Mio padre non volle
allogarmi in casa di nessun parente, ma a consiglio del suo vecchio amico
Gaspare Giglio, che aveva due nipoti7
nell’istituto di don Gaetano Cioffi, messe anche me in quell’istituto. Eccomi
dunque in Napoli, e tra gli studenti. Gli studenti erano divisi in due parti
avverse e nemiche: i napoletani, pochi, attillati, superbi, ignoranti, molli,
che studiavano così un poco per avere un impiego; ed i provinciali molti,
salvatichi come orsacchi, generalmente boriosi, rissosi, ed i più poveri più
diligenti a lo studio. Questi provinciali a poco a poco si ripuliscono,
rimbiondiscono, diventano zerbini, frequentano i passeggi, occhieggiano le
donne, ed in capo ad alcuni anni se ne ritornano a casa, dove portano un paio
di vestiti nuovi, una pergamena di dottore, un viso sbiancato dall’aria di una
grande città, e qualche vizio che si chiama civiltà. Io quantunque nato in Napoli,
pure essendo stato in provincia sin da fanciullo, stetti fra i provinciali: e i
due nipoti di don Gaspare miei compagni, che erano calabresi, mi fecero
conoscere parecchi calabresi: sicché io passavo per uno dei loro, e per non
parere un intruso, io rammentavo spesso mio nonno che era di Bollita, paese che
da prima apparteneva alla Calabria e poi a la Basilicata. A me piaceva la loro
compagnia perché essi avevano quello che a me mancava e voleva acquistare,
pronti, arditi, parlavano facilmente: in mezzo a loro io non ero un asino, ma
non mi sapevo far largo, rimanevo sempre indietro, parlavo poco, avevo paura di
dire sciocchezze, credevo che bisogna parlare come un libro, guardavo gli altri
e talvolta ne ridevo, e come potevo scoccavo qualche parola che mi faceva
rispettare e voler bene.
Nella scuola dell’abate
Furiati eravamo oltre quattrocento, tra cui due o tre facce non giovanili e
d’aria sinistra, che noi credevamo fossero spie, e quando comparivano in mezzo
a noi, acqua in bocca; e chi poteva far loro un dispetto lo faceva.
Il Furiati era un
giureconsulto valente, e benché fosse anche egli scritto nel libro dei
sospetti, pure perché era prete e pieno di piacevolezze lo tolleravano. Io
studiavo le Istituta di Giustiniano, ma di mala voglia, e solo per ripetere
la lezione quando il mio nome usciva dall’urna, poi a leggere Dante, e
sciorinar versi a dilungo per me e per i compagni che se ne facevano belli con
le fanciulle loro conoscenti. Che bei giorni! come era dolce l’amicizia in
quegli anni! Quell’allegria anche quando la scarsella era vuota, quella
scapataggine, quella sicurezza dell’avvenire, quelle speranze, quei motti,
quelle risate, quegli scherzi dove son iti? I giovani, tranne pochissimi, sono
tutti buoni, col cuore aperto, amano ogni azione bella e generosa, hanno
l’istinto del bene, e io li trovavo tutti liberali; ma di poi chi chiappa un
uffizio e per mantenerselo imbirbonisce, chi si gonfia e sta sul grande per
amicizia e ricchezze acquistate: l’interesse guasta quei cuori schietti,
avvelena quelle anime pure, e non v’è più mezzo di cavare questa brutta serpe
una volta che si è rimbucata nel petto. Pochissimi, e da contarli su le dita,
rimangono sempre gli stessi, semplici, onesti, e male in arnese. Per ingegno
poi tutti i napoletani ne hanno, e taluni maraviglioso, ma non hanno costanza,
né ordine, né disciplina, e quasi tutti sono ignoranti e abborrenti dallo
studio, non per colpa loro, ma per quell’educazione fratesca che storpia
l’anima ed il corpo. Alcuni sono salvati dal bisogno, dal pudore, da un istinto
buono, da la fortuna di trovare un amico o una persona sennata che li consigli,
e così si danno a lo studio, ma debbono rifarsi da capo, proprio da la
grammatica. Quanti ne ho veduto piangere conoscendosi ignoranti, e scagliar
maledizioni al seminario o al collegio dove erano stati molti anni e non
avevano imparato nulla!
