuno dei nominati in essi, neppure quel Federico d'Ambrosio, che l'Iervolino accusa di averlo ascritto nella setta; il quale di poi e ben tardi fu arrestato, ma per esperimento, e per altra cagione, e presto liberato. Io potrei dire: “Infine Iervolino che pruove che io gli ho consegnato un proclama? nessuna. E perché si dee credere a lui e non a me che sono un onesto uomo?” Ma questo dire potrebbe lasciare un dubbio nell'animo di chi vuol sapere netto il vero; se la non curanza di un solerte commessario, le denunzie stesse copiate dall'Iervolino, l'essere egli considerato come testimone, mentre apparisce complice, e il non esser mai venuto a me innanzi, non mostrassero chiaramente che quel tristo è stato strumento dell'odio altrui, e mi ha sfacciatamente calunniato.

Il processo cadde nell'acqua: tutti mi dicevano, ed io lo sentiva, che m'avevan posto in carcere per un cieco sdegno di cui si sa la cagione. Ed io mi rassegnai a soffrire le pene del carcere, vedeva solamente mia moglie ed i diletti figliuoli che venivano a visitarmi; aspettava la mia sorte tranquillamente; udiva con indifferenza le voci di amnistia sparse ad arte dai tristi per tormentare, ripetute dal buoni per desiderio di consolare, credute dai prigionieri che soffrono e sperano, da me, che credo solo ai fatti, non credutediscredute.

Mentre le liete fantasie napoletane fingevano e credevano un'amnistia, i delatori si preparavano, i processi si istruivano, e s'istruivano a questo modo. In un popolo per tanti anni e tanti modi corrotto non è stato difficile di trovare un centinaio di delatori pagati, i quali come cani rabbiosi si gettano contro quelli che ad essi vengono designati, o che essi odiano per particolari cagioni. Uno di essi fa da accusatore, e chiama gli altri per testimoni; e questi dicono le stesse cose con lo stesso ordine, le stesse parole, la stessa fronte, la stessa coscienza; e poi vanno attorno alle famiglie dei denunziati, e per vie indirette cercano denari, e se non ne hanno quanti ne vogliono, son pronte altre denunzie. Così ha fatto un Francesco Paladino, che cercò 300 ducati al Nisco, il quale lo proverà; così hanno fatto i famosi delatori Barone e Carpentieri, che sono carcerati perché stancarono il mondo con le loro sfacciate ribalderie e scrocconerie. Così nel processo contro il Barilla ed il Leipnecher ha fatto Gaetano Vittoria che ha chiamato come testimoni gli agenti di polizia Stefano Longobardo, Natale Ardissone, Luigi Antico, Giacomo Vitolo, il famoso Gerardo Guida, ed altri. Nello stesso modo si fa un processo contro tutta la provincia di Salerno: si manda in Salerno un Ruggiero Marano, per iscoprire la pretesa setta: questo scellerato inventa le più infami e stolte calunnie contro gli uomini migliori della provincia, accusa lo stesso intendente signor Consiglio, come colui che faceva due parti in commedia, il realista ed il liberale; addita come testimoni Emilio Gentile, Samuele Longo, Oronzo Villari, Giacomo Carpentieri, ed altra canaglia poliziesca, di cui scrivo i nomi affinché sieno conosciuti e ricordati. Il commessario Maddaloni va in Salerno, fa un'istruzione segreta, e senza saputa dell'intendente, il quale sospettando di segrete mene fa arrestare il commessario, ma poi egli è tolto di uffizio. Altri poi si fa incarcerare, e tormentando i miseri prigionieri, torcendone le parole, numerandone i sospiri, li denunzia; come ha fatto Bernardino Cristiano, del quale io posso mostrare a tutti le scellerate denunzie, le note delle persone che ei dice pertinaci nel repubblicanismo, le dimande con cui cerca un impiego e in cui espone i suoi meriti di essersi chiuso due volte nel carcere di San Francesco per ordine de' commessari Cioffi e Maddaloni, carte scritte tutte di sua mano. Parlo di questi, perché questi sono accusatori e testimoni in processi sull'Unità italiana, i quali insieme al mio formano il gran processo riunito, che è un ammasso di nefandezze, di stoltezze, di sporchezze, è una sporta di cenciaio, e fa più vergogna a chi l'ha tessuto che paura a coloro cui è stato fatto. In alcuni dei quali processi particolari ci è sempre una velenosa dimanda sul conto mio, la quale non ha avuta una velenosa risposta, perché c'era altro di più grave, e perché io non era additato principalmente. Fra i più schifosi e fecciosi denunziatori è un Antonio Marotta, di Pietrapertosa in Basilicata, or carcerato per ladro in Avellino ed accusato presso la corte criminale di Potenza per calunnia in causa politica che egli ordì contro il canonico Caramella di Tricarico. In luglio 1849 accusa come settario il prete Francesco Nardi, suo zio, ed uomo di poca levatura; e per persuaderlo a confermar le sue denunzie si veste pulitissimamente ed accompagnato dall'ispettore Campagna, va in carcere dallo zio, gli dice che è cameriere di un ministro ed ha tutti i beni del mondo; che anch'egli avrebbe una buona cappellania se volesse confermar le sue parole: e persuase il prete. Poi denunziò il Romeo come stampatore della setta e capo di un comitato settario; denunziò molte altre persone di mano in mano secondo che egli se ne ricordava, cioè secondo gli erano additate, e voleva o compensi o vendetta. In una stalla del Romeo si trovano moltissime stampe settarie, le quali costui dice avere stampate per commissione avuta dal signor Antonio Miele, in casa del quale dice di aver udito parlare di setta, e che ne erano capi il Settembrini, il Poerio, il duca Proto, l'ex ministro Bozzelli, ed il principe di Torcella. Nominava questi due ultimi quando eran già usciti dal ministero in luglio 1849. Anche questo colpo contro di me andò fallito, perocché nessun altro, neppure il Marotta, mi nomina, ed il Romeo stesso nel suo costituto ritratta questa particolarità, mentre conferma le altre, e confessa che gli è stata suggerita.

Ma chi odia fortemente non si stanca mai: io riposava sicuro della mia coscienza, e v'era chi non riposava per perdermi, per farmi comparire non solo settario, ma consigliatore di assassinii; per tormi non solo la pace e la libertà, ma la vita ancora e l'onore. Ma l'onor mio non è in mano de' miei persecutori; io difendo la mia causa, il mondo dia l'infamia a chi si appartiene.

Capo III
Processo dell'esplosione innanzi la reggia il 16 settembre 1849 - Sevizie - Giudizio di ricusa - Ricorsi per eccezioni d'incompetenza

Stava io pazientemente nel carcere di Santa Maria Apparente quando il giorno 29 ottobre 1849 fui chiamato dall'ispettore di polizia signor Primicile Carafa, il quale con una di quelle solite bugie che sono le cortesie che fa la polizia per non ispaventar la gente, dissemi che il prefetto voleva parlarmi; e senza darmi tempo nemmeno di mutar panni, così come era vestito mi fe’ salire in carrozza e mi condusse in Castel dell'Ovo, dove fui chiuso solo in una stanza, e mi furono rasi villanamente quei pochi e modesti peli che io portavo alle gote. Seppi che dopo di me vi fu condotto anche l'egregio mio amico signor Filippo Agresti, che poi vidi rinchiuso in orrida spelonca incavata nel sasso, buia, e sozzissima per un cesso dove gettavansi i vasi immondi degli altri prigionieri. Esule diciotto anni, era tornato in Napoli in febbraio 1848, fu arrestato in marzo 1849, ed è ancora mio compagno d'infortunio. Io sapeva che la polizia pochi giorni innanzi per uno di quegli arbitrii che sono indorati col nome di misure amministrative, dalle prigioni di Santa Maria Apparente aveva tramutati nella Vicaria i signori Trinchera, Cammarota, Nisco, Guadagno; che di notte aveva balestrati in castel Sant'Elmo il Leopardi, il Dragonetti, il Pica, il Barbarisi, l'Avossa, lo Spaventa; che il Poerio ed il Pironti erano stati condotti in Castel dell'Ovo: onde io credeva che per una simile misura fossi stato ivi condotto anche io. E credeva, come credo e sono certo, che di tutti questi trabalzamenti eran cagione le calunnie di un delatore carcerato, che mi odiava perché io lo conosceva, lo sprezzava, e quando io era in uffizio non aveva voluto ascoltare una sfacciata domanda di lui sfacciatissimo gridatore.

Ma il giorno 11 novembre il commessario signor Silvestri mi fe’ chiamare, e m'interrogò dicendomi che io era accusato di appartenere all'Unità italiana, e di essere autore di un proclama. Risposi e feci scrivere che il commessario Bucci cinque mesi prima m'aveva dimandate le stessissime cose, onde io mi riportava a quello che aveva risposto a lui. Sottoscritto questo brevissimo interrogatorio, io chiesi perché mi si facevan le medesime domande. E il commessario mi rispose, che egli istruiva un processo contro coloro che erano imputati di aver voluto il 16 settembre disturbare la benedizione che il papa dall'alto della reggia dava al popolo, facendo scoppiare una bottiglia di materia accensibile. “E in questo che c'entro io che son carcerato da giugno?” “Quel fatto fu ordinato dalla setta, della quale voi siete accusato essere uno dei capi, di aver tenuto riunioni in vostra casa, nelle quali si propose di uccidere quattro ministri; che nel carcere voi coll'Agresti e col Pironti approvaste il disegno di uccidere il ministro Longobardi, il prefetto di polizia signor Peccheneda, ed il presidente della corte criminale signor Navarra.” Io non ricordo che parole io dissi quando intesi così scellerate e codarde calunnie, con quanta istanza chiesi di vedere in faccia quel vilissimo uomo che mi trafiggeva l'onore così malignamente. Allora intravidi tutta l'opera che i miei nemici avevano fatto contro di me, tutto l'odio implacabile, tutta la vendetta che volevano compiere. Non più solamente settario, ma capo; non datore, ma autore, di un proclama; non solo imputato politico, ma consigliatore di assassinii. Dissi, dissi, ma il freddo commessario mi rispose con un'eloquente stretta di spalle, e mi rimandò nella mia stanza. Il dimane il processo compiuto fu mandato alla corte criminale; onde per sola sevizia io stetti quarantadue giorni nelle segrete del castello, per sola forma fui interrogato; ché molti altri sono avvolti in questa causa e non furono mai nel castello.

Il 12 dicembre fui condotto nelle buie e fetenti caverne della Vicaria, dove conobbi che i venuti dal castello eravam ventisette: e fummo tutti gettati in mezzo ad altri tormentati politici, ed in mezzo ai ladri, ai falsatori, agli omicidi. Io avrei voluto che i magistrati che ci debbono giudicare fossero stati presenti quando la prima volta c'incontrammo e ci guardammo tutti per questo buio: avrebber veduto che pochissimi si conoscevan tra loro, che io conosceva pochissimi, che non eran tra noi quelle relazioni che malignamente si credono e si affermano. O con che cuore io rividi ed abbracciai Carlo Poerio, uomo chiaro per fama paterna e propria, chiaro per isventure, per ingegno, per amabile facondia, già ministro e consigliere del re, poi due volte deputato, ora carcerato, ammalato, gettato a perir nella Vicaria: abbracciai Michele Pironti già valoroso avvocato in Salerno, poi deputato, e giudice criminale in Terra di Lavoro, e che io conobbi in casa del marchese Basilio Puoti: abbracciai Filippo Agresti, che io conobbi in Malta: con dolorosa maraviglia rividi ed abbracciai Michele Persico uomo placidissimo ed onesto, che io conobbi perché mi chiese leggere una mia scrittura stampata, che in luglio era andato in Francia per suoi negozi, n'era tornato in ottobre per essere gettato in carcere: rividi il cavalier Ferdinando Carafa de' duchi di Andria, che io conosceva perché venne in mia casa ad udire una prolusione alle mie lezioni di letteratura, che io lessi in marzo 1848, e col quale talvolta per istrada aveva scambiati saluti e cortesie d'uso. Gli altri io non conosceva, io non sapeva che esistessero al mondo.

E nelle prigioni della Vicaria io ho saputo cose maravigliosamente terribili, le quali io voglio dire affinché la storia le registri ed il mondo conosca il modo onde è stato compilato questo processo. Lorenzo Vellucci accusato di avere appiccato ad una cantonata un cartello rivoluzionario nella notte che precedette il 16 settembre, e Salvatore Faucitano accusato come autore della esplosione avvenuta innanzi la reggia, quando furono arrestati e legati, ebbero a soffrire strazi inauditi. Strascinati a spettacolo della plebaglia per le strade della città, furon battuti, feriti, sputati in faccia, insultati da pochissima canaglia che seguiva il notissimo tavernaro detto Monsù Arena, il quale entrò fin dentro al castello, ed al cospetto di onorati militari svelse i peli ad uno ad uno dalla faccia di quei disgraziati, e presosi una ciocca dei capelli rasi al Vellucci se ne andò con essa trionfante. Il Faucitano stanco e rifinito dai tormenti, atterrito dalle minacce di altre battiture e di morte, essendo innanzi all'inquisitore ed al prefetto, e chiedendo un bicchier d'acqua per ristorarsi, gli fu porto un gran bicchier di vino, e poi fu interrogato: come egli stesso dirà e proverà. Il prefetto di polizia che non doveva immischiarsi nella istruzione, e che in questa causa è parte offesa, assisteva agl'interragatorii, ed interrogava i detenuti Faucitano, Margherita, Carafa. Luciano Margherita arrestato in Siracusa e condotto legato ed a piedi in Messina, e di in castel dell'Ovo, dove stette tre giorni digiuno, fu assalito con altre arti. Gli si disse che ei dovesse sottoscrivere una dichiarazione che non nuocerebbe a nessuno ma assicurerebbe il governo. Gli fu promesso un impiego e la protezione dei prìncipi italiani, se no una palla al collo e gittato in mare. La dichiarazione fu scritta, il prefetto la postillò ben quattro volte e ricopiata che fu, il Margherita la sottoscrisse, credendo non nuocere ad alcuno, aver l'impiego e la protezione. Nello stesso modo fu assalito il Carafa, il quale nato ed educato gentilmente, spaventato da minacce e dal carcere solitario, disse e scrisse quello che da lui si voleva. Ognuno degl'imputati ha raccontato quello che ha patito nel castello. Nicola Muro fu tenuto cinque giorni con le mani legate, scioltagli sola una mano quando doveva cibarsi di solo pane ed acqua. La moglie di Giovan Battista Sersale fu tenuta cinque giorni in una segreta del castello. Gaetano Errichiello dovendo esser raso e tosato fu fatto sedere su di una seggiola in una piazza in mezzo a soldati armati che dicevano doverlo fucilare. Io e pochissimi fummo in stanze non orride perché le terribili erano occupate da altri, perché io giunsi tardi, compiuto il processo, rallentati i rigori. Ho saputo ancora che alcuni imputati furono moltissime volte chiamati dall'inquisitore, il quale diceva loro: “per non fare confusione aggiungiamo queste novelle cose al primo interrogatorio, e facciamone uno solo”. Gl'imputati ignoranti acconsentivano: si lacerava il primo interrogatorio, se ne scriveva un altro con la data del primo; così compariscono prima molte cose dette di poi, così si leggono dichiarazioni lunghissime, ordinate, studiate, rotonde, ed anche eleganti. Questo fatto non può provarsi, perché avvenuto tra l'inquisitore, il cancelliere, e gl'imputati veduti ed ascoltati solamente da Dio; ma l'inquisitore, il cancelliere, e gl'imputati dovranno giurare innanzi a Dio sulla verità del fatto. Ho saputo che il comandante del castello signor colonnello Almeyda, onorato e gentile militare, spinto da lodevole zelo, ma ignorando le attribuzioni sue e quelle d'inquisitore, fu adoperato anch'egli nella istruzione di questo processo strano. Sforzandosi di persuadere il detenuto Gualtieri di dir molte cose, gli dettò alcune dimande, e volle che il Gualtieri gli rispondesse in iscritto. Questi tornato nella sua stanza lesse quel dettato all'Agresti che era in una stanza contigua alla sua e divisa per una porta: rispose, e ritenne la minuta la quale comincia così: “Si chiede conoscere dalla giustizia i seguenti particolari, mentre la stessa è in piena conoscenza con prove incontrastabili” e dopo tre dimande finisce così: “I tristi congiurati a commettere delle nuove rivoluzioni non che progettarsi in tradimento per uccidere il prefetto della polizia, e il degno magistrato della presidenza criminale”. Chi conosce l'Almeyda lo ascolta parlare. Nondimeno io non intendo di offendere quell'egregio uomo, e cortesissimo verso di me, e che io pregio altamente, ma voglio indicare chi lo spingeva a questi atti e in quale modo fu fatto il processo.

Il procuratore generale credé che questo processo fosse piccola cosa, e piccolo il numero di ventisette persone; onde raccolse tutti i processi dell'Unità italiana, nei quali si leggono accusate di setta più di dugento cinquanta persone, e tra i presenti ed arrestati ne sceglie quarantadue, e contro tutti i quarantadue scaglia un'accusa di morte, e chiede che il giudizio si faccia dalla corte criminale con rito speciale, cioè con procedimento più breve, senz'appello, e la decisione si esegua tra ventiquattr'ore. Dopo quest'atto d'accusa ne seguirono tre altri simili, l'uno contro quindici poveri contadini di Gragnano 7, il secondo contro dodici popolani del mercato 8, il terzo contro 57 persone imputate di aver fatto una dimostrazione il 29 gennaio 1849 per festeggiare l'anniversario della costituzione. Così in poco più di un mese il procurator generale Filippo Angelillo chiede umanissimamente la morte di cento sei uomini.

Essendo ancor segreta l'accusa fummo chiamati a costituto innanzi la corte criminale. Allora quelli che avevano patito, parlato o scritto, narrarono i loro tormenti, dissero le suggestioni, le minaccie, le lusinghe avute, ritrattarono quello che avevan detto nella prima istruzione. Gl'imputati Poerio e Pironti dissero che tra le accuse v'era quella che i settari avevan fatto disegno di uccidere il signor presidente Navarra, giudice nella causa e commessario; onde rispettosamente e senza intenzione di offenderlo lo ricusavano. Questa ricusa fece sospendere i costituti: fu sottoscritta un'apposita dimanda da dodici di noi imputati, e dagli avvocati signori Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo, e presentata alla corte per giudicarne. Per verità prima di questo il signor presidente si aveva fatto questo scrupolo, ma la corte glielo aveva levato, decidendo che il presidente poteva giudicarci: onde rigettò la nostra ricusa. Ne facemmo ricorso in suprema corte, e questa rigettò il nostro ricorso, e c'impose come presidente, giudice, e commessario della causa il Navarra, contro la cui vita, come dicevano alcuni imputati confessi, si macchinava, e congiurava dai settari. Le decisioni della corte criminale e della suprema corte sono stampate, e si possono leggere da chi desiderasse sapere quali furono le ragioni e le considerazioni per le quali ostinatamente fu rigettata la nostra dimanda. Io non le ho mai capite, perché sono un uomo fatto alla grossa, con solamente un po' di senso comune in capo, ed il senso comune ora è cosa differente dalla legge, ed in certi tempi il senso comune e la legge son cose che si debbono mettere da banda. Ricominciamo i costituti: ultimo il Pironti lesse per tre ore una sua lunghissima memoria di descarico, e nello stesso giorno, che fu il 9 febbraio di quest'anno, la corte dopo di aver meditato con divina intelligenza le memorie presentate dal Poerio, dal Pironti, dal Nisco, da me, e tutti i discarichi di quarantadue imputati, dopo una discussione di mezz'ora conferma l'accusa, e passa serenamente a trattar la causa de' contadini di Gragnano. Così è pubblicato l'atto di accusa, che è un bel libro, stampato, con l'elenco de' documenti, e la decisione della corte criminale che lo conferma. Allora vidi tutta la tela variatissima del processo, conobbi di che io era accusato, quali eran le volute pruove contro di me, e scorsi l'opera della malizia, dell'odio segreto e represso che meditò contro me una terribile e infallibile vendetta.

Parlerò del processo nel capitolo seguente: ma prima di finir questo, debbo dire due cose gravissime. La prima è che Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo nostri avvocati, che con la parola e con gli scritti avevano coraggiosamente difese le nostre ragioni nel giudizio di ricusa, furono il Tofano imprigionato, il De Filippo costretto a fuggire dal regno. Questi uomini generosi certo non si son doluti di aver incontrata una sventura per aver esercitata una virtù; ma ben ci siamo doluti noi per la bruttezza del fatto, e per aversi compagni nel dolore.

La seconda cosa è la seguente. Contro la decisione che conferma l'accusa e dichiara la corte speciale abbiamo fatto tre ricorsi alla suprema corte di giustizia. Il primo in nome di tutti dice: “Noi siamo accusati di cospirazione contro la sacra persona del re: di questo reato non ci avete nemmeno interrogati, ed il procurator generale nell'accusa non ne adduce la più piccola e la più lontana pruova: onde la corte, che ha ammessa l'accusa ritenendo i fatti e le pruove espresse dal procurator generale, ha fatta una decisione non motivata, ha male giudicato, e la sua decisione dev'essere cassata”. È stata confermata. L'altra in nome del Poerio, il quale diceva: “Voi mi accusate di un delitto che l'accusa stessa sostiene che io ho commesso quando io era deputato: or l'articolo 48 dello statuto dice che i deputati che hanno commesso un delitto durante il tempo del loro mandato debbono essere giudicati dalla camera de' pari costituita in alta corte di giustizia; e però se ancora v'è la costituzione, se lo statuto non è lacerato, la corte criminale non può giudicarmi”. La suprema corte l'ha rigettato. Il terzo in nome di Nisco diceva: “Tra le accuse datemi c'è quella che io voleva sedurre i militari. La legge dice che se a questo reato se ne aggiungono altri qualunque, debbono tutti essere giudicati dal consiglio di guerra: dal quale io dimando di essere giudicato”. La corte suprema, che ha rimandati al consiglio di guerra molti accusati che dicevan belle ragioni per esser giudicati dalla corte criminale, si riserva delle stesse belle ragioni e le ritorce per rigettare il ricorso, e rimandar Nisco alla corte criminale. E quasi che tutto questo fosse poco, abbiam dovuto sofferire di leggere sul giornale il Tempo che le nostre eccezioni eran cavilli e pretesti per ritardare la causa e la condanna che meritiamo. Sia lecito al Tempo di sragionare e di calunniare noi, purché non calunni e non offenda una nazione sventurata.

Rimane adunque la pubblica discussione, tremenda per tutti, perché in essa si scopriranno molte e forti verità. In essa interverranno solo pochi uomini e presenti, molti dei quali sono preoccupati da oblique opinioni o sono stupidamente curiosi, e non possono formare quel chiaro ed imparziale giudizio che chiamasi pubblica opinione, e che sarà formato sicuramente ed esattamente dai lontani e dai posteri, ai quali io volgo il pensiero e credo di parlare in queste carte.

Capo IV
Sguardo generale sul processo

Gettando uno sguardo sopra tutta la immensa mole del processo, si vede che tra le denunzie e le confessioni, tra gl'indizii, gli artifizii, e le pruove sorge una pruova gigantesca, scorgesi un gran fatto che genera tutti gli altri, odesi una voce generale ed uniforme: che tutto quello che si dice avvenuto, è avvenuto perché si voleva togliere la costituzione; che la stessa esplosione avvenne per impedire una dimostrazione anticostituzionale. Se si vogliono ritenere i fatti se ne deve ritenere ancor la cagione ch'è questa: se il fatto è reo, più rea è la cagione che lo produce: e se non si rimuove questa cagione è inutile punire questi fatti, che ne nasceranno altri più gravi. È tristamente vero che le cose umane sono governate dalla forza, e che quando un partito vince opprime l'altro senza guardare a diritto o a giustizia, parole inventate dai deboli ed usate in pace. Ma la pubblica opinione è anche forza, e la storia che registra i giudizi delle nazioni e dispensa l'onore e l'infamia ha qualche potenza che non hanno i cannoni. Un giorno si saprà con orrore che nel nostro paese una fazione retrograda e stoltamente nemica di se stessa, del principe e della nazione, ha congiurato e congiura per rovesciare la costituzione; e bestialmente sdegnandosi contro quelli che a lei si oppongono, li accusa di cospirazione contro quel governo che essa cerca di abbattere, li chiama con quei nomi che convengono a lei, li giudica con quella legge che condanna lei, li condanna a quella pena che essa dovrebbe subire. Questo fatto sorge luminoso e grande sopra tutto il processo, ed esso solo basta per annullarlo, e rivolgerlo non contro i quarantadue accusati, ma contro i nemici del principe e del paese che compongono la fazione retrograda. E sebbene questa fazione sia una setta, e come tale dovrebbe essere punita; pur non dimeno se quelli che a lei si oppongono hanno scelto il mezzo della setta, questo mezzo è reo, e deve essere punito. Io non negoaffermo l'esistenza della setta dell'Unità italiana; quantunque potrei dire che i denunzianti ed i confessi, se togli l'Iervolino, non parlano di giuramento, senza il quale la legge non riconosce setta; che le riunioni non sono provate, o almeno non hanno carattere settario: io affermo e sostengo che io non sono settario. Io son certo, e lo proverò in modo che altri avranno la mia certezza, che il processo è una gran macchina inalzata dalla polizia sopra pochi fondamenti veri, e che due o tre uomini insofferenti e sconsigliati, volendosi opporre a chi voleva distruggere la costituzione, posero mano a varii mezzi, usarono varii inganni, si servirono dell'autorità di varii nomi, e forse tentarono anche la setta; la polizia li scoprì, li credette utili ai suoi disegni, li circondò dei suoi agenti, li fe’ consigliare satanicamente, li spinse ad ogni eccesso, li condusse fino ad un fatto che avesse colpito le fantasie altrui, ma non avesse nociuto a persona, e poi formò un processo che pare un castello incantato, e nel quale ha posti gli uomini che essa voleva perdere. Queste sono arti sue, ed arti vecchie: così mescolava i suoi agenti tra quelli che più oscenamente gridavano abbasso: così li mescolava tra quelli che formarono le barricate il 15 maggio; e così per mezzo loro suole accendere e ravvivare ogni opera scellerata. Ma l'anello che romperà questo incanto è la ragione. Esaminiamo dunque il processo.

