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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE PRIMA (1813-1849)
    • VII - L’università
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VII - L’università

La coscienza mi diceva: “Tu sei pure un ignorante; gli studi li hai fatti in fretta; scienze non ne conosci, di filosofia ricordi soltanto che cosa è idea, nel latino sei corto, in italiano non scrivi abbastanza corretto: bisogna rifarti da capo. Andiamo dunque nell’università, dove ci ha tanti professori, che insegnano tante belle cose. Bisogna acquistare buone e sode cognizioni, e poi lasciamo fare a Dio. Egli mi aprirà una via per viverci onorato. Si fanno tanti concorsi: se io ne vincerò uno, sarò professore anch’io, e avrò un ufficio per merito, non per favori e raccomandazioni”. Andai dunque nell’università, e presi ad ascoltare vari professori.

L’università di Napoli è stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi ci vanno. Chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami ed era approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre paura di ragunare in un solo luogo le molte migliaia di giovani che da tutto il regno convenivano in Napoli a studiare, e però non li obbligava ad assistere ai corsi, e li lasciava sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’università come a pompa, perché c’era stata sempre, e non altro che un’officina da sfornare dottori. Questo produceva un male, ed un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano ne s’affratellavano fra loro; i professori per la rarità degli scolari si svogliavano benché valenti, e se togli qualcuno di molto grido, gli altri leggevano ai banchi; l’università non ebbe gran nome. Il bene, che a mio credere avanzava il male, era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza non s’imparava dal professore ufficiale che insegnava come volevano i superiori, ma da maestri privati che in casa loro insegnavano come volevano: metodo, libri, sistema, ognuno aveva il suo, e i giovani correvano dai migliori e di maggior grido. Ma i più utili tra questi professori privati erano quelli che avevano pochi scolari, coi quali pigliavano dimestichezza e affezione, e però insegnavano liberamente e senza paura, e quasi in conversazione amichevole. Molti valenti uomini trascurati o mal visti dal governo fecero i professori privati, educando i giovani a nobili sensi: ed uno di essi diceva: “Mi perseguiti pure il governo, purché mi lasci insegnare, che io insegnando gli fo la maggiore guerra, formo voi altri giovani che un giorno sarete colti, onesti, generosi, e suoi nemici.” È vero che per insegnare ci voleva il permesso della polizia, ma zitto zitto se ne faceva anche senza per un otto o dieci giovani che non parevano. Questo libero insegnamento ci ha salvati dall’ultima servitù, dalla servitù del pensiero, ed ha favorito l’educazione dei grandi e liberi pensatori che noi avemmo in ogni tempo.

Tra i professori ce n’erano alcuni che avrebbero onorato ogni università di Europa, come Pasquale Galluppi che insegnava filosofia, e Nicola Nicolini diritto penale: c’erano Vincenzo Lanza principe de’ medici napoletani, Costantino Dimidri12 valente in anatomia e di mirabile eloquenza, Francesco Avellino dottissimo di molto sapere e giurista profondo; ed altri molti, ciascuno bravo nella sua scienza. C’era qualche tristo codardo: c’era ancora qualche dabbenuomo che sapeva solo una cosa, e nel resto era ignorante. Sentite che mi accadde un giorno con un professore che sapeva bene una cosa sola: e non lo dico per male. Dopo la lezione uscimmo insieme, ed ei non sapendo bene le vie mi pregò che lo accompagnassi al Carmine. Quando giungemmo presso la piazza del Mercato, io così per un dire gli dissi: “Quante cose ricorda questo luogo!” “E che ricorda,” rispos’egli, “gl’impiccati?” “Qui in mezzo alle due fontane fu decapitato Corradino, e il suo cugino.” “Era un bandito questo Corradino?” “Oh no, era figlio del re Corrado, erede del trono di Napoli, allora occupato da Carlo d’Angiò, che lo fece prigione e gli mozzò il capo. Era un giovanetto di sedici anni, e il cugino ne aveva diciassette.” “Che crudeltà contro due fanciulli! E pure Carlo era fratello di san Luigi Gonzaga!” “No, Luigi IX di Francia.” “E nessuno diede un cazzotto a quel birbante di Carlo?” “Glielo diedero i siciliani al Vespro.” E troncai un discorso che mi aveva fatto salire le vampe al viso. Eppure il professore sapeva benissimo il latino, ed era mio maestro, e si faceva voler bene.

