Farei peccato di
superbia se vi parlassi di me nel 1831, quando neppure io pensavo a me, e
tenevo gli occhi in alto a guardare gli avvenimenti del mondo, come chi siede
in teatro è tutto inteso a un grande spettacolo e dimentica sé stesso. Pure se
io guardavo in alto dovevo avere i piedi a terra. Un mio cugino mi offerì la
sua tavola, e vedendo che io l’avvocato non lo voleva né poteva fare, mi disse:
“Per avere un’occupazione mettiti ad insegnare: vedremo di farti avere
scolari”. E io mi messi ad insegnare quello che sapevo e potevo. Così cominciai
a rifare i miei studi proprio da capo, e a guadagnare quattrini che erano
pochi, e ci vivevo assai sottilmente. Guardiamo ora in alto.
Quando re Ferdinando II
nel novembre del 1830 saliva sul trono delle Sicilie cominciò bene, e a molti
parve un buon principe. Ogni giovane a venti anni è buono, come ogni fanciulla
a quindici anni è bella. In un suo manifesto dichiarò di “volere rammarginare
le piaghe che da più anni affliggevano il regno”, ristorare la giustizia,
riordinare le finanze, promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in
ogni modo i beni dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia per
la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli e molti prigionieri, le
speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che egli
aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché
scacciò parecchi ministri e servitori che durante il regno di Francesco avevano
fatto mercato d’ogni cosa, perché restrinse le spese della casa sua, tolse via
le cacce, e volle vivere con certa semplicità e parsimonia che il popolo chiamò
avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava udienza a tutti, domandava,
rispondeva, provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta
veduti. Contentò anche la Sicilia, sempre desiderosa di re e d’indipendenza, e
vi mandò luogotenente suo fratello Leopoldo conte di Siracusa. Esercito
napolitano non si può dire che v’era: dodicimila Svizzeri, assoldati dopo che
partirono gli Austriaci, tenevano il regno: onde egli attese principalmente a
formare un esercito, richiamò gli antichi uffiziali già dimessi per politiche
opinioni, creò nuovi reggimenti, riordinò ed accrebbe gli antichi: ai soldati
favori, carezze e le sue maggiori cure: stava sempre in mezzo ad essi, se li
menava dietro, li esercitava continuamente, li rivestiva di nuove divise, e
quando li comandava pigliava l’aria di gran capitano. A quei giorni non ci fu
guerra ai peli, nemici perpetui dei Borboni; anzi il re si radeva ogni giorno
per farsi crescere subito i baffi che non aveva, e se ne metteva dei finti.
Onde fu lecito a tutti e fu segno di libertà poter portare alquanti più peli in
faccia.
Io allora sbarbatello,
che non era savio, e avevo la testa piena di storie romane e greche, e di brave
poesie che sapevo a mente, trovandomi un giorno con altri giovani miei amici e
maggiori di età che mi facevano i prudenti, io dissi: “Oh, di che vi rallegrate
voi? Nerone cominciò col quam malllem nescire scribere. L’è scopa nuova,
ma di quella mala erba: fate che s’usi, e vi riuscirà Borbone come il padre, e
come l’avolo”. Mi diedero del matto e davvero io avevo poco senno: ma siccome
le cose di questo mondo vanno raramente secondo ragione, così il matto spesso
s’appone meglio del savio.
Dissero, ed io lo credo,
che Ferdinando essendo ancora nuovo re ebbe due lettere: una da Luigi Filippo
suo zio, il quale lo consigliava d’allargare la mano, come volevano i tempi, e
lasciare scrivere, parlare, ed ognuno pensare a suo modo; ed un’altra da
Francesco imperatore d’Austria, che gli diceva di tenersi saldo all’amicizia
dell’impero, come avevano fatto i suoi maggiori, non concedere nulla, non
abbassare la dignità del principato, e se avesse mestieri di soldati austriaci
per sua difesa gliene manderebbe. Allo zio rispose che il suo popolo era
d’altra pasta che il francese, e voleva essere trattato in altro modo, non aver
bisogno di molto pensare, pensare egli per tutti. All’imperatore, che egli
manterrebbe l’antica amicizia, ma che essendo re indipendente non voleva
soggezione né aiuto di armi, bastandogli le sue, e che saprebbe fare da sé.