Prima che Salvatore Faucitano, accusato come autore di quella esplosione, fosse arrestato la mattina del 16 settembre innanzi la reggia, in un'altra strada della città verso l'alba dello stesso giorno era arrestato il Vellucci come colui che aveva affisso ad una cantonata un cartello nel quale si consigliava il popolo di non concorrere alla benedizione del papa. Costoro dissero di avere ciò fatto per consiglio ed ordine di quel Francesco Giordano, del quale ho parlato innanzi, e con l'opera e l'aiuto di Francesco Catalano, di Errico Piterà, e di altri. Dimandati ambedue se sapessero l'autore dei cartelli, il Vellucci disse non saperlo, il Faucitano rispose: “Giordano non indicò colui che aveva i cartelli scritti, però da Catalano venne a sapere che egli aveva fatto il borro de' cartelli, e che fattolo rivedere nelle prigioni a Poerio e Settembrini, il primo lo voleva moderato verso il governo, l'altro cioè il Settembrini intendeva farlo oltremodo vibrato; ma che egli rifacendolo vi aveva dato del settembriniano e del poeriano: così l'aveva fatto affiggere senza nemmeno indicarmi per mezzo di chi 9”. Il Catalano nel suo interrogatorio del 28 settembre confessa che egli ed il Piterà scrissero di loro mano i cartelli: poi soggiunge queste parole: “Animandosi quistione tra me ed il Piterà su di una frase dei detti bigliettini che Piterà diceva non essere acconcia, io sostenni il contrario e per mera millanteria, mentre in realtà non ve n'era niente, dissi di averli fatti leggere a Poerio ed a Settembrini, il primo detenuto di San Francesco, l'altro in Santa Maria Apparente; anzi per dare più tuono alla cosa dissi che Poerio era sempre transigente, perché aveva fatto togliere alcune parole del proclama: ma questo è meramente falso, perché tali individui non li conosco affatto 10”. Ecco come sono nominati due uomini onesti perché hanno fama di amare onesta libertà e di sapere accozzar due parole scrivendo. Il Catalano ci nominava perché ci aveva intesi nominati da altri, i quali vendevano i nomi nostri e di altre persone. Or qui si dee sapere che il Catalano è un uomo d'anima, tutto di chiesa e di orazioni, ha confessato ingenuamente il fatto suo, e non si è mai smentito. L'istruttore che lo aveva odorato, dopo gl'interrogatorii gli si appoggiava al braccio, e passeggiando per la stanza, e carezzandolo gli dimandava mille cose, e due ne voleva sapere per forza, che il Poerio ed io avevamo scienza di quei cartelli, e che il Giordano aveva stretta corrispondenza coi detenuti di Santa Maria Apparente. Se il Catalano non fosse stato un uomo di coscienza, se non avesse confessato ingenuamente di aver detto una bugia per dar tuono alla cosa, il Poerio ed io avremmo anche quest'altra accusa: la quale essendo invincibilmente provata stolta e falsa, non ci tocca più, ed io la getto e la dimentico.

Il fatto dei cartelli e della esplosione è originato da quel Giordano, verso il quale la polizia mostròbuone viscere e tanta materna amorevolezza che fa meraviglia. Dappoiché se abbiam veduto e vediam arrestar la gente a furia e per niente, e rimaner dimenticata in carcere; se è stato arrestato e giudicato dalla corte criminale un Eduardo Cassola fanciullo di dodici anni per avere scritta una lettera fanciullesca ad un compagno di scuola della stessa sua età; il Giordano accusato settario dall'Iervolino, e che ha in casa due note di centosettantasette persone, non è arrestato affatto; ma è carezzevolmente chiamato dalla polizia, che lo ammonisce a dire il vero, e dopo un mese gli la correzioncella di tenerlo sedici giorni per esperimento in prefettura, e lo libera il 19 agosto. E dopo il 16 settembre la polizia avendolo scoperto capo settario e capo di un comitato, non adopera quella sua profonda sagacia, decantata dal procurator generale nell'atto di accusa, non ne segue le tracce, non va fiutando per iscovarlo dal nascondiglio, anzi neppure lo cerca e gli tempo ed agio di uscire dal regno. O la polizia ha cangiato natura, o la cosa va ben altrimenti. Compagno ed amico del Giordano era Angelo Sessa, sotto direttore dello stabilimento dei matti a Pontirossi, il quale nel processo è qualificato col titolo di “uomo pieno d'impegni e di estesi rapporti.” La polizia doveva sapere che costui era un cervello torbido, un uomo pericoloso, e nientemeno che capo di un circolo o comitato; perché Achille Vallo soldato congedato 11 nel suo interrogatorio del 28 settembre dice: che sei o sette mesi prima per mezzo del Margherita conobbe il Sessa, fu ascritto nel comitato di cui questi era presidente; che egli vi si ascrisse per consiglio di don Domenico Mercurio agente del governo, e che a costui poi diceva fedelmente e minutamente ogni cosa. Ed il Vallo chiamerà il Mercurio per provare i suoi detti. Doveva la polizia saperlo perché in casa Giordano trovò la nota di Sessa; perché quando fu chiamato Gaetano Errichiello disse che fra gli avventori e parlatori nel suo caffè andava il Sessa; perché è cosa nota che di poi si fece una perquisizione in casa del Sessa; il quale fu sempre cercato e non mai trovato. Doveva la polizia saperlo, perché il 7 settembre gli agenti segreti Natale Ardissone e Michele Andreozzi scrivevano al prefetto che Angelo Sessa, Giovanni Fiorentino e Luciano Margherita avevano giurato di ucciderlo con “pugnalarlo nell'ora della ritirata; che tengono delle riunioni settarie demagogiche ma sempre in diversi luoghi per non essere scoperti”; che Raffaele Ubaldini conosce tutto e può dirlo 12. L'Ubaldini, altro agente di polizia, conferma ogni cosa, specialmente contro il noto demagogo don Angelo Sessa 13. Si sa tutto dalla polizia, e non si cerca il Sessa, il quale non si può dire nascosto, perché aveva relazione con i suoi affiliati, perché mandava danari e panni al Margherita sul finire di agosto, perché era in casa Catalano la sera del 14 settembre, perché era conosciuto e seguitato dal Vallo. Il prefetto dorme sul suo pericolo, forse perché non lo crede: ma dopo il 16 settembre che il Sessa è stato scoperto settario e capo, non è carcerato, e assai comodamente se n'esce dal regno come il Giordano.

Questi due amici col Catalano, col Vallo, col Francesco Antonetti, col Vellucci, col Piterà si radunavano nella bottega da caffè di Gaetano Errichiello a Pontenuovo, ed ivi tra il fumo e le tazze discorrendo di politica, gridavano, spropositavano, facevano i più strani disegni del mondo; i quali sarebbero rimasti innocenti disegni se la polizia non vi avesse posto la mano. Udite che dice di loro il caffettiere Errichiello, il quale dopo di aver detto che tutti i soprannominati frequentavano il suo caffè soggiunge: “Avvenuto lo scioglimento delle camere legislative, Sessa, Catalano, e Giordano intensamente dispiaciuti, e con accanimento si pronunziavano contro il ministero d'allora, rivolgendo fra l'altro il loro risentimento ai ministri Bozzelli e Ruggiero, che quantunque creati dalla rivoluzione propugnavano per abbattere la costituzione. Tutti i surriferiti individui seguitarono a venire nel caffè, quando circa due mesi dopo a tale epoca in una mattina Sessa e Giordano parlando tra loro di affari politici, intesi che il Sessa diceva all'altro che era necessario starsi uniti, ma che per conseguire tale scopo faceva d'uopo d'istallarsi dei circoli. Giordano vi si opponeva dicendo che i circoli a nulla menavano, ma sibbene si doveva badare allo spirito pubblico e siccome Sessa insisteva nella sua opinione se ne andarono questi contrastati: ed in effetti per due o tre giorni non si trattarono. Quindi essendosi di bel nuovo avvicinati decisero d'istallare i circoli ecc... 14

Dopo di costui udiamo quel dabben uomo di Catalano nella sua ingenua confessione che ritrae tutta la serenità d'una coscienza pura, e che è principale elemento del processo: “Nel mese di aprile e di maggio ultimo con esso Giordano guardando la situazione d'Italia nella consumazione d'ogni vestigio liberale in Napoli, e persuasi che ciò avveniva non per mala fede del re ma per la corruzione degli uomini, progettammo di formare un comitato diretto allo scopo di effettuare la costituzione col titolo di comitato di operazione, il quale avrebbe dovuto dipendere da un altro comitato superiore che progettammo di fare istallare nelle carceri di Santa Maria Apparente fra quei detenuti politici (allora dei nominati c'era colà il solo Agresti), tendente a costituirsi in comitato di direzione, ma quest'ultimo comitato per quanto io ne sappia non si costituì. Intanto verso la fine di luglio o i principii di agosto ultimo, vedendo che le cose invece di migliorare andavano al peggio, risolvemmo d'attuare isolatamente il detto comitato di operazione; e fu perciò che io ne parlai al Sessa, questi al Gualtieri, e Giordano ne tenne parola a Faucitano, acciò ognuno si fosse cooperato a rinvenire i mezzi per l'attuazione del medesimo 15”. E l'Antonetti dice anch'egli lo stesso. “Rivedendoci quasi tutte le sere nel caffè di un tale Errichiello alla strada pontenuovo seppi da Sessa che costoro tutti dipendevano da lui per rendere servizi al comitato che Sessa con Giordano e Catalano sempre progettavano e dicevano voler istallare, ma mai se ne vide l'effetto, tanto che principiammo a dare ai medesimi del ciarlone. Non ci siamo mai riuniti in qualche casa, e non si è detto lo scopo a cui tendeva il comitato che Sessa intendeva creare: solo sentiva dire da Sessa medesimo che si doveva sostenere la costituzione che dal re era stata conceduta 16.” Il Vellucci, il Vallo, il Piterà dicono le stesse cose. Onde si vede chiarissimamente che la setta, i comitati, i circoli, i concerti, le dimostrazioni, le uccisioni, e tutto quell'abisso di rivoluzioni che apparisce dal processo sono un racconto di fate che si faceva dal Sessa, dal Giordano ai loro amici nel caffè dell'Errichiello: sono sogni di fantasie napolitane che gareggiavano nell'immaginare, che credevano vero quello che essi immaginavano, e credettero di fare uno sforzo da scrollare il mondo con affiggere due cartelli manoscritti, e sparare un salterello innanzi la reggia. Se non ci fosse lo spirito di parte che ingrandisce e maligna ogni cosa, se non ci fosse la polizia che trasforma ogni azione in delitto, questi fatti dovrebbero far ridere la gente di buon senno. Il Sessa ed il Giordano per dar credito alle loro fantasie parlavano di un gran comitato o di un grande consiglio che stava nelle nuvole, e talvolta scendeva in tutta la sua grandezza sull'altura di Santa Maria Apparente, come gli Dei di Omero discendevano a consiglio sul monte Ida: e di questo alto consiglio essi erano parte, essi lo ragunavano, essi ne eseguivano i decreti, essi ne sapevano le intenzioni, essi ne erano mente ed esecutori insieme. Quelli li ascoltavano intenti e ne bevevano le dorate parole. Povere menti umane! poveri sognatori cercati a morte dal procurator generale!

Il Sessa ed il Giordano sono assenti, perché la polizia avendoli circonvenuti con i suoi agenti ed avendoli spinti dove essa voleva, capiva bene che questi non avrebbero detto quello che essa desiderava, anzi avrebbero svelato qualche segreto importante, avrebbero detto nettamente come andava la cosa, non si sarebbero avvolti nel processo gli uomini odiati e segnati di nero; onde finse di dormire, li fece fuggire, e poi li fece parlare come essa voleva per bocca de' loro seguaci. Non c'è potenza di ragione umana che su questo punto possa negare che la polizia è o calunniatrice, o incredibilmente sciocca. E chi vorrà crederla sciocca? Il Giordano ed il Sessa formano l'anello che unisce la esplosione alla setta, ed all'alto consiglio: e le dichiarazioni di Luciano Margherita loro confidente, che dice quello che ha inteso da loro, sono il principal perno intorno a cui si aggira il processo. Io le esporrò minutamente nel capo seguente.

Capo V
Prima e seconda dichiarazione di Luciano Margherita, fondamento principale dell'accusa

Luciano Margherita, come dice lo stesso prefetto 17 congedato dalla reggia, fu nel mese di giugno arrestato in Napoli come vagabondo e rilasciato in consegna a Giovanni de Simone, poi arrestato altra volta fu mandato in Siracusa sua patria il 30 agosto, donde fu tratto in castel dell'Ovo. Fece la sua prima dichiarazione il giorno 11 ottobre, che in breve è questa: “Nutrisce attaccamento al governo, il bisogno solo lo fa comparire reo: dirà come fu tratto in inganno, e se colpa vi è si deve ai capi attribuire”. In agosto 1848 rivide il suo amico Onofrio Pallotta, brigadiere dei dazi indiretti, il quale gli fece conoscere don Angelo Sessa, che “apparteneva al comitato centrale ed era uomo pieno d'impegni e d'estesi rapporti.” Ei gli si raccomandò, ed il Sessa lo fece ammettere nello studio dell'architetto Francesco Giordano. “Non andò guari che questi gli disse che se non si fosse ascritto al suo comitato, ei lo avrebbe allontanato dallo studio, che egli non voleva essere in contatto con realisti.” Egli per non perdere il pane disse di sì; e da quel punto conobbe che il Sessa ed il Giordano appartenevano all'Unità italiana, ed erano capi di due circoli; egli fu ascritto alla dipendenza del Sessa che prima conobbe. Questo avveniva fra il fine di settembre e 'l principio d'ottobre. In marzo 1849 ebbe dal Sessa il diploma della setta, e l'incarico di cercare altra gente e farla ascrivere al circolo. Egli vi fece ascrivere il Vellucci, il Piscopo ed altri ai quali fu dato il diploma. Venuta la Pasqua il Sessa distribuì del danaro, a lui, al Pallotta, ad altri popolani ignoti. “Questo circolo non si è mai riunito malgrado che Sessa sempre diceva di volerlo fare seguire, ed alle volte Sessa, Giordano, ed altri individui che dipendevano dal circolo di costui si riunivano al caffè di Gaetano Errichiello. Dai discorsi fatti da Sessa e Giordano intesi nominare don Michele Pironti, don Michele Persico, Agresti, e Settembrini come membri del comitato centrale; e siccome per quanto essi Sessa e Giordano dicevano che ogni membro del gran comitato potea presedere ad un circolo, io sospettai che ognuno dei detti quattro individui dovesse presedere qualche circolo.” Dice che fu arrestato il 14 giugno, e dopo dodici giorni liberato. Verso la metà di luglio fu arrestato un'altra volta ed il 30 agosto imbarcato in Siracusa, lasciando il suo diploma a Giovanni de Simone che la prima volta gli aveva dato mallevadoria, la seconda lo visitava, gli dava del suo, e danari ed abiti mandatigli dal Sessa. Dimandato a che tendeva la setta, risponde: “Io l'ignoro, ma per quanto Sessa e Giordano dicevano, lo scopo era quello di mantenere la costituzione, che dal governo si voleva rimuovere”. Non conosce e non ha veduto mai in compagnia del Sessa o del Giordano né l'Agresti, né il Settembrini, né il Persico: stando una volta in casa Giordano, vide venire un signore con gli occhiali che seppe chiamarsi Pironti. Quattro o cinque mesi dietro ebbe dal Sessa diverse copie d'un proclama stampato con l'incarico di propagarlo tra i componenti del circolo: e il Sessa gli disse che tal proclama era stato composto dal Settembrini. Ei né diede copia al Vellucci, al Piscopo ed altri.

Si trova una copia del proclama in casa del Vellucci, il quale dice averlo avuto dal Margherita, e da costui aver saputo che l'aveva composto io. È lo stesso proclama presentato dall'Iervolino.

Quanto il Margherita dice del preteso comitato e del proclama, l'aveva udito dire dal Giordano e dal Sessa; i quali se fossero presenti forse direbbero come il Catalano: “Noi abbiamo nominato queste persone per mera millanteria, per dar tuono alla cosa, noi abbiamo mentito”. E qui io considero come intatta la dichiarazione del Margherita, il quale si è interamente disdetto nel costituto, confessando che fu costretto a sottoscrivere ogni carta dalle minacce, dagli apparati dei tormenti, dalle lusinghe e dalle promesse che gli faceva l'istruttore. Del suo costituto non voglio giovarmi punto, accetto le dichiarazioni come stanno. Il signor Silvestri che è stato l'ingegnosissimo architetto di questo processo, dal quale ha ritratto grande lode e maggiore uffizio, si contenta anche egli di questa dichiarazione, la quale è monca, e piena di lacune: ed anch'egli non dimanda niente di quello che era importante dimandare. Imperocché nessuno si persuade che tra agosto e settembre il Margherita conosce il Sessa, che lo presenta a Giordano, e questi gli dice: “O sii settario con me, o vattene”; e che in sì breve tempo divenne intimo di ambedue e fu ascritto alla setta: o il tempo sarà stato più lungo, o ci sarà stata qualche altra persona per mezzo, e la cosa sarà andata altrimenti. E questo ascrivere che cosa significa? fu forse notato il nome in un libro? diede giuramento? Margherita tace: il commessario non glielo dimanda: non gli dimanda neppure che cosa fece da ottobre 1848 a marzo 1849 spazio di cinque mesi. In marzo ha il diploma, ma le istruzioni della setta l'ha avute? il giuramento l'ha prestato? come poteva avere il diploma senza essere settario? come si può essere settario senza giuramento, senza conoscere le regole della setta? Niente di questo gli dimanda l'istruttore. Il quale udendo parlar della setta, avendone lette le istruzioni, che la polizia già aveva avute, doveva pur dire al Margherita: “Ma questo comitato centrale che cosa è? Nelle istruzioni non c'è questa parola. Confondete voi i nomi, o questo comitato è un'altra cosa?” Non voglio dire che avrebbe dovuto dimandargli quando e dove il Giordano ed il Sessa gli avevan parlato di questo comitato, e dei suoi pretesi membri; ma per Dio! il Margherita confessa che è stato due volte arrestato e il commessario non gli dimanda perché. Questo perché viene detto dopo dieci giorni, il 21 ottobre, e dal prefetto, ed un perché freddo; come vagabondo; ma non si è detto perché fu tenuto da luglio a tutto agosto in carcere e poi mandato in Siracusa. Ma sia pure qualunque la causa della nessuna curiosità con cui fu fatto questo interrogatorio, il commessario dovette certamente rileggerlo, e rileggendolo doveva non contentarsene, richiamare il Margherita e fargli mille altre dimande. Niente affatto: la cosa, come tutte le cose di questo paese, va al contrario. Dapoiché il 16 ottobre il commessario volendo mostrare al detenuto Luciano Margherita il diploma a lui intestato dice: “lo abbiam fatto rilevar dalle prigioni e venire in nostra presenza, e fattogli estensivo tal diploma l'ha riconosciuto 18”: e nello stesso giorno 16 ottobre il Margherita, sentendo che nella sua dichiarazione ci erano quelle mancanze che il commessario non aveva sentite, chiede egli di voler parlare e dire grandi cose che interessano il governo 19. Queste cose sarebbero impossibili anzi inconcepibili, se non ci fosse una chiara e limpida spiegazione: che si macchinava e si sperava di far dire altro da Margherita; e però non si badava a questa prima dichiarazione, si preparava la seconda che è larga e lavorata, nella quale si vede la grande architettura e l'industrioso ricamo delle postille. Questa è la dichiarazione sottoscritta dopo le promesse d'impiego e di protezione, e comparisce spontanea; fu fatta nello stesso giorno 16 ottobre, perché il prefetto venne nel castello a 22 ore; questo è il capolavoro del processo perché è la sola che svela tutti i membri del gran consiglio, tutti i disegni della setta, tutte le cose che diconsi fatte, ferisce da mille parti, in mille modi, moltissime persone. Esaminiamola a parte a parte, e la vedremo vergognosamente cadere, perché il falso non può mai celarsi interamente, la verità non può essere mai interamente offuscata.

“1. Per darvi una pruova che per le mie critiche circostanze soltanto e non per avversione al governo io mi ascrissi fra coloro che cospiravano contro di esso, intendo  rivelarvi molti altri fatti che sono a mia notizia, per potere conoscere li veri autori di questa trama, ed apporvi  un efficace rimedio.”

Queste non sono parole del Margherita, il quale non voleva e non poteva apporre rimedio a niente, ma sono l'eco e la fine di un discorsetto morale che gli fu fatto per indurlo a sottoscrivere la dichiarazione. “Tu non comparisci accusatore tu, ma chi ti ha detto quello che tu riferisci: la colpa è loro non tua, perché essi operano il male, e tu dici la verità. E poi quando sarà provato che sono autori di questa trama quelli che si conoscono, noi vi apporremo un efficace rimedio: sappiamo che la colpa si deve attribuire ai capi, voi altri siete gente ingannata e sedotta: il governo può temere di voi?” Queste ultime parole rimasero profondamente scolpite nell'animo del Margherita, che le disse al Faucitano, e tutti e due dicevano fra loro e ad altri (fra' quali al Catalano); “Vediamo, ricordiamoci chi conosciamo, e nominiamoli: quanti più capezzoni nominiamo e facciamo venire qui, noi più presto usciremo, perché questi salvando sé stessi salveranno noi”.

“2. Vi dico adunque che tra la fine di settembre ed i princìpi di ottobre scorso anno essendomi io pronunziato con don Angelo Sessa e don Francesco Giordano di abbracciare il loro partito liberale, tanto che Sessa mi mise alla sua dipendenza come vi precisai nel mio interrogatorio, divenni l'intimo di essi Sessa e Giordano, e per mezzo dei medesimi venni a sapere che nella capitale vi era un comitato centrale, il quale dirigeva tutte le mosse del partito liberale, quel comitato si componeva dal signor Agresti, colonnello al ritiro, che n'era il presidente, don Luigi Settembrini segretario, don Michele Persico cassiere, don Michele Pironti, don Michele Primicerio, don Carlo Poerio, il signor Pica, il marchese Venusino, il duca Proto, un titolato di cognome Carafa, non che essi Giordano e Sessa, membri del detto comitato centrale, e qualche altro che non rammento.”

Se questa dichiarazione si guarda, per servirmi di una felice espressione del procurator generale, “a traverso del prisma delle istruzioni della setta,” le quali sono stampate fra i documenti dell'accusa, si vedrà chiaro che i suoi colori sono falsi; perché secondo queste istruzioni nella setta non v'è comitato centrale, non v'è l'ufficio di segretario, non di cassiere. Nelle istruzioni è proibito espressamente di nominare le persone, e quindi difficile di poter conoscere massime i capi: ed il Margherita, conoscente di un mese, giovine di studio del Giordano, non ancora settario ma semplicemente ascritto, diviene l'intimo di due persone, conosce tutti i nomi dei componenti il consiglio della setta, i loro diversi uffici. Chi gli avrebbe detto quando in agosto rivide il Pallotta, che sulla fine di settembre avrebbe saputo tanti segreti, conosciute tante persone, sarebbe divenuto anch'egli un personaggio importante? A me poi si deve dar sempre una penna in mano; se si ha a creare uffizio di segretario dev'esser mio. Chi può negare la cagione dell'odio che mi perseguita? Al povero Persico si la cassa, perché è un negoziante. L'Agresti, che non è un colonnello al ritiro, ma un ex capitano, e fu capitano aiutante maggiore nella guardia nazionale, dal Margherita è detto presidente di un comitato dove sono uomini che hanno maggiori cognizioni di lui (non offendo un mio egregio amico il quale ha voluto che io scrivessi queste parole), hanno maggior fama e conoscenza nel paese ed hanno occupati alti uffizi, e dal Marotta è confuso tra gli ultimi omicciattoli che formano il comitato di cui è presidente il Romeo, povero stampatore ed umile persona.

