Tornato a casa andavo
ogni mattina a chiesa, e poi a scuola; e sebbene vi andassi con gli occhi
bassi, pure una volta non so come li alzai in viso ad una bella fanciulla nostra
vicina che mi guardava fiso; e un’occhiata oggi, una dimani, cominciai a
volerle bene, non scrissi più oremus, e un dì non so come mi venne fatto
un sonetto d’amore, e dopo di quello molti altri. E così gli occhi di quella
fanciulla mi scappuccinarono, e mi tornarono quel matto che io ero per natura.
Volete sapere del De Silva? Quando uscì di collegio si vestì da prete, e studiò
teologia, ma per voler ragionar troppo fu tenuto ateo e diede scandalo: ei
gettò il collarino, fece l’avvocato, e fece molte pazzie, e l’ultima fu di
farsi frate davvero nel monastero di Santa Teresa. Poi si sfratò, ed ora veste
da prete, ed è professore. Animo focoso ed irrequieto, buono, ingegnoso,
generoso, è stato sempre ed è mio carissimo amico.
Oh, non ridete di queste
fantasie fanciullesche. Se in vita tua non hai pensato mai di farti frate, o
soldato, o di volerti ammazzare, se non hai fatta mai una corbelleria e sei
stato sempre savio, io ti compiango, e non ti voglio per amico, perché se non
l’hai fatta, la devi fare, e più tardi sarà più grossa, e la farai a me. La
saviezza senza la pazzia sterilisce l’anima, ed è come il sole senza la rugiada
della notte. E poi avete a sapere che a quegli anni la bacchettoneria era un
andazzo; il governo voleva che gli uomini pensassero all’anima e non
s’impicciassero delle faccende del mondo, e chi non diceva i fatti suoi ad un
confessore doveva dirli ad un commessario di polizia che te lo tappava in
prigione. I colli torti stavano nei più alti posti: ed io vedevo con gli occhi
miei l’intendente della provincia, il marchese di Sant’Agapito, ogni mattina in
chiesa servire a messa come un sacristano; ed ogni domenica radunava tutti i
suoi impiegati, se li menava dietro come pecori, e tutti in chiesa a cantare
l’ufficio della Vergine, udire un paio di messe ed una predica: e guai a chi
mancava! Mi pare ancora di vederlo quel figuro d’intendente con tanto di bocca
spalancata cantare salmi e volgersi intorno, e farsi crocioni con la mano che
parea giuocasse di spadone.
Io dunque seguitavo ad
udir prediche e orazioni, ma gli occhi di quella fanciulla mi dicevano qualche
altra cosa, dentro di me sentivo un’altra voce, i libri che leggevo mi
svelavano un mondo nuovo. E mio padre con savie parole, col suo esempio, e con
buoni libri che mi dava a leggere mi andava sfratando interamente. Egli aveva
alcuni giornali forestieri, e leggeva e mi spiegava quei nobilissimi fatti che
allora avvenivano in Grecia, e mi diceva: “Lì c’è uomini. Dimmi, vorresti esser
frate, e non un Marco Bozzari? Non è morto egli glorioso martire di Cristo e
della patria? Non vorresti tu morire così? Ah, figliuolo, questa che tu vedi
fra noi non è religione, ma superstizione, ma arte di tirannide per ispegnere
proprio l’anima. L’uomo generoso ama la patria e si adopera per lei in fatiche
onorate, non in ozio di convento”. A queste spronate io m’impennavo come un
puledro, e avevo sempre innanzi a la mente Marco Bozzari nel campo dei Turchi,
e sentivo ripetermi all’orecchio il grido di Costantino Canaris nel canale di
Scio: “Vittoria a la Croce,” e pigliavo la carta geografica, e stavo le ore
intere a guardare la Grecia, e mi girava pel capo tutta la storia antica e
quello che udivo della moderna.
Avevamo un nostro
vicino, a nome don Angelantonio de Spagnolis, un dabbene uomo che parlava
sempre latino, ed aveva una serqua di figliuoli tra maschi e femmine; e noi
altri si andava da loro, ed essi da noi. Il primo di questi figliuoli, a nome
Salvatore, aveva qualche ingegno ed era mio compagno di scuola, e andavamo
insieme da un maestro che era dotto, ma pregiava più un fiaschetto di vino che
il poema di Virgilio, e ci faceva lezione mezzo addormentato. Dopo la lezione
tutti e due ce n’andavamo nel bosco reale, luogo di delizie celebrato in tutta
l’Europa, e quivi dove erano più ombrosi i viali e maggiore silenzio, noi
passeggiavamo leggendo l’Atala dello Chateaubriand, e quando l’uno era
stanco, leggeva l’altro. Oh che libro fu quello per me! io vedevo con la
fantasia le vergini foreste dell’America, e quelle donne indiane, e quell’Atala,
e quei pappagalli sulle rive del Meschacabi. Poi leggemmo l’Ariosto, e ne
imparammo a mente i canti più belli. Intanto facevamo le nostre osservazioni su
le cose che ci circondavano; e una volta io vedendo gli alberi tagliati in modo
da parere una muraglia verde, avendo la fantasia a le foreste americane, dissi
al compagno: “Vedi come l’uomo guasta la natura e crede di correggerla. Io
scriverei un libro su questo taglio degli alberi”. “Un libro? vah! e che
diresti?” “Che è una tirannide, e che si potano gli uomini e gli alberi al modo
stesso.” “Oh, sta zitto, che qui ci può sentire qualcuno.” E seguitammo a
leggere l’Ariosto. In mezzo a quegli alberi, a quelle erbe che mandavano mille
odori, io mi sentivo rapito come in un altro mondo, e facevo quei castelli che
si fanno in quella beata età di quattordici anni. Un giorno mio padre
sorridendo mi dice: “So che stai scrivendo un libro”. “Io? no. E su di che
potrei scrivere un libro io?” “So che scrivi su certi alberi.” “Oh, lo dissi
per dire; ma Salvatore è una spia.” “Spia no, ma più prudente di te che parli
di tirannide in un luogo reale dove puoi essere ascoltato”. Salvatore de
Spagnolis, disonorando la sua onesta famiglia, fu commessario di polizia, ed
ebbe tristo nome al tempo dell’ultimo Borbone. Cominciò la sua arte da allora:
io mi allontanai da lui, e fatto giovine non più gli parlai ne lo vidi.
