La coscienza mi diceva:
“Tu sei pure un ignorante; gli studi li hai fatti in fretta; scienze non ne
conosci, di filosofia ricordi soltanto che cosa è idea, nel latino sei corto,
in italiano non scrivi abbastanza corretto: bisogna rifarti da capo. Andiamo
dunque nell’università, dove ci ha tanti professori, che insegnano tante belle
cose. Bisogna acquistare buone e sode cognizioni, e poi lasciamo fare a Dio.
Egli mi aprirà una via per viverci onorato. Si fanno tanti concorsi: se io ne
vincerò uno, sarò professore anch’io, e avrò un ufficio per merito, non per
favori e raccomandazioni”. Andai dunque nell’università, e presi ad ascoltare
vari professori.
L’università di Napoli è
stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti
sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi
ci vanno. Chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami ed era
approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre paura di ragunare in un
solo luogo le molte migliaia di giovani che da tutto il regno convenivano in
Napoli a studiare, e però non li obbligava ad assistere ai corsi, e li lasciava
sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’università come a pompa, perché
c’era stata sempre, e non altro che un’officina da sfornare dottori. Questo
produceva un male, ed un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano ne
s’affratellavano fra loro; i professori per la rarità degli scolari si
svogliavano benché valenti, e se togli qualcuno di molto grido, gli altri
leggevano ai banchi; l’università non ebbe gran nome. Il bene, che a mio
credere avanzava il male, era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza
non s’imparava dal professore ufficiale che insegnava come volevano i
superiori, ma da maestri privati che in casa loro insegnavano come volevano:
metodo, libri, sistema, ognuno aveva il suo, e i giovani correvano dai migliori
e di maggior grido. Ma i più utili tra questi professori privati erano quelli
che avevano pochi scolari, coi quali pigliavano dimestichezza e affezione, e
però insegnavano liberamente e senza paura, e quasi in conversazione
amichevole. Molti valenti uomini trascurati o mal visti dal governo fecero i
professori privati, educando i giovani a nobili sensi: ed uno di essi diceva:
“Mi perseguiti pure il governo, purché mi lasci insegnare, che io insegnando
gli fo la maggiore guerra, formo voi altri giovani che un giorno sarete colti,
onesti, generosi, e suoi nemici.” È vero che per insegnare ci voleva il
permesso della polizia, ma zitto zitto se ne faceva anche senza per un otto o
dieci giovani che non parevano. Questo libero insegnamento ci ha salvati
dall’ultima servitù, dalla servitù del pensiero, ed ha favorito l’educazione
dei grandi e liberi pensatori che noi avemmo in ogni tempo.
Tra i professori ce
n’erano alcuni che avrebbero onorato ogni università di Europa, come Pasquale
Galluppi che insegnava filosofia, e Nicola Nicolini diritto penale: c’erano
Vincenzo Lanza principe de’ medici napoletani, Costantino Dimidri12 valente in anatomia e di mirabile
eloquenza, Francesco Avellino dottissimo di molto sapere e giurista profondo;
ed altri molti, ciascuno bravo nella sua scienza. C’era qualche tristo codardo:
c’era ancora qualche dabbenuomo che sapeva solo una cosa, e nel resto era
ignorante. Sentite che mi accadde un giorno con un professore che sapeva bene
una cosa sola: e non lo dico per male. Dopo la lezione uscimmo insieme, ed ei
non sapendo bene le vie mi pregò che lo accompagnassi al Carmine. Quando
giungemmo presso la piazza del Mercato, io così per un dire gli dissi: “Quante
cose ricorda questo luogo!” “E che ricorda,” rispos’egli, “gl’impiccati?” “Qui
in mezzo alle due fontane fu decapitato Corradino, e il suo cugino.” “Era un
bandito questo Corradino?” “Oh no, era figlio del re Corrado, erede del trono
di Napoli, allora occupato da Carlo d’Angiò, che lo fece prigione e gli mozzò
il capo. Era un giovanetto di sedici anni, e il cugino ne aveva diciassette.”
“Che crudeltà contro due fanciulli! E pure Carlo era fratello di san Luigi
Gonzaga!” “No, Luigi IX di Francia.” “E nessuno diede un cazzotto a quel
birbante di Carlo?” “Glielo diedero i siciliani al Vespro.” E troncai un
discorso che mi aveva fatto salire le vampe al viso. Eppure il professore
sapeva benissimo il latino, ed era mio maestro, e si faceva voler bene.
