VI - Uno
sguardo intorno a me
Bisogna ora scendere giù
ed in mezzo al popolo dove io mi trovavo, e nella coscienza comune dove era la
cagione di tutto quello che si pensava, si diceva, e si faceva.
Le guerre che furono in
Italia al tempo di Napoleone I, e con esse i mutamenti di stato, di leggi, di
costumi, le nuove glorie, i nuovi dolori che ci straziarono, scossero
fortemente gl’Italiani, e ridestando in essi la vita, fecero nascere un nuovo
sentimento, che da prima fu vago, e non ebbe nome, poi venne determinandosi e
fu il sentimento nazionale. Esso in tutti i popoli vecchi come siamo noi
comincia dalla memoria del passato, e si manifesta prima nelle opere d’ingegno
degli uomini colti, poi nei fatti delle moltitudini. E le prime manifestazioni
di questo sentimento sono come talli che spuntano sul vecchio tronco, ed hanno
di necessità una forma antica che fa certa discordanza col nuovo; quindi nasce
un contrasto che dura fintanto che il nuovo non assorbisce il vecchio,
ritenendone le parti vere e necessario e ributtandone le false ed inutili.
Questo sentimento era dentro a tutti i pensieri e a le opere degl’italiani, i
quali nelle arti e nella lingua da prima, poi nelle scienze e nella politica
ristoravano l’antico e il proprio, e rifiutavano ogni elemento forestiero.
Necessariamente ci fu esagerazione, e quindi ci fu contrasto. Le dispute
letterarie e linguistiche, le discussioni filosofiche e politiche, le sette, le
cospirazioni e i tentativi di rivoluzione erano manifestazioni indeterminate di
quel sentimento nazionale, che dopo molti sforzi trovò la sua forma in cui ora
si spiega interamente. Gl’Italiani unirono prima le menti nei congressi
scientifici, poi le armi nella prima e sventurata guerra nazionale.
Questo sentimento in
Napoli si manifestava più particolarmente per quattro vie, che parevano
diverse, e pure menavano a lo stesso fine. Si manifestava nella lingua, che
Basilio Puoti a capo della sua scuola diceva dover essere schiettamente
italiana ed antica; nella filosofia, che Pasquale Galluppi rivendicava
all’Italia ormai stucca delle basse ciarlatanerie francesi; nelle frequenti
cospirazioni dirette da Carlo Poerio, le quali miravano tutte a rifare l’Italia
libera ed indipendente dallo straniero e nelle opere dello stesso re
Ferdinando, il quale non voleva armi tedesche né consigli di Francia, favoriva
le arti nel regno per non aver bisogno dell’Inghilterra, e volle piuttosto non
avere ferrovie che averle fatte con capitali forestieri. Questo abborrimento
d’ogni cosa forestiera, questo napolitanismo gretto e pettegolo era pure un
sentimento nazionale rappiccolito, così che il regno acquistò una certa
personalità che prima non avea.
Io dunque vedevo intorno
a me un gran muoversi ed ordinarsi di soldati, assistevo a gran dispute di
scolari nelle cose della filosofia e della lingua; udivo un gran parlare di
avvenimenti politici, un chiedere e dare novelle, e sentivo che una febbre
politica faceva battere molti cuori come il mio.