Raramente i professori erano scelti per meriti; ordinariamente per concorso, specie di giuoco che non mai il migliore, a cui gli uomini riputati non si cimentano, ma vi si arrischiano i giovani che non hanno che perdere, e chi per avventura sa bene quell’una cosa che è dimandata vince gli altri che ne sanno molte. E poi il governo circondato sempre da spie, da adulatori, e da quelli che usano il sapere a tristizie, non conosceva i valori onesti, o se li conosceva li aveva sospetti per politiche opinioni, e li escludeva anche dai concorsi: onde spesse volte le cattedre erano date a sfacciati ciurmadori. Udii dallo stesso Galluppi raccontare il modo ond’egli fu nominato professore. Il barone Pasquale Galluppi di Tropea, cittadella di Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le cure della famiglia e le noie dell’uffizio non lo toglievano da’ suoi studi filosofici, nei quali egli eraassorto e si profondava tanto da non udire il diavoleto che gli facevano intorno un vespaio di fanciulli. Scrisse un Saggio critico su le conoscenze umane, che stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia, e levò alto il nome del Galluppi in Francia e in Germania. Essendo vacante la cattedra di filosofia nell’università, gli amici lo consigliarono e la sua coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò dal ministro dell’interno, gli presentò il libro, e chiese la cattedra. Il ministro che non lo conosceva rispose: “Ben: vi cimenterete all’esame.” Ed egli: “E cu c’è a Napoli che po’ esaminari Pasquale Galluppi?” Il ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò con un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli amici come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva detto non ci essere in Napoli chi potesse esaminarlo. Ci fu qualcuno che dimandò. “Fosse egli il Galluppi?” “Non ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato.” “È desso, è il Galluppi, il primo filosofo vivente d’Italia”. Sua Eccellenza cadde dalle nuvole: s’informò da altri, udì lo stesso, e lo pregarono desse quest’ornamento all’università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato bene se egli avesse qualche vecchio peccato politico e trovato netto, fu senz’altro nominato professore quand’egli non se l’aspettava né ci pensava più. Con che festa noi giovani e con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con l’accento tagliente del suo dialetto! Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era una forza di verità nuove, ma l’ingegno era grande, e il cuore quanto l’ingegno. Che buon vecchio! quanto amava i giovani!

Un altro filosofo era in Napoli, e gagliardo forse più del Galluppi, che fu Ottavio Colecchi; ma perché propugnatore delle dottrine del Kant, perché di animo fiero e sdegnoso, e di libere opinioni, non ebbe mai uffizio, insegnò a pochi e non levò sì altro grido. In Italia non è conosciuto, perché dura la vecchia colpa di non curare i nostri: ma i suoi discepoli, fra i quali Bertrando Spaventa e Camillo Caracciolo marchese di Bella, farebbero opera buona a la scienza e a la patria a pubblicare tutti gli scritti di quel severo intelletto che disprezzava ogni cosa al mondo, e diceva di non pregiarne altro che due, la virtù ed il sapere.