Questo rispose, ma in quella forma che si usa lassù, non come l’ho detto io
così alla buona. E questo primo tratto dipinge l’uomo, il quale per ismoderata
presunzione fa una buona e una cattiva risposta, rifiuta l’aiuto straniero, e
nega la libertà del pensiero nel suo popolo: e la stessa prosunzione fu la
cagione vera del molto male e del poco bene che egli fece in vita sua. Un’altra
lettera gli fu scritta, e lo so da buona fonte, perché gliela scrissi io
proprio, e la messi alla posta: gliela scrissi in versi, e gli dicevo: “Tu sei
giovane, sii ardito: chiama alle armi tutti gl’Italiani, scaccia i Tedeschi,
cedi al papa il tuo regno di Gerusalemme, e tu pigliati e metti sul capo la
corona d’Italia. Noi ti adorerem come un Dio, tu avrai un gran potere, e la più
bella fama nella storia”. Gli davo spronate da far galoppare una rozza. Non vi
messi il mio nome, e però non ebbi una risposta. Mi diceva Pier Silvestro
Leopardi che anch’egli scrissegli una lettera, ma in prosa, e lo consigliò a
dare una costituzione e farsi capo del movimento italiano. E forse gliene scrisse anche altri, ma io non
lo so e parlo soltanto del fatto mio.
Mi ricordo con che ansia
allora s’aspettava e si leggeva i giornali, con che caldezza si discuteva, con
quali speranze si cospirava, di quali rose era dipinto l’avvenire. E non pure a
me giovanotto, ma anche agli uomini di sonnolenta prudenza, e persino ai
lumaconi di corte pareva che il mondo avesse mutato faccia. I nuovi ordini
politici in Francia, l’agitazione degli spiriti in tutta Italia, la giovanezza
del re, le novità che egli faceva, il buon viso che mostrava agli uomini ed
alle idee liberali, tutto induceva a credere che un gran mutamento ci doveva
essere. Si diceva che Ferdinando era ambizioso, ma voleva la spinta, e parere
di essere sforzato. Né solamente i Napolitani ma gli altri Italiani miravano in
lui, e ne aspettavano mirabilia, per modo che dalle Marche e dalle Romagne
vennero alcuni messi a richiederlo d’aiuto, e che lo griderebbero Re d’Italia
se egli volesse col suo esercito combattere gli aborriti austriaci. Insomma
tutti nel regno e fuori si agitavano, e credevano che se pure scoppiasse la
rivoluzione egli se ne farebbe guidatore. Il ministro di polizia Nicola
Intonti, vedendo anch’egli ciò che tutti vedevano, prese a carezzare i liberali
che pochi mesi innanzi aveva fatti fucilare; e sia per sciocchezza che egli
reputò astuzia, sia per paura, o voglia di tenersi in sella, disse al re, che i
cervelli erano sossopra, che stava lì lì per scoppiare una rivoluzione come
quella di Parigi, che ei non sapeva come scongiurar la tempesta, e bisognava
pur concedere qualcosa. Un po’ di costituzione non era poi il diavolo:
maneggiata da un Re forte e da ministri abili saria piuttosto un giuoco che un
pericolo, e intanto cheterebbero quei bollori. E poi concedere una costituzione
per acquistare la corona d’Italia è un dare uno per avere mille, come fanno i
frati. Il Re già piegava: e immaginate le parole che dicevano le lingue
napoletane. “Sì, farà, non farà: oh, avremo la guardia nazionale e sarà
comandata da Florestano Pepe: il giovanotto ha un’ambizione grande, ed ecco
perché ama tanto i soldati.” Ma una bella mattina si seppe che la notte
l’Intonti era stato arrestato, messo in carrozza, e mandato fuori del regno; e
in suo luogo fatto il Del Carretto che lo aveva arrestato. Si disse venuto un
avviso da Austria che l’Intonti era un traditore, e un comando di cacciarlo
via; non si cedesse, né si mutasse nulla, ché già scendeva un esercito
austriaco nelle Romagne, e entrerebbe anche nel regno se fosse necessario.