Dopo il 1830 nacque una
nidiata di giornali, che sebbene parlassero di sole cose letterarie, e
dicessero quello che potevan dire, pure ei si facevano intendere, erano pieni
di vita e di brio, e toccavano quella corda che in tutti rispondeva. Era moda
parlare d’Italia in ogni scritturella, si intende già l’Italia dei letterati: e
sebbene molti avessero la sacra parola pure al sommo della bocca, nondimeno
molti altri l’avevano in cuore. Si leggeva con ardore le istorie del Botta, e
si attendeva quella del Colletta, non v’era chi non parlasse delle Prigioni del
Pellico, ogni giovanotto sapeva a mente le poesie del Berchet: tutti
palpitavano a leggere l’Ettore Fieramosca del D’Azeglio; gli artisti
rappresentavano in diverso modo il campione d’Italia, e chi amava le armi si
faceva bello di possedere lame di spade e di pugnali su cui era scritto il
giorno e l’ora del duello di Barletta. Di Dante non vi dico nulla: era l’idolo
degli studiosi: egli rappresenta la grande idea della nostra nazionalità, egli
il pensiero, l’ingegno, la gloria, la lingua d’Italia. Ci era un altro idolo per
la moltitudine. Fino allora era stato peccato mortale il pur nominare
Napoleone, e di soppiatto girava un libretto intitolato Il prigioniero di
Sant’Elena, e di rincontro al frontespizio era un paesaggio, e tra due
alberi lo spazio bianco figurava il ritratto di Napoleone, che a prima vista
non si discerneva. Allora fu tolto l’interdetto, e di Napoleone si potépoté
parlare, e scrivere, e dirlo italiano, e averne ritratti, e ognuno ne volle in
casa sua un’immagine di gesso, o a stampa, o dipinta. Si ricordava che
quell’uomo aveva operato meraviglie, schiacciata l’Austria, dato a noi nuovo
codice e principe non codardo; vivevano ancora molti che avevano combattuto le
battaglie dell’impero, e le raccontavano; sicché i giornalisti non rifinivano
mai di scriverne, e Cesare Malpica aveva quasi una monomania napoleonica, e
sciorinava una serie di descrizioni di quelle grandi battaglie. Né questo
scrivere guerresco dava ombra, anzi piaceva al Re, che si teneva un
napoleoncino, e lasciava se ne sfogassero dopo tanti anni di silenzio, essendo
già passato il pericolo, Napoleone morto da un pezzo, e gli scrittori non altro
che parolai. Gli uomini di più tempo e cognizioni scrivevano nel Progresso,
opera periodica nella quale rimane una parte del nostro sapere in quegli anni.
Il ministro Santangelo faceva scrivere gli Annali Civili, opera non
ispregevole, ma scritta da uomini che piegavano la scienza alla volontà del
governo. In molte città di provincia si scrivevano altri giornali. La sostanza
di tutte quelle scritture era poca e magra, ma in mezzo alle cose anche frivole
appariva di tanto in tanto un lampo di amor patrio, un gran pensiero che non
poteva spiegarsi intero nella sua forma perché mancava la libertà, e veniva
fuori a squarci ed a pezzi.
Fra tanti che scrivevano
potevo scarabocchiare qualcosa anch’io: ma ero giovane, sapevo poco, avevo un
certo pudore, e dicevo fra me: “Stampare! farsi maestro agli altri! ma bisogna
avere il sacco pieno, e dir cose serie e non frasche!” E poi il revisore mi
faceva spavento: presentare uno scritto al revisore, e vederselo tagliare,
cancellare, guastare, mi pareva l’ultima vigliaccheria di questo mondo. Ho
fatto vari peccati in vita mia, e me ne pento; ma quello di sommettermi a un
revisore no, neppure una volta. Un amico lontano mi pregò di fargli stampare un
libro su la città di Sibari, e io dovetti assistere il revisore parroco
Giannattasio, il quale cassò queste parole “sacerdote dell’idolo” che erano
scritte, e ci messe queste altre “ministro dell’idolo”; cassò molte parti qua e
là, e cassò quanti “eziandio” vi erano, e scrisse “ancora”. Il re faceva
scrupolo, come ei diceva, a vedere Dio messo in una congiunzione. A quelle
correzioni io sentii una stizza, un furore che avrei menato le pugna e fatto
una rovina. I miei amici ridevano, e mi chiamavano ragazzo: essi col revisore
giuocavano d’astuzia, pigliavano giri larghi e parole generali, si
ravviluppavano in linguaggio tenebroso, e qui potet capere capiat: io
non lo sapevo fare, e mi rodevo perché volevo dire schietto e corto, ed essere
inteso da tutti. Per serbarmi l’unico bene che avevo, la libertà del pensiero,
mi tenevo chiuse le mie scritture, e le leggevo a pochissimi. Quelle scritture
poi non erano di latte e mele: figuratevi versi baldanzosi e terribili, lettere
amorose, politiche, critiche, sfuriate contro i tiranni, ed altre pazzie, le
quali dopo alcuni anni gettai tutte nel fuoco, e benedissi la paura che ebbi
del revisore, la quale mi fece un doppio bene, mi avvezzò a scrivere franco, e
non mi fece pubblicare quelle scritture che a diciotto anni mi parevano belle,
a ventidue me ne vergognavo.
Allora io credevo il
mondo una gabbia di matti, ed il matto ero io che non ci sapevo stare, non
avevo garbo a viverci, e rimanevo in un silenzio salvatico: onde se togli
pochissimi che mi volevano un po’ di bene, agli altri parevo piuttosto un
asino. Eppure spesso in vita mia ho avuto gusto a parere un asino, ed ho riso
di coloro che paiono di star sempre in iscena e declamare, parlano sempre e non
hanno tempo a pensare, e se sanno qualcosa te la sciupano persino con le
fantesche.
