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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE PRIMA (1813-1849)
    • I - La fanciullezza
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PARTE PRIMA

(1813-1849)

I - La fanciullezza

Ho a parlare di tante malinconie, lasciatemi prima rinfrescare lo spirito con le memorie dei miei primi anni quando entrai nel mondo, che mi parve tanto bello ed allegro.

Io ero un diavoletto di bambino che pigliavo e rompevo tutto in casa; e mio padre che era ammalato e ne pativa, mi diceva sempre: “La levatrice fu profetessa quando dopo il battesimo ti presentò a tua madre ed a me e disse che saresti riuscito un gran diavolo perché avevi rotta la fonte”. “Non ho rotto nessuna fonte,” dicevo io. Ed egli: “Tu nascesti in Napoli nell’anno 1813, il 17 di aprile, giorno di sabato santo1, e fosti il primo battezzato nella fonte della nuova acqua benedetta, e però rompesti la fonte”. Così fui fatto cristiano e cattolico senza ch’io ne sapessi niente.

Mio padre si chiamava Raffaele Settembrini, ed era avvocato, come mio nonno Vincenzo, ed altri vecchi di casa nostra. Mio nonno era di Bollita paesello di Basilicata sul mare Ionio2, e giovanetto venne in Napoli a studiare, e qui si fermò e ci prese tre mogli che gli diedero 24 figliuoli. Mia madre Francesca Vitale era anch’ella figliuola d’un avvocato.

Verso il 1820 mio padre, per una crudele malattia che lo straziò per lunghi anni e finalmente lo spense, uscì di Napoli con la sua famigliuola e andò a stabilirsi a Caserta, dove viveva della sua professione parco ed onesto. Una mattina mi menò in chiesa dove era tanta gente, molti ornati di fasce tricolori, e un prete3 con una gran fascia tricolore su la cotta faceva una gran predica. Erano tutti allegri, e avevano coccarde tricolori sul petto, e non so che gingilli d’argento: uno presentò a mio padre una coccarda, e mio padre disse: “Non ho bisogno di questa, né la voglio, e poi ora sono così ammalato”. E quel signore voltosi a me: “Prendila tu,” disse: ed io la presi, e me la messi, e fui carbonaro a sette anni. Mio padre non volle mai essere carbonaro, perché diceva che fu battezzato nel 1799, ed il battesimo non si ripete.

Egli raccontava spesso i casi suoi nel 1799, e mi ricordo che nelle sere d’inverno egli stava accanto al braciere con due o tre amici che venivano a visitarlo, mia madre presso ad un tavolino cuciva, ed io vicino a lei seduto sopra una seggiolina, ed ei parlava così bene, ed io l’ascoltava guardandolo fiso. Ei diceva così: “Io aveva vent’anni, ed era della guardia nazionale, e una mattina feci la sentinella innanzi alla camera dove erano a consiglio i capi della repubblica, e quando uscirono presentai le armi a Domenico Cirillo che uscì primo, e mi guardò, e mi sorrise, ed io ancora ricordo quel sorriso: presentai le armi a Mario Pagano e Vincenzo Russo che andavano ragionando, presentai le armi a tutti gli altri. Si avvicinava il cardinale Ruffo. Chi può descrivere i furori della plebe, e il terrore che faceva il grido di ‘viva il re’? Abitavamo a san Giovanni Maggiore, e io vidi a un tratto i lazzari assalire il palazzo del duca della Torre, trarne fuori seminudi e legati i due fratelli Filomarino, e saccheggiare il palazzo che non vi rimasero neppure i ferri dei balconi. Il mio amico Gaspare Giglio calabrese che si trovava col cardinale mandò a dirmi andassi da lui per salvarmi: io uscii; le vie erano sparse di cadaveri nudi perché spogliati di tutto, e bianchi bianchi, ché erano di gentiluomini.  Nella via di Porto ecco un’onda di popolo che mi è sopra; sento strapparmi il codino che m’avevo messo di stoppa, e gridare: ‘giacobino!’, mi afferrano, mi spogliano, non mi lasciano neppure la camicia, mi legano, mi pungono con le baionette, e mi strascinano verso la marina per fucilarmi. Giunti a la marina mi sento uno schiaffo da uno che mi dice sottovoce: ‘Non ti spagnare, ca mi manda Don Gaspari’: e poi rivolto alla moltitudine: ‘A lu ponte, a lu ponte, l’avimo a fucilare avanti a lu cardinali. E così mi trasse da quella turba, mi chiuse in mezzo ai suoi e mi condusse scalzo e sanguinoso al ponte della Maddalena per chiudermi nei Granili che allora erano diventati un gran carcere. Stava di sentinella innanzi la porta del carcere un calabrese con una gran rete turchina in capo ed una rosa in mano. Come ei mi vide: ‘Poveru giuvani,’ mi disse, ‘tu si mezzu mortu: addura sta rosa, rifriscati!’. E avvicinandomela al naso sentii entrarmi uno spillone nel cervello. Fui spinto in un gran camerone dove erano stivati più di trecento prigionieri, e molti qua e moribondi, io mi gettai per terra, un prigioniero mi porse un poco d’acqua per lavarmi le ferite, e mi diede uno straccio per fasciarmele. Dopo due giorni venne a vedermi mio padre con mia sorella Carmela, la quale come mi vide a traverso i ferri, corse, mi strinse la mano forte forte, e svenne. Mio padre corse per un poco d’acqua, domandò aiuto al maggiore Baccher, che ora è generale, e allora si trovava , e passeggiava innanzi al carcere, e venne e disse: ‘Oh è nulla, la farò rinvenire io’. E diede due colpi di frustino in faccia a la povera Carmela. Mio padre se la prese tra le braccia, e senza dir parola la trascinò via, e non venne più. Indi a poco tempo fummo imbarcati un gran numero, e portati all’isola di Santo Stefano, e chiusi in quel bagno. c’era il Carrascosa e il Pignatelli ora generali, e c’era ancora il marchesino di Genzano, Filippetto Marino, un bel giovane di diciotto anni, che era mezzo nudo, ma sempre allegro, e ballava, e cantava sempre. Venne un marinaio che da Napoli portò roba a molti prigionieri, e a lui disse, che la marchesa madre gli aveva consegnato un baule di roba per lui, ma il marchese gliela fece lasciare dandogli molte bastonate, e che egli era fuggito, e non poteva dargli altro che un cartoccio di polvere di Cipro, e un paio di scarpe nuove, che la marchesa gli aveva consegnato dopo di aver chiuso il baule, ed egli se li aveva messi in saccoccia. Il giovanotto da prima si accigliò, poi sorrise, s’incipriò i capelli, si calzò le scarpe nuove, e si mise a ballare un minuetto. Pochi giorni dopo il povero Filippetto fu chiamato in Napoli, e giustiziato: e il crudele padre invitò a pranzo i giudici che lo avevano condannato. Quattordici mesi stetti a Santo Stefano, poi fui richiamato in Napoli anch’io; ma i tempi erano mutati, fui assolto e tornai a casa.