Infatti gli Austriaci entrarono in Romagna; l’Europa protestò contro
l’occupazione, la Francia protestò anch’essa ed occupò Ancona: e così i popoli
erano scannati dagli Austriaci, canzonati dai Francesi, e ribenedetti dal nuovo
papa Gregorio XVI. Si tornò a la servitù che nel linguaggio furbesco della
politica si chiama ordine.
Cadute queste speranze
gli animi irritati facevano altri disegni, e si persuadevano che libertà si
piglia per forza non si acquista per dono di principe. Non si sperò più nel
Borbone, ma per un’illusione peggiore molti speravano nella Francia.
Ricordavano che da Francia ebbe Napoli libertà nel 1799, e poi nuovi principi,
e nuove leggi, e tutto quel bene che rimaneva non guasto dai Borboni; credevano
che se una rivoluzione si mantenesse per un mese, certamente la Francia
verrebbe ad aiutarla. Un mutamento lo volevano tutti, ma il concetto di quello
che si voleva non era uno e definito. I vecchi dicevano: piuttosto il turco che
i Borboni sempre mancatori di fede: alcuni desideravano un Murat; ma non
isperavano nulla; alcuni tristi carezzavano don Carlo principe di Capua,
fratello del Re e dieci volte peggiore di lui; gli onesti rimasti puri
desideravano una costituzione col meno tristo dei Borboni; noi altri giovani
repubblica, e in tutta Italia, in tutta Europa, in tutto il mondo. Il bisogno
di un mutamento fece nascere le tante cospirazioni nel regno, la mancanza di un
concetto comune le fece tutte fallire.
Nel 1832 pochi animosi
deliberarono di levarsi e gridare la costituzione di Francia: partirono da
Napoli e andarono chi in Terra di Lavoro, chi in Puglia, chi in Calabria per
cominciare in un medesimo tempo in diversi punti: il primo grido fu levato in
Palmi paesello presso Nola, da un frate laico di San Francesco, detto Angelo
Peluso, ma non gli fu risposto. Io avevo odorato qualcosa di queste pratiche,
ma non v’ero dentro: alcuni miei conoscenti mi gettavano spesso delle parole in
aria, che io tenevo spavalderie. Ma quando una mattina io vidi affisso a la
cantonata di Santa Maria la Nuova un cartello nel quale si prometteva la taglia
di trecento ducati a chi desse frate Angelo alla giustizia, allora io seppi del
movimento scoppiato e fallito9.
Furono tutti arrestati e condotti nelle prigioni di Santa Maria Apparente, dove
patirono crudeli torture. Legati con sottil funicella dalle mani e dai piedi e
taluno anche dai genitali, rimanevano così per molte ore gettati per terra: ed
ogni tanto entrava il commessario duca Luigi Morbillo ed il custode Cardellino,
che a gara li battevano con fiere nerbate, e facevano gettar loro addosso
secchie d’acqua fredda: sospendevano taluno per una fune da la volta, e sotto
vi bruciavano paglia umida. Vito Purcaro, il quale con suo padre era fra gli
arrestati, e fino al 1859 fu in carcere, mi diceva che a lui toccarono delle
nerbate dal duca, e che fu sospeso; ma il tormento maggiore l’ebbe dal fumo.