Tra quelli che mi
volevano bene era mia zia Carmela baronessa Sifanni, ed io ne volevo anche
molto a lei, sì perché ella era una buona donna e mi parlava sempre di mio
padre suo fratello, e perché faceva bei versi ed aveva un’anima gentile. Un
giorno ella mi disse: “Se tu non vuoi far l’avvocato, e tu nol fare; ma una via
l’hai a prendere per procacciarti uno stato: i tuoi studi sono belli e buoni,
ma non fruttano.” A tribunali libera me, Domine.” “Ma che pensi di
fare!” “Trarrò profitto dagli studi che mi sono sempre piaciuti, e farò il
letterato.” “È una povera professione e qui più povera che altrove.” “Mi
contento di esser povero.” “Senti, figliuolo, tu farai quello che vorrai, ma tu
non sai ancora quello che devi volere pel tuo meglio. Tu dovresti veder gente,
conversare, ascoltare, parlare, farti conoscere, studiare un altro gran libro,
che è il mondo, dove si trova sapere grande, e dove certamente troverai
un’occupazione. Ci vedrai sciocchezze ancora, e birbonate, e tutto quello che
vuoi, ma ricordati che la scienza è l’albero del bene e del male. Orsù, vieni
con me, che debbo rendere una visita, ti presenterò ad un signore che ti potrà
giovare.” “È un uomo dotto?” “È un uomo che sa vivere, ricco, molti amici, gran
casa, gran conversazione, pranzi, balli, buon cuore, buona famiglia, ci viene
mezzo Napoli: vedrai.”
Andammo adunque a casa
questo don Domenico, il quale ci ricevette con le braccia aperte e un fiume di
parole, chiamando: “Mariantonia” con un vocione sonoro. Uscì la moglie donna
Mariantonia, una grassona rugiadosa, butirosa, e contenta come una Pasqua, che
sdraiatasi sopra un sofà, e fattomi sedere vicino a lei cominciò, come se ci
conoscessimo da un pezzo, a dirmi tutti i fatti suoi, e a dimandarmi dei miei:
mi presentò le sue figliuole che avevano belle maniere, e due visi freschi e
grassocci come due crisomele; e mi disse che la prima andava pazza per la
musica, e la seconda per la poesia e leggeva sempre il Metastasio. Indi a poco
venne un prete grigio ma lindo, il quale era il cappellano di casa: poi
sopraggiunsero altre signore e signori, e la brigata diventò numerosa. Si parlò
della gran festa stata il giorno innanzi nella chiesa dei Pellegrini, della
bella comparita che vi facevano tanti fratelli vestiti col sacco rosso e coi
torchietti in mano, e del grande affaccendarsi di don Domenico che
nell’arciconfraternita era come la mestola nella pignatta: si parlò del Re che
allora viaggiava pel regno, ed era festeggiato dalle popolazioni; poi si parlò
di quel che tutti parlavano a quei giorni, della Malibran, mirabile cantatrice,
la quale la sera innanzi aveva cantato tanto divinamente nella Norma,
che una schiera di uomini invasati di quella dolcezza l’avevano accompagnata
dal teatro a casa con torchi accesi e gridando gli evviva.” Oh, signor
marchese,” disse don Domenico ad un signore, “fateci sentire la vostra poesia
su la Malibran, che mi dicono esser bellissima.” “Sì, sì, fateci questo
regalo,” dissero alcune signore. E il marchese senza farsi pregare due volte si
forbì le labbra, e recitò. Maria Malibran aveva mirabile voce e mirabile arte
di canto, e fra quante donne finora hanno cantato su i teatri non si ricorda
una maggiore di lei: ma io avevo la fanciullaggine di sdegnarmi che ad una cantatrice
si offrissero tanti onori, tante ricchezze, e tanti versi, e si lasciasse morir
di fame tanti generosi; e più mi sdegnavo pei versi che allora se ne fecero
tanti e tanto schiocchi; e io me la pigliavo con lei, e dicevo: “Se ella non
fosse una sciocca non permetterebbe questa profanazione della poesia.” Vedete
pazzia! I versi del marchese colmarono il sacco; e andato a casa tirai giù di
un fiato una satira contro i poeti lodatori delle cantatrici, che tosto fu
sparsa da un mio amico, e piacque perché era agra. Se n’è ita, e non mi ricordo
più che i primi tre versi:
O caste Muse, al
vostro santo ostello
Io vengo accusator di
gente vile
Che forma delle
lettere un bordello.