“3. Verso la fine del mese di ottobre Giordano mi consegnò cinque bigliettini suggellati, diretti ad Agresti, Settembrini, Pironti, Primicerio, Persico (dice la casa di ciascuno) ed avendo con tutti personalmente parlato a norma degli ordini ricevuti da Giordano, diede l'appuntamento di farsi trovare in quella sera nel caffè di De Angelis a Toledo: ed in effetti nella sera medesima avendo io seguiti i suddetti Giordano e Sessa nel detto caffè ci rinvenni i mentovati cinque individui, i quali dopo associatisi al Sessa e Giordano, si recarono in casa dell'Agresti, ed io rimasi a passeggiare sotto la medesima. Dopo più di due ore calarono Giordano e Sessa, in compagnia di Persico, Settembrini, Primicerio ed altri quattro o cinque individui a me ignoti, che ritenni essere anche membri di tal comitato, ma non so dire chi questi fossero, dappoiché io non conosceva di persona Poerio, Pica, il Venusini, il duca Proto, il Carafa, per non avere ai medesimi giammai portato alcun biglietto. Agresti si rimase in casa: nel portone si divisero prendendo io col Sessa e Giordano la direzione della strada Portamedina, mentre gli altri s'incamminarono per Toledo. Posteriormente anche per effetto di bigliettini inviati per mezzo mio dal Giordano ai signori Persico, Agresti, Primicerio, Settembrini e Pironti in altre sere dopo di essersi tutti riveduti nel caffè di De Angelis, si recarono in casa di Agresti, intervenendovi pure il Sessa il quale mai si dipartiva dal Giordano.”

In questo fatto di bigliettini il Margherita è testimone diretto, che dice quello che ha operato egli: tutto l'altro l'ha saputo dal Giordano e dal Sessa. Nella prima dichiarazione dice di non conoscere alcuno, tranne il Pironti per caso: ora conosce cinque di noi: sia questa la verità: ma non dice come ci conosce. Se ci conobbe quando ci portò quei sigillati bigliettini, perché non li portò agli altri? e se a questi altri furono portati da altra persona, perché egli, che sapeva tutto, non lo nominava? Egli era l'intimo del Giordano, e doveva sapere ciò ch'era scritto nei bigliettini, e se egli lo sapeva perché sigillati? e se parlò con tutti e cinque noi, che fortunatamente per lui ci trovammo tutti in casa, a che servivano quei bigliettini che dovevano dirci quello che egli ci disse? Perché moltiplicare enti senza necessità? Se le riunioni si tenevano in casa dell'Agresti, è cosa veramente ridicola che si mandi un avviso anche a lui per farlo uscir di casa, andare al caffè, e dire a tutti gli altri quello che tutti già sapevano, cioè di andare a casa sua. Qui manca il senso comune. Inoltre se l'Agresti era presidente, io segretario e il Persico cassiere, che cosa era il Giordano che da sé, e sempre, e per mezzo di suoi agenti e di bigliettini diceva ad uomini molto più reputati di lui, raccoglietevi, e quelli si raccoglievano? Dopo questa riunione, che durò ben due ore, il Margherita non dimanda al Giordano o al Sessa di che cosa s'era parlato, che decreto s'era fatto; né quelli depongono alcuna cosa nelle fide orecchie di lui che tanto aveva girato per portar bigliettini, che aveva passeggiato per due ore lunghissime. Il Margherita vede che solamente noi cinque eravamo nel caffè, non solamente noi cinque scendevam dalla casa dell'Agresti, ma tutto l'altissimo consiglio, e non ha la curiosità di dimandare di nessun altro, non sente il desiderio di conoscere neppure il Poerio che ei dice di non aver mai veduto, che non ha mai sentito parlare dalla tribuna: nulla di tutto questo: conosce cinque e non si cura degli altri. Queste cose non reggon innanzi alla ragione, sono sfacciate e stolte bugie fatte dire al Margherita per confermare l'accusa, ma essi la screditano, la indeboliscono, la distruggono.

“4. Nei princìpi di decembre ultimo da essi Sessa e Giordano seppi che il comitato centrale aveva in una delle sue sedute deciso ammanirsi delle somme per dare delle sovvenzioni nel venturo natale ai popolani che dallo stesso dipendevano; ma costoro, per quanto quelli dicevano, erano braccia materiali, perché ignoravano affatto cosa voleva significare setta o comitato, né ciò se gli manifestava per mantenerli nell'ignoranza, ed affinché si avessero potuto far muovere a seconda del bisogno.”

O il Giordano disse questo, ed ecco le speranze e le promesse ch'egli dava ai suoi agenti, a lui devoti per pochi danaruzzi e moltissime parole. Noi altri che siamo accusati di comporre quel sognato comitato siamo uomini di picciola fortuna, ed io viveva sottilmente di mie fatiche; né potevamo radunar danari perché non eravam di quelli che hanno il privilegio di far proprie le pubbliche entrate. O il Giordano non lo disse, ed è stato suggerito a Margherita per confermar le voci che i liberali davano quattro carlini al giorno ai popolani poveri. Si sa, ed un tempo si dirà, quali grida furono pagate per pochi e brutti tornesi.

“5. Scorsi pochi giorni da tal notizia, Giordano e Sessa mi dissero che in una delle riunioni del comitato centrale, in cui erano tutti i membri sopraccennati intervenuti, era stato deliberato di fare uccidere i ministri Bozzelli, Ruggiero, Longobardi e Gigli, non che il commessario Merenda, ed il capitano del treno Palmieri; i primi perché facevan di tutto per distruggere nel Consiglio di stato ogni vestigio di costituzione, ed i secondi, presedendo i comitati realisti, facevano dai loro dipendenti insultare e manomettere i liberali. Giordano diceva che ad esso era stata affidata la esecuzione di tali assassini coll'aiuto e cooperazione di Sessa.”

Questa è la più scellerata cosa che sia stata inventata da mente scelleratissima. Accusar di sei assassinii uomini di vita intemerata, vissuti sempre virtuosamente, che avendo avuto il potere in mano hanno beneficato gli stessi loro nemici, è tale infamia che non ha nome. Odiatemi, opprimetemi, uccidetemi pure, ma dovete rispettarmi perché sono migliore di voi. La storia dirà che si sono commessi assassinii, e dirà da chi sono stati commessi. Io per moderazione ho taciuto nel capo I, che in marzo 1848 si tentò di assassinar me in mia casa, e fui salvo pel concorso della guardia nazionale: ho taciuto e tacerò ancora molti fatti più scellerati, ma se sarò ridotto all'estremo io dirò cose tali che faranno tremare gli occulti e palesi miei accusatori. Fu deciso un macello, fu deciso da tutti, fu deciso in dicembre 1848 quando il ministero aveva riconvocata la Camera pel febbraio 1849, fu deciso dal Poerio, dal Pica, dal Proto deputati, e da me eletto e possibile deputato. Io non so chi è più stolto e chi più m'offende se quello stolto che disse queste cose, o chi le credeva possibili a credersi dagli uomini di senno, e ne faceva accusa contro di noi. Quando in un processo sono queste infamie dovrebbe esser bruciato per le mani del boia. E qui lascio lo sdegno, e rimando l'infamia a chi spetta; gli accusati non possono essere raggiunticolpiti da sì basse calunnie.

Né qui s'arresta il Margherita, e dice che il Giordano per mezzo di Raffaele Basile e di Giovan Battista Sersale fe’ venire quattro sicari da Avellino, che diede a lui l'incarico di accompagnarli e mostrar loro le sei vittime designate; che egli li accompagnava per la città, ma non curavasi di altro che di mangiarsi i denari che il Giordano dava ai sicari, dei quali egli dice solo il nome di uno; i quali dopo un mese furono rimandati, e il Giordano fu creduto vile e ciarlone.

Tutto fa, tutto sa, in mezzo a tutto è il Margherita: e intanto la polizia per mezzo di lui non cerca di scoprire questi quattro sicarii, non lo conduce in Avellino per riconoscerli, e si contenta che egli ne descriva solamente le fattezze. Ma dirà alcuno: dunque fu tutto invenzione? Io non so che cosa faceva e che cosa voleva il Giordano; non so se egli avesse avuto qualche delirio febbrile, non so se fosse stato matto, non so se è reo o calunniato; ma so che i miei amici ed io non abbiamo perduto il senno, so che sentiamo troppo di essere uomini, abbiamo dato troppe pruove di virtù per non esser creduti capaci di discendere a tanta degradazione morale, a tanta infamia da volere assassinati sei uomini. Questi feroci delitti non sono nostri.

“6. Avvenuto lo scioglimento della Camera legislativa in febbraio ultimo, da Giordano e Sessa venni a sapere che si stava cospirando onde far propagare la setta degli unitari italiani, e che il comitato presieduto da Agresti e nel quale seguitavano ad appartenere tutti gl'individui di sopra indicati, aveva preso nome di alto consiglio della setta suddetta, ed il signor Agresti qual presidente era in corrispondenza con l'Italia. Mi dissero pure che ogni membro dell'alto consiglio era rivestito di un incarico, per effetto di che Poerio coltivava la corrispondenza della setta nelle tre Calabrie onde farvi istallare i circoli, il deputato Pica per i tre Abruzzi, Giordano per la provincia di Terra di Lavoro ed Avellino, Sessa si corrispondeva con i casali dintorno Napoli.”

Lo scioglimento della camera avvenne il 14 marzo 1849, l'Agresti fu arrestato due giorni dopo, il 16 marzo, onde è falso quanto si dice di lui, e però è falso quanto si dice degli altri intorno a questi incarichi che sono sogni ed imposture del Giordano. E perché quel cangiamento di nome? Perché il Margherita conobbe la pretesa setta e seppe che ci doveva essere l'alto consiglio solamente in marzo, come dice nel brano seguente.

“7. In data del marzo Sessa mi diede il diploma, le regole, ed il proclama della setta: ed il tutto già si trova assicurato alla giustizia

Dunque il marzo dovette dare il giuramento, il marzo divenne settario. E fino a questo tempo non essendo egli settario come conosceva tutt'i capi della setta, sapeva minutamente quello che dicevano e facevano? come egli li ragunava co' bigliettini, ne eseguiva le deliberazioni, ed aveva finanche il gravissimo incarico di far eseguire sei assassinii? O è falso tutto quello che egli dice di aver fatto fino al marzo, o è falso il diploma che egli ha riconosciuto e che ha la data di marzo. Se ebbe il diploma in marzo, in marzo divenne settario e prestò giuramento, dappoiché non si può essere settario senza dar giuramento, e dato il giuramento si ha il diploma. Ecco quello che si vede col prisma del procurator generale.

“8. Avvenuto l'arresto del signor Agresti non so in qual epoca, l'alto consiglio si riuniva in casa di Settembrini, per essere costui subentrato nelle funzioni di presidente: e ricordo bene che Sessa mi disse che in una delle sedute avute luogo in casa di Settembrini era surta una quistione tra Poerio, Pica ed un altro, che non mi ricordo il nome, col rimanente dei componenti il consiglio; dappoiché i primi tre intendevano di fare la rivoluzione con lo scopo di consolidare la costituzione, gli altri volevano muoverla per proclamar la repubblica o la costituente: per [la] quale discrepanza di opinione l'alto consiglio si era disciolto, e che riunitisi poi altro giorno senza l'intervento dei sudetti Poerio, Pica ed il terzo che non rammento, era stato deciso che costoro non ci dovevano più appartenere perché di princìpi opposti ai loro, e perciò non erano più chiamati. Ciò avvenne per quanto vado rinnovando nell'idea tra la fine di maggio e princìpi di giugno corrente anno.”

Io proverò chiarissimamente nel mio discarico che in mia casa non aveva altre riunioni che di giovani studenti; proverò che in tutte le ore del giorno io ero severamente occupato alle mie lezioni, perché dalle sole mie fatiche onorate io traeva il sostentamento della mia famiglia; che la sera io per costume, per istanchezza, e per amore allo studio ed alla famiglia non usciva mai di casa, e me ne stava coi miei figliuoli. E per provare che questa vita di fatiche e di stenti non mi lasciava briciola di tempo, io chiamerò in testimonianza il padron della casa che io abitava, gli altri inquilini, e quelle persone in casa di cui io andava a dar lezioni. Chi viveva a questo modo è accusato di essere presidente e capo d'una setta, dalla quale scacciava il Poerio, il Pica, ed un altro, e meditava repubblica e costituente; e così rifiutava l'opera delle Calabrie dipendenti dal Poerio, degli Abruzzi dipendenti dal Pica, e chi sa di qual altra potenza del mondo dipendente dal terzo ignoto. Il Pica ed il Poerio, che secondo il Margherita approvarono con tutti gli altri il disegno di assassinar sei persone, si sarebbero fatto scrupolo per la repubblica e la costituente. Arrestato l'Agresti, mancava anche la corrispondenza con l'estero; e non si dice se altri si prese, questo carico, se lo prese uno o più. Forse l'Agresti solo bastava: ma l'estero è il mondo, e il mondo è tanto grande che non bastava uno solo a tener questa corrispondenza. Ci sono certe assertive che un uomo onesto si degrada a combattere e mostrarle false. Il Poerio e il Pica erano odiati, e furon detti settari: erano conosciuti troppo per quello che con senno e con facondia avevan detto dalla tribuna, onde furono separati dagli altri che si dovean mostrare anelanti alla repubblica: e per non iscoprire la malizia nominando essi due soli, si aggiunse a loro un terzo ignoto. Il Poerio ed il Pica sono tali uomini che in ogni adunanza non sarebbero secondi a nessuno, né a me. Bisogna conoscere gli uomini che son detti comporre questo sognato consiglio, per vedere quanto è stolta, quanto svergognata e scellerata l'accusa.

“9. Se pur non m'inganno, in luglio Settembrini, ultimo, fu anch'egli arrestato, e sebbene la carica di presidente si fosse deferita a Pironti, pure perché questi non aveva una casa a sé, l'alto consiglio non si riuniva in nessuna abitazione; e solo quando i componenti dello stesso si volevano rivedere onde comunicarsi qualche segreto, si mandavano appuntamenti per riunirsi sul tondo di Capodimonte, quando al largo del Castello, ed altre volte nella strada Foria, più fiate io personalmente per ordine di Giordano dava simili appuntamenti a Persico, Pironti e Primicerio. Arrestato Pironti non so chi assunse la carica di presidente, ma seguitavano a riunirsi nel luogo di sopra indicato.”

Quanto sono ingegnosi gli errori di data che fa il Margherita! Talvolta bisogna sapere errare per dar colore più schietto al racconto. Io fui arrestato il 23 giugno. Egli, come dice nella prima dichiarazione, uscì di carcere il 26 giugno, e vi entrò a mezzo luglio, dove stette fino al 30 agosto. In questi venti giorni, egli niente atterrito dal carcere, ritorna in mezzo ai segreti ed agli affari della setta; sa che il Pironti è il novello presidente, vede il consiglio divenuto peripatetico, e che i suoi membri si uniscono, congiurano e decidono grandi cose passeggiando per le strade, e seguita a portar le imbasciate per queste riunioni peripatetiche. Ma se questi membri si vedevan fra loro, non potevan darsi il tempo ed il luogo per rivedersi? Non potevano in qualche caso mandarsi l'un l'altro un servitore, una serva, un cane coll'ambasciata? Ci dovea essere per forza il Margherita spedito dal Giordano fin dal lontanissimo Pontenuovo? E portava ambasciate solo a quei tre e non agli altri? E le portava a voce o con quei sigillati biglietti? Arrestato il Pironti il tre agosto, come sa che “seguitano ad unirsi nel modo di sopra indicato,” se egli era in carcere fin da mezzo luglio, Persico fin dal 9 luglio era partito per la Francia? se non resta che il solo Primicerio, e gli altri egli non li conosce? Menzogne aperte, calunnie sfacciate. E pure la grande accusa del procurator generale è tutta fondata su questa dichiarazione, della quale ho copiate persin le parole.

“10. Li mentovati Sessa e Giordano alla fine di giugno o principii di luglio, quando già Pironti era stato arrestato, mi confidarono che in una delle dette riunioni dei componenti l'alto consiglio si era deciso di stabilire una setta di pugnalatori, onde far uccidere il ministro Longobardi, il prefetto di polizia Peccheneda, ed il presidente della corte criminale Navarra: i primi due perché proponevano al re l'arresto dei liberali, l'altro per le mostruose condanne che infliggeva a persone innocenti. Per essere in ciò consigliati per due o tre volte scrissero ai surriferiti Agresti, Settembrini e Pironti nel carcere di Santa Maria Apparente, facendo a costoro ricapitare le lettere per mezzo di Francesco Vellucci e di Francesco Antonetti: e li medesimi Sessa e Giordano dicevano che Agresti, Settembrini, e Pironti avrebbero inteso il parere di Trinchera, e degli altri carcerati politici che si rattrovavano nelle prigioni suddette. Essi Agresti, Settembrini, e Pironti, per quanto Sessa e Giordano mi dissero, approvarono il progetto di assassinio; e perciò costoro incaricarono me di proporre individui che fossero stati capaci di pugnalare a sangue freddo i mentovati personaggi mercé una gran somma che loro si sarebbe data.”

Il procurator generale fermandosi alle prime parole del Margherita ritiene che quest'altra invenzione della setta de' pugnalatori fu stabilita nel mese di luglio: ma il Margherita dice “quando il Pironti era stato arrestato,” e parla cose che il Pironti con l'Agresti e con me avrebbero approvato stando in Santa Maria Apparente; il Pironti fu arrestato il 3 agosto. Dunque questi pugnalatori entrano nel dramma dopo il 3 agosto: il Margherita sbaglia le date, e questo sbaglio fa cadere ogni cosa. Dappoiché se egli la seconda volta fu arrestato verso la metà di luglio, e stette in carcere fino al 30 agosto, nel qual giorno fu imbarcato per la Sicilia, come poteva sapere di questi pugnalatori e di questi assassinii stabiliti dopo l'arresto del Pironti? come poteva avere l'incarico di trovare i sicarii? chi gli poteva dire, chi poteva fare quest'altra invenzione tragica, se anche il Giordano, architetto di tutte le invenzioni, fu arrestato il 3, ed uscì il 19 agosto? Come il procurator generale non ha veduta questa contraddizione di date, ch'è così chiara, e così chiaramente mostra la falsità di tutta la dichiarazione? Inoltre quell'alto consiglio che voleva essere consigliato, a chi era ridotto in agosto? L'Agresti, il Pironti, ed io eravamo arrestati; il Poerio ed il Pica arrestati, il Proto uscito dal regno fin da marzo, il Persico in Francia, il Primicerio o uscito, o nascosto, o certo ammalato; resta l'ignoto Venusino, il Carafa, il Giordano ed il Sessa; anzi restano soli, come sono stati sempre, soli, il Giordano ed il Sessa i quali nel caffè dell'Errichiello immaginavano, parlavano, bevevano, e non si levavan dalla seggiola. Il Vellucci e l’Antonetti, che hanno confessate molte cose, hanno detto di non conoscere alcuno di noi, non esser mai venuti in Santa Maria Apparente non aver mai portato lettere. Or se non c'era più alcuno di questo preteso consiglio, se il Margherita era in carcere, e non poteva avere nessuna confidenza dal Giordano e dal Sessa, non è egli più chiaro della luce del sole che le confidenze l'ebbe dalla polizia? La polizia voleva farsi merito, voleva esser creduta operosa, e però odiata dai rivoluzionarii; ed ecco fa comparire in grave pericolo il suo capo pel quale ci sono prima avvisi di agenti segreti, poi indizi, poi la pretesa confessione del Margherita: ma il prefetto dorme sempre sicuro. Si desidera che i giudizi sieno fatti più con rigore sdegnoso e con astio di parte che con imperturbata giustizia, ed ecco far comparire il disegno di assassinare il ministro di giustizia, il presidente della corte criminale. Si desidera di avvolgere nella ordita trama gli uomini più odiati: ed ecco fingersi accordo e cospirazioni in carcere; ecco obliquamente nominato il Trinchera, odiatissimo perché fu capo di dipartimento nel ministero dell'interno, e comandò in quella polizia che ora per vendetta lo tormenta. Così disparisce tutto il maraviglioso del gran dramma del processo, e si vede ancora che gli altri sei assassinii sono maligne e scellerate fantasie di chi vuole accrescere odio sul capo di uomini che sono odiati per quella stessa ragione che ogni virtù è odiata e perseguitata dai tristi.

Questa è la grande e lavorata dichiarazione del Margherita. E si è tanto lavorato per dir tante manifeste menzogne che fanno vergogna a chi le ha dette, ed a chi le ha fatte dire. Ma dirà taluno: queste dichiarazioni sono tutte false da capo a fondo, e non c'è nulla di vero? No, c'è il vero in questa dichiarazione, ed in tutto il processo. Il vero lo ha detto il Catalano, il quale ha francamente confessato quello che ha fatto, non si è mai smentito, non è mai caduto in nessuna contraddizione, ha detto parole che spirano candore e verità: ha detto sempre, che tutto era in progetto, che niente fu mai effettuato, che per mera millanteria, e per dar tuono alla cosa egli nominò persone riputate. Onde nasce limpido questo concetto: il Giordano ed il Sessa molto immaginarono, moltissimo parlarono, pazzamente operarono, e per acquistar credito ed importanza nominarono uomini conosciuti, inventaron consigli, comitati, riunioni, rivoluzioni: il Margherita allettato alle larghe promesse d'impiego e di protezioni, secondò le voglie e le suggestioni della polizia, diede come reale quello che era immaginario, ed aggiunse molto del suo a quello che aveva udito: la polizia vi dié l'ultima mano con le postille, il ricamo, la cornice. E questo ancora è il concetto generale che un uomo di senno deve formarsi di tutto il processo: ci sono fatti veri ma innocenti o lievi: la polizia col mezzo dei denunzianti li fa rei e gravi: ed istruisce i processi con odio e stizza di parte. Ed in prova di questo, nessun fatto ha turbato l'ordine pubblico e la tranquillità del popolo, quantunque in molti modi provocato. Questa setta stessa di cui si mena tanto rumore non si può comprendere che cosa sia veramente; ad ogni poco cangia scopo e cangia nome: or vuole serbar la costituzione, or pretende la costituente, or la repubblica: ora è comitato centrale, or alto consiglio, or setta di pugnalatori: in fondo v'è l'intrigo di alcuni pochi, la sciocchezza di altri, e la malignità della polizia.

La corte criminale ha sentito che il detto Margherita non meritava piena fede, ed ha deciso bisognare altre pruove per confermare l'accusa contro alcune persone che il Margherita nominò, come il Pica, il Palomba, il Gargano, ed il Cuomo. Spero che la gran corte non crederà sufficiente per me quello che ha creduto insufficiente per altri: spero che l'odio cieco e tenebroso che ostinatamente mi perseguita si arresti innanzi al tribunale della giustizia.

Capo VI
Lettera del Carafa - Conchiusione

Ferdinando Carafa de' duchi d'Andria dalle segrete del castel dell'Ovo scriveva una lettera al prefetto di polizia il 29 ottobre, lo stesso giorno che io fui colà condotto. Parlerei di questa lettera se essa non offendesse più l'onor suo che me; e se egli subito che uscì dal castello e poté liberamente parlare, non l'avesse sdegnosamente ritrattata e ributtata con lo scritto e la parola innanzi la corte criminale. Egli ha narrato quello che ha patito nelle segrete, quello che il prefetto gli disse, quello che da lui si voleva, quello che gli fu in vari modi suggerito ed imposto, e le sue parole sono un'altra chiara pruova di quello che io ho detto del modo onde è stato fatto il processo. Quantunque la lettera contenga lieve accusa contro di me, ed il Carafa abbia il dovere di difendere l'onor suo e quelli che egli per suggestioni altrui e per propria debolezza ha nominati, purnondimeno quella lettera mostra chiaramente una lotta tra il cuore e la mente sotto l'impressione della paura. Ne parli dunque il Carafa: io non ne dico di più.

Adunque tutta l'accusa contro di me è poggiata sulla denunzia dello scelleratissimo Iervolino, che dice esser io un settario ed avergli dato un proclama; e sulla dichiarazione del Margherita che dice di aver inteso dal Giordano e dal Sessa, che io era uno dei capi della setta, aveva riunioni in casa, aveva composto il proclama: è poggiata su di un'assertiva ed un aver inteso dire. Per quest'accusa io non temerei il giudizio di qualunque tribunale che giudicandomi stesse alla ragione ed alla legge; ma contro di me c'è odio di parte, odio personale, desiderio di vendetta tardata. Io usando di una virtù che è ignota ai miei persecutori li perdono di tutto cuore, prego Iddio che non dia loro a colpa le amarezze che fanno sofferire a me ed alla mia famiglia, ed aspetto serenamente l'esito del giudizio, perché la coscienza non mi rimorde di nulla, io non cospirai contro la persona del re, io non volli mai settarovesciare il governo, io non consigliaiapprovai assassinii, ma fra quarantadue fui assassinato anch'io. Se io avessi potuto aver copia di tutto intero il processo, e tempo ed agio di leggerlo, forse io anche in questa oscura e fetente spelonca dove son chiuso senza veder raggio di sole, dove sento mozza la mente e logorat[o] il corpo stanco, forse avrei più largamente ragionato della causa ed abbracciato tutto nel processo. Nondimeno credo che quello che ho detto basti per mostrare a tutto il mondo, che quegli uomini, i quali hanno congiurato e congiurano per rovesciare la costituzione, ed han pubblicamente scritta la dimanda di abolirne finanche il nome che solo è rimasto, quegli uomini hanno fatto nascere i pochi fatti veri segnati nel processo; quegli uomini per odio di parte hanno inventati moltissimi fatti falsi, hanno malignamente trasfigurati i veri: rimane a vedere che gli stessi uomini ci faranno giudicare e condannare pei fatti cagionati ed inventati da loro. Essi vorrebbero far cadere almeno poche teste, ma non potranno far cadere le speranze dell'umanità che desidera solo giustizia; non potranno far tacere la storia che dirà il vero inesorabilmente; non potranno ingannare o impaurire la pubblica opinione che giudicherà di me, dei miei persecutori e della corte criminale.