Questi rigori erano voluti dal ministro Del Carretto perché egli credeva che il
principe Carlo avesse intinto nella cospirazione, ma non v’era, né quegli
uomini l’avrebbero voluto con loro. Fu fatta la causa: alcuni condannati a
morte, e per grazia all’ergastolo, molti alla galera, e i pochi assoluti
rimasero lungamente in carcere. Poco prima del giudizio io andai nel carcere
per rendere servigio ad un prigioniere, il quale nelle stanze del custode mi
additò frate Angelo lì venuto, che volendo prendere dal braciere un carbone per
metterlo su la pipa, lo faceva a stenti, perché gli vidi le mani livide, e le
dita distorte e rattratte, e un cerchio rosso intorno ai polsi. Questo io vidi,
e non ho dimenticato più le mani storpie del frate. Fu un altro caso più grave,
perché avvenne nella milizia. Francesco Angellotti uffiziale, Cesare Rosaroll e
Vito Romano sotto-uffiziali de’ cavalleggieri della Guardia congiurarono di
uccidere il re in una rassegna. Furono uditi ragionare tra loro il Rosaroll e
il Romano, e furono denunziati dal sergente Paolillo: essi sentendosi scoperti
e perduti, per non avere tormenti, deliberarono d’uccidersi l’un l’altro con le
pistole: al colpo il Romano morì, il Rosaroll ferito sopravvisse, e fu
giudicato e dannato a morte con l’Angellotti. Si richiedeva un grande esempio
per la milizia: i due giovani condotti sino al patibolo, e sentita tutta
l’amarezza della morte, ebbero grazia del capo e furono mandati in galera.
L’Angellotti nel 1839 tentò fuggire dal bagno di Procida e fu ucciso. Cesare
Rosaroll nel 1848 moriva colonnello a Venezia combattendo per la causa
d’Italia. Mostrò tanta prodezza che fu chiamato l’Argante della Laguna: innanzi
al patibolo, e sul campo di battaglia ebbe cuor di lione: chi lo conobbe non
poté non amarlo, né può non ricordarsene con affetto10.
Le carceri, le torture,
le tradigioni e i soldati che percorrevano il regno in colonne mobili, non
impaurivano gli arditi, né impedivano si cospirasse. V’erano in Napoli alcuni
uomini generosi, colti, ed accorti, che amici tra loro, si strinsero come in un
gruppo, e divennero centro di tutte le cospirazioni. Essi erano il barone Carlo
Poerio, il marchese Luigi Dragonetti, Matteo d’Augustinis, Pier Silvestro
Leopardi. Gaetano Badolisani ed altri ancora, ai quali più tardi s’aggiunse
l’avvocato Francesco Paolo Bozzelli. Questo gruppo più volte sgominato per
arresti, esili e morti, sempre si ricompose per la mirabile destrezza del
Poerio, e tenne vivo il fuoco nel regno. Essi con l’autorità del nome, la forza
dell’ingegno e della parola guidavano l’opinione liberale, consigliavano ed
indirizzavano gli arditi che volevano venire a qualche fatto, governavano la
somma delle cose nel regno, e spedivano lettere e corrieri in tutti gli stati
d’Italia ed in Francia per pigliare accordi. Non ostante che l’Austria avesse
occupato la Romagna, si disse di venire ad una rivoluzione per cacciarnela, ed
ogni stato italiano acquistare libertà ed una costituzione propria, unirsi
tutti in una lega nazionale. Era designato per lo scoppio il giorno 10 agosto
1833, e il moto doveva cominciare in Abruzzo. Ma le lettere, i corrieri, le
parole che tra fuorusciti non si dicono a misura fecero sì che l’Austria da le
spie che aveva in Francia seppe quello doveva farsi in Italia; onde stette in
guardia per sé, ed avvertì gli altri governi, massime quello di Napoli. Furono
arrestati il Dragonetti, e il Leopardi abruzzesi, e parecchi altri: ma fatta la
causa, il solo Leopardi con altri sei fu bandito dal regno. Quella gran
macchina riuscì a questo fine per un accidente ignoto a molti, e che io dirò.
Il principe di Canosa, che allora era in Modena, fecesi ricordare a re
Ferdinando, ed ottenne permesso di ritornare nel regno, e giunse in Aquila dove
l’intendente Zurlo lo accolse a grande onore. Come il ministro Del Carretto
intese che la vecchia belva tornava ed era già in Solmona, si fece vivo, e
tanto si adoperò, che il Re mutava consiglio, e fu ordinato che il Canosa
tornasse indietro anche tra i gendarmi se ricusava, e quegli allora andossene a
Roma. Ora il Del Carretto per non far sentire la necessità del Canosa e dei
canosini rigori, fece disparire le pruove della vasta cospirazione, disse al Re
non esservi altro che parole, e che l’intendente Zurlo aveva dato corpo
all’ombra e riferito che in Abruzzo stava per divampare un incendio. Così
l’astuto ministro fece finire la cosa col mandare in esilio sette persone e il
Dragonetti al confine, e fu lodato dai liberali: il Zurlo fu traslocato. Il Del
Carretto era più furbo del Canosa.