Andavo solo nel bosco,
ed in altre ore. E per dirvi la verità davvero io ci andava per un’altra
ragione, perché ci avevo adocchiata una fanciulla figliuola d’un custode, la
quale era poco minore dell’età mia, e pareva una farfalletta, rideva sempre e
si moveva, e mi lanciava occhiate. Una mattina in un viale me la vedo innanzi
saltante come una cavriuola. “Come ti chiami?” “Angelina.” “Mi vuoi bene?” Si
messe a ridere e fuggì via. Quasi ogni giorno la vedevo, e come io mi
avvicinavo ella fuggiva, fuggiva con certi piedini d’uccello che parevano non
toccare la terra. “Ma rimani un po’, non fuggire: ho a dirti tante cose.” “E
dille.” E con grazia fanciullesca cavava la lingua fuori, e mi dava la baia, e
poi via, ed io dietrole, e ci seguitavamo come due cagnuoli. Una volta mentre
io voleva proprio afferrarla, voltando un viale mi trovo innanzi la Regina
Isabella: rimango freddo, piantato, non so altro che sberrettarmi. Ella che
aveva veduto la fanciulla ed il giuoco, corrispose al mio saluto con un sorriso
e una scrollata di testa: disse alla donna che l’accompagnava alcune parole che
io non intesi, e si voltò due volte a riguardarmi sorridendo. Che volete? ero
bimbo ancora, ed ebbi paura: credetti di aver fatto un marrone , e che mi
avrebbero carcerato: onde stetti in casa, e per un pezzo non tornai al bosco.
Qualche tempo dopo rividi altrove l’Angelina, che mi voltò la faccia, e così mi
punì della sciocca paura che io ebbi della Regina, la quale andava nel più
fitto del bosco per sue divozioni, ed io non sapeva ancora che ella aveva un
cuore d’acqua, e non avrebbe mai fatto male ad un giovanotto come me che avevo
le prime calugini.
Così faceva i miei studi
e le mie mattie, che furono parecchie, e saria lungo contarle tutte. Erano
quelle che fanno tutti i giovani nella prima età e che malamente si chiamano
impertinenze, perché elle sono pertinentissime alla giovinezza anzi sono il
senno di quei begli anni. Io ne feci molte, sì perché doveva farne, e perché
voleva rifarmi del tempo perduto. In questo mezzo il mio maestro disse che io
avevo compiuto gli studi letterari, che egli mi aveva spiegata la Rettorica del
Majelli, e non sapeva che altro insegnarmi; onde fui messo a scuola d’un altro
prete che passava per cima, e insegnava matematica, filosofia e teologia. Presi
dunque fra mani la Geometria del padre Tacquet, e la Logica e la Metafisica
dell’abate Antonio de Martiis, e mi messi a studiare, perché secondo mi
avevano detto la geometria quadra la testa, e la logica insegna a ragionare, e
io volevo vedere come la testa mi si sarebbe quadrata, e come avrei fatto a
ragionare. Fatto sta che come si dice chi nasce tondo non muore quadro, io non
mi persuadeva di quelle cose che mi contava il maestro, il quale non mi pareva
fosse un gran loico, e teneva su pel tavolini molte figure di cannucce con le
quali insegnava la geometria solida a la classe superiore. Nondimeno io andavo
a questa scuola di assai buona voglia, perché il prete aveva due nipoti belle e
fresche come due rose, che mi quadravano meglio della geometria e con le quali
avrei ragionato proprio a filo di logica. E mi piaceva la scuola anche perché
ci venivano alcuni chierici che studiavano teologia e argomentavano con le
formole scolastiche in latino: e io avevo un gusto matto a udirli ripetere: “Nego
maiorem, distinguo minorem, nego maiorem sussumptam”. E con un certo mio
compagno che era loico e discolo come me, quando dopo la lezione scendendo le
scale accadeva di vedere quelle faccette pulite e frescolelle, egli intonava: “Probo
maiorem”, e io rispondevo: “Sumo minorem”. Di tutta quella filosofia
e geometria che studiai allora non mi rimase altro nella memoria che quelle
fanciulle e quelle formole scolastiche.
Sciupati due anni con
questi preti dai quali non appresi nulla che mi sia rimasto, mio padre pensò di
mandarmi in Napoli nel novembre del 1828, per studiar leggi, perché egli
intendeva fare di me un avvocato. Eppure io avevo in bocca una linguaccia che non
pronunziava l’erre, e non profferiva dieci parole senza tartagliare. Il
napoletano è naturalmente facile parlatore e chiacchierone, ed io ebbi per
molti anni la lingua legata, e per non fare ridere di me, io mi taceva,
specialmente innanzi a le donne, e pensavo, e osservavo ogni cosa. Ho corretto
questo vizio con una volontà forte, con gli anni, e quando ho appreso a
disprezzar gli uomini. Con tale una lingua far l’avvocato! Dovetti ubbidire, e
a sedici anni fui balestrato nel mare magno della capitale.