Un avvocato Gian
Domenico Lanzilli si sentì offeso, e mi rispose: io replicai più salato: si
offesero altri, e io ebbi brighe e parole. Per farmi paladino della poesia poco
mancò non fossi accoppato e fatto a pezzi dall’irritabile genia dei
verseggianti. Ci vollero gli anni ed i guai per cavarmi del capo quel ruzzo di
far versi. Tutto questo avvenne come in un bicchier d’acqua.
Le buone accoglienze e i
consigli di mia zia m’indussero a tornare più volte in quella casa la sera. Ivi
in una stanza si giocava a carte, in un’altra si chiacchierava, si sonava il
pianoforte, e quando c’erano alcune paia di fanciulle e giovinetti si ballava a
la lunga. Ci venivano signori e cavalieri, e magistrati, ed avvocati; e don
Domenico gonfio e inamidato si sbracciava ad accogliere tutti, conversava con
tutti, diceva piacevolezze a le fanciulle, adulazioni a le mamme, qualche motto
buffonesco ai giovanotti sotto voce, andava sempre attorno e smoccolava i lumi.
Donna Mariantonia o giocava a mediatore, o parlava di matrimoni, di doti,
d’amori, di camerieri, di Ciccillo, un suo figliuoletto di sette anni che per
voto fatto in una malattia l’avevano vestito da frate domenicano. Fra tante
persone io non trovavo con chi parlare, mi sentivo impacciato fra sconosciuti,
non sapevo il frasario della conversazione, temevo di dire spropositi o
goffaggini, e arrossivo a udire alcuni uomini che ne dicevano tanti con la
maggiore sicurezza del mondo: io non sapevo e non potevo parlare. E poi
prediche e teatri, confraternite ed intrighi amorosi, pranzi e speziali, giuoco
di carte e passeggiate in carrozza, sarti e pasticcieri, questi erano gli
argomenti di tutto il chiacchierio: or va e parla di queste cose uno che aveva
il capo come il mio. Rimanevo ingrognato ad ascoltare. Ma, e qualche fanciulla?
Le belle erano occupate, le brutte non mi tiravano: e poi io l’aveva il chiodo.
Don Domenico, non so
come, seppe di quella mia satira, e una sera tiratemi in un’altra stanza
segretamente volle udirla: il dabbenuomo se ne mostrò compiaciuto, e per darmi
una pruova del suo gradimento invitò mia zia e me a la cena e al pranzo del
prossimo Natale.
La vigilia di Natale
pare che sia il finimondo. Nelle piazze le cose da mangiare stanno gettate a
cataste e a montagne; i venditori mettono in mostra tutto quello che hanno e si
sgolano a gridare: i pescivendoli attaccano una figura di san Pasquale alla
sporta del pesce, e con la mano levando in alto un capitone lo mostrano
a tutti e gridano come ossessi: gente d’ogni condizione va, viene, compera,
porta, s’affanna: i zampognari suonano continuamente e t’assordano: chi
t’incontra per via ti dà il Buon Natale, e se è povero vuole la mancia: le
donnicciuole mettono in pegno le materasse per avere il pesce e le altre cose
richieste dalla santa giornata: insomma s’ha a mangiare e pigliare
un’indigestione in onore del santo bambino, e se mangi come gli altri giorni
non ci credi. Non pure nelle chiese, ma in ogni casa i fanciulli, le donne, gli
uomini devoti fanno il presepe: e lo faceva persino il Re con le sue mani a
Caserta, e correva molta gente a vederlo. Col presepe va la festa, i canti, gli
spari. Come se fosser poche le grida del giorno, per tutta la notte si ode lo
sparo di fuochi d’artifizio, che dai balconi si gettano su la via, non importa
se cadono in capo a qualche povero diavolo che passa digiuno. Una volta questi
mi parevano costumi barbari e avrei voluto distruggerli, oggi mi piacciono, e
so che sono antichissimi. I vecchi napoletani, come i romani, celebravano le
feste di Saturno nel mese di dicembre; celebravano il natale dell’anno che
incomincia dopo il solstizio d’inverno, il 25 dicembre che ha la notte più
lunga; e tra le vivande del sacro rito era l’anguilla, o il capitone, emblema
dell’anno che ritorna sopra sé stesso, erano i mustacciuoli che dicevano
mustacca, mustaccola, fatti di mosto, farina, e mele, e i sosamielli,
sesammeli, fatti di grani di sesamo e mele, ed in forma di cerchio o di serpe,
e più propri de’ napoletani perché greci.
Ora la festa è un misto
di pagano e di cristiano, di antico e di moderno: quel che v’è di barbaro non è
certamente l’antico.