A questo racconto io non movevo palpebra, ma a quello spillone nella rosa diedi un guizzo, e mia madre fermò la mano che cuciva e impallidì.

Qualche tempo dopo la gran festa in chiesa vidi gran numero di soldati passare per la città, e alcuni uffiziali alloggiare in casa nostra, i quali mi dicevano: “Vuoi venire con noi? si va a combattere i tedeschi”. E io correvo e la mamma, e le dicevo mi mandasse alla guerra, ed ella rispondeva: “Prega Dio che difenda la nostra patria, e che non ci vengano i tedeschi”.

Ma i tedeschi vennero, ed io ne vedevo tanti vestiti di bianco e col lauro al cappello, ed altri uffiziali venire ad alloggiare in casa nostra, e non parlavo affatto, e dentro sentivo una gran passione vedendo mio padre pensoso, mesta mia madre, e la casa squallida, perché tutta l’argenteria da tavola e qualche altra cosa di valore che v’era l’avevano nascosta. Ci volle il bello e il buono a persuadermi di lasciare la coccarda tricolore, e di mangiare con una forchetta di ferro. Non udivo altro che malinconie e tristi novelle: “Hanno carcerato il tale, hanno tolto l’impiego a quel poveruomo che con tanti figliuoli come farà?” Don Giuseppe Golino prete mio maestro ebbe tolta la scuola e la messa, e morì mendico. Una mattina si udì un suono di tromba, e poi un grido doloroso. La mamma si fece alla finestra, io volevo vedere anch’io, ma ella mi prende per mano, e cade lunga per terra. Mio padre esclama: “È la frusta! oh, a che siamo giunti!” e chiuse tutti i vetri: mia madre poi mi contò lo strazio veduto, un uomo legato sopra un asino, con le spalle nude, la mitera in testa, circondato da soldati tedeschi, battuto dal boia. Era il supplizio che il Canosa dava ai carbonari. Non ho dimenticato mai quel suono di tromba, quel grido, e mia madre per terra.

La sera venivano a visitare mio padre alcuni pochi amici, e con lui s’intrattenevano a ragionare: fra gli altri era un certo don Scipione Laurenzano che mi voleva un gran bene, e aveva una buona e brutta moglie4, la quale mi dava sempre zuccherini e baci, ed io per quei zuccherini qualche bacio le rendevo, ma ad ogni cento de’ suoi uno de’ miei. Il dabben uomo fu privato anch’egli d’un suo uffizio, e si lamentava, e una sera diceva: “Hanno detto che io fui in chiesa con la fascia: questa è calunnia: io ci fui ma senza fascia”. A questo io salto in mezzo e dico al mio don Scipione: “Sissignore, l’avevate, e mi deste a me la coccarda”. Mio padre impallidì, mia madre si levò, e afferratomi per un braccio mi condusse in un’altra camera, e mi sgridava che i fanciulli non debbono parlare se non dimandati. “Ma io ho detto la verità.” “Zitto, figlio, ché tu lo faresti impiccare.” E mi metteva la mano su la bocca. Capii che avevo fatta una cosa grossa. Per questa scappata affrettarono il disegno di chiudermi nel collegio di Maddaloni, che è a tre miglia da Caserta. Avemmo una trista novella: il fratello di mia madre, Giuseppe Vitale, uno dei primi che gridarono la costituzione a Monteforte fu condannato a la relegazione e spedito all’isola di Pantelleria. La buona mamma non se ne poteva consolare.




1 Via Magnocavallo, case di Don Innocenzo Rossi, poi del Signor Luigi Manzelli. (N.d.A.)



2 Oggi detto Nova Siri. (N.d.A.)



3 Si chiamava don Gennaro Campanile. Passò tanti guai il poveretto per quella predica. (N.d.A.)



4 Donna Cecilia: aveva i denti sporti in fuori. (N.d.A.)






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