Dalle prigioni di Castelcapuano, aprile 1850.

Discarico

1

Io scrissi la mia difesa per gli uomini di buon senso, e con grande soddisfazione dell'animo mio ho veduto che in questo disgraziato e calunniato paese gli uomini di buon senso son molti, perché quella povera mia scrittura a molti non è dispiaciuta. Solamente pochissimi hanno detto che le mie parole sono state acerbe, che molte cose io poteva non dirle, e che ho scritto un libello e non la mia difesa. Costoro non capiscono o non vogliono capire che in questa causa non si tratta della vita o della morte di quarantadue persone, ma della sorte del nostro paese; onde io ho dovuto parlare non solo di me, ma delle cagioni che hanno prodotto questo giudizio e ridotta la nostra patria nelle presenti infelici condizioni. E le cose che ho detto sono una minima particella di quelle che io sapeva e poteva dire, e che ora per buone ragioni ho taciute. L'acerbità poi sta nei fatti, non nelle parole: ed i fatti non son opera mia: distruggete i fatti, negateli se potete, negatene anche uno, ed allora io sarò acerbo e libellista. Ma fintantoché i fatti saranno fatti ed innegabili, dovete arrossir voi che li fate, non io che li dico. È dispiaciuto il modo: io non so l'arte d'inzuccherare le sozzure, amo di parlare schietto proprio e breve, farmi capire da tutti, e dire al pane pane, e al sasso sasso. Se tu sei ladro, che colpa ho io che ti chiamo ladro? Sii un santo, ed io ti chiamerò santo e ti adorerò. È dispiaciuto che io ho detto alcune poche verità, che [ho] disvelato le arti oblique e nefande con cui la polizia istruisce i processi, e con cui ha istruito questo dell'Unità italiana; che ho parlato della costituzione ed ho detto che tutti i mali che sono avvenuti in questo paese, e gli altri che infelicemente e necessariamente avverranno, nascono da una fazione cieca retrograda e cosacca, la quale da due anni cospira per togliere la costituzione, che ormai è un bisogno generale di tutti i popoli civili; la quale vorrebbe veder tornati i beatissimi tempi del santo uffizio ed il ricco mercato dei ladri. Ma non ostante tutte le petizioni, le orazioni, i voti e gli scongiuri, dobbiamo andare, e andremo, perché sta la giustizia, il bene di tutti: e chi non lo capisce o non lo vuol capire, mal per lui. Io non mi pento di aver detto quelle poche verità, anzi avrei voluto dirne di altre e di molte; perché la verità dispiace a pochi e per poco, ma non nuoce mai; e perché è santo dovere di ogni uomo onesto di dirla senza paura. Né scrivendo quelle verità nella mia difesa io ho voluto offendere alcuno, dappoiché chi si difende non vuole farsi odiare per offese, ma farsi amare da tutti. Che se io dicendo il vero non ho voluto offendere, e taluni si sono offesi, bisogna dire che io non ho colpa, ed essi si sono conosciuti rei.

Ora con la stessa santa intenzione di esporre la verità, io debbo nuovamente rivolgermi ai miei cittadini, anzi a tutti gli uomini civili, e narrare altri fatti di singolare ingiustizia, altri insulti alla ragione umana, altre oppressioni che io soffro. Dirò prima di una stretta che ho ricevuto dalla polizia per la stampa della mia difesa, poi dirò quello che ho patito dalla corte criminale.

2

Subito che fu pubblicata la mia difesa, nacque un rumore ed uno sdegno grande. Venne da me un ispettore di polizia per chiedermene qualche copia, il manoscritto, e il nome dello stampatore: ma non ebbe né seppe niente. Cercarono tutte le tipografie di Napoli, trovarono che il Reale per suo guadagno si preparava a stamparla, lo arrestarono e lo tengono ancora in carcere. A tutti gli altri tipografi sono stati fatti spaventi e minacce grandi, e si è fatto sottoscrivere un obbligo di non stampare qualunque scritto di causa politica sotto pena di multa e di prigionia.

Il giorno 26 aprile, per comando del direttore di polizia, l'ispettore Campagna fece una minuta ricerca nella casa dove ora è mia moglie, senza condurvi me che per legge vi doveva esser presente.

Per quasi cinque ore fiutò e cercò ogni angolo, ogni buco, ogni masserizia; raccolse con le sue mani e gittò in un sacco ogni materia di carta che gli venne innanzi; e non raccolse più, perché non c'era più, né il facchino poteva portare di più. Il 29 aprile il commissario delegato delle prigioni signor Casigli citò mia moglie a comparire nella delegazione per assistere alla dissuggellazione del sacco delle carte. Io chiesi ed ottenni dalla benignità del commessario, di esser presente anch'io. Legalmente fu aperto il sacco alla presenza del commessario, del cancelliere, e di tre ispettori; i quali tutti con dieci occhi si diedero a leggere ogni stampa, ogni cartolina, ogni letterina ed esemplare dei miei figliuoli; e non trovarono nulla di reo né di sospetto, quantunque avessero letto dalle dieci alle cinque. Intanto la povera moglie mia ammalata e digiuna aspettava e guardava; ed in casa una mia figliuoletta non vedendo la madre, la credeva carcerata, piangeva e n'è stata molti giorni ammalata. Ma dovendosi mostrare di aver fatto qualche cosa, le carte furon divise in due specie: le une dette attendibili, furono descritte in un verbale, richiuse e risuggellate nel sacco: le altre dette inattendibili furono richiuse e risuggellate in un altro sacco, affinché se quei dieci occhi non l'avessero osservato bene, si avesse potuto leggerle con l'aiuto di lenti e di microscopii.

E che cosa sono queste carte attendibili descritte nel verbale? La lettera che scrissi al ministro delle finanze quando offeriva allo stato un terzo del mio soldo, stampata nel giornale del governo: la mia rinunzia all'ufficio di capo ripartimento: la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai: la lettera che io scrissi al Bozzelli quando rinunziai al terzo del soldo che mi si voleva dare come pensione: la memoria che presentai alla corte nel mio costituto, e che sta nel processo; le mie posizioni a discolpa, presentate alla corte; una lettera al compilatore del giornale la “Libertà italiana,” nella quale protestava che io non aveva mai scrittoscriveva alcun giornale: minute tutte di mia mano. Inoltre venti copie del mio Elogio di Giuseppe Marcarelli; sette volumi delle opere di Vincenzo Gioberti; Poche parole su la Costituzione, opuscolo di Achille Corrado, fratello dell'intendente, Dichiarazione del ministero del marzo 1848; Benedizione di Pio IX all'Italia; ed altre carte simili: infine venti copie della mia difesa. Da queste carte dichiarate attendibili si può giudicare delle altre dette inattendibili! Buona cosa è che la parola attendibile non sia registrata in alcun vocabolario, ed essendo una sozzura del tempo le si possa dare ogni significato.

Intanto l'ispettore Campagna aveva detto al direttore Peccheneda che egli aveva fatto la gran preda, tra le mie carte aveva trovato e preso il manoscritto della difesa. Il direttore lesse il verbale, e non vi trovò registrato il manoscritto: e prestando più fede al Campagna che ad un vecchio commessario ad un cancelliere, ed a tre ispettori, ordinò si riaprissero i sacchi e si rivedessero le carte alla presenza del Campagna. Il quale dopo molto tempo e molte osservazioni riconobbe che egli aveva creduto manoscritto della difesa la dichiarazione che io scrissi il 13 maggio 1848 quando rinunziai all'uffizio; e tutto che sia un valentissimo e zelantissimo ispettor di polizia confessò ingenuamente di non saper troppo leggere. Richiuse e risuggellate le carte la terza volta, se ne scrisse al procurator generale, il quale rispose tornarsi a rivedere le inattendibili, farsene esatto elenco, e non trovandosi in esse alcuna cosa sospetta, restituirmisi. Così è stato fatto e dopo ben quindici giorni l'ho riavute. Le attendibili sono ancora in lazzaretto, ed aspettano che il procurator generale dichiari che un'offerta di danari, due rinunzie, un costituto, le posizioni a discolpa, e la benedizione di un papa non sono carte appestate e si possono rendere al padrone.

Ma perché si è cercato con tanta affannosa premura il manoscritto, mentre io non ho negato che la difesa l'ho scritta io? Questo perché non l'ho potuto sapere, nessuno ha saputo dirmelo, non l'ho potuto indovinare da me. È lecito agli uomini non comuni operare contro il senso comune. Ma per onore della verità e della umanità debbo dire che molti impiegati di polizia mi fanno cercar copie della mia difesa, me la lodano, e dicono di volerla gelosamente conservare; e conosco che non parlano ad inganno. Sia lode a Dio, che il buon senso sta anche in molti impiegati di polizia.

3

Vengo a quello che la corte criminale ha deciso. Nei termini di legge io ho presentato per mezzo del mio avvocato le ripulse, le posizioni a discolpa, le nullità: lo stesso hanno fatto gli altri imputati. La corte ha rigettate le ripulse e le nullità di tutti: ha ammesso il minor numero di discolpe per gli altri quarantuno: per me ha rigettato tutto, a me solo ha negato tutto; per me solo non v'è difesa giudiziale. Onde io ben feci quando indirizzai le mie parole a tutti gli uomini civili; ed ora credo di ben fare se contro la decisione della corte criminale io mi appello a Dio, che è giudice di tutti i giudici, ed alla pubblica opinione in cui sta la voce ed il giudizio di Dio. Dirò quello che ho dimandato, e come la gran corte m[e] l'ha negato.

Ripulsa. Io dicevo: Luigi Iervolino mio accusatore è un ribaldo denunziante che ha il soldo di dodici ducati il mese dalla polizia, come possono attestare i tali testimoni: ed essendo denunziante pagato la legge comanda che non gli si presti fede, e che non possa comparire a deporre nella pubblica discussione. La gran corte nella sua decisione mi ha risposto: “Rigetta la ripulsa, ed ordina sentirsi il testimone ripulsato, per tenersi della sua dichiarazione quel conto che merita”. Il procurator generale nella sua nota dei testimoni a carico al Iervolino la qualità di denunziante; la Corte lo dichiara testimone, e non vuole ascoltar me che voglio provare che è denunziante ed è pagato. E non solo il Iervolino, ma tutta quell'altra schiuma di ribaldi, che si sono confessati agenti di polizia nelle loro denunzie scritte, che il procurator generale ha detto denunzianti, sono dichiarati dalla gran corte fiori di galantuomini, testimoni che debbono udirsi; che carità cristiana a coprirsi i difetti altrui! chi non farebbe la spia! se anche suo malgrado è dichiarato galantuomo!

Ecco le mie dieci posizioni a discolpa.

1. La polizia ha presentato un falso certificato della decisione che la commissione di stato fece sul mio conto nella causa della “giovine italia.” Io per dimostrar falso quel certificato dimandava si richiamasse quel processo; e dimandava ancora che la corte chiedesse dalla polizia i rapporti su la mia condotta politica dal 1842 al 1848. Ma la gran corte vuol credere ciecamente alla polizia, non vuol farmi provare o la falsità del certificato o il mio errore; non vuol sapere della mia condotta politica, rigetta la posizione.

2. Io sono odiato ed accusato perché creduto sfrenato scrittore ed autore di quante stampe clandestine si sono fatte contro il governo e contro i privati. Per provare che questa posizione è falsa, quindi l'odio ingiusto, e ingiustissima l'accusa, io presentavo alcune proteste da me scritte in certi giornali, ed alcuni miei opuscoli stampati; e chiedeva si leggessero, per vedere se chi ha quei sentimenti, quelle opinioni, e quello stile possa scrivere quel sozzo proclama che a me si attribuisce. La gran corte non vuol leggere niente, non bada a stile, rigetta la posizione.

Con le seguenti quattro posizioni io intendeva provare come in tempi torbidi sono stato moderatamente sereno, e come, da che il principe diede e giurò una costituzione, io sono stato sempre costituzionale.

3. In marzo 1848 si radunarono in casa del Poerio parecchi uomini ragguardevoli per discutere la nomina di un nuovo ministero; e fra gli altri v'intervenne il conte del Balzo, marito della regina madre, ed il capitano Carrascosa. Il dimani per commissione del Poerio io dovetti parlar lungamente col conte, e di gravi affari. Chiedeva alla corte d'interrogare il conte, per sapere che moderate parole gli dissi, che giusti e santi sentimenti gli manifestai. La corte ha deciso di non incommodare il conte, ed ha rigettato la posizione.

4. Il 13 maggio 1848 io rinunziai al mio ufficio perché abborrivo dalle intemperanze del tempo. Chiedeva si interrogassero testimoni, e si cercasse dal ministero una copia della mia rinunzia: la corte ha rigettata la posizione.

5. In giugno 1848 durante la rivoluzione di Calabria per consiglio ed autorità di alcuni amici, scrissi, e fu stampato, un manifesto agli elettori per persuaderli ad intervenir nei collegi: e questo era aiutare e secondare il governo. La gran corte ha rigettata la posizione.

6. Il Bozzelli proponeva al re di darmi in pensione un terzo del soldo; ed io in una lettera lo ringraziava, e lo pregava di ringraziare il re, e rifiutava ogni dono. Interrogate il Bozzelli, fatevi dare una copia di quella lettera. La gran corte ha rigettata la posizione.

Eppure con questi fatti io voleva offerire ai giudici una pruova morale che chi opera e scrive a questo modo non può essere un arrabbiato settario, non può cospirare contro la vita del principe, non può consigliarecomandare assassinii. Inutilmente.

7. Luciano Margherita diceva aver inteso dire che in mia casa si radunava un alto consiglio o comitato settario, che era composto di una buona dozzina di persone: il procurator generale nel suo atto di accusa ritiene questo fatto. Io voleva provare che in mia casa non aveva né poteva avere riunioni, e chiedeva si dimandassero i vicini, il padron di casa, gli abitanti nel medesimo palazzo se avesser mai veduto venire in mia casa o uscire altre persone che giovani studenti. Non poteva, perché dovendo dar pane alla mia famiglia tirava una pesantissima carretta di faccende. Faceva il conto sulle dita pel tempo che aveva e diceva: “Il tal giorno all'ora tale io faceva la tale lezione che durava tante ore; poi ne faceva un'altra, ed un'altra: il tale altro giorno faceva la tale altra lezione per tanto tempo. Dimandate i testimoni che vi nomino su le ore precise delle mie occupazioni. A queste ore faticose aggiungete il tempo necessario per mangiare, dormire e fare tutti i fatti miei; e vedrete che, se anche avessi voluto, non avrei potuto cospirare e tenere riunioni perché di tutta la settimana non mi restava un'ora da respirare”.

8. Nell'atto di accusa si dice che io con altri cospirava in carcere, e approvava disegni di assassinii. Onde io diceva: “Chiedete all'ispettore delegato del carcere i rapporti su la mia condotta; chiedete la nota che il custode faceva delle persone che visitavano i detenuti politici, e vi convincerete che io non vedeva altri che le persone di mia famiglia”.

“Il procurator generale ha chiesto accogliersi gli articoli 7 e 8, riducendosi i[l] numero dei testimoni nell'articolo 7 e richiedendosi i[l] rapporto dell'ispettore locale di Santa Maria Apparente, per conoscersi se oltre la famiglia Settembrini, accedevano nelle prigioni altre persone di sua intrinsichezza.”

“La gran corte ‑ sugli articoli 7 e 8 ‑ dacché i fatti che si enunciano nelle posizioni suindicate non sono tali che influiscono necessariamente nella causa per dichiararsi pertinente ‑ a maggioranza di voti quattro ‑ dichiara non pertinenti alla causa gli articoli 7 ed 8, e li rigetta.”

9. Io voleva provare che il direttore di polizia signor Peccheneda venne molte volte in castel dell'Ovo, interrogò vari imputati, interrogò lungamente il Margherita, e ben quattro volte postillò e fece ricopiare la dichiarazione sottoscritta da costui, la quale tanto mi offende. Però lealmente io chiamava in testimonianza lo stesso signor Peccheneda, l'istruttore, il cancelliere, il comandante del forte, altri uffiziali, ed i custodi. La gran corte ha dichiarato questa posizione non pertinente, e l'ha rigettata.

10. Nella decima posizione io diceva di associarmi all'egregio mio amico e coaccusato signor Michele Pironti per le eccezioni di nullità da lui prodotte, e largamente ragionate.

“La gran corte ‑ dacché il dedotto nell'articolo 10 non essendo motivato, come era obbligo dell'articolante di produrre in sua difesa, senza riportarsi a ciò che un altro accusato produce per sé; e mancando le spieghe opportune, non può accogliersi tale posizione per dichiararsi pertinente ‑ a voti uniformirigetta la domanda contenuta nell'articolo 10 delle posizioni.”

Se mi aveste chiamato io avrei dato le spieghe opportune, ed avrei ben motivata la dimanda, perché avrei detto: che avendo il Pironti, avvocato, ed ex giudice criminale, scritta una memoria sulle eccezioni di nullità, io o avrei fatto un bene a lui, o avrei detto le stesse cose con diverse parole: onde per non perder tempo, e per non farne perdere alla corte con una lunga scrittura, mi sono associato a lui. Questo motivo mi pare non solo legale, ma naturale, e fatto per buona creanza per evitare seccaggini e lungaggini. Ma se anche avessi spiegato e motivato questo articolo e tutte le eccezioni del mondo, sarebbe stato lo stesso: perché la corte ha rigettate tutte quelle prodotte dal Pironti. Le quali essendo ancora mie debbo qui riferirle.

Eccezioni di nullità. ‑ Il processo istruito dal commessario Silvestri in castel dell'Ovo è nullo pel luogo, perché il castello non è carcere legale, ma privato ed arbitrario, e non sottoposto alla vigilanza del procurator generale. È nullo per la forma, perché si sono fatti arresti per misure di prevenzione e per incarichi verbali; perché si sono fatti abusi di potere e di sevizie ai detenuti, i quali hanno dimandato di provarli; perché gl'imputati non furono interrogati subito dopo l'arresto come vuole la legge; perché ad essi non furono indicate tutte le loro imputazioni; perché si sono interrogate le mogli contro i mariti, come Maria Giuseppa Cuccaro contro suo marito Giovan Battista Sersale, la quale fu tenuta cinque giorni nelle segrete del forte; i padri contro i figliuoli, come Gaetano Vellucci contro suo figlio Lorenzo 20; le figliuole contro il padre, come Filomena, Clelia ed Almerinda Errichiello fanciulle di 12, 10, ed 8 anni contro il loro genitore Gaetano. È nullo per le persone che vi hanno preso parte, perché attribuendosi agl'imputati il disegno di uccidere il prefetto di polizia, il commessario Silvestri non poteva avere le due qualità d'impiegato dipendente dal prefetto e di giudice indipendente; non poteva essere istruttore imparziale, perché non impediva anzi ordinava la nostra illegale detenzione; perché il prefetto abusando della dipendenza dell'istruttore metteva ambo le mani nel processo, ed interrogava egli stesso gl'imputati, egli che nella causa è parte offesa; perché il comandante del forte signor Almeyda faceva anche egli interrogatorii, e poi li conferiva con l’istruttore, il quale se ne serviva, e li faceva passare nel processo come dichiarazioni giudiziali.

Secondamente il procurator generale richiedeva, e la gran corte criminale, con decisione del 19 dicembre 1849, ordinava riunirsi cinque processi dell'unità italiana, e procedersi contro tutti gl'imputati ad un solo giudizio. Or la corte medesima non può contro la legge e contro la stessa sua decisione, tra i più che dugento imputati dipinti nei cinque processi, sceglierne soli quarantadue, e sottoporli ad accusa. Ma giacché li ha sottoposti ad accusa con la decisione del 9 febbraio 1850, ora non può giudicare definitivamente, inappellabilmente, in corte speciale, con esecuzione tra ventiquattr'ore, di questi soli quarantadue, non tenendo conto degli altri per molti dei quali si è ordinato proseguirsi l'istruzione. Adunque se questi cinque processi non sono interamente compiuti per tutti, come si può giudicar su di essi, come possono servire per elementi di pruova?

Insomma io diceva: “Se la corte vuole essere rigorosamente e legalmente giusta deve dichiarare nullo il processo fatto in castel dell'Ovo: se vuol essere equa deve sospendere il giudizio ed aspettare che si compia l'istruzione per tutti. Così farete un giudizio solo, giudicherete con coscienza sicura, e nessuno avrà che dirvi. Se sopra questi incompiuti processi voi mi condannarete e mi farete mozzare il capo, e dimani proseguendo l'istruzione, nasceranno pruove limpidissime della mia innocenza, come mi restituirete quel fiato divino che Dio mi ha dato e voi mi avete tolto? Ogni uomo troverà ragionevoli queste dimande, ma la corte criminale le ha trovate irragionevoli, ed ha ragionato così:

“La gran corte ‑ sulle eccezioni di nullità di attiosserva che l'alta polizia ordinaria, per effetto del regolamento emanato dopo la nomina della commissione suprema pe' reati di stato e di setta, attribuiti alla di lei competenza, e devoluti alla competenza della gran corte speciale, è facoltata per mezzo de' suoi agenti a compilare i processi, raccogliere tutte le pruove concernenti tali reati. Che per effetto di tali principii la istruzione di cui è parola in detta eccezione è stata compilata dai funzionari competenti, previo ordine dato dal ministro dell'interno.

“Che non essendovi l'elenco delle prigioni, l'alta polizia vigila per la prevenzione, e per tutt'altro che riguarda i detenuti, e quindi ben poteva giusta le sue facoltà detenere nei castelli gl'imputati per reità di stato, tanto lo è vero che la suprema commissione di stato li deteneva negli stessi forti, e colà compilava la istruzione: essendo questa una eccezione alle regole di procedura penale.

“Che ogni funzionario giudiziario porta seco la presunzione di diritto d'istruire legalmente, e coscienziosamente per la verità, e senz'alcun riguardo: e vano è tutt'altro che domanda l'accusato in dette eccezioni, che rigettare si debbono.” E rigetta tutto.

Rispetto il giudicato; ma dico a chi non lo sa che la suprema commissione nel 1846 fu abolita, i giudizi di stato e di setta furono affidati alle corte criminali, che hanno i loro regolamenti, le loro leggi legali e non eccezionali; e non si può ritener per morta la commissione e per vivi i suoi regolamenti. Questa commissione essendo mista di magistrati e di militari, si adunava nei castelli, e colà deteneva gl'imputati pel solo tempo che durava la discussione della causa. L'istruzione era fatta dalla polizia, e nelle carceri ordinarie. E questo posso dirlo ed affermarlo bene perché nel 1841 fui giudicato da quella commissione. La corte criminale senza turbare il riposo de' morti poteva dire, come ha detto: “e vano è tutt'altro che domanda l'accusato in dette eccezioni che rigettare si debbono”.

Queste eccezioni sono state discusse per forma coi soli avvocati a porte chiuse, in segreto, e senza gl'imputati a' quali la legge permette di esser presenti. Era ammalato l'avvocato di Michele Pironti, e questi chiedeva istantemente di essere ascoltato egli. La corte non ha voluto ascoltarlo, voleva che gli avvocati Castriota e Russo che avevano solamente presentati i discarichi del Pironti, li avessero discussi; ma questi scusandosi di non potere discutere perché non sapevano le accuse e le difese del Pironti, la corte ha comandato a costui di scegliere subito un altro avvocato, egli ha dovuto nominarlo per fargli udire rigettare le sue eccezioni. Adunque per me ripulse no, discolpe no, eccezioni no.

4

Dieci posizioni a discolpa io aveva presentate, e tutte dieci contro ogni legge, contro ogni sentimento di umanità, mi sono state ostinatamente e sdegnosamente rigettate. Io solo, non pure fra i quarantadue imputati ma fra quanti uomini sono stati, sono, e saranno, io solo son privato del diritto di addurre pruove in mia difesa. Quando i giudizi si facevano colla corda, col fuoco, con l'acqua e con la ruota, il processo era breve e segreto, sì; ma se un imputato diceva un fatto in sua discolpa, il giudice lo verificava a suo modo, ma lo verificava. Ed oggi nella civile Europa, ed in italia, e in Napoli, e regnando Ferdinando II, e da magistrati napolitani, si rigettano tutte le discolpe di un accusato, non si ammettono le pruove che egli presenta, non si ascolta quello che egli dice. Si dirà che non erano pruove. Sia pure; ma almeno burlatemi, almeno ammettetene una e poi fatene quel conto che credete, concedetene una a chi è accusato a morte. Il procurator generale ed un sol giudice volevano che si ammettessero la 7. e l’8.; volevano non si desse un esempio nuovo, inaudito, terribile nella storia dei giudizi, un esempio che farà maravigliare tutti quelli che lo sapranno. Io ringrazio il procurator generale e l'ignoto giudice; e ringrazio ancora gli altri quattro, se per sentimento di giustizia hanno così giudicato; se per altra cagione io li perdono.