Io udivo molti professori, tra gli altri il Dimidri che mi fece venire voglia di studiare medicina, ma non i cadaveri, né il puzzo del teatro anatomico, sì bene i modi fecciosi e bestiali dei giovani che li manipolavano mi disgustarono, ed avvicinai e presi ad amare il canonico Michele Bianchi professore di letteratura italiana. Eravamo ascoltatori soliti un quattro o cinque giovani, tra i quali era Giovanni Calvello, ora professore di storia antica, e fin da allora uomo di animo e di costume antico, ed amico mio carissimo. Il Bianchi ragionava con noi, come con amici, e soltanto quando ci capitava qualche sconosciuto faceva un po’ di diceria distesa. Non usava come gli altri professori, che come scoccava la mezz’ora rompevano a mezzo il discorso, ma s’intratteneva con noi lungamente, e ci diceva molte belle cose, e finita la lezione lo accompagnavamo per buon tratto di via, e seguitavamo a ragionare. Quando ero io solo con lui, egli usciva a la politica, parlava de’ tempi trascorsi, di molti uomini, di molti avvenimenti, e ne giudicava con senno severo: e se parlava di quella che egli chiamavacasta pretesca” non sapeva frenare lo sdegno e diceva: “È nemica di Dio e di Cesare: fu, è, e sarà principale cagione della servitù d’Italia. Credete a me, che conosco quali visi si nascondono sotto quelle maschere”. Era egli un uomo che bisognava guardare da vicino, e allora lo stimavi e lo amavi. Poco eloquente, di maniere modeste, un po’ pedante ma dotto assai, liberi sensi, gran bontà d’animo. Ogni volta che mi partivo da lui aveva imparata qualche cosa: però la sua memoria mi è cara ed onorata. Si piacque molto e mi lodò di due miei scritti, li fece leggere a monsignore Colangelo presidente dell’istruzione pubblica, e gli disse di propormi a professore in un collegio. Monsignore, che era come un ispido cinghiale, volle vedermi, mi accolse bene, e mi propose al ministro, il quale rispose che le cattedre si davano per esame. “E voi farete l’esame,” disse il canonico,”e per cattedra superiore.” Fui punto sul vivo, e mi messi a studiare di forza: ripresi il greco, e mi posi a battere sopra Omero, non avevo per mano altri libri che greci e latini, e lessi Tito Livio due volte, e spesso leggendolo mi dovevo asciugare le lagrime. Senza maestri, con pochi libri, che importava? avevo la febbre dello studio, e vent’anni di vita.

“Si,” mi direte, “ma come campavi tu allora, povero giovanotto?” Oh, non vi ho detto che io fidava in Dio? Tra i giovani studenti c’eran di quelli che avevano bisogno del latino per gli esami, ed io li addestrava nel latino; c’eran di quelli che non sapevano scrivere correttamente in italiano, ed io li faceva scrivere: insegnavo in una scuola femminile, e in alcune case particolari. Erano quattrinelli che guadagnavo, ma mi bastavano, e ci campavo col mio fratello Giovanni, il quale studiava le matematiche e il disegno per divenire architetto, ed era sempre allegro, e per la casa andava canterellando le arie de la Sonnambula, e mi faceva trovar pronto quando tornava a casa il rosto di pecoro che era il nostro cibo consueto. Con che gusto, con che gioia, con che risate quel mio fratello ed io facevamo il nostro pranzo! Un giorno che io rilessi d’un fiato le Georgiche di Virgilio, e poi mangiammo due piccioni che ci furono regalati, lo ricorderò sempre quel giorno felice, io mi sentii più grande d’un imperatore, e cenai proprio in Apollo. Con le Georgiche in capo, e un piccione in corpo chi stava meglio di me? E poi io avevo veduto una fanciulla che aveva due occhi come due stelle, e sebbene non l’avessi più riveduta, io n’ero innamorato e avevo sempre innanzi alla mente quegli occhi e quella persona gentile. Oh chi era? dov’era? Io non lo sapevo, ma io l’amava.

A vent’anni quando si studia e si ama e si ama con tanto ardore è pur bella la vita! Con la mente ed il cuore così pieni io avevo pochissimi bisogni e mi credevo più ricco e maggiore di tutti i maggiori del mondo. Mentre nell’università il Bianchi leggeva agli scanni e a quattro studenti, il marchese Basilio Puoti aveva in sua casa una fiorita scuola di lettere italiane, dove convenivano oltre dugento giovani. Prima del 1820 quando s’ebbe a fare il professore di letteratura italiana nell’università, si presentarono al concorso parecchi, far i quali il Puoti, e il poeta Gabriele Rossetti. Il tema fu: scrivere un commento italiano ad un sonetto del Petrarca, ed una dissertazione latina sopra non so qual secolo della nostra letteratura. La benedetta dissertazione latina decise del merito. Il Bianchi professore in un collegio, avendo abito e facilità di scrivere in latino, poté dire agevolmente tutto quello che sapeva, dove che gli altri più o meno impacciati dalla lingua dissero meno di quello che sapevano: onde giudicati imparzialmente su gli scritti, il Bianchi ebbe il primo luogo, e l’ultimo toccò al povero Rossetti, che fece qualche errore di grammatica, tutto che avesse quell’ingegno e quella beata vena di poesia. Tutto questo me lo narrava il Bianchi, e dimostra come nel concorso non apparisce il migliore.