Io mi strinsi
naturalmente con pochi che più mi piacevano per coltura e per modi gentili, e
facemmo una brigata di giovanotti di buon umore, buon appetito, pochi quattrini,
e molti versi. Di rado o in canzone si parlava di Giustiniano: per lo più si
recitava poesie, io declamavo i Sepolcri del Foscolo, e ripetevo le
intere Lettere di Iacopo Ortis, qualche altro ragionava sempre
dell’Alfieri, e ne recitava qualche scena, qualcuno usciva a parlare d’una
bella fanciulla: tutti a dire quel che viene viene, anche spropositi. Spesso
s’entrava in politica e diventavamo seri, ma la politica sottovoce, e
passeggiando in campagna, e guardandoci bene attorno, perché correvano brutti tempi,
e la polizia stava più cagnesca del solito sopra gli studenti per la
rivoluzione stata allora nella provincia di Salerno.
I tre fratelli
Capozzoli, possidenti in Bosco, terricciuola in provincia di Salerno,
perseguitati come carbonari, si erano tenuti per sei anni in campagna,
difendendosi da bravi, e acquistando fama di gran valore. I liberali di quella
provincia e delle vicine, udito un cangiamento di ministero avvenuto in Francia
in quell’anno 1828, e fondatavi non so quale speranza, credettero tempo
opportuno a fare un movimento, e strumenti opportuni i Capozzoli. Prima in
Bosco, poi in altri paeselli vicini fu gridato “Costituzione,” e, come se la
fosse ottenuta e assicurata, fu cantato il solito Te Deum; ma il
movimento non si sparse perché le popolazioni non vedevano di buon occhio i
Capozzoli, i quali avevano fatto di quelle cose che suol fare chi tiene le armi
in mano per tanto tanto tempo; e perché eran pochi, e senza accordi buoni.
Tosto re Francesco mandò a furia con ordini severissimi il brigadiere Del
Carretto a capo di alcune centinaia di gendarmi. Costui distrusse a colpi di
cannone il villaggio di Bosco già deserto d’abitanti; ed incarcerati quanti gli
capitavano rei o sospetti, li fe’ giudicare da una commissione militare da lui
stesso nominata, la quale ne condannò a morte ventidue, e una sessantina a la
galera: ottanta ne furono carcerati in Napoli come complici, e sette condannati
nel capo. Per questo servigio il Del Carretto ebbe titolo di marchese, grado di
maresciallo, e fu tenuto in petto per cose maggiori. La parte liberale rimase
sbigottita: e noi altri giovani ricordavamo con malinconia i nomi di quei
poveri martiri, e specialmente del canonico De Luca, vecchio di ottant’anni,
già deputato al Parlamento del 1820, prima sconsacrato dal vescovo di Salerno,
poi decapitato. Ripetevamo le parole che il vecchio disse prima di morire: “Exoriare
aliquis nostris ex ossibus ultor”; e dicevamo: “chi sa se potremo
vendicarlo!” Ma tosto gli spiriti si sollevarono per il giudizio politico di Nicola
de Matteis, che fece gran rumore in Europa.
Era questo de Matteis
l’occhio del principe di Canosa, il quale te lo messe nel 1823 intendente in
Cosenza: e quando il Canosa cadde dal ministero e fu mandato in esilio, costui
rimase addosso ai calabresi, e sperando diventare ministro commise atti
ferocissimi per acquistar merito e farsi tenere necessario e fedele. I
calabresi per verità gliene diedero l’occasione; i quali benché allora
vedessero gli austriaci occupare il regno, pure vagheggiavano alcune speranze,
e confidavano in alcuni esuli, specialmente in Raffaele Poerio, il quale
scriveva stessero pronti, che egli sbarcherebbe e farebbero la rivoluzione.