Io aveva chiesto di voler esser presente alla discussione delle mie discolpe; fu risposto, che io ho la febbre, e non si può discutere con chi ha la febbre. Io non ho febbre, perché non ho delitti, non ho rimorsi, non ho le mani lorde di sangue, non ho oppressoinsultato nessuno, ma sono serenamente tranquillo perché credo in Dio, credo nella virtù, spero nel progresso dell'umanità, non odio nessuno, perdono i miei nemici, e, ad esempio di Cristo li chiamo fratelli; quantunque essi, abusando di questa santa e generosa parola, mi rispondano con beffa di farisei: “fratello”. Vedo bene che l'odio contro di me non più si nasconde ma procede scoperto e mi toglie per fin la difesa. Sento dire: che la giustizia deve farsi nelle cause comuni, ma nelle cause di stato chi è vinto dev'essere punito. Che dunque mi resta a fare? Abbandonarmi alla giustizia di Dio, e dignitosamente tacere: mi sono difeso al cospetto del mondo, mi giudichi il mondo. Ma vorrò vedere anche questo, che per un'assertiva di una spia pagata, e per un avere inteso dire di un uomo che poi si è disdetto, otto giudici vorranno dichiararmi reo; e se essi per timore di non perdere il loro uffizio vorranno vendere per cento otto ducati il mese l'anima loro, la loro fama, la fama dei loro figliuoli, il sangue di quarantadue persone, e la sorte della patria.

Difesa di Luigi Settembrini dettata innanzi la corte criminale di Napoli il 9 e 10 gennaio 1851

I

Quando il procurator generale mi richiedeva a morte, i miei figliuoli, che dalla tribuna udirono le sue parole, discesi giù nel carcere piangendo, ed abbracciandomi mi dissero: “Padre che delitto avete fatto? Perché vi vogliono far morire?” Io per non ispegnere in essi troppo presto i germi di virtù, li benedissi, e risposi loro, che confidassero nei giudici. Confidando adunque in voi, o signori, e volendo anche da questo sgabello dare agli infelici miei figliuoli un insegnamento, che forse può essere l'ultimo, io vi dirò brevemente alcune parole in mia difesa; non per aggiungere alcuna cosa a quello che disse il dotto e cordato mio difensore, ma perché la legge mi da questo diritto, ed io voglio usarne.

Il rispetto che m'incute la vostra presenza, la naturale mia verecondia, l'estremo pericolo che mi sovrasta e questo momento solenne e terribile mi turbano il cuore e mi fan tremare la mente. Onde io vi prego di ascoltarmi benignamente, e di non voler prendere in senso sinistro, se qualche parola potrà sfuggirmi dal labbro, che non meriti la vostra approvazione. Attribuitela piuttosto alla coscienza dell'uomo onesto, che si sente crudelmente trafitto: io voglio difendere me, non offendere, né accusar nessuno. Pensomi che vedeste con quanta serenità di animo e di volto ascoltai la requisitoria del procurator generale, e le sue parole che contro di me furono più acerbe che contro gli altri. Né io me ne dolgo, dappoiché se io son reo, le merito, se sono innocente non mi toccano. E son certo che lo stesso pubblico accusatore, dopo le cose dette nella difesa, se dovesse sedere giudice parlerebbe e voterebbe altrimenti.

Siatemi dunque benigni, ed attendete più alle mie intenzioni che alle mie parole, le quali saranno brevi, perché se le brevi non bastano non basterebbero neppure le molte.

Signori: io sono accusato come capo settario e come cospiratore. Sono accusato come capo settario dalla denunzia di Luigi Iervolino, da' detti di Gaetano Romeo, dalla lettera di Ferdinando Carafa, e dalla dichiarazione di Luciano Margherita.

Sono accusato come cospiratore, perché Luigi Iervolino afferma, che io gli diedi quattro copie d'un proclama per diffonderle, e perché il Margherita dice aver saputo dal Sessa, che io era l'autore di quel proclama.

Questa è tutta l'accusa ed i fonti dell'accusa.

Ma innanzi che io confuti questa accusa consentitemi che faccia tre riflessioni preliminari.

1. La prima è che la colpa vera che si vuole punire in me, non sta scritta nell'atto di accusa stampato, e il procurator generale nella sua requisitoria fa intravederla in una reticenza, quando dopo di aver detto che io fui sottoposto ad altro giudizio politico, aggiunge queste parole: “a questo solo mi arresterò su di Luigi Settembrini”. Il mio vero delitto è il mio nome; ma ricordatevi, o giudici, in che paese ed in che tempi viviamo, ricordatevi negli anni passati quanti uomini onesti ed intemerati hanno avuto nomi di tristi e di spie, e quanti tristi sono stati chiamati eroi; e non vi parrà strano che io, il quale ho avuto sempre fortuna, desiderii, opinioni moderatissime, sia creduto un uomo trasmodante e sfrenato. Nessuno di voi mi aveva mai veduto, nessuno mi aveva mai parlato. La prima volta che mi vedeste fu su questo scanno, e mi vedeste non quale io sono, ma quale l'opinione del volgo mi dipingeva, mi vedeste cinto da una nera nube, la quale voi ormai dovete squarciare, dovete conoscere il vero, non vedere cogli occhi del volgo, giudicare de' fatti, non del nome.

2. La seconda riflessione è una verità confermata dalla storia di tutt'i tempi e di tutt'i paesi, che si vede in fatto giornalmente, e che io desidero che voi tenghiate bene in mente. Questa verità è, che in tempi di civili discordie, raramente è giusta una sentenza pronunziata in causa politica. Non intendo d'offender voi, ma voglio dire che in questi tristi tempi si mostrano le passioni più sozze e nefande. Ambizioni, sdegni, vendette nell'una parte e nell'altra: e quando una parte è vinta, sorgono come vermi tutti i vigliacchi e tutti gli accusatori: chi per vendicare offese ricevute, chi per far dimenticare le colpe sue, o l'aver parteggiato per i vinti, chi per paura, chi per speranza di guadagno, chi per avere un impiego, chi per mantenere quello che ha, chi per acquistarne uno maggiore, chi per ottener grazia e protezione, e chi infine per depravazione di cuore e per feroce istinto di nuocere. Si sbrigliano tutte le passioni, si accendono tutte le fantasie, si esagera ogni cosa, si crede di far sempre poco, la verità si nasconde, e nascono le calunnie politiche, le quali crescono, secondo crescono le discordie e le persecuzioni. In questi tempi nessuno è privo delle passioni di parte, non gli accusatori, non i testimonii, non gli istruttori de' processi, confesso che io non ne sono privo, e credo di non offendervi, dicendo che voi stessi non ne potete esser privi; giacché neppure i saggi possono spogliarsi interamente de' vizii, delle virtù, degli errori, delle passioni de' loro tempi. E se mai questo misero paese fosse commosso da altre politiche agitazioni (che Dio allontani sempre da noi questo male) e se la fortuna volgesse da altra parte, quante calunnie si scaglierebbero contro di voi; di quanti fatti voi sareste accusati, che neppure conoscete; quanti testimonii direbbero che vi hanno udito, vi hanno veduto, vi hanno parlato: e voi non potreste confonderli altrimenti che col negare, dappoiché gli amici vi abbandonerebbero, e coloro che potrebbero attestare il vero, si tacerebbero per paura, e vi pregherebbero di non nominarli. Questa è la condizion nostra presente.

Considerate dunque, o giudici sapientissimi, la tristizia de' tempi, considerate che in quell'immenso processo stanno vive e bollenti immense passioni, considerate chi sono quelli i quali pretendono di avervi scoperto il vero, di quante infamie sono bruttati i principali denunzianti e testimoni di questa causa. Avete udito che una scimia con parola umana vi confessava di aver denunziati i propri fratelli, avete udito che un sacerdote di Cristo si chiude in carcere per spiare e denunziare. E costoro vi avranno detto il vero, e costoro saranno gli amici del trono e dell'ordine? i sudditi fedeli del re? gli uomini obbedienti alle leggi? Or mettetevi, o giudici, una mano sul cuore, giudicate e dite: “A Luigi Settembrini ed ai suoi compagni sia tagliato il capo come a' nemici pubblici, ed al Marotta, al Cristiano, al Iervolino, al Vittoria, al Fiorentino, al Carpentieri, ed agli altri consorti sieno rendute grazie e data una corona civica”. Giudici sapienti e giusti, se condannerete me, voi questo direte.

3. La terza riflessione è, che a me solo fra tutti gli accusati è stato negato ogni discarico. Io rispetto le decisioni della gran corte, e non me ne dolgo affatto. L'avete creduto giusto, io piego la fronte. Ma questo, o signori, non è fatto mio, ma vostro: e voi dovete accettare le conseguenze logiche del fatto vostro, perché la logica e la giustizia sono una cosa.

Per mostrarvi quali furono sempre le mie opinioni ed i miei sentimenti, io non mi avviliva a darvi testimoni per la buona vita e fama, ma vi presentava miei scritti stampati nelle agitazioni dell'anno 1848 e prima, e vi pregava a leggerli. Vedete, io vi diceva, quali erano le mie opinioni nella lettera che io scrissi ai ministri del re il 18 febbraio 1848; vedete come io protestava pubblicamente nel giornaletto il Lume a gas nello stesso mese, che io non aveva mai scritto, né scriveva alcun giornale, e pregava tutti a mettersi un rotolo di neve sul capo ed un sughero in bocca: leggete quali idee politiche e religiose io diceva nel discorso ai miei giovani l'8 marzo, quando era giunta in Napoli e sparsa la voce nuova della repubblica proclamata in Francia; leggete per quali ragioni il 13 maggio, o signori, il 13 maggio io rinunziava ad uffizio che mi dava 120 ducati il mese, leggete quel manifesto che io scrissi agli elettori nel mese di giugno, quando più ferveva la rivoluzione in Calabria, per fare eleggere i deputati ed aprire le Camere, secondo i desiderii del governo; leggete la lettera che in agosto io scriveva al Bozzelli, pregandolo di ringraziare il re, che voleva darmi una pensione. Voleva io mostrarvi con quei documenti, che un uomo che opera e scrive a quel modo, non è né può essere capo settario, cospiratore, ambizioso, nemico di Dio e de' prìncipi, uomo pericoloso e pazzo, e degno d'acquistare il senno sul patibolo.

Con questi scritti ancora io voleva offrirvi una prova contro i detti del Margherita che mi dice autore del proclama. Imperocché voi, come fanno i pittori che dallo stile riconoscono l'autore di un quadro, paragonando tutte le mie svariate scritture, e lo stile diverso, e le parole con quel proclama maledetto, avreste veduto e giudicato con piena cognizione di causa, se io ne era veramente l'autore; e non vi stareste ora al detto del Margherita, che affermava averlo udito dal Sessa.

L'accusa sosteneva che io teneva riunioni settarie in casa, ed io vi chiedeva di esaminare tutti i vicini, di esaminare tutti quei gentiluomini nelle case de' quali io ad ore fisse ogni giorno andava ad insegnare, e vi faceva il conto, che non mi restava briciola di tempo. L'accusa sosteneva, che nel carcere io cospirava ed approvava disegni d'assassinii: ed io vi chiedeva d'interrogare l'ispettore delegato del carcere ed il custode, per sapere che cosa io faceva, e chi veniva a vedermi. Voi mi negaste tutto.

Ne' termini della difesa io repulsava il denunziante Iervolino, e vi dava sette testimoni per provare che costui era salariato dalla polizia, e per questa qualità non poteva essere udito in pubblica discussione. Voi ordinasterigettarsi la ripulsa, e sentirsi il testimone,” cioè voleste udirlo, e come testimone. Dopo che l'udiste io per toglier fede a' suoi detti tornai a chiedervi di udire quei testimoni, e voi tornaste a negarmeli, ordinando che io dimostrassi salariato presentando documento. Io allora non so dire se lealmente o disperatamente vi chiesi, di domandar voi dalla stessa polizia, se il Iervolino aveva un salario, e voi neppure questo voleste concedermi. Questo era il mio discarico, voi me lo avete rigettato, dunque eravate persuasi o della mia innocenza, o della mia reità, e non voleste udire ragioni. Che se mi direte, non esser queste posizioni pertinenti, io rispondo che allora non è neppur pertinente l'accusa, alla quale queste si oppongono. È un fatto vostro questo, o signori, e la più chiara ed inevitabile conseguenza di questo fatto è, che negata la difesa, non si può ritenere l'accusa. A molti avete molto consentito, a me negato tutto. Non aveva ragione di dire io, che il mio delitto è che io mi chiamo Luigi Settembrini?

Questo fatto, o signori, è gravissimo, è immenso, è unico, esso solo vi dice che non potete non assolvermi. Non mi avete rimasto altro mezzo di difesa, che il solo e nudo ragionare, ed io in quest'aula, da questo luogo, in questa condizione che io sono, ed in questi tempi non posso dire quello che dovrei e potrei dire. Onde non mi resta altro, che la fiducia della vostra giustizia. Con l'arme adunque della ragione io combatterò l'accusa; e poiché la ragione è figlia di Dio, in nome di Dio e con piena confidenza in lui io mi difenderò.

II

Sono io capo settario?

Immensa è questa accusa, perché il procurator generale, sostenendo che la setta sia il centro di tutta la macchina rivoluzionaria, e facendo dipendere da essa la cospirazione, la seduzione delle milizie, e lo scoppio innanzi la reggia, fa comparire i capi della setta come giganti, con in mano la leva desiderata da Archimede, e loro tutta la colpa de' mali che hanno afflitto il nostro paese. Se fosse vero il principio del procurator generale sostenuto nella sua requisitoria, fatta su cinque processi, quasi ingegnosa epopea in cinque canti, io non so perché si sarebbero mandati a' consigli di guerra molti processi riguardanti seduzioni di soldati, e specialmente quello a carico di Olindo de Pamphilis, ed altri imputati di aver sedotto soldati ed aggregatili a questa medesima setta della unità italiana: non so perché si sarebbero giudicate dalle corti criminali di Salerno, di Santa Maria e di Avellino altre cause di questa setta medesima. Se era vero il principio dovevano ammettersi tutte le conseguenze che da esso derivavano, dovevano riunirsi tutti questi altri processi al presente: non essendosi ammesse le conseguenze, si mostra che né saldovero era il principio. Il quale da altra parte non si dimostra vero da' processi del 15 maggio, del 5 settembre e del 29 gennaio, ne' quali non si parla né di questa, né d'altra setta, né in questo processo ci è cosa che possa a quegli avvenimenti riferirsi. Onde il fatto stesso del procurator generale, cioè la riunione di soli cinque processi distrugge in gran parte il suo principio, che tutto sia originato da questa setta. Io non cercherò di trovar la ragione perché si sieno riuniti questi soli cinque processi, e lascerò al vostro senno d'indovinarlo.

Signori, se io dovessi parlarvi di tutto, io vi dimostrerei lucidamente l'idea madre del processo, la quale è una sporca scrocconeria, che dalle fantasie napolitane è stata creduta una cospirazione spaventevole: vi dimostrerei che la setta è una impostura di pochi sciagurati; che la pretesa seduzione de' soldati non fu neppure un tentativo di seduzione; che lo spargimento de' proclami, l'affissione de' cartelli, e quella poca polvere che fu accesa innanzi la reggia, e che ad altri parve un colpo di cannoncino, furono sciocche opere di pochi sciocchi, che meriterebbero piuttosto disprezzo che pena: vi dimostrerei che in fondo non ci è altro che intrigo di pochi impostori, la credulità di alcuni stolti, le apprensioni troppo fantastiche nel governo, e negl'istruttori troppa credenza a queste follie. Imperocché io credo e son certo, che tutti quanti noi che nascemmo nel reame di Napoli, tutti senza eccezione di nessuno, abbiamo un grande nemico in noi stessi, che è la nostra fantasia. Ma io debbo difender me, onde vi parlerò di me solo, e vi toccherò di questa idea madre, soltanto per quello che mi riguarda. Nondimeno voi o giudici rammentatevi di questa idea.

Sono io capo della setta! E chi son io? Un uomo povero, non conosciuto da alcuno, non conoscente alcuno, di mediocrissimo ingegno, di tarda favella, di pochi e sfortunati studi, un professore di lettere, un maestro di scuola.

Ma chi vorrebbe far credere a voi ed al mondo, che un maestro di scuola, diventi subitamente il terribile capo di una terribile setta? Il Iervolino, il Romeo, il Carafa, il Margherita. Parliamo di ciascun di costoro.

IERVOLINO ‑ Chi è Luigi Iervolino? io voleva mostrarvelo con prove testimoniali: e voi non lo avete voluto sapere. Ma che dice questo Iervolino?

L'avete udito dall'avvocato Castriota, e dall'amoroso mio difensore signor Lauria, i quali lo hanno confutato e distrutto. Permettete che vi aggiunga alcuna cosa anche io, e siatemi benigni se ripeterò qualche cosa già detta.

Considerando in generale tutto il detto del Iervolino dal suo primo libello del 23 aprile 1849 fino a quando venne a spergiurare in pubblica discussione, si vede che va sempre crescendo per modo che quel libello è la più mite fra le sue denunzie, la dichiarazione fatta innanzi a voi è la più velenosa.

Questa progressione non nasce da nuovi fatti ch'egli depone; dappoiché nella pubblica discussione egli disse le medesime cose che nel primo libello; ma variandole, aggiungendovi, togliendovi, contraddicendole, e spargendole di rabbioso veleno; nasce dunque dalla malizia, dal voler mostrare che meritava il soldo. Il suo detto cresceva, perché crescevano le persecuzioni politiche, perché egli voleva farsi merito, perché sempre più egli si avanzava nella via della calunnia e del delitto, perché egli diceva il falso. Se avesse detto il vero la progressione sarebbe stata contraria, avrebbe narrati i fatti con tutte le circostanze minute, le quali col tempo avrebbe potuto dimenticare: insomma avrebbe tolto e non aggiunto, non variato. L'aggiungere ed il variare è pruova indubitata di stolta calunnia.

Considerando poi in particolare [che] le sue denunzie si trovano piene d'inverosimiglianze, di contraddizioni, di falsità palpabili. Nel primo libello del 23 aprile non mi nomina che a caso, non mi dice neppure semplice settario, non sa il nome di alcuno de' miei amici, afferma soltanto che il Poerio, il Nisco ed io, gli demmo un notamento di candidati e 60 copie d'un manifesto col quale si inculcava di non fumare e non pagar dazii. Quando il 16 maggio è chiamato dall'istruttore per indicar pruove e chiarimenti di qualsivoglia natura in sostegno de' suoi detti, egli risponde che non può indicare alcun testimonio, non può dir alcuna cosa, e contraddicendo al suo libello dice che quelle note e que' manifesti gli ebbe da me solo: ed in pubblica discussione aggiunse, che i manifesti furono 20 e non 60. Non parlo della nota de' candidati; io non poteva mai avvilirmi a chiedere un onore che poi rinunziai, a chiederlo per mezzo di un Iervolino. Chi vuol avvilirmi non mi coglie. Tutto il paese conosce se io poteva discendere a queste bassezze. Con un'assertiva contraddittoria il Iervolino pretende di far credere di aver ricevuto da me i manifesti. Questi dunque furono i grandi servigi ch'egli rese alla setta da che vi fu ascritto fino a giugno 1849? E nei moti del 5 settembre, nella dimostrazione del 29 gennaio, che fece, che disse, che gli fu detto, o consigliato di fare? Guardate la lunghezza del tempo e la pochezza delle cose. Dice ancora nella ratifica, che il Poerio, il Nisco, l'Attanasio, il Grillo, il d'Ambrosio, io, ed un tal Giuseppe detto il cartonaio, eravam tutti della setta occupando anche de' gradi.

Ma come lo sa? Ma qual pruova ne ha dato? ma di qual grado intendeva parlare? ma perché non ne parla nel primo e studiato libello?

Nella prima denunzia dice, che per scriverlo settario si mossero quattro persone, il Poerio, l'Attanasio, il Nisco, il d'Ambrosio: in pubblica discussione v'aggiunge ancora il Pacifico, mentre che in tutto il lungo corso delle sue lunghe denunzie, non ha mai detto che il Pacifico lo condusse dal d'Ambrosio. Nella stessa denunzia dice che fu ricevuto settario dal d'Ambrosio, presente il Nisco: nella ratifica del 16 maggio dice che fu ricevuto dal d'Ambrosio da solo a solo.

In tutte le dichiarazioni scritte dice di non ricordarsi il contenuto del giuramento, le parole ed i segni datigli dal d'Ambrosio, e ne assegna per ragione la remotezza del tempo. In pubblica discussione gli ritorna la memoria, dice le parole, mostra i segni, dice che il giuramento era per la costituzione, ma poi si passava alla repubblica. Dimenticare il giuramento, dimenticare le formole terribili con cui si prestava, e le parole e i segni co' quali doveva conoscere altri e farsi conoscere; egli che ricorda a che strada abitavano l'Attanasio ed il d'Ambrosio, a che numero, a che piano, egli che non è né stupido, né smemorato! E vuol farvi credere questo? Ed egli è settario?

Nella stessa prima dichiarazione dice, che il Nisco prima del suo arresto, cioè prima di novembre 1848 lo fece unitario: nella ratifica dice che il Nisco era unitario. In pubblica discussione affermò che il Nisco era più che unitario, e fece lui unitario con solamente dargli un altro segno, col quale si fece conoscere da me: e che io poi gli dava i nuovi segni, i quali egli poi rivelava alla polizia. Adunque il Iervolino dipendeva dal Poerio, fu iniziato dal d'Ambrosio, fu fatto unitario dal Nisco, aveva i segni da me. E dov'è il documento ch'egli rivelava i segni alla polizia? E qual settario è stato conosciuto per mezzo de' segni dati dal Iervolino? Ed ebbe diploma di unitario? Ebbe le istruzioni? Che ne fece e dove sono? E chi potrà credere che costui sia settario e dica il vero? E per ora ricordate, o giudici, che il Iervolino fu fatto unitario prima di novembre 1848, e che ebbe questo grado con solo un nuovo segno.

Nel primo libello dice che fu fatto unitario in novembre 1848; dunque avrebbe dovuto aver diplomi, istruzioni e tutto: nella denunzia del 6 giugno 1849 dice aver saputo dal Pacifico, che il comitato aveva deciso di passare a tutti gli unitarii un segno che non si era determinato, se doveva essere una medaglia o altro. Intanto nel processo è il diploma del Margherita con la data del marzo 1849; se il Iervolino era settario, perché non ebbe diploma, perché fino a giugno 1849 non sa nulla della setta?

Nel medesimo primo libello dice i nomi de' confidenti del Poerio e del Nisco, e che non conosce nessuno de' confidenti miei. Arrestato con me il Mignogna, egli subito dice che il Mignogna era mio confidente: messo in confronto col Mignogna non sa dire a che ora lo vedeva in mia casa, e come lo vedeva vestito. Nella pubblica discussione dice, ch'egli spessissimo andava in casa Poerio, spesso in casa mia, talvolta in casa Nisco, intanto sa dire i nomi de' confidenti del Nisco, non de' miei.

Nella dichiarazione del 6 giugno dice, che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare un proclama, che costui non glielo diede, che poi glielo diedi io. Nella pubblica discussione disse che ebbe da me il proclama, e non nominò affatto il Pacifico; ma disse un'altra cosa ch'è in contraddizione con tutte le altre che ha dette, cioè che il Nisco lo mandò dal Pacifico, il Pacifico lo condusse dal d'Ambrosio che lo fece settario. Cosicché nel processo scritto il Pacifico comparisce in iscena il 6 giugno 1849: nella pubblica discussione comparisce in iscena col d'Ambrosio cioè assai prima dell'arresto del Nisco, assai prima del novembre 1848. Dalla quale contraddizione nasce questa conseguenza. Se fosse stato vero che il Pacifico lo accompagnò dal d'Ambrosio, egli lo avrebbe detto nelle sue denunzie, perché questo non era fatto da scordarsi: come se fosse stato vero che io lo mandai dal Pacifico, non se ne sarebbe dimenticato in pubblica discussione. Falsa adunque l'una e l'altra assertiva sul Pacifico.

Nella stessa dichiarazione del 6 giugno dice: “Siccome Settembrini tratta di continuo anzi spessissimo con don Gabriele Rondinella libraio con bottega sotto il palazzo Maddaloni, così credo che per ordine del Rondinella stesso abbia potuto eseguirsi la stampa del detto proclama: anche avuto riguardo alla massima confidenza che passa tra loro”.

Nella dichiarazione del 30 giugno richiesto a dire se mai incontrò il Rondinella in casa mia risponde: “che non ve l'ha mai trovato, ha arguito però le intime relazioni tra costoro, dall'avere più d'una volta incontrato il Settembrini nell'atto che usciva o entrava nella bottega del Rondinella, sita dirimpetto non sotto il palazzo Maddaloni”: egli però non conosce di vista il Rondinella.