Questo accidente salvò
ancora una mano di giovani che avevano fatto uno strano proposito; avevano
pensato di fermare in via di Capodimonte la carrozza del Re, pigliar lui,
condurlo in una casa vicina, ed ivi con le buone o con le triste costringerlo a
ciò che essi volevano. Le armi, la casa, gli animi erano già preparati, ma
essendo per venire al fatto, furono denunziati, carcerati, trattati come matti,
e puniti leggermente. Vincenzo Granchi professore nella scuola di veterinaria
era capo di questi giovani, quasi tutti suoi scolari, Michelangelo Calafiore,
Luigi Caruso, Giuseppe Ferrara, Luigi Praino, Francesco de Francesco, e
Giuseppe Rizzo prete, tutti calabresi. Propositi di scolari che sarebbero stati
orrendamente puniti, se il Del Carretto non avesse dovuto mostrare al Re che
tutto era ordine e tranquillità, e che a la sua vigilanza si doveva un tanto
bene.
Sul finire del 1832
Maria Cristina di Savoia venne sposa a re Ferdinando. Questa buona e pia donna
fu consigliera di mitezza al marito, lo pregò ed ottenne che nessuna condanna
di morte fosse eseguita. “Punite,” ella gli diceva, “se per bene dello stato è
necessario punire, ma sangue no: con la morte voi potete perdere un’anima
immortale, con la vita può venire il pentimento”. E finché ella visse tutti i
condannati a morte furono aggraziati: dopo la sua morte cominciò il sangue, e
fu molto. Quando il Re nel 1848 scelse a suo nuovo confessore monsignore
Antonio de Simone, questi gli disse: “Con l’aiuto di Dio, voi, o Sire,
vincerete questa rivoluzione: ma ricordatevi le parole della santa Regina che
prega per voi in paradiso: punite sì, sangue no.” E il Re con le mani giunte
sul petto chinando il capo rispose: “Sangue no, lo prometto”. E mantenne la
parola: e pruova ne sono con altri io stesso che vivo e scrivo. Questo dialogo
me lo raccontava nel 1849 don Giovanni Palumbo allora parroco di Capodimonte,
il quale lo aveva udito da monsignore che lo raccontava. Maria Cristina
soccorritrice dei poveri, cortese ed amorevole con tutti, sollevò un poco
l’animo plebeo del re, lo corresse di alcuni bassi vizi, e fu cagione che la
reggia, stata sempre un bordello e allora una caserma, divenisse costumata.
Avvenente della persona era amata dal popolo, rispettata da tutti: fu molto
divota e donò a le chiese: i preti la mettevano in cielo, e poi che fu morta
sparsero che fece miracoli, e compilarono un processo, che io posseggo, per
dichiararla santa e canonizzarla.
Re Ferdinando, mi diceva
don Luigi Caterini suo maestro, per ingegno e per costume era il migliore tra i
suoi fratelli: eppure egli era ignorante, non leggeva mai libro, scriveva con
molti errori di ortografia. Egli, come il padre e come l’avo, non credeva virtù
in altri, ne beffava il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la
furbizia, chiunque sapesse leggere e scrivere era suo nemico ed ei lo chiamava pennaiuolo;
si circondò degli uomini più ignoranti e bestiali, non capì che ogni principato
non si sostiene con le sole armi, e che gli uomini d’ingegno e di virtù se non
sono con te, sono contro di te, e ti fanno una guerra lunga, e ti rovesciano.