Raramente i professori
erano scelti per meriti; ordinariamente per concorso, specie di giuoco che non
dà mai il migliore, a cui gli uomini riputati non si cimentano, ma vi si
arrischiano i giovani che non hanno che perdere, e chi per avventura sa bene
quell’una cosa che è dimandata vince gli altri che ne sanno molte. E poi il
governo circondato sempre da spie, da adulatori, e da quelli che usano il
sapere a tristizie, non conosceva i valori onesti, o se li conosceva li aveva
sospetti per politiche opinioni, e li escludeva anche dai concorsi: onde spesse
volte le cattedre erano date a sfacciati ciurmadori. Udii dallo stesso Galluppi
raccontare il modo ond’egli fu nominato professore. Il barone Pasquale Galluppi
di Tropea, cittadella di Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici
figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le cure della famiglia e
le noie dell’uffizio non lo toglievano da’ suoi studi filosofici, nei quali
egli era sì assorto e si profondava tanto da non udire il diavoleto che gli
facevano intorno un vespaio di fanciulli. Scrisse un Saggio critico su le
conoscenze umane, che stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia, e
levò alto il nome del Galluppi in Francia e in Germania. Essendo vacante la
cattedra di filosofia nell’università, gli amici lo consigliarono e la sua
coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò dal ministro
dell’interno, gli presentò il libro, e chiese la cattedra. Il ministro che non
lo conosceva rispose: “Ben: vi cimenterete all’esame.” Ed egli: “E cu c’è a
Napoli che po’ esaminari Pasquale Galluppi?” Il ministro si strinse nelle
spalle, e l’accomiatò con un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli
amici come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la
cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva detto non ci essere in Napoli chi
potesse esaminarlo. Ci fu qualcuno che dimandò. “Fosse egli il Galluppi?” “Non
ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato.” “È desso, è il Galluppi,
il primo filosofo vivente d’Italia”. Sua Eccellenza cadde dalle nuvole:
s’informò da altri, udì lo stesso, e lo pregarono desse quest’ornamento
all’università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato bene se egli avesse
qualche vecchio peccato politico e trovato netto, fu senz’altro nominato
professore quand’egli non se l’aspettava né ci pensava più. Con che festa noi
giovani e con quanta calca tutte le colte persone si andò a udire la sua
prolusione, e poi le lezioni che egli appollaiato su la cattedra dettava con
l’accento tagliente del suo dialetto! Ci sono sempre i maldicenti, i quali
dicevano che egli era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era una
forza di verità nuove, ma l’ingegno era grande, e il cuore quanto l’ingegno. Che
buon vecchio! quanto amava i giovani!
Un altro filosofo era in
Napoli, e gagliardo forse più del Galluppi, che fu Ottavio Colecchi; ma perché
propugnatore delle dottrine del Kant, perché di animo fiero e sdegnoso, e di
libere opinioni, non ebbe mai uffizio, insegnò a pochi e non levò sì altro
grido. In Italia non è conosciuto, perché dura la vecchia colpa di non curare i
nostri: ma i suoi discepoli, fra i quali Bertrando Spaventa e Camillo
Caracciolo marchese di Bella, farebbero opera buona a la scienza e a la patria
a pubblicare tutti gli scritti di quel severo intelletto che disprezzava ogni
cosa al mondo, e diceva di non pregiarne altro che due, la virtù ed il sapere.
Io udivo molti
professori, tra gli altri il Dimidri che mi fece venire voglia di studiare
medicina, ma non i cadaveri, né il puzzo del teatro anatomico, sì bene i modi
fecciosi e bestiali dei giovani che li manipolavano mi disgustarono, ed
avvicinai e presi ad amare il canonico Michele Bianchi professore di
letteratura italiana. Eravamo ascoltatori soliti un quattro o cinque giovani,
tra i quali era Giovanni Calvello, ora professore di storia antica, e fin da
allora uomo di animo e di costume antico, ed amico mio carissimo. Il Bianchi
ragionava con noi, come con amici, e soltanto quando ci capitava qualche
sconosciuto faceva un po’ di diceria distesa. Non usava come gli altri
professori, che come scoccava la mezz’ora rompevano a mezzo il discorso, ma
s’intratteneva con noi lungamente, e ci diceva molte belle cose, e finita la
lezione lo accompagnavamo per buon tratto di via, e seguitavamo a ragionare.