Le lettere erano portate
attorno, si cercava di rianimare la parte liberale, si aspettava. Come il De
Matteis ebbe sentore di queste pratiche cominciò una furiosa persecuzione, di
cui non si vide la simile in quel paese che pure aveva veduto il Manhès, e che
abbonda di uomini ferocissimi. Incarcerava a centinaia donne, vecchi,
fanciulli, servitori, e a furia di bastonate, di legature, e di altri strazi
voleva sapere dove erano i colpevoli. Se gli capitava uno sospetto faceva
legarlo per le dita grosse delle mani e dei piedi, e così aggomitolato lo
faceva con un calcio ruzzolare per una scalinata, e rimanere giù infranto ed
ammaccato. Egli stesso era presente a queste torture, e le inventava, le
ordinava, ed aveva fatto del palazzo dell’intendenza un’officina di carnefici
che risonava dei lamenti e delle strida dei tormentati. I suoi cagnotti,
chiamati i gialli dall’abito che vestivano, gli stavano sempre intorno, e li
accerchiavano la carrozza quand’egli usciva. Essendo andato in Rogliano in casa
i signori Morelli, ordinò tanti tormenti che uno della famiglia per l’orrore
uscì pazzo, ed indi a qualche tempo rivedendo a caso alcuni gialli, e credendo
volessero arrestarlo si precipitò da una finestra e morì. In tutta Calabria
mise lo spavento del suo nome, e diceva che tutti vi eran carbonari, e ci
voleva il boia per rimettere l’ordine. Si levò un grido generale contro questa
belva: e molte ragguardevoli persone corsero in Napoli ad implorare l’aiuto del
ministro Medici, nemico del Canosa e dei canosini, e gridavano che il de
Matteis inventava congiure che non v’erano, e straziava un popolo che ormai era
stanco e stava per sollevarsi davvero. Il Medici non era una coppa d’oro, ma
per dare un colpo a tutta la parte del Canosa, pensò di perdere costui; sì che
raccolte bastanti pruove, lo fece richiamare a dar conto di sé, e messolo in
carcere lo sottopose ad un giudizio che si fece negli anni 1829 e 1830. Non vi
so dire quanti di noi giovani e con che animo andavamo nella sala della suprema
corte di giustizia, che folla, che forestieri, che dame! e come tutti
guardavano al de Matteis che stava sopra un alto scanno con altri quattro suoi
complici. Era vestito d’un soprabito verde, aveva la faccia molto bianca,
volgeva intorno certi occhi di gatto irrequieti, e ghignava per celare
l’interno corruccio. I quattro erano un D’Alessandro procurator generale, un
Giambattista de Gattis proprietario di Martirano, un Vincenzo Gatto dipendente
di costui, un Raffaele d’Agnese, segretario dell’intendente. Nel giudizio i
calabresi dimandarono di costituirsi accusatori e parte civile, dicendo i loro
avvocati che il de Matteis aveva calunniato e straziato un popolo sempre fedele
e prodigo di sangue a la causa del re; ma la loro dimanda non fu accolta, e
l’accusa fu sostenuta dall’avvocato generale Celentano, bravo magistrato, che
ardì cercare a morte i rei. Venivano i testimoni dalle Calabrie (e noi altri
giovanotti, sapendo che la prima nave a vapore che toccò i lidi di Calabria
imbarcò quei testimoni, dicevamo che la novella invenzione serviva a la causa
della libertà), quei testimoni, quelle povere donne, quei vecchi, quei sacerdoti
che narrando quanto avevano patito levavano alto le mani storpiate da le
torture, facevano nascere un rumore sdegnoso fra gli uditori, ai quali si
volgeva pallido ed accigliato il De Matteis. Alle accuse non rispondeva altro
che “Menzogna, intrigo carbonico”: e quando alle pruove delle sue crudeltà non
poteva contraddire rispondeva con quelle parole che ancora mi suonano
nell’orecchio: “Ho trascorso per Cesare, e Cesare saprà perdonare il mio
soverchio zelo”.