Educato da bassi servitori di corte, che i Borboni sogliono tenere come i
fedeli amici e consiglieri, egli ne apprese due vizi propri del più feccioso
popolazzo, la bugia e la beffa. Le parole cortesi, le promesse, le strette di
mano erano per lui arti di bugia, perché voltava le spalle, e ghignando
ammiccava ai suoi, e diceva che il mondo vuol essere canzonato e un re deve
sapere meglio degli altri l’arte di canzonarlo. Non gli veniva innanzi un uomo
a cui non metteva un soprannome di beffa: a tutti gettava il motto pungente;
deliziavasi di frustare le gambe al cavalier Caracciolo della Castelluccia, e
di vederlo saltare, gridare, piangere, ed ei rideva degli scontorcimenti del
vecchio. Una volta beffò il duca di Bovino, ignorante ma dignitoso, che
adoperava il noi in vece dell’io; e questi osò dirgli: – Noi
veniamo in corte per rendere onore a Vostra Maestà: se dobbiamo essere beffati,
ci ritiriamo.” Egli allora: “O duca, non ti prender collera, ch’io ti voglio
bene, e scherzo”. Ma il duca non andò più a corte. Giunse a beffare sinanche il
proprio figliuolo ed erede del trono, e lo chiamò sempre Lasagnone11.
Questo vizio in un re è
codardia, perché non gli si può rispondere. Una volta che la regina Cristina
stava per sedere innanzi al pianoforte, egli tirò indietro la seggiola; ed al
suo riso, ella regalmente sdegnosa disse: “Credevo di aver sposato il re di
Napoli, non un lazzarone”. E veramente colui fu un re lazzaro, nato ed allevato
per esser tipo di lazzaro; uomo volgarissimo, avaro, superstizioso: si sentiva
dappoco, e credeva tutti gli altri dappochi: per lunga pratica di governo parve
accorto, ma era bassamente furbo: fedele solo alla moglie, tenero dei
figliuoli, costumato e modesto in casa, pessimo sul trono.
Secondavano il re i suoi
principali ministri. Francesco Saverio Del Carretto, ministro della polizia e
capo della gendarmeria, aveva in mano un immenso potere e lo esercitava con
arbitrio spaventevole. Nei giudizi criminali, nei piati civili, nelle contese
di famiglia, nel commercio, nell’istruzione, nell’amministrazione, metteva le
mani in tutto, e tutto rimescolava con insolenza gendarmesca. Operoso e destro,
non aveva alcuna fede, fu carbonaro, poi, ribenedetto, carezzava i liberali per
corromperli, lisciava le donne per usarne anche come spie. Nicola Santangelo
ministro dell’interno era un ometto gonfio di molta vanità, pratico di
faccende, amante di anticaglie delle quali formò un ricco e prezioso museo, era
in voce di ladro, ma non lasciò alcuna ricchezza. Il re sapeva questa voce e vi
scherzava: un dì salendo una scala, e venendogli dietro il Santangelo con altri
ministri, egli ponendosi le mani dietro l’abito disse: “Signori miei,
guardiamoci le sacche”. Il marchese d’Andrea, ministro delle finanze, per la
persona, il parlare, il sentire era un misto tra il pulcinella ed il prete.
Ogni mattina per salute dell’anima sua vestivasi di sacri paramenti, e
celebrava in casa sua una messa secca, cioè senza consacrazione. Risecava su
tutte le spese, non pagava nessuno, o al più tardi, e se uno andava a
chiedergli il suo, ci rispondeva con buffonerie, e poi gli cacciava in bocca un
pozzetto di cioccolatte: “Va, non andare in collera, addolcisciti la bocca”.
Ogni anno portava i risparmi al Re, che gli voleva gran bene, e lo chiamava papà,
e in buona coscienza si pigliava il sacchetto. Questi tre ministri
rappresentavano l’arbitrio, la prosunzione, l’avarizia di Ferdinando: ma un
altro ne aveva le chiavi del cuore, e le volgeva e rivolgeva a sua posta, il
suo confessore, monsignore Celestino Code, dell’ordine di Sant’Alfonso, che
tutto potépoté, tutto vendé con furba improntitudine di frate.
Questi era il Re, questi
i suoi ministri, che io vedevo lontani da me in alto, e ne sentivo parlare da
quelli che mi stavano intorno.