Quando ero io solo con lui, egli usciva a la politica, parlava de’ tempi
trascorsi, di molti uomini, di molti avvenimenti, e ne giudicava con senno
severo: e se parlava di quella che egli chiamava “casta pretesca” non sapeva
frenare lo sdegno e diceva: “È nemica di Dio e di Cesare: fu, è, e sarà
principale cagione della servitù d’Italia. Credete a me, che conosco quali visi
si nascondono sotto quelle maschere”. Era egli un uomo che bisognava guardare
da vicino, e allora lo stimavi e lo amavi. Poco eloquente, di maniere modeste,
un po’ pedante ma dotto assai, liberi sensi, gran bontà d’animo. Ogni volta che
mi partivo da lui aveva imparata qualche cosa: però la sua memoria mi è cara ed
onorata. Si piacque molto e mi lodò di due miei scritti, li fece leggere a
monsignore Colangelo presidente dell’istruzione pubblica, e gli disse di
propormi a professore in un collegio. Monsignore, che era come un ispido
cinghiale, volle vedermi, mi accolse bene, e mi propose al ministro, il quale
rispose che le cattedre si davano per esame. “E voi farete l’esame,” disse il
canonico,”e per cattedra superiore.” Fui punto sul vivo, e mi messi a studiare
di forza: ripresi il greco, e mi posi a battere sopra Omero, non avevo per mano
altri libri che greci e latini, e lessi Tito Livio due volte, e spesso
leggendolo mi dovevo asciugare le lagrime. Senza maestri, con pochi libri, che
importava? avevo la febbre dello studio, e vent’anni di vita.
“Si,” mi direte, “ma
come campavi tu allora, povero giovanotto?” Oh, non vi ho detto che io fidava
in Dio? Tra i giovani studenti c’eran di quelli che avevano bisogno del latino
per gli esami, ed io li addestrava nel latino; c’eran di quelli che non
sapevano scrivere correttamente in italiano, ed io li faceva scrivere:
insegnavo in una scuola femminile, e in alcune case particolari. Erano
quattrinelli che guadagnavo, ma mi bastavano, e ci campavo col mio fratello
Giovanni, il quale studiava le matematiche e il disegno per divenire architetto,
ed era sempre allegro, e per la casa andava canterellando le arie de la Sonnambula,
e mi faceva trovar pronto quando tornava a casa il rosto di pecoro che era il
nostro cibo consueto. Con che gusto, con che gioia, con che risate quel mio
fratello ed io facevamo il nostro pranzo! Un giorno che io rilessi d’un fiato
le Georgiche di Virgilio, e poi mangiammo due piccioni che ci furono
regalati, lo ricorderò sempre quel giorno felice, io mi sentii più grande d’un
imperatore, e cenai proprio in Apollo. Con le Georgiche in capo, e un
piccione in corpo chi stava meglio di me? E poi io avevo veduto una fanciulla
che aveva due occhi come due stelle, e sebbene non l’avessi più riveduta, io
n’ero innamorato e avevo sempre innanzi alla mente quegli occhi e quella persona
gentile. Oh chi era? dov’era? Io non lo sapevo, ma io l’amava.
A vent’anni quando si
studia e si ama e si ama con tanto ardore è pur bella la vita! Con la mente ed
il cuore così pieni io avevo pochissimi bisogni e mi credevo più ricco e
maggiore di tutti i maggiori del mondo. Mentre nell’università il Bianchi
leggeva agli scanni e a quattro studenti, il marchese Basilio Puoti aveva in
sua casa una fiorita scuola di lettere italiane, dove convenivano oltre dugento
giovani. Prima del 1820 quando s’ebbe a fare il professore di letteratura
italiana nell’università, si presentarono al concorso parecchi, far i quali il
Puoti, e il poeta Gabriele Rossetti. Il tema fu: scrivere un commento italiano
ad un sonetto del Petrarca, ed una dissertazione latina sopra non so qual
secolo della nostra letteratura. La benedetta dissertazione latina decise del
merito. Il Bianchi professore in un collegio, avendo abito e facilità di
scrivere in latino, poté dire agevolmente tutto quello che sapeva, dove che gli
altri più o meno impacciati dalla lingua dissero meno di quello che sapevano:
onde giudicati imparzialmente su gli scritti, il Bianchi ebbe il primo luogo, e
l’ultimo toccò al povero Rossetti, che fece qualche errore di grammatica, tutto
che avesse quell’ingegno e quella beata vena di poesia. Tutto questo me lo
narrava il Bianchi, e dimostra come nel concorso non apparisce il migliore.
Il Puoti escluso
dall’uffizio pubblico, si messe privatamente a fare quel bene che si era
proposto, a ristorare la lingua già guasta e imbarbarita. Voi sapete che quando
un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli
tiene luogo di patria e di tutto; e che quando gli ritorna il pensiero e il
sentimento della sua passata grandezza, la lingua ritorna appunto all’antico.
Sapete che così avvenne in Italia, e che la prima cosa che volemmo quando ci
risentimmo italiani dopo tre secoli di servitù, fu la nostra lingua comune, che