Mentre si faceva in
Napoli questo giudizio, re Francesco era andato in Ispagna a condurre la
figliuola Cristina sposa a Ferdinando VII, e seco aveva condotto il Medici, il
quale in Ispagna si morì.
Quando ne venne la
novella in Napoli, il De Matteis ed i suoi fecero banchetto in carcere, e si
tennero salvi. E in fatti venuto a fine il lungo giudizio nel 1830, uscì la
sentenza: ei fu condannato a dieci anni di relegazione per abusi commessi
nell’uffizio. Il nuovo Cesare, re Ferdinando II, non pure gli fece grazia
intera, ma voleva anche premiarlo nominandolo consigliere in quella corte
suprema che lo aveva condannato: ma il Del Carretto allora ministro di polizia,
vedendo sorgere un rivale, destramente dissuase il e, e ne fu lodato come di un
atto coraggioso ed onesto.
Intanto venne l’agosto,
vennero le nuove delle tre giornate di luglio a Parigi. Che salti, che
allegrie, che propositi facevamo noi altri giovani! S’aspettava anche noi il
giorno di pigliare le armi, e scoparla una volta per sempre questa razza
borbonica nemica di ogni bene e di ogni libertà. re Francesco fu atterrito
dalla novella. Corse voce che il giovane Ferdinando, che allora attendeva a
riformare l’esercito, dicesse al padre: “Andiamo noi coi nostri soldati a
rimettere l’ordine a Parigi”. E Francesco rispose: “Che soldati! Ti puzza ancora
la bocca di latte, e non sai che bestie sono i francesi”. Se è vero, non so; né
io ero lì in corte per udire cosiffatto discorso. Si diceva, e io lo ridico. Se
è un’invenzione, dentro c’è la verità del carattere del padre e del figliuolo.
Sul cominciare di novembre re Francesco morì dopo cinque anni regnati coi
preti, con le spie e col carnefice.
Mentre io entravo nella
vita che mi pareva lieta di speranze, mi venne una lettera di mio fratello
Peppino che mi scrisse: “Corri, ché nostro padre muore”. Corsi a Caserta, lo
trovai a letto: ci chiamò tutti intorno a sé, e ci disse con la sua cara voce:
“Figli miei, Iddio mi chiama, ed io prima di partirmi da voi, voglio benedirvi
l’ultima volta, e dirvi le ultime parole. Non vi lascio ricchezze, ché non ne ebbi,
e a pena giunsi col lavoro a sostentare la vita: vi lascio un nome onesto di
cui non avrete mai ad arrossire. Nessuno vi dirà di avere avuto male da me,
qualcuno vi dirà che Raffaele Settembrini gli ha fatto del bene. Ho dolore a
lasciarvi così fanciulli e poveri, ma vi sarà padre Iddio. Fidate in lui,
amatevi fra voi, amate il lavoro, e siate benedetti. A te, o Luigi, raccomando
i tuoi fratelli minori e la sorella. Mettetemi a riposare accanto a vostra
madre nella chiesa di Santa Lucia”. Moriva il 26 settembre 1830. Questa è
l’eredità che mi lasciò mio padre, questa io lascio ai miei figliuoli, e però
scrivo queste parole. Con lui perdemmo tutto: e da quel giorno cominciò per me
e per i miei poveri fratelli una lunga serie di dolori che non hanno avuto più
fine. Eravamo sei fanciulli, di cui, io che ero il maggiore, avevo diciassette
anni. La madrigna si ritirò in sua casa: noi fummo dispersi: Peppino andò in
Catanzaro da zio Clemente fratello di nostro padre; Vincenzo, Teresa,
Alessandro andarono in Avellino in casa del nostro avo materno avvocato
Francesco Vitale: Giovanni venne con me in Santa Maria di Capua dove sono i
tribunali e dove io andai per fare l’avvocato.