Dunque ora mi vede trattar di continuo anzi spessissimo col libraio, or mi vede entrare ed uscire più d'una volta dalla libreria: dunque perché io entrava ed usciva aveva massima confidenza, e commetteva la stampa del proclama.

Dunque la libreria del Rondinella ora è sotto il palazzo Maddaloni, e si scambia con la libreria Montuoro; ora è al suo vero posto cioè dirimpetto il palazzo Maddaloni. L'istruttore colpito da queste brutte contraddizioni gli domanda se conosce il Rondinella, ed egli risponde: “Io però non conosco di vista il Rondinella”. Signori, è verissimo che io conosco il Rondinella, come dissi nel mio primo interrogatorio, è verissimo che io andava nella libreria per comprar libri. Questo è fatto non sospetto, è fatto necessario per un uomo di lettere: ed io conosco quasi tutti i librai di Napoli. Ma se il Iervolino fosse venuto in mia casa, se fosse stato con me in quelle relazioni che egli afferma, vedendomi entrare nella libreria o spessissimo o più d'una volta, mi avrebbe avvicinato, vi sarebbe entrato anch'egli, avrebbe almeno veduta la faccia del Rondinella. Tanto più che essendo egli agente segreto di polizia, e credendomi in confidenza col libraio, avrebbe potuto e dovuto conoscerlo. Or egli dice che non conosce di vista il Rondinella: dunque non conosceva me da vicino. Se avesse conosciuto me, si sarebbe avvicinato, avrebbe trovato un pretesto per parlarmi, ed avrebbe conosciuto di vista il libraio. E non vedete chiaramente, o signori, che il Iervolino era un tristo salariato, il quale mi seguiva di lontano, e spiava i miei passi, calunniava le mie azioni più innocenti, e cercava di trovare un'occasione, un appicco qualunque per dar colore di verità alle sue infami calunnie? Come posso darvi io una pruova negativa, che io non conosco costui? Egli l'afferma: io lo nego: egli è un tristo, io un onesto uomo: ma questo ragionamento è pure una pruova che viene da lui, e che gli sorprende la calunnia su la bocca. Egli non mi avvicinò giammai, non fu mai in mia casa e questo è provato dal suo detto medesimo, perché egli non sa dire alcuno dei miei amici, non li sa di nome, non li conosce. Egli forse seguendomi per via mi vide parlare con qualcuno, e disse di aver veduto questo qualcuno in mia casa, che era un vecchio di alta statura con baffi ed aspetto militare.

Mi si dirà che nella stessa dichiarazione del 30 giugno il Iervolino descrive la mia casa. Sì, egli descrive solo una parte della mia casa, cioè la sala, l'anticamera, poi lo studio a destra e la galleria a sinistra. Questa parte una spia poteva conoscerla o da, sé, o per relazione, specialmente perché quando io teneva studio faceva stare la porta aperta, ed ognuno sol che avesse ficcato il capo dentro, avrebbe veduta quella parte che il Iervolino descrive e che non vide mai. Ma che dico: non vide? Sì, vide quando io fui arrestato. Imperocché nella stessa dichiarazione egli dice, che quando io fui arrestato, egli erasi recato in mia casa, ma avendo appreso abbasso al portone che eravi la polizia, corse a darne avviso al Poerio. Giusto in quel giorno, in quell'ora ed in quel momento egli veniva da me! Fu il caso dunque, fu il suo buon genio che ve lo condusse allora? No: fu la sua malvagità. Egli non conosciuto da me venne tra gli sbirri ad arrestarmi, venne in compagnia di colui al quale egli scrisse quella sua lettera presentata dal Poerio, venne e vide quella parte della casa che descrive; venne per godere del mio arresto e del dolore che egli gettava nella mia famiglia, venne per feroce sbirresca curiosità, venne per accertarsi del fatto pel quale sperava e forse ebbe compenso: venne quella volta sola.

Né la polizia ha voluto convincersi del contrario, dappoiché non interrogava la mia vecchia serva e la donna che abitava nel palazzo, dalle quali il Iervolino afferma che fu veduto, e che dimandava se io era in casa. Quando io negava e il Iervolino non solo affermava ma indicava testimoni, perché non interrogar queste due donne? Perché si sarebbe scoperto il vero, perché si voleva mettere ombre e non luce attorno alla dichiarazione di costui. E per la stessa ragione mi si negava di pormi in contraddizione col mio accusatore, siccome io chiedeva sin dal mio primo interrogatorio, perché si sapeva che io poteva confonderlo come aveva fatto il Mignogna, poteva mostrare la calunnia fin da principio.

Or quale altra pruova voi volete, o giudici, che costui è un ribaldo calunniatore, quando io vi ho mostrato che egli nelle sue dichiarazioni va sempre crescendo di malizia, e ad ogni passo dice e contraddice, che si asserisce settario e non sa neppure lo scopo della setta, che non mi conosceva ma spiava i miei passi per calunniarmi, che veniva in mia casa quando io fui arrestato, per pascersi e godere della mia sventura? Quando avete veduto che la polizia stessa lo credeva mendace, e non istruiva su le sue denunzie? E se a tutto questo aggiungerete ciò che fu detto dai testimoni Marincola e Mazzola, e ciò che avrebber potuto dire i testimoni che io vi dava e voi mi rigettaste; avrete la piena dimostrazione, che non solo dovete dubitare, ma dovete essere certi che Luigi Iervolino è un calunniatore.

Ma costui ha presentato un proclama; ne parlerò quando dirò se io sono un cospiratore.

ROMEOGaetano Romeo dice, e poi più volte disdice, che in casa Miele intese nominare come capi della setta il Poerio, il Proto, il Settembrini, e più tardi v'aggiunge il principe di Torella ed il cav. Bozzelli. Ma da chi il Romeo intese dir questo? chi altro di casa Miele udì le medesime cose? che valore può avere il suo vago detto, da lui solennemente disconfessato? Non dirò più del Romeo, confutato dall'eloquente difensore del Miele, e non creduto dalla stessa gran corte, che per il Torella ed il Bozzelli non teneva alcun conto di questo stolido detto.

CARAFA ‑ Vengo ora al Carafa, del quale io dimentico per poco la nobile ritrattazione fatta innanzi di voi, e ritengo la lettera che egli scrisse al prefetto di polizia un mese dopo il suo arresto, quindici giorni dopo la grande dichiarazione del Margherita, cioè il 29 ottobre 1849.

Prima che io esamini questa lettera debbo dirvi, o signori, una cosa importante, la quale vi spiegherà molte apparenti contraddizioni.

Quando io fui interrogato in castel dell'Uovo delle stessissime cose onde fui dimandato subito dopo il mio arresto, dopo le mie brevi risposte, io dimandai all'istruttore perché mi trovava in quel luogo, dove si compilava il processo della esplosione avvenuta innanzi la reggia, e l'istruttore cominciò a tessermi una istoria del Faucitano, del Catalano, del Giordano; mi parlò qualche cosa di un preteso alto consiglio, e mi accennò destramente quello che il Margherita ed altri avevan detto. Questa non solo fu cortesia ma profonda sagacia nell'istruttore, il quale così parlando e osservando gli occhi, il colore, i gesti, le parole dell'imputato che gli sta dinanzi, gli legge chiara sul volto o la colpa o la innocenza. Questo modo, che torna a grande lode dell'istruttore, egli tenne con me, e dovette tenere con altri, e specialmente col Carafa. Al quale egli parlò del Giordano, ed il Carafa disse che lo conosceva. Ma ricordandosi l'istruttore che il Margherita pone il Carafa tra i componenti dell'alto consiglio, gliene parlò, gli parlò dell'Agresti e poi di me supposti presidenti; gli parlò del Pironti, del Persico, del Poerio e del Mascilli, nominato non dal Margherita ma dal Vellucci. Insomma dovette dirgli molto e di molti, ed il Carafa dovette rispondere che nulla sapeva. Ma di poi stanco dal carcere segreto, afflitto da sventure domestiche, e da altre cagioni che egli stesso ha narrate, e vedendo d'altra parte che si pretendeva che egli avesse saputo qualche cosa, per riacquistare la sua libertà, rendersi utile al re, e meritarne la clemenza, scelse il partito meno onesto, e scrisse una lettera nella quale espose non quello ch'egli già sapeva, ma quello che aveva udito dall'istruttore; e che egli malamente e disordinatamente ricordava; a cui aggiunse qualche sua ricordanza vaga, forse qualche cosa che aveva udito dal suo conoscente Giordano, e così formò quella strana lettera, che è ripiena della poesia della paura.

Questa pare una congettura, e non è che una verità dolorosa, la quale io ho saputo dalla sua bocca, e che egli certamente non negherà. Così si spiega che questa lettera contiene la confessione di non saper nulla, ed il desiderio di dir molto: così si spiega che salta di palo in frasca, dice cose senza legame e senza pruove; così si spiega che non fu scritta in una segreta, dove non si può avere né calamaiocarta: così si spiega che innanzi all'istruttore la ratificò, ed innanzi di voi disse che egli aveva mentito, e che gli era stata suggerita dall'istruttore. No, l'istruttore non gli poteva suggerire quelle balordaggini: gli disse alcuna cosa per iscoprire il vero, ed egli ripeté queste cose come a suo modo, come se le avesse sapute, mentre le aveva udite allora. Tutto quello che ha scritto e detto il Carafa è tutto vero, ma è vero a questo modo, bisogna guardarlo da questo lato, bisogna considerarlo come una ripetizione di cose malamente apprese.

Esaminiamo questa lettera, e vediamo come essa dimostra quello che abbiamo detto, e come tutto guasti e trasfiguri.

Nicola Nisco una sera scontrandomi per istrada mi fermò dicendomi, se io voleva far parte di una setta, della quale era capo il Mamiani: io risposi di non volerne far parte.” Se drammatizzate queste parole le troverete non solo ridicole ma assurde, imperocché parlar di setta scontrandosi per istrada, rispondere con un secco no, ed andar via, sono cose assurde. E poi, o signori, voi sapete che il Mamiani è un uomo venerando e dottissimo, che non è stato mai capo di setta, che sempre ha abborrito dalle sette, che fuggì da Roma quando vi si stabilì la costituente e poi la repubblica. Ora io penso e credo di appormi al vero, che il Nisco gli parlò non del Mamiani ma del Gioberti, non di una setta ma del congresso per la costituzione, che il Gioberti tenne a Torino, invitandovi tutti gli amici della costituzione: forse il Nisco invitava il Carafa di andare a Torino, forse gli disse che v'andava anche il Mamiani. Questo discorso si fa in istrada, a questo invito si risponde con un no senz'altro. Il Carafa stretto in carcere, col capo pieno delle dimande fattegli sulla setta, ricordandosi un nome illustre, scambiò il Gioberti col Mamiani, il congresso con la setta. Non si può spiegare la cosa altrimenti, se non si vuol calunniare un uomo che tutta l'Europa ha rispettato e rispetterà, finché sarà in onore la sana filosofia ed una vita incorrotta; e che voi da codesti seggi dovete rispettare perché rispettate la scienza e la morale. Seguita a dire, che in casa del principe della Rocca conobbe me e l'Agresti; e per molto tempo provavano di accordo di semplicemente ostacolare le dimostrazioni contro la costituzione.

Io non sono stato mai interrogato se conobbi il Carafa, e come, e dove, e quando. Ora è inutile dire altro: sia pure come ei dice. Ma che cosa era quest' “ostacolare?” Ci opponevamo con parole o con azioni? che cosa si fece, o almeno che cosa si diceva di voler fare? E questa società per ostacolare era composta solamente del principe della Rocca, dell'Agresti, del Carafa e del Settembrini? Chi erano gli altri? perché non li nomina? perché non ne fu dimandato? Egli voleva parlar solamente di noi, ed attribuiva a noi ciò che forse conveniva ad altri.

Egli dice ancora: “Nell'inverno scorso venne dalla Basilicata un prete per nome Maffei, il quale si portò in casa di Settembrini, ove ebbe non so se uno o più libretti, poiché entrò in un'altra stanza, e solo con Nicola Mignogna, io credo ebbe istruzioni segrete”.

Io non so donde il Carafa abbia cavato questo prete Maffei, che io non ho mai vedutoconosciuto, e di cui il processo non offre alcuna traccia; il quale forse sarà qualche altro scambio di nome. La pretesa venuta di questo prete in mia casa sarebbe renduta colpevole dalle parole, “ove ebbe non so se uno o più libretti.” Ma da chi li ebbe? Se vide che li ebbe, dovette veder anche chi glieli dava. Ma di quali libretti intende parlare? Egli vuole affermare che il Maffei ebbe libretti, ma non sa dire se n'ebbe uno o due, e ne adduce la ragione: “poiché entrò in un'altra stanza e solo col Mignogna”. Ma se andò in altra stanza, come egli vide quest'uno o due libretti? Egli stesso vede la stoltezza che ha detto, e per correggersi ne dice una maggiore, “io credo ebbe istruzioni segrete.” E queste parole, un non so ed un credo possono costituire un elemento di accusa? La corte liberò subito il Mignogna, e lo udì come testimone a discarico dato dal Persico, per sapere se il Persico ed il Maffei furono mai in mia casa. Se dunque per questa parte non credette allora al detto del Carafa, io son certo che non vorrà crederlo per quello che mi riguarda.

Nel brano che siegue si scorge lucidamente quello che io dissi, cioè che il Carafa non confessò quello che sapeva, ma ripeté stranamente quello che aveva inteso. “Arrestati Agresti e Settembrini, non so chi in seguito sia stato il capo, poiché io nulla sapeva del progresso ed andamento di questa setta. So che non ha guari è partito per Campobasso Ferdinando Mascilli; mi disse andare per suoi affari particolari, ma io lo aveva spesso veduto con Michele Pironti e Michele Persico, de' quali non so se appartenevano alla setta.”

Vedete quante cose e nomi sono accumulati in pochi versi. Se egli in molti luoghi di questa lettera dice e ripete che nulla sapeva, che nulla gli si faceva sapere, come afferma poi che Agresti e Settembrini erano stati capi? Quando, da chi, per qual modo l'aveva saputo? Non è egli evidente, ch'ei si ricordava delle parole dell'istruttore, che per iscoprirlo gli nominava l'Agresti, e me, ed il Mascilli, ed il Pironti, ed il Persico? E vedete come egli ricordandosi di quel che aveva udito dir del Mascilli, e riferendone un fatto innocente, qual'è la gita in Campobasso, l'avvelena con questa aggiunzione, “mi disse andare per suoi affari, ma io lo aveva spesso veduto con Michele Pironti e Michele Persico.”

Insomma questa lettera è uno sragionamento, un delirio, un vaniloquio, ed il Carafa che non si è mostrato mai stolto, ha avuto ragione di ritrattarla; perché in essa non si disse cose ch'egli sapeva, ma trasfigurò le cose che aveva intese dall'istruttore, il quale parlava non per suggerire ma per iscoprire il vero.

MARGHERITA ‑ Se il Iervolino nella ratifica del suo primo libello, gittando un motto in aria dice che io e molti altri che nomina occupavam gradi nella setta: se il Romeo dice di aver udito dire che il Poerio, il Proto, e due ministri con me eran capi della setta; se il Carafa ripete da pappagallo che io ero capo; viene ultimo il Margherita, e mi crea prima membro d'un comitato centrale, poi membro d'un alto consiglio, poi segretario, poi presidente.

Signori, il Margherita è stato combattuto e distrutto dalla eloquenza dei difensori; consentite che ne parli anche io a modo mio. Io voglio dimostrarvi che ha mentito, voglio dimostrarvi perché ha mentito, voglio dimostrarvi che egli invece di essere l'Atlante del processo come si crede, è per contrario colui che ci svela tutta la impostura e gl'impostori che si chiaman setta e settarii. Il procurator generale fa tutto dipendere dalla setta: il Margherita alla setta i capi: quindi vinto il Margherita saranno schiacciate le teste dell'idra, sarà rotta, sgominata, confutata l'accusa.

Io ho veduto che il procurator generale nella sua requisitoria ha fatto gran caso delle istruzioni della setta, onde ho voluto leggere e considerare attentamente queste istruzioni, e i documenti che seguono, e con esse alla mano io torrò la maschera all'impostura.

Tra l'immenso numero di accusati confessi, testimoni, e denunzianti che sono in questo processo, il solo Luciano Margherita parla di un preteso, or comitato, or consiglio regolatore della setta, ne nomina i componenti, e ne dice le decisioni e le operazioni.

Imperocché il Vellucci, il Piterà, il Faucitano, l'Errichiello, l'Antonetti, il Vallo ed altri, tutti avevan parlato vagamente di quell'intrigo che chiamasi setta, ma nessuno di essi era salito più su del Giordano e del Sessa, a cui eran dati i primi onori, i primi gradi, e la direzione di un comitato di operazioni. Bisognava riempire questo vuoto che era nel processo, e forse nell'animo dei processanti: bisognava che le sparse fila si raccogliessero, che coloro i quali erano stati vagamente calunniati dal Iervolino e dal Marotta fossero più direttamente feriti al cuore. Ed ecco venire su le confessioni del Margherita.

Primamente è degno di tutta la vostra attenzione, che il Margherita non parla per iscienza propria, ma per detto del Giordano e del Sessa, per modo che se mai costoro un giorno dessero pruove innegabili che costui ha mentito, voi dando fede ai sui detti, e ritenendoli come elementi di una condanna capitale ed irretrattabile, potreste pentirvi amaramente di avergli creduto. Chi vuol calunniare il prossimo senza darne pruove, dice sempre di aver saputo e di aver udito da altrui. Ed il Margherita molto dice e nulla pruova.

Nella prima dichiarazione dice, che per fame ei divenne settario, che il marzo ebbe il diploma, che il fine della setta era di mantenere la costituzione, che udì dal Sessa e dal Giordano, che il Pironti, l'Agresti, ed il Settembrini ed il Persico eran membri del comitato centrale, ma che egli non li conosce, né li ha mai veduti. Nella seconda dichiarazione afferma di aver udito dire dagli stessi Giordano e Sessa, che questo comitato centrale dirigeva tutte le mosse del partito liberale, che era presidente l'Agresti, io segretario, il Persico cassiere, gli altri membri, e più di dodici. Che dopo lo scioglimento delle Camere questo comitato prese nome di alto consiglio della setta, e che arrestato l'Agresti ne fui io il presidente.

Signori, il Margherita nella sua prima dichiarazione voleva dir tutto, perché incomincia così: “Narrerò schiettamente come, quando e da chi fui tratto in inganno, e se colpa vi è si deve ai capi attribuire”; poteva dir tutto, perché egli era unitario, come lo dimostra il suo diploma che ha la data del marzo 1849; e questo grado di unitario è un alto grado della setta, secondo l'articolo 5 delle Istruzioni, nel quale sta scritto, che gli unitari sono i presidenti ed i consiglieri dei circoli. Se dunque il Margherita voleva e poteva parlare, perché non parlò dell'alto consiglio, perché disse che non ci conosceva? perché egli unitario scambia i nomi? Quel suo comitato centrale era cosa settaria o non settaria? Se era cosa settaria, mi si dica dove sta nominato nelle Istruzioni un comitato qualunque? Se non era cosa settaria, come si veniva a mettere nella setta, che doveva avere i suoi ordini, e le sue gelose gerarchie?

Questa trasformazione di comitato centrale in alto consiglio, non sarebbe stata la più arbitraria, la più flagrante violazione di una liturgia non creata qui in Napoli, come si lascia travedere dallo stesso atto di accusa, e che doveva essere rispettata da tutta la famiglia dei settarii? Egli è un gran fatto, un fatto immenso, che il Margherita nella prima dichiarazione abbia taciuto dell'alto consiglio, e che ne abbia parlato nella seconda, facendolo nascere da una trasformazione assurda ed impossibile. Questo fatto dimostra che nella seconda dichiarazione il Margherita sicilianamente poetò, scelleratamente inventò, e per inventare verosimilmente cercò di ricordarsi degli statuti della setta. Ma appunto questi statuti lo confondono e lo dimostrano calunniatore.

Ma, o signori, prendiamo le Istruzioni, e non vi troveremo parola né di comitato né di alto consiglio: vi è solo un gran consiglio composto di sette grandi unitari, quasi dei sette savi della Grecia senza presidente, secondo l'articolo 6. E questo gran consiglio per i documenti stessi stampati dall'accusa non esisteva, né poteva esistere in Napoli. Il primo documento comunica così: “II gran consiglio della setta della unità italiana agli unitari della provincia di Napoli salute e libertà”, e finisce: “venite anche voi, salvate” ecc. Il qual documento evidentemente non fu scritto in Napoli. ‑ Il secondo documento è il programma della setta; nel quale sta scritto, che “per quella parte detta reame di Napoli, vi è un particolare ordinamento: in Napoli un circolo generale” ecc. ‑ Dalle Istruzioni adunque e da questi documenti è dimostrato che in Napoli, non solo non esisteva, ma non poteva esistere l'alto consiglio. Che cosa adunque poteva esistere in Napoli secondo le Istruzioni? Niente altro che un circolo generale, con a capo un grande unitario (art. 7). Dunque il supremo capo della setta nel reame di Napoli, non poteva essere che un grande unitario, non poteva essere che uno; e gli altri capi dopo di questo uno dovevano essere unitari, cioè capi e consiglieri dei circoli, secondo l'articolo 5.

Cerchiamo di scoprire questi capi che chiamansi unitari, e questo grande unitario. Sì col processo e colle Istruzioni alla mano lo scopriremo.

Il Margherita ed il de Simone hanno presentati i loro diplomi di unitari: dunque il vagabondo ed affamato Margherita e l'analfabeta de Simone eran capi e consiglieri de' circoli, non avevano in tutto il regno che un solo superiore, il grande unitario.

Il Vellucci ed il Faucitano confessarono di aver avuto diplomi di unitari, dunque anch'essi eran capi e consiglieri de' circoli. Il Iervolino dice che fu fatto unitario dal Nisco, dunque anch'egli era capo come Margherita e gli altri. E il Margherita, il de Simone, il Vellucci, il Faucitano ed il Iervolino per il loro grado potevano e dovevano conoscer tutto, almeno quanto Poerio, Pironti, Pica, Agresti, Settembrini, perché uno tra questi poteva essere grande unitario, tutti gli altri unitari, ed eguali di grado al Margherita, al de Simone ed agli altri. Abbiamo trovati cinque unitari confessi, potremo fiutar gli altri, se terremo dietro a certe parole che dicono che il Sessa ed il Giordano mandavano diplomi di unitari a questo ed a quello senza neppure conoscerli, e per il solo fine di averne uno scudo. Ma cerchiamo il grande unitario; secondo gli articoli 6 e 7 i grandi unitari non potevano essere più di 15, sette membri del gran consiglio, e gli otto presidenti degli otto circoli generali delle otto provincie in cui è divisa l'Italia settaria. Dunque in Napoli non ce ne poteva essere che uno. E chi era? il Iervolino in pubblica discussione disse che il Nisco era più che unitario. Prestereste fede al Iervolino? Le Istruzioni nell'art. 5 dicono, che l'unito ha un motto, l'unitario due, il grande unitario tre. Ma il primo documento stampato dell'accusa sono tre motti trovati scritti in casa del Vellucci, dunque il Vellucci sarebbe il grande unitario, il capo supremo della setta in Napoli. Ma il Vellucci dipendeva dal Margherita, ma il Margherita dipendeva dal Sessa e dal Giordano... Vedete, o signori, quanti assurdi, vedete quante contraddizioni, vedete se vi poteva esser setta organizzata secondo le Istruzioni vedete se in questa setta, in questo fango potevano stare uomini che hanno senno, che hanno onore, che hanno pudore.

Non vedete voi chiara l'impostura e l'intrigo? non vedete voi chiara la più bassa, la più vile, la più fecciosa calunnia? Il procurator generale diceva: “ci sono le Istruzioni, dunque v'è la setta”. Ed io gli rispondo: leggete le Istruzioni e non troverete la setta, ma l'intrigo di pochi, la stoltezza di molti, l'esagerazione fantastica di tutti. Ma proseguiamo.

Secondo l'art. 16 “ogni unito che ha dato pruova di ingegno di affezione alla causa può essere fatto unitario dal consiglio del circolo, ed avrà il secondo motto e le seconde istruzioni.” Dunque le istruzioni stampate sono le prime. E chi ha avute le seconde? chi le ha presentate? chi ne parla? Eppure il Margherita, il de Simone ed altri sono unitari. Inoltre chi vi dice che fu fatto unitario dal consiglio del circolo? il Sessa manda diplomi a chi non conosce, il Giordano promette un grado all'Errichiello, il Iervolino dice che il Nisco gli disse una parola all'orecchio e lo creò unitario. Non vedete qui che il Iervolino mentisce, e che non sa nulla, o che i due Castore e Polluce, il Giordano ed il Sessa eran due impostori?

Secondo l'art. 15 in cui è la formola del giuramento, i componenti di un circolo non potevano né dovevano sapere i nomi dei componenti di un altro circolo. E intanto il Margherita conosce e denunzia molti settari, e specialmente i capi, dei quali in ogni cospirazione ed associazione si celano i nomi gelosamente.