In casa don Domenico ci
fu tutto quello che voleva la devozione e la ghiottoneria. Venti commensali
erano assisi intorno una ricchissima mensa carica di argenti, di cristalli, di
porcellane, di fiori: e ci erano altri due ancora: un pappagallo a cui la
morbidissima donna Mariantonia di tanto in tanto rispondeva cocò e
mandava qualcosa nel piattello; e un grosso cane barbone chiamato Fedele, che
stava col muso su le ginocchia di don Domenico, che gli gettava in aria qualche
boccone, e il cane lo chiappava. Dopo la cena che fu spanta, profusa, e condita
di bravi brindisi in versi e in prosa, si passò in un’altra stanza dove era il
presepe tutto splendente di ori, di argenti, e di ceri accesi che abbagliavano:
era una ricchezza antica della famiglia che don Domenico aveva accresciuta, e
la lasciava in anteparte al suo Ciccillo, il quale già se ne teneva
padrone e lo mostrava a tutti come roba sua. Intanto essendo già vicina la
mezzanotte, si disse da molte voci: “la processione, la processione” e ci toccò
metterci in ordine. Innanzi andava una coppia di zampognari che sonavano come
se volessero scoppiare; poi a due a due un cavaliere ed una dama coi torchi
accesi in mano, ultimo Ciccillo con una cotta indosso portava in una vaga
cestellina il bambino: a fianco a lui il cappellano rosso in viso come un
peperone apriva una gran bocca ed intonava il Te Deum, a cui tutti
rispondevano. Mentre in processione si scendeva le scale, si girava lentamente
nel vasto cortile, e si usciva anche fuori la via, alcuni giovanotti sparavano
fuochi d’artifizio, e da tutte le finestre vicine si cacciavano i lumi e si
rispondeva al canto. Passata la mezzanotte, cominciava il giorno del Natale
secondo i canoni, e si può dir messa: onde il prete si vestì dei paramenti e
disse una messa nella cappella che era nella stessa stanza del presepe; ma il
poveruomo avendo la lingua grossa e gli occhi piccini rappallottolava gli oremus,
e donna Mariantonia con un frequente muovere di sopracciglia se ne mostrava
scandalezzata. Bisognava dirne tre, ed egli non poteva finirne una: se ne cavò
a la meglio, e le altre due se le udì chi volle quando fu levato il sole: io ne
ebbi abbastanza. Finita adunque la messa, ciascuno andò a casa a dormire; e
l’altro dì, secondo l’usanza, si tornò al pranzo che fu anche sfoggiato e lunghissimo.
Un giorno si andò ad una
scampagnata sul Vomere, ed io celiai più dell’usato con la letteratina che
aveva una parlantina speditissima. Ma come entrammo nella villa Ricciardi, e ci
venne scontro Urbano Lampredi, vecchio venerando per fama d’ingegno e di studi,
ed ivi ospitato, io piantai la fanciulla e diedi il braccio al buon vecchio.
Egli mi fece molte dimande dell’esser mio, dei miei studi, e mi disse parole
amorevoli, e quando udì il mio nome, mi dimandò: “N’êtes-vous pas un
septembriseur?” e rise piacevolmente. Stetti un paio d’ore accanto a
lui, udendolo parlare e recitare versi, e raccontare aneddoti del Monti e del
Foscolo. Quando tornai a la fanciulla la trovai fieramente sdegnata, e in quel
giorno non mi volse più la parola.
In questo mondo, dove
mia zia mi ripeteva che rimanessi e ci troverei il buono, io non potevo più
stare perch’io ero noiato e indispettito. “Oh questo che tu ci mostri non era
poi tutto il mondo: ma uno spicchio di esso, e forse non il più bello; in una
città sì grande dovevano essere altre brigate, dove c’era da apprendere.” Forse
c’erano, ma io non le so: questa ed altre poche simili a questa io vidi allora,
e ve l’ho dipinta come la vidi. Uomini non tristi ma inetti, donne non brutte
ma insipide, giovani frollati e ignoranti che non parlavano d’altro che di
femmine di vestiti d’impieghi, nobili goffi come servitori, qualche magistrato
che sapeva più di gastronomia che di leggi; non parlar mai di cose pubbliche,
né di arti, o di scienze, o di lettere; pettegolezzi, maldicenze, divozioni:
questa era la commedia nella quale io dovevo entrare a farvi la mia parte. Mi
venne meno la pazienza, mi vennero meno anche i vestiti, non v’andai più, e
presi la via dell’università.