Il Puoti escluso dall’uffizio pubblico, si messe privatamente a fare quel bene che si era proposto, a ristorare la lingua già guasta e imbarbarita. Voi sapete che quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto; e che quando gli ritorna il pensiero e il sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all’antico. Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferrruccio parlava. Sapete infine che parecchi valenti uomini si diedero a ristorare lo studio della lingua, e fecero opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancor credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale. Ora tra questi valenti uomini fu il marchese Basilio Puoti, il quale lasciato il titolo, la primogenitura, e il governo della famiglia al suo fratello minore, si messe ad insegnare gratuitamente le lettere e la lingua d’Italia. Eg1i non era uno scrittore, non aveva concetti nuovi e grandi, e arte di tirare a sé i leggitori; ma era un solenne maestro, aveva giudizio rotto, gusto squisito, amore grande agli studi ed ai giovani: era cote non rasoio. Eppure se avesse scritto come ei parlava, con quei motti, con quei frizzi, quelle ire subite, e poi quell’abbandono e quella bonarietà tutta sua, sarebbe stato piacevolissimo: ma la troppa arte lo impacciava, lo rendeva un altro uomo quand’ei scriveva, e non ti pareva più napoletano. Lo deridevano come purista e cruscante, ed egli sprezzò anche la beffa che pochi uomini sogliono sprezzare, si circondò di giovani che lo amarono assai, e fondò una scuola che ebbe gran nome e fece gran bene. Quelli stessi che prima lo sfatavano, cominciarono a vergognarsi del sozzo ed infranciosato scrivere, riconobbero la necessità di correggersi, accettarono una parte delle sue dottrine: ed egli profittando della costoro opposizione andò temperando il suo rigore. Così avviene di ogni dottrina che prima nasce direi quasi angolosa ed immaneggiabile; e poi a poco a poco va accodandosi a la necessità dei tempi. Ci è ancora chi lo chiama pedante: eppure la pedanteria è un santo rigorismo in mezzo alla licenza, ed ha un profondo significato nella storia del pensiero. Per me io credo ed affermo che la sua scuola in fatto di lingua ne seppe più che ogni altra in Italia, e che tra noi se vi fu e vi è gusto di buona lingua, tutti direttamente o indirettamente ne sono obbligati a lui. Rarissimo uomo, chi lo conobbe da vicino ne amerà sempre la memoria.

Mi ricorda la prima volta che lo vidi. Senza raccomandazioni me gli presentai così a la buona, tirato da la fama della sua bontà e del suo sapere.

Lo trovai fra una dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v’era il suo letto dietro un paravento. “So che amate i giovani,” io gli dissi, “ed io desidero farmi amare da voi.” “Bravo, giovanotto; se vuoi studiare saremo amici. Vediamo quello che sai: spiegami un po’ degli Uffici di Cicerone”. Spiegai, risposi a varie dimande: “Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino, e una lettura d’un trecentista. Nulla dies sine linea. E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse da pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il francese: pieno di motti e di lepori, facile all’ira, facilmente placabile, ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza dare sospetto a chi reggeva. Una volta mi disse: “Pare piccola cosa quella che io fo, ma quando sarò morto la intenderete. Se io vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente, e avere in cuore la patria nostra. Tu vedrai altri tempi, e spero farai intendere ciò che io ho tentato di fare, e non dimenticherai l’amico della tua giovinezza”. Degli scolari del Puoti alcuni sono rimasti fedeli alle sue dottrine ed hanno coltivati studi grammaticali, come il Rodinò, il Melga, il Fabbricatore; altri di maggiore ingegno, e di più larghi studi, le hanno interamente abbandonate, come Francesco de Sanctis ed Angelo Camillo de Meis, in quella guisa medesima che si abbandona i primi elementi in ogni disciplina e si procede innanzi nel vasto campo della scienza. Questi che io chiamerò i maggiori scolari del Puoti ne hanno svolte e dilargate le dottrine, le quali anche nella loro primitiva strettezza sono vere e necessarie a tutti. L’opera del Puoti rimane e rimarrà sebbene trasformata dai suoi discepoli che vivono una vita novella, e non sono più napoletani ma italiani.




12 La fortuna aveva dato tutto al Dimidri, bell’aspetto, bella parola, molta fama, grossi guadagni nella sua professione. Ebbene egli, la moglie, e il figliuolo vissero una vita amara e disperata, e morirono pel giucco delle carte! (N.d.A.)






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