Nelle Istruzioni non v'è affatto l'uffizio di segretario, ed il Margherita mi chiama segretario. Il procurator generale dice che è uno scambio, e che segretario e maestro è tutt'uno. No, o signori, il Margherita siciliano, settario, unitario, non poteva far questo scambio. E poi maestro significa chi insegna, segretario chi prende note e scrive registri. Il procurator generale è maestro che accusando insegna; il cancelliere è segretario che scrive i verbali e le note. Potrebbesi far questo scambio, e dire al procurator generale signor cancelliere, ed al cancelliere signor procurator generale?

Adunque se io era maestro, il Margherita non poteva dirmi segretario, e mi chiama segretario perché mi si calunnia.

Adunque il Margherita unitario non conosce quello che dovrebbe conoscere, cioè non conosce qual nome aveva il senato della setta, quali erano le seconde istruzioni, non conosce le prime, e ad ogni parola le contraddice, non conosce quali erano i diritti ed i doveri del grado avuto dal diploma, non conosce il vero scopo della setta, e poi conosce quello che non dovrebbe conoscere, cioè i tre motti ed i nomi dei principali capi.

Ora se il Margherita parla egli solo di questo sognato alto consiglio, e ne parla per aver inteso dire, e parlandone ne parla male, ed in modo contrario alle istruzioni; e nella prima dichiarazione in cui vuol dire tutto, e dice tutto quello che sa, non ne parla affatto; e nella seconda contraddice alla prima, non è egli chiaro più della luce del sole, che costui mentisce, e stoltamente, scelleratamente mentisce?

Glielo dissero il Giordano ed il Sessa. Ma è vero che glielo dissero? E lo dissero a lui solo? E quali pruove egli ne ? E se glielo dissero, gli dissero il vero? Gravi dimande che dovranno fare gran peso negli animi di giudici coscienziosi. Il Sessa ed il Giordano potranno ritornare, potranno nominar persone, dar pruove contrarie, sbugiardare il Margherita, ma non ci potranno rimettere il capo tronco sul busto.

La turba de' denunzianti, il Vittoria, il Iervolino, il Marotta, il Romeo, il Carpentieri, il Cristiani sono tutti discordi fra loro nel nominare i capi: gli accusati confessi sono tutti concordi nel dire che si facevan disegni e progetti non di setta ma di comitato, ed attribuivano questi progetti ai soli Sessa e Giordano. Il Catalano, onesto uomo, amico del Sessa e del Giordano, e partecipe di tutti i loro segreti, il Catalano che poteva sapere i fatti veri più che il Margherita, il Catalano che lealmente e coscienziosamente ha dichiarato tutto quello che sapeva ancorché gli nuocesse, il Catalano merita fede più di tutti e più del Margherita, anche avuto riguardo alle loro qualità personali. Il Catalano vi dice che egli in maggio progettò col Giordano di formare un comitato di operazione ed uno di direzione, il quale non mai si costituì: e con le sue ingenue parole egli vi scopre tutto il vero nella sua nudità vergognosa, e vi dimostra che il Giordano ed il Sessa erano due rimescolatori e scroccatori, i quali nel caffè Errichiello tenevan bottega d'impostura, parlavano di mille progetti, spaccavano, pesavano, promettevano; col Faucitano dicevano di voler demolire Sant'Elmo; con un altro parlavano di uccidere e tagliare a pezzi ministri e magistrati, ad altri che neppur conoscevano mandavan diplomi per aver lo scudo: or proponevano di stabilir comitato e far pagare a ciascuno trenta carlini al mese. Scroccavano Catalano il quale uomo onesto e credulo dava danari: tentavan Gualtieri ricevitore della strada ferrata, il quale accorto dava parole ad essi, e teneva i denari per sé; tentavano il Carafa sperando col mezzo di costui di aver danaro dai ricchi signori di Toledo. E quella gente che tenevano intorno, il Margherita, il Vellucci, il Vallo, l'Antonetti miseri e senza stato, credevano le loro parole, si nutrivano di speranze. Con questi e con altri essi usavano ogni arte, vendevano i nomi di persone che neppure conoscevano, vendevano i nomi del Poerio, del Pica, degli altri; e se taluno sospettando d'inganno diceva conoscere il Poerio ed il Pica, volerne parlare a questi; allora subito per coprire un'impostura se ne inventava un'altra, s'inventava uno scisma, si diceva che il Poerio ed il Pica erano stati allontanati, e per dare più colore alla cosa vi si aggiungeva un terzo ignoto. Ecco come si spiega l'invenzione di quel preteso scisma, ecco come presa la vera idea del processo, si trova il vero facilmente. Anche voi, signor presidente, anche voi ora potete esser nominato come autore di fatti che ignorate, e da persone che non conoscete. A nessuno de’ miei giudici, a nessuno di coloro che mi ascoltano non è mai accaduto di non esser nominato da persone ignote, di non essergli stati attribuiti fatti che non ha neppure sognati? Questo accade a tutti gli uomini, in tutti i paesi, più spesso tra popoli fantastici come siamo noi, e più spesso ancora in tempi di discordie politiche, di speranze, di agitazioni.

Il Sessa ed il Giordano a taluno parlavan di setta, se poteva pagare lo scudo, a taluno parlavan di comitato, a tutti vendevan parole. Ma la setta non era in altro che in qualche carta che essi avevano avuta dall'estero e fatto stampare in Napoli per venderla, come il Romeo vendeva il libretto delle istruzioni per pochi grani. L'alto consiglio era ai Ponti Rossi nella casa dei matti, o meglio nel caffè Errichiello, ed era composto del Sessa e del Giordano. E per questi uomini, e per queste chiacchiere, per queste scrocconerie, si è sparsa tanta agitazione, si è fattogrande rumore, si è sparsa tanta prevenzione e tanto terrore, che il paese è spaventato, ed io con altri son condotto, a disputare del capo.

Ma ritorno alla dichiarazione del Margherita, per ritoccarla brevemente, onde non ripetere quello che è già detto.

Nella prima dichiarazione del 11 ottobre dice che intese nominare dal Sessa e dal Giordano soli quattro di noi, l'Agresti, il Pironti, il Persico e me, come membri del comitato centrale, ma che non conobbe nessuno di noi, tranne il Pironti per caso. Dopo cinque giorni, il 16, dice che ci conosce, e conosce ancora un quinto, il Primicerio; che verso la fine di ottobre 1848 ci portò dei bigliettini sigillati da parte del Giordano, e parlò con ciascun di noi per riunirci la sera al caffè De Angelis, e poi andare in casa Agresti.

Non dimanderò per qual cagione nella prima dichiarazione afferma che non mi conosce, e nella seconda dice che mi conosce, e mi portò uno de' bigliettini; non parlerò della inverisimiglianza di questi bigliettini, non potuti portare al Pironti perché era in Santa Maria; non dirò che era il Giordano che li mandava, e comandava a bacchetta uomini più riputati di lui; non dirò a che servivano i bigliettini e sigillati, quando il Margherita doveva parlare a ciascuno di noi. Egli mi vide, mi parlò, mi vide al caffè de Angelis, mi vide scendere dalla casa Agresti. Sia pure. Io fui arrestato il 23 giugno e stetti in prefettura sino al 29 giugno, come si dimostra dai verbali di disuggellazione delle mie carte e del mio interrogatorio: e fui messo in una stanza superiore che segue una stanza più grande dove stanno altri detenuti comuni. Or il Margherita come rilevasi dal certificato del prefetto vol. 25 fol. 107, fu arrestato la prima volta per mancanza di carte giustificative la notte del 24 al 25 giugno ed uscì ai 3 luglio, e per così lieve cagione non fu certo messo in segreta, ma nella stanza grande per la quale io ogni giorno doveva passare andando ai miei interrogatorii. Or se il Margherita mi avesse conosciuto prima, mi avrebbe riconosciuto allora, e nella sua lunga dichiarazione avrebbe parlato che mi rivide in prefettura, od almeno non avrebbe sbagliata l'epoca del mio arresto, essendo l'epoca dell'arresto suo, non avrebbe detto che io fui arrestato in luglio. Tanto più che egli parla di cose che dice di aver sapute in prefettura; avrebbe dunque potuto, anzi avrebbe dovuto ricordarsi e parlare di me. Mi direte che queste notizie topiche della prefettura non nascono dal processo. Ed io vi rispondo: “dunque il vero non istà se non nel processo? E se io ne avessi fatta una posizione a discolpa, voi non me l'avreste rigettata come avete fatt[o] delle altre?”

Il Margherita vuol far credere che arrestato l'Agresti io fui eletto presidente, che in mia casa riuniva quel consiglio che voi, signor presidente, chiamate aulico, che in una di queste riunioni vi fu quel dissidio col Poerio e col Pica, e che in un'altra si decise di fare la rivoluzione, e però fu dato al Pironti l'incarico di visitare i circoli. L'Agresti fu arrestato il 16 marzo: dunque queste cose avrebber dovuto accadere dal 16 marzo fino al 23 giugno, giorno del mio arresto. Intanto nel vol fol. 47 ci è un certificato del 4 aprile con cui si dice che sapendosi stragiudizialmente che il Leipnecher aveva trattato con persone attendibili fra le quali il Settembrini, s'inculcava il commessario di fargliene apposite dimande. Dunque la polizia fin dal 4 aprile mi vigilava e non vedeva radunarsi persone in mia casa. L'Iervolino che scrisse il suo primo libello il 23 aprile, e che mi spiava da presso i passi ed i respiri non ne dice nulla, non parla di nulla. Come dunque credere più al Margherita che alla polizia che allora mi vigilava? In fine io su queste pretese riunioni vi dimandava d'interrogare tutta la mia vicinanza, e voi mi rigettaste la dimanda.

Ma la calunnia apparisce schifosamente chiara quando il Margherita asserisce che il Giordano ed il Sessa gli dissero che in luglio, quando era già arrestato il Pironti, l'alto consiglio stabilì di fare uccidere tre personaggi; che ne dimandò consiglio al Pironti, all'Agresti, al Settembrini arrestati in Santa Maria Apparente, inviando ad essi lettere per mezzo del Vellucci e dell'Antonetti: che noi approvammo gli assassinii: che il Giordano ed il Sessa diedero a lui l'incarico di trovare un sicario, che il Giordano gli diede due pistole cariche, ed il Sessa gliene diede una.

Quando avvenne questo fatto? Il Margherita facilissimo a falsare le date dice in luglio: ma ei soggiunge due particolari che fissano indubitato il tempo: dopo “l'arresto del Pironti, ed il Pironti consultato in Santa Maria Apparente.” Il Pironti fu arrestato il 3 agosto: dunque questo fatto avrebbe dovuto avvenire dopo il 3 agosto. Ma noi abbiamo due altri fatti cioè che il Giordano fu arrestato nello stesso giorno 3 agosto e liberato il 19, e che il Margherita fu arrestato l'ultima volta il 18 agosto, ed il 30 fu messo in barca per Siracusa. Se dunque il Giordano fu liberato il 19 agosto, come poteva dir queste cose al Margherita arrestato il 18, come poteva dargli due pistole cariche? Qui la falsità è manifesta, è vergognosa, è infame. Inoltre l'Antonetti ed il Vellucci che han dette tante cose, han negato sempre di aver portato lettere in Santa Maria Apparente. Inoltre in agosto, essendo tutti arrestati i pretesi componenti dell'alto consiglio, il Persico in Francia, il Primicerio ed il Proto, esuli, rimanevano solamente le quattro teste forti del Carafa, dell'ignoto Venusino, del Sessa e del Giordano. Anzi rimanevano soli come furono sempre soli il Giordano ed il Sessa. Ma si vede chiaro che anche il Giordano è calunniato dal Margherita, il quale asserisce che il Giordano gli disse cose, che non gli potette dire. Qui taluno dirà: “Glielo disse il Sessa”. Vedete, o giudici, come io ragiono di buona fede. No, perché il Margherita dice rotondamente ed esplicitamente che Giordano e Sessa glielo confidarono, anzi che il Giordano gli diede due pistole cariche, e il Sessa una; perché il Margherita parlando più innanzi dei sei assassinii nomina il solo Giordano e dice: “Giordano mi diceva che ad esso era stata affidata l'esecuzione di tali assassinii con l'aiuto e cooperazione di Sessa”: e dice ancora che il solo Giordano gli confidò che aveva dato l'incarico al Basile e al Sersale di trovare i sicarii, e il solo Giordano li pagava. Non si può dunque ammettere questa ipotesi, la quale è contraria ai detti espliciti del Margherita.

Ma che vado io più seguitando questo gran poeta del processo, questo gran sognatore, che finalmente si è svegliato perché tocco dal dito di Dio? Dove sta l'altissimo immaginato consiglio, dove i presidenti, dove tutte le [f]ole che se non fosser terribili sarebber ridicole? Io credo che tutto è distrutto. Il Margherita ha mentito, il Margherita ha ingannato l'istruttore, e se voi gli credete e riterrete i suoi detti per elementi di condanna, ingannerete voi stessi ed il mondo.

Ma come ha mentito? ma perché ha inventati tanti fatti? donde li ha cavati? come tutto, tutto è invenzione? Signori, il Margherita ha mentito perché ha creduto ai sogni ed alle fantasie del Giordano, del Sessa, e le ha sicilianamente esagerate: ha narrati i discorsi come fatti, le fantasie come realtà, i desiderii come azioni, i peccati di pensiero come peccati di azione; ha mentito per acquistar merito al cospetto della polizia, mostrando che si disegnavano assassinii ed egli astutamente li faceva riuscire a vuoto: ha mentito perché vedeva che quanto più calunniava gli altri, tanto più migliorava la sua condizione, più si rendeva accetto alle autorità; ha mentito per la stessa ragione che si fece settario, perché sperava un pane insanguinato guadagnato con la calunnia.

Né si dica che la sua dichiarazione fu spontanea, solo perché l'istruttore diceva che egli il 16 ottobre si fece chiamare e spontaneamente rivelò. Imperocché due fogli prima, al fol. 52 vol. 25 sta scritto, che lo stesso commessario nello stesso giorno 16 ottobre “volendo mostrare al detenuto Luciano Margherita il diploma a lui intestato lo abbiamo fatto rilevare dalla prigione, e venire in nostra presenza.” E quella dichiarazione non si fa in un giorno, non si fa d'un fiato. E forse le aggiunzioni e le postille sono la sola verità che il Margherita ha detto.

Io non dirò che il procurator generale ha dichiarata mendace questa dichiarazione, cercando libertà pel Pallotta, pel Sersale, e pel Gualtieri ancora e pel Persico. Non dirò che la corte con la sua decisione del 19 dicembre 1849 non confermò l'arresto pel Gargano, pel Cuomo, pel Palomba; ma dirò che il solo Margherita affermava che Giorgio Haetzel parlando con lui gli profferiva un soldato congedato per commettere un delitto orribile, il regicidio: e la corte con la stessa decisione diceva che per Haetzel non c'era luogo a proseguir l'istruzione. Dunque la corte che credeva mendace il Margherita quando asseriva un fatto di scienza propria, lo crederà quando dice di aver saputo da altri che io era capo della setta?

Per tutti questi fatti e queste considerazioni voi vedete, o giudici, combattuta e distrutta l'assertiva che io sia caposettario. E non è altro che un'assertiva senza alcuna pruova quello che si dice dal Iervolino, dal Romeo, dal Carafa, dal Margherita.

Sarò stato forse un semplice settario? Ma chi mai dei settarii confessi mi chiama suo complice? Chi mi conosce ascritto alla setta? In quale circolo sono stato ascritto? Qual giuramento ho io dato a cotesta setta? per le mani di chi? Quale carte o documenti settari mi si possono attribuire, o si sono trovati in mio potere?

Non resta contro di me che un'assertiva vaga e bugiarda, nata e cresciuta dalla prevenzione. Ed io confido che voi nella vostra sapienza e giustizia valuterete queste ragioni, e direte che io non sono né caposettario.

Sono io cospiratore?

La setta cospirava, diceva il procurator generale, ed i fatti di cospirazione sono la tentata seduzione dei soldati, la diffusione e l'affissione dei proclami, lo scoppio innanzi la reggia.

Io non sono accusato da nessuno di aver tentato di sedurre soldatiso se altri l'abbia tentato: ma so certamente quello che tutti sanno, che nessuno de' nostri soldati disertò le regie bandiere, o si propagatore di ribellione fra i suoi commilitoni. Per modo che l'invito ad essi fatto, se pur fosse vero, rimasto senza accettazione e senza effetto, non potrebbe reputarsi fatto di cospirazione, ossia fatto concertato e conchiuso fra seduttori e sedotti. Negli anni passati nacquero e crebbero fieri sdegni tra la milizia e la cittadinanza, miseri effetti delle civili discordie: ma questi sdegni pel tempo, per la buona indole degli uomini, e per le cure dei capi della milizia e del governo andarono a poco a poco mancando, perché tutti sentirono il bisogno dell'ordine, della pace e della sicurezza comune.

Quando eran più vivi ed accesi questi sdegni funesti, sursero le accuse di tentata seduzione de' militari; perocché allora ogni soldato vedeva in un cittadino un suo nemico, nelle costui parole di pace vedeva un'insidia ed una seduzione. False quindi o almeno molto esagerate erano quelle accuse, perché fatte nel bollore degli odii, perché fatte solo da pochi soldati e pochissimi sottuffiziali, i quali non avendo potuto col valore ottener gradi ed onori, si diedero al tristo mestiere di calunniare, molti de' quali non degni di portare l'onorata divisa sono stati licenziati.

Nessun uffizialeinferioresuperiore ha detto mai che alcuno abbia tentato di sedurlo. Eppure tra i pretesi cospiratori sono moltissimi gentiluomini, che avrebber dovuto e potuto con più successo sedurre gli uffiziali che i soldati, imperocché sedotto un colonnello è sedotto un reggimento; ed essi più facilmente avrebbero potuto far conoscenza degli uffiziali, che de' soldati. Per questa grave ragione le accuse che vengono dai più bassi e cattivi gregari, si dimostrano intuitivamente false. E false ne dichiarava moltissime con sue decisioni il consiglio di guarnigione di Napoli, il quale facendo quella giustizia, che noi siam certi che otterremo da voi, e giudicando ogni giorno di queste cause di seduzione, pesando i fatti e dando ad essi il loro giusto valore, e tenendo conto della tristizia dei passati tempi, manda assoluti gli accusati, rallegra la città trepidante, rallegra il principe desideroso soltanto di giustizia. Grande e bella dimostrazione che qui non si è mai cospirato contro il governo; non si è mai tentato di rivesciare il trono di Carlo III, il quale da provincia ci nazione; ma da qualche stolto non si è fatto altro che fantasticare e chiacchierare: ed un governo forte disprezza e non teme le chiacchiere e le fantasie. Grande dimostrazione che gli odii sono cessati; e che i fatti deplorabili dei passati anni debbono essere giudicati senza odii e senza prevenzioni.

Proclama

Vengo alla diffusione del proclama sedizioso, che è nella seconda specie dei fatti della pretesa cospirazione.

Il Iervolino presentò quattro copie di un proclama e disse di averle ricevute da me. Trovata dopo quattro mesi una copia in casa del Vellucci, questi disse averla avuta dal Margherita che gli confidò che era stato composto da me; interrogato il Margherita rispose che glielo aveva detto il Sessa. Esaminiamo se io l'ho diffuso, se io l'ho composto.

Nel vol. 20, fol. 3, è un certificato nel quale si dice: “che emergendo da indicazioni riservate di alta polizia che l'orefice Iervolino avesse scienza e potesse somministrare chiarimenti intorno alla diffusione di un proclama sedizioso circolato nei scorsi giorni per questa capitale, il commessario Maddaloni in seguito d'incarico superiore ha disposto chiamarsi il suddetto Iervolino, onde sentirlo opportunamente. Napoli 6 giugno 1849”.

Chiamato nello stesso giorno 6 il Iervolino ed interrogato risponde, scrivendo di sua mano la dichiarazione, e dice: “ieri 5 ne ho ricevute quattro copie dal Settembrini, le ho ritenute, e son pronto ad esibirle per uso di giustizia”.

Da questo certificato si scorgono due verità: che si aveva la prescienza che il Iervolino sapesse alcuna cosa del proclama, e che questa prescienza non l'aveva il commessario Maddaloni, al quale il Iervolino aveva presentate tutte le sue denunzie, cominciando da quella del 23 aprile, ma l'aveva l'alta polizia. Non si può dire che l'alta polizia avesse avuta questa prescienza dallo stesso Iervolino, perché costui si sarebbe presentato spontaneamente al Maddaloni, e non avrebbe aspettata una chiamata, avrebbe scritto un libello denunziatorio, avrebbe voluto farsi un merito maggiore, il cancelliere avrebbe regolarmente certificato che il Iervolino si presentava spontaneo, ed il Iervolino non avrebbe detto nella sua dichiarazione, “li ho ritenuti e son pronto ad esibirli,” ma “li ho esibiti.” Egli è dunque evidente che i primi indizi del proclama, la prescienza che ne aveva l'alta polizia non le venivano dal Iervolino, ma da altri; e che Iervolino presentò il proclama non spontaneamente, ma chiamato. Chi dunque dava questa prescienza?

Ricordate, o giudici sapienti e giusti, ricordate che quando io vi dava quei sette testimoni, vi diceva ch'essi vi avrebber detto, che il Iervolino aveva dodici ducati al mese, e vi avrebber dette molte altre cose ancora. E queste parole ve le ripeteva il mio avvocato.

Quei testimoni vi avrebbero detto e provato, che Luigi Iervolino confessava loro di essere stato costretto a dire che aveva ricevuti i proclami da me, che glieli aveva dati, e lo aveva costretto quel medesimo a cui egli scrisse quella lettera presentata dal Poerio, quel medesimo che faceva mettere in carcere Bernardino Cristiano, quel medesimo che lo mandava dietro di me per spiare i miei passi, quel medesimo che co' figliuoli veniva ad arrestarmi, quel medesimo col quale venne il Iervolino in mia casa tra i birri. Questo vi avrebber detto e provato quei sette testimoni: voi me li negaste. Or non pretendo che crediate alle mie parole, ma che veggiate quanto importava alla mia difesa quello che voi mi negaste: o che ora né per equità, né per coscienza, né per giustizia potete prestar fede alle assertive di un mendace, di uno che denunzia per prezzo.

Ma vediamo che dice il Iervolino nella sua dichiarazione del 6 giugno: “Che il 2 giugno venne in mia casa; che io gli domandai se egli era in buona corrispondenza col mio fido Ludovico Pacifico, e che avendo risposto egli affermativamente, io dissi di cercare il Pacifico, e chiedergli qualche proclama di quelli che io gli aveva passati: che la sera dello stesso giorno 2 andò dal Pacifico, gli chiese i proclami, e costui gli disse di non averne più, di averli tutti distribuiti; che il giorno 5 venne da me e mi manifestò la risposta del Pacifico, che io entrai nello studio, e nell'uscirne gli diedi quattro copie di un proclama in istampa, dicendogli essere già stati distribuiti nella capitale, e premurandolo di diffondere le quattro copie in qualche comune. Che egli le ritenne ed è pronto ad esibirle. E aggiunge in fine che vedendomi spessissimo trattar col Rondinella, crede che costui abbia stampato il proclama”.

Se la polizia il giorno 6 avesse avuto veramente dal Iervolino queste indicazioni, il quale diceva: ieri 5 giugno il Settembrini mi ha dati questi quattro proclami, e li teneva nel suo studio; avrebbe nel medesimo giorno 6 mandato ad arrestarmi, e cercarmi minutamente la casa e lo studio, avrebbe fatto lo stesso col Pacifico e col Rondinella. Io per contrario sono arrestato il giorno 23 giugno: la libreria del Rondinella è ricercata il luglio, dopo un'altra dichiarazione del Iervolino, e per ordine di un altro istruttore: ed il 4 luglio è ricercata la casa del Pacifico, il quale non è neppure arrestato. Non si può dire che questo tempo, tra la dichiarazione del Iervolino ed il mio arresto fosse perché la polizia raccoglieva altre pruove, perché in processo non vi sono altre pruove, ed immediatamente dopo il verbale della presentazione dei proclami che ha la data del 6 giugno, viene il verbale del mio arresto del giorno 23. E poi se vi erano in vista altre pruove, queste si potevano raccogliere anche dopo il mio arresto: e poi non si doveva trascurar la prova di un possibile reperto in casa mia.

Quando la polizia mi arrestò, avendo trovati in mia casa un distributore di libri ed il mio amico Mignogna, li arrestò, perché mancanti di carte giustificative, e ricercò le loro case lo stesso giorno 23 giugno. Dunque la polizia si fa di fuoco, e ricerca subito le case di costoro che furono arrestati per semplice sospetto; e si fa di gelo per me che aveva avuta quella denunzia dal Iervolino il 6, e viene ad arrestarmi il 23. E non vedete, o signori, che dal processo apparisce chiaro quello che io affermava, che i sette testimoni vi avrebber detto, cioè che il Iervolino ebbe il proclama da altri, e fu costretto a dire che lo ebbe da me?