Nostro tutore fu
l’ingegnere Filippo Giuliani, marito d’una sorella di mia madre, padre di bella
e numerosa famiglia, ed egli stesso bellissimo uomo, coi capelli d’argento,
vestito pulitissimo; sempre sorridente e piacevole, di ottimo cuore, splendido
nella vita, amato assai da mio padre: ed egli prese cura di noi, ma dopo pochi
anni morì anch’egli, e lasciò i suoi figliuoli come noi altri. Col mio buono
zio Filippo io ragionavo di me, e gli dicevo: “Ho studiato leggi per soli due
anni, non ho fatto alcun esame, non ho licenza, non ho laurea, come farò
l’avvocato?” Ed egli: “Chi vuol filare, fila co lo spruoccolo, dicono le
femmine. Se ne hai voglia puoi studiare da te, e lo studio ti sarà più facile
per la pratica, e comincerai a guadagnare qualcosa. E poi quanti avvocati ci
sono senza laurea e senza licenza, e sono bravi e ricchi? Studia da te, fa la
pratica, e a suo tempo farai gli esami, e piglierai la laurea”. Io dunque andai
in Santa Maria di Capua.
Gli amici di mio padre
m’accolsero con benevolenza, ed uno di essi, che era un avvocato di molte
faccende8, mi ammesse nel suo
studio; e lì cominciai a copiare citazioni, difese, sentenze, e tutte quelle
maledizioni che formano un processo. A diciotto anni, e col capo in cembali, va
e mettiti in uno strano mondo di avvocati, di liti, di clienti, di giudici, di
cause e di scarabocchi; ci stavo come l’asino in mezzo ai suoni. Di leggi
sapevo pochissimo, e non avevo voglia di saperne; ma quello che mi spaventava
era il vedere certi avvocatoni di grido arrovellarsi per inezie e farle
comparire affari importantissimi, chiacchierar sempre, aver sempre pronta la
bugia e l’articolo del codice, non credere a nulla, ridere di quelle cose che a
me parevano sacre, canzonar tutti, e così avere bei rotoletti di danari.
“Ohimè”, dicevo, “questo non lo saprò mai fare, e non è mestiere per me.” Stavo
con una malinconia, anzi con una stizza grande, mi sentivo umiliato a copiare
quelle cartacce, e mi svelenivo coi versi, e scrissi un arrabbiato dialogo che
intitolai tragedia. Fuggivo i compagni che mi puzzavano di curia, e me ne
andavo solo fra le rovine dell’anfiteatro campano, dove rimanevo molte ore
pensando all’antica grandezza di Capua, ad Annibale, a tutta la storia di
Livio, ed a quei tempi tanto diversi dai nostri, nei quali non ci erano tanti
avvocati e tante carte scritte. Per uscire di quel ginepraio di liti civili, e
per farmi un po’ di nome, pensai di difendere ufficiosamente, come sogliono i
giovani, qualche causa criminale, e ne pregai un presidente, che mi disse
bravo, e me ne diede volentieri. Difesi due ladri, due poveri uomini che per
fame avevano rubato, uno un lardo, ed uno un tavolone, ed avevano confessato il
furto. Io ci messi tutta l’anima nella difesa: hanno rubato sì, ma per fame, e
la fame è terribile consigliera, essi meritavano pietà più che pena. I giudici
sorridevano mentre io parlavo. “Ho vinto”, dissi tra me. La sentenza fu
condanna e al massimo della pena. Mi venne la febbre, gettai via i codici,
maledissi tutte le cause civili e criminali, fuggii da Santa Maria dove ero
stato sei mesi, e me ne tornai in Napoli, col fermo proponimento di farmi
piuttosto tagliar le mani che toccar codici e processi.
E poi era il 1831.
Mentre il mondo pareva andare sossopra: la Francia, la Polonia, l’Italia
superiore in gran movimento; mentre si attendevano nuovi rivolgimenti politici
nel regno, io non trovavo un cane con cui sfogarmi di quattro parole su le cose
del mondo, ma sempre cause, e maledette cause.
Mi parve adunque di
essere fuggito di un carcere, di respirare aria più pura, udire linguaggio più
umano, non vedere più quelle facce brutte come la carta bollata, ma visi di
cristiani, e un certo visetto che mi stava sempre innanzi agli occhi, e non
l’avevo potuto dimenticare mai.