Ora vediamo con quali particolari il Iervolino dice di aver avuto da me i proclami. Ogni ribaldo può dire di aver ricevuto da un onest'uomo una carta, un pugnale, un veleno; né perché egli lo dica, un giudice gli deve prestar fede, se non ha altre pruove, le quali debbono esser di tal peso da togliere la fede all'onesto uomo e darla al ribaldo. E qui permettetemi che io dica, che il procurator generale trasportato dal zelo dell'accusa faceva del Iervolino un fior di galantuomo, e di me un ribaldo, diceva che io confessai di conoscere il Pacifico, riteneva senza altro che io, perché sono io, composi e dispensai il proclama, e leggendo con giusto sdegno e raccapriccio quella pazza e scellerata scrittura, disse gravi e cocenti parole contro di me, e finì dicendo: “sia segno degli errori cui può trascinare una colpevole e mal frenata passione”. Io vi ripeto che non mi lamento di queste parole: se son colpevole merito questo e più. Ma il procurator generale nondimeno, prima di scagliarmi addosso quella tempesta, poteva leggere nel processo il mio interrogatorio del 27 giugno, le dimande che mi furono fatte e le mie schiette e leali risposte:

“D. Conoscete Ludovico Pacifico?

R. No, signore, nemmeno di nome.

D. Conoscete il libraio Gabriele Rondinella?

R. Sì, signore, ci comprava libri.

D. Da quanto è che non lo vedete?

R. Da circa tre mesi.

D. È venuto mai in vostra casa?

R. Non mai.

D. Conoscete l'orefice Luigi Iervolino?

R. Nemmeno per nome”.

In qual pagina del processo sta dunque che io dissi di conoscere il Pacifico? In qual pagina sta che il Pacifico fu dimandato di me, se egli fu arrestato in ottobre e perché nominato dall'Errichiello? Ah, signori, leggendo bene il processo non troverete provato il delitto che a me si attribuisce, il mio vero delitto son due parole, è il mio nome e cognome, è quella nera nube di prevenzione che mi circonda, e per la quale qualunque cosa si dica di me, tutto par vero, tutto è credibile. Io non conobbi mai il Pacifico, io lo vidi la prima volta e gli parlai innanzi la cappella del carcere. Iddio conosce il vero, e lo avreste potuto conoscere anche voi se l'istruzione fosse stata coscienziosa, se almeno il Pacifico fosse stato dimandato di me. Se voi, o signori, foste stati invisibilmente presenti quando io vidi il Pacifico, quando io vidi il Margherita, oh quante cose che son scritte nel processo voi le avreste vedute brutte e scellerate calunnie. Voi dovete stare al processo. Ma il vero sta sempre in un processo politico istruito come questo? Io sto con la mia coscienza.

Ma esaminiamo i particolari. Il Iervolino dice che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare i proclami. Ma in pubblica discussione dimentica questo particolare, e questa dimenticanza è un fatto gravissimo e di peso immenso. Se egli vi fosse andato non avrebbe potuto dimenticarsene, perché questa specie di fatti non si possono dimenticare. Egli dunque quando mi calunniava volle fare un'altra sua vendetta, ed inventò una relazione tra me ed il Pacifico, e perché l'inventò allora, se ne dimenticò di poi in pubblica discussione. Quelle cose che gli uomini per comun senso e per solita cautela soglion fare tra due soli, il Iervolino dice che sono accadute tra più: per farlo settario ci volevan cinque persone: per dargli un proclama ve ne bisognavan due, bisognava che egli andasse e venisse per più giorni. E se io aveva i proclami nello studio, come egli dice, se poteva darglieli io, perché lo mandava dal Pacifico? Il procurator generale mi risponde con una supposizione: “perché forse il Settembrini voleva ritirarne una porzione dal Pacifico”. Ma come ritirarli, se si dice che io voleva spargerli? E se anche io ne aveva pochi, non ne poteva dare io anche una sola copia all'ottimo e fedelissimo Iervolino? Dunque si combatte una difesa e si cerca di confermare un'accusa con vaghe supposizioni?

Ma nel volume 15 del processo sorge un altro elemento. Gaetano Romeo nel 15 luglio confessa di avere stampato egli quel proclama quaranta giorni fa (che corrisponde proprio al 5 giugno) e per incarico dello sventurato Raffaele Crispino, il quale io non mai conobbi, e col quale io non ebbi alcuna relazione, come dimostra il processo. Della confessione di Romeo non si può in alcun modo dubitare, e deve credersi che il proclama fu stampato il 5 giugno. Or come si può credere al Iervolino, che dice essere andato dal Pacifico la sera del 2, e che il Pacifico gli disse di aver dispensati i proclami e non averne più? Se io non dava proclami perché non ne aveva, se il Pacifico li aveva tutti dispensati ed il 2 non ne aveva più, dunque avevan dovuto essere dispensati molto prima del 2, e molto più prima ancora avevan dovuti essere stampati. E non vedete voi qui chiaramente che il Iervolino mentisce, che il proclama fu stampato effettivamente il 5 giugno come dice, il Romeo, che non aveva interessevolontà di mentire il tempo; che le quattro copie della tipografia del Romeo passarono nello stesso 5 in mano di qualcuno; che questo qualcuno credette che l'avessi scritto io (perché io sventuratamente ed ingiustamente sono stato creduto uno scrittore velenoso), che questo qualcuno chiamò il Iervolino, e gli comandò dire che l'aveva ricevute da me? E trasparisce il bieco pensiero dalla stessa dichiarazione di Iervolino, il quale dice che io gli diedi il proclama, non già che io lo composi, perché un uomo della sua risma non poteva sapere questo segreto; ma fa intravedere che io l'avessi potuto scrivere, mettendo in mezzo la sua stolta congettura, che il Rondinella l'aveva stampato. E intanto quel qualcuno andava spargendo sordamente, che io n'era l'autore, la quale voce come un'eco stanca fu ripetuta quattro mesi dopo dal Margherita. Così spiegherete la inesplicabile prescienza, così la tardanza del mio arresto, così le stolte e scellerate circostanze dette dal Iervolino, così la quiete in cui rimangono il Pacifico ed il Rondinella parecchi giorni.

Ma chi compose quello scellerato proclama? Il Margherita dice aver saputo dal Sessa che l'avea composto io. Ammetto per poco che il Sessa glielo abbia detto: ma quando glielo avrebbe dovuto dire? Dopo il mio arresto, dopo che per tutta Napoli si era sparso che io era stato arrestato per un proclama. Si disse proclama, si nominò Settembrini, si conchiuse Settembrini ha scritto un proclama, mentre io era stato arrestato come spargitore non come autore. La voce era stata sparsa anche ad arte, ecco come il Sessa poté dirlo al Margherita. Ma voi, o giudici, dovete chiedere: “ma il Sessa lo ha detto veramente al Margherita?” E se glielo ha detto, gli ha ripetuto una voce vaga, o quello che egli sapeva? Ci è pruova che il Sessa l'abbia saputo da me? che io l'abbia dato al Sessa? Chi dice d'averlo saputo da me? chi ha presentato mio manoscritto? forse se n'è trovata copia, segno, traccia in mia casa? Il solo Iervolino dice averlo ricevuto da me. E chi sia il Iervolino, e che scellerate calunnie abbia scagliate contro me, io l'ho già dimostrato. E poi si è interrogato il Crispino? che ha detto? mi ha mai conosciuto? Eppure egli ed io siamo accusati dello stesso reato, che né l'uno né l'altro abbiamo commesso.

Ma leggete, o giudici, questo proclama nefando, consideratelo ed avrete una pruova morale, che non solo io non poteva scrivere quelle scellerate parole, ma non poteva approvarle, non poteva diffonderle. Le furiose parole chiamano il popolo a prender le armi, le pietre, le fascine, bruciar le case, uccidere tutti, non aver pietà di nessuno, e tenersi pronti come se fosse dimani ad esser sicuri che c'è chi dirige tutto: consigliano di uccidere e d'incendiare, finiscono con tre gridi di morte e tre di evviva. Contro questo proclama stanno i miei scritti, che voi non avete voluto leggere; stanno le azioni della mia vita che voi non avete voluto verificare. Giacché vi sono costretto, io debbo dirlo, o signori, io non sono stato mai pazzo, e questo proclama è scritto da un pazzo; io non ho mai consigliato delitti, io non ho mai gridato evviva o morte a nessuno; io quando molti gridavano, ed il gridare era vanto, io taceva; quando molti miravano a cose nuove, io predicava ai giovani temperanza, moderazione, amore della religione, rispetto alle leggi ed al principe. Non sono assertive queste, ma son pruove che stanno nei miei scritti che sono pubblici, ed ognuno può leggerli. Io poi mi sarei subito mutato, avrei rinnegata la mia vita, i miei scritti, le mie opinioni, le mie azioni, e mentre tutta Europa tornava all'ordine, mentre centomila soldati nostri formavano un grande e fiorito esercito io avrei dichiarato guerra all'Europa, avrei voluto ridurre gli uomini sozzi beccai e spietati carnefici, e scannarsi l'un l'altro, e spandere sul nostro paese i furori bestiali di una guerra civile. Signori, signori, non offendiamo la logica perché offendiamo Dio.

Ma in nome di Dio mi si dica chi altro che il Iervolino ha inteso parlare di tale proclama? Dove si è trovato affisso? Donde è stato defisso? Quale pruova è in processo che abbia avuta quella pubblicità che la legge esige come requisito necessario per stabilire il pericolo di tali stampe? Da soli questi estremi legalmente assodati, secondo le norme dell'articolo 140, voi avreste potuto, o giudici, desumere d'esservi stata quella “provocazione diretta agli abitanti del regno a commettere alcuno dei reati preveduti nell'articolo 123 e seguenti LL. PP.

Insomma la polizia sa che circola un proclama, e che il Iervolino ne aveva notizia; chiama costui il quale ne presenta quattro copie, e dice: “ieri me le ha date il Settembrini”. La polizia stessa quasi non gli crede, e solo dopo 17 giorni mi arresta. Vengono il Vellucci ed il Margherita dopo 4 mesi, e dicono: “Abbiamo inteso che questo proclama era stato composto dal Settembrini”. Ecco il fonte dell'accusa; ecco perché si vuole che io sia impiccato per la gola, come un cospiratore che tentava di rovesciare il trono. Non c'è altro che un'assertiva, ed una voce vaga: un aver inteso e nulla più.

Se l'assertiva di un denunziante salariato ed una voce vaga avranno più peso che queste ragioni vive e forti, avranno più fede che le azioni, gli scritti, i sentimenti, e trentotto anni di vita onesta, nel mio pericolo io vedo i pericoli di tutti gli uomini onesti, anche de' più fedeli e provati amici del trono e del principe, perché un'assertiva di un denunziante pagato ed un si dice può mandarlo alla forca.

Ora toccherò gli ultimi fatti della pretesa cospirazione, cioè i pochi cartelli manoscritti affissi nelle notti degli 8 e 16 settembre, e la esplosione che si qualifica col nome di attentato per rovesciare il governo.

Ho io avuto parte in questi fatti?

Il Faucitano nel suo interrogatorio del 23 settembre dice: “Giordano non nominò colui che aveva i cartelli scritti; però da Catalano venni a sapere, che egli aveva fatto il borro del cartello di cui Giordano intendeva parlare; e che fattolo vedere nelle prigioni a Poerio e Settembrini, il primo lo voleva moderato verso il governo, l'altro, cioè Settembrini, intendeva farlo vibrato; ma che egli rifacendolo vi aveva dato del settembriniano e del poeriano: e così li aveva fatti affiggere senza nemmeno indicarmi per parte di chi”.

Ecco uno dei soliti si dice ed ho inteso, una di quelle solite voci che mi han condotto sino a temere pel capo. Interrogato il Catalano su questo fatto risponde con quella lealtà e schiettezza ch'è tutta sua propria.

“Mentre tutti e tre (Catalano, Florio e Piterà) stavamo scrivendo circa le 23 ore, ci pervenne anche Vellucci, ed animandosi quistione tra me e Piterà su di una frase di detti bigliettini, che Piterà diceva non essere acconcia, io sostenni il contrario, e per mera millanteria, mentre in realtà non ve n'era niente, dissi di averli fatti leggere a Poerio e Settembrini, il primo detenuto in San Francesco e l'altro in Santa Maria Apparente; anzi per dare più tuono alla cosa dissi pure che Poerio era sempre transigente, perché aveva fatto togliere alcune parole dal proclama, ma questo è meramente falso, perché tali individui non li conosco affatto.”

Signori, siccome ci sono alcune azioni le quali bastano a rivelarci interamente tutta la vita ed i sentimenti di un uomo, così ancora nei processi ci sono certi fatti, certi lampi, certe circostanze, le quali bastano esse sole a discoprire la verità, che spesso negli avvolgimenti giudiziari si nasconde al più attento e scrupoloso magistrato. Due fatti di questa natura io trovo in questo processo, due fatti opposti ed estremi, ma due fatti che vi svelano tutto il vero, tutto quello che si voleva fare e che si è fatto: la dichiarazione del Catalano, e la dichiarazione di Bernardino Cristiano. Nella prima è la schiettezza della virtù, nell'altra è il cinismo del delitto. Credo di aver detto ogni cosa.

Il Catalano vi dice chiaro che si nominavano alcuni uomini per mera millanteria e per dar tuono alle imposture: il Catalano che tutto poteva sapere, tutto sapeva, e niente ha detto di consiglio, di setta, e di chi vi apparteneva, confonde ed annulla il Margherita, che niente poteva sapere, e dice tante cose e tanti nomi. Il Catalano vi parla ancora degli ultimi fatti dei cartelli e della esplosione; li confessa operati da lui, e così vi addita il valore che meritano, la definizione che ad essi si deve dare.

L'esplosione è l'ultimo fatto cronologico del processo: ma perché è stato un fatto udito e veduto, un fatto pubblico, si è magnificato, si è accresciuto, si è sparso ed intorno ad esso si sono aggruppati altri fatti remoti e lontani, la setta, la seduzione dei militari, e financo gli avvenimenti del 15 maggio nel lontano San Giorgio la Montagna. Questa esplosione mi pare simile ad uno starnuto dell'imperatore della Cina, di cui si spande la nuova per tutte le contrade del celeste impero; affinché ogni cinese faccia le sue felicitazioni. Che cosa fu questa esplosione? Mezz'oncia di polvere chiusa in poca tela, che divampò innanzi la reggia. Da chi fu ideata? Dal Faucitano, dal Giordano, dal Catalano. Quando fu ideata? La sera del 15 settembre, dopo che era venuta meno un'altra idea sciocchissima del Faucitano, cioè quella di spargere vipere nella folla. E queste vipere quando furono ideate? La mattina del 15 dal Faucitano, nel Vico Loffredo, quando Giordano ed il Catalano gli cercavano un mezzo per produrre un fuie fuie. E veramente solo il Faucitano poteva proporre queste vipere senza denti, le quali in settembre sono ibernanti, le quali gettate a terra si sarebbero aggomitolate, né avrebbero fatto male a nessuno.

Ma perché, che cosa si voleva fare? L'accusa risponde: che quello era l'atto prossimo di una rivoluzione organata dalla setta per rovesciare il governo; era il segno di una insurrezione che fu impedita. Ma tutto l'intero processo dimostra, che non fu disegno della pretesa setta, ma un trovato del Giordano, del Catalano, del Faucitano; che il fine non era altro che di produrre un fuie fuie e distornare la benedizione, non pel fine empio di disprezzare la religione, ma per impedire una dimostrazione che si credeva dovesse farsi contro la costituzione; dimostra che il Faucitano fu solo; che il Giordano lo ingannò dicendogli che dopo lo scoppio alcune persone si sarebbero poste a fuggire, ma non nominò chi erano; dimostra che il Catalano ed il Giordano non erano sul luogo ma lontani ed aspettando l'esito del fatto.

Dove erano gli uomini che dovevano insorgere, dove le armi, dove i preparamenti, dove gli sforzi dei cospiratori? Tutto fu opera di un uomo illuso come il Catalano, al quale non credo di dare offesa dicendo illuso perché gli uomini onesti sono sempre illusi dai furbi; di un uomo renduto fanatico da un impostore, cioè il Faucitano spinto a quell'atto dal Giordano, solo e vero architetto di queste follie, le quali hanno prodotte tante ciarle, tanti processi, tanti dolori, e sì gravi pericoli ad uomini intemerati.

Intanto, o signori, ricordate che il Giordano il 4 luglio ebbe una perquisizione in casa, e gli furon trovate due note di 177 persone; che il 10 luglio fu chiamato, interrogato, rimandato; che il 3 agosto fu richiamato e ritenuto in prigione; che il 19 agosto fu liberato. Leggete il rapporto che l'istruttore scriveva al procuratore generale il 4 novembre, e vi troverete la pruova che il Giordano dal 19 agosto fino al 16 settembre era vigilato attentamente dalla polizia: e perché trattavano con lui eran vigilati ancora il Catalano, il Vellucci, il Sessa, il Florio, il Faucitano, il Piterà, l'Errichiello, il Vallo, l'Antonetti. Leggete gl'interrogatori del Vellucci e del Faucitano del giorno 16 e vi troverete che essi non nominarono nessuno: intanto leggete ancora il certificato del 18 settembre con cui si dispone l'arresto dell'Errichiello, del Piterà, del Gualtieri e del Catalano, perché per segrete informazioni la polizia li sapeva amici del Vellucci: e non troverete ordine d'arresto pel Giordano. Leggete le dichiarazioni dei fratelli De Alteriis del 19 settembre, nelle quali tanto si parla del Giordano, e non troverete ordine di arresto pel Giordano. Leggete che per ordine a voce si va ad arrestare la sera del 19 Luigi Florio, giovane del Giordano; e non si arresta Giordano. Troverete infine, che solo il giorno 20, dopo le confessioni del Piterà e del Vellucci fatte il giorno 20, solo il giorno 20, fra molti altri si ordina l'arresto del Giordano, il quale iam abierat, excesserat, evaserat. Signori, traete voi le conseguenze di questi fatti: chi è cercato a morte deve tacere.

La setta, la cospirazione, la rivoluzione sono grandi parole, ma i fatti dove sono? A chi è stato torto un capello? Quando è stato turbato l'ordine pubblico? Con pochi cartelli manoscritti e mezz'oncia di polvere si voleva rovesciare un governo?

La più chiara ed evidente dimostrazione che le son fantasie è la mancanza di ogni fatto esterno; ed il solo fatto esterno che vi sia, il saltarello innanzi la reggia, dimostra quello che veramente esisteva, l'intrigo fantastico del Giordano, intrigo conosciuto e non impedito. Imperocché questo topo non poteva nascere da un monte; questo fatto non poteva essere anche una lontana conseguenza di un consiglio di uomini che han senno umano. Egli è una mosca che dalla immaginazione di alcuni e dalla malvagità di altri si è voluta far divenire un elefante.

Ma io spero, anzi son certo, che voi giudici sapienti e coscienziosi, per amore della ragione umana, per amore della logica che è nata in questo paese, per amore del principe che ci governa, darete ai fatti il valore e la definizione che meritano; ed avrete presente quello che io chiamava idea madre del processo, cioè che tutto si riduce ad un intrigo di pochi, ad una vergognosa scrocconeria, la quale dalle più che femminili fantasie napolitane, è stata creduta una grande cospirazione.

E qui lascerò di parlare di questi ultimi fatti, perché essi non mi toccano, non riguardano la mia difesa; e crederei di oltraggiare il senno e la giustizia vostra, se volessi mostrarvi quello che tutto il processo mostra; che gli avvocati hanno chiarito, e che voi sapete, che il fatto del 16 settembre fu un fatto particolare, circoscritto a pochi, non premeditato, ma improvvisato, non destinato come segno d'insurrezione, non attentato per rovesciare il governo, non effetto di cospirazione, ma di febbrile immaginazione, tentativo e semplice tentativo di far fuggire la gente, ed impedire una supposta dimostrazione contro una forma di governo.

Conchiusione

Signori, io spero di avervi chiaramente dimostrato, che io non sono né settario, né capo, né cospiratore, ed anche da questo sgabello posso dire con fronte alta che sono un onest'uomo. Se mi sarà dato a colpa l'essere onesto, l'aver creduto che la virtù non sia una illusione, l'aver consumata la vita tra fatiche, stenti e dolori di ogni sorta; l'essermi dedicato ad ammaestrare amorosamente i giovani, e fare nel mondo la mia parte di bene; se questo è il mio delitto, fatemi morire, io disdegno di vivere dove la virtù è delitto; io andrò a presentarmi ad altro giudice, e da Lui avrò quella giustizia che gli uomini mi negano.

Aspettando serenamente la vostra decisione, io voglio innanzi di voi e di tutti quelli che mi ascoltano dare un ultimo e solenne insegnamento ai miei figliuoli che mi ascoltano: voglio che essi perdonino ai persecutori del padre, perché questi non sanno quello che fanno: voglio che essi serbino sempre cara e grata memoria di Amilcare Lauria mio difensore. A voi, o giudici, io non dirò altro, se non: ricordatevi della tristizia dei tempi, ricordatevi quanto è leggera l'accusa fondata sopra assertive sfornite di pruove, ricordatevi che ogni uomo, anche voi, potreste essere calunniati a questo modo, ricordatevi che mi avete negato ogni discarico, ricordatevi che dopo la vostra decisione sta la decisione di tutta Europa che vi osserva, sta la sentenza di Dio, dal quale tutti gli uomini e tutti i giudici della terra sono giudicati.

FINE




4 Il povero cantiniere Montella diceva che cosa era quella stampa, e che era stata riportata anche nel giornale uffiziale: ma il Campagna che lo arrestò non se ne persuase, lo credette un proclama repubblicano, e scrisse nel suo verbale di arresto: “proclama tendente a cangiare il governo in repubblica”. Sia lecito all'Ispettore Campagna di ignorare, o storcere i fatti; ma come scusare il pubblico accusatore che segue il giudizio di un ispettore, non legge l'interrogatorio dell'imputato, non esamina la carta? O ha errato per ignoranza, o ha voluto preoccupare la pubblica opinione. (N.d.A.)



5 Il Procuratore generale dice ancora che il Leipnecher era per sua propria confessione capo della setta degli Unitari. Le risposte di Antonio Leipnecher alle interrogazioni ricevute sono franche, leali, onorate, dignitose: ed lo l'ho lette. Non dico questo per difendere il Leipnecher, che non ha bisogno della mia difesa, ma per mostrare con quanta coscienza è fatta l'accusa. (N.d.A.)



6 Procedura penale, art. 202. A pena di nullità non possono essere ammessi a deporre nella pubblica discussione: 1. gli ascendenti ecc.; 2. il denunziante la cui denunzia è pecuniariamente ricompensata dalla legge. (N.d.A.}



7 Di questi poveri contadini sette furono condannati al terzo grado dei ferri, e sono stati subito mandati in galera: gli altri sono ancora in carcere. (N.d.A.)



8 La causa di questi popolani è stata fatta l'altr'ieri. Compariscono loro accusatori i soliti denunzianti pagati, fra i quali il sozzissimo Ardissone. Si è scoperto che si comperarono cinque testimoni per trentacinque grana l'uno. Il procuratore generale, che lanciò un'accusa di morte contro tutti dodici, ha dovuto nella requisitoria orale chiedere libertà per sei, pena di prigionia per gli altri sei. La corte ha deciso libertà per undici, cinque anni di prigionia per un solo convinto di aver parlato contro il re. Il Tempo parlerà della giustizia con cui si fanno le cause fra noi, e farà venire a tutti il desiderio di essere accusati e giudicati a questo modo.

Il maggiore Antonino Gaston, di 62 anni, di animo e di cuore ottimo, accusato a morte per aver parlato male del papa e del re, è stato liberato con decisione di costa che non dopo otto mesi di prigionia. (N.d.A.)



9 Vol. 22, fol. 119 a 130. (N.d.A.)



10 Vol. 24, fol. 154. (N.d.A.)



11 Vol. 24, fol. 52. (N.d.A.)



12 Vol. 25, fol. 126. (N.d.A.)



13 Vol. 25, fol. 128 (N.d.A.)



14 Vol. 24, fol. 6. (N.d.A.)



15 Vol. 24, fol. 54. (N.d.A.)



16 Vol. 24, fol. 23. (N.d.A.)



17 Vol. 25, fol. 107. (N.d.A.)



18 Vol. 25, fol. 52. (N.d.A.)



19 Vol. 25, fol. 54. (N.d.A.)



20 Fra le carte di Lorenzo Vellucci gli furono trovate alcune lettere scrittegli dal padre, il quale lo rimproverava di aver preso parte nella dimostrazione del 29 gennaio 1849, come gli era stato detto e lo esortava a ritirarsi in paese. Il commessario Silvestri comandava che il vecchio fosse interrogato. Nel vol. 38 sta scritto che fu interrogato: perché non aveva denunziato il figliuolo all'autorità, che lo avrebbe fatto per forza tornare in paese? Ed ei rispose: “Perché la natura mi vietava di denunziare il sangue mio”. Gettare il veleno ed il fuoco nelle famiglie, contaminare gli affetti più santi, sciogliere tutti i vincoli della società, offendere Dio e l'umanità, si chiama zelo, fedeltà, ordine: chi fa queste cose si chiama amico dell'ordine: io che le scrivo per farle abborrire io sono un demagogo, e debbo essere impiccato. Ma la verità non si può impiccare! (N.d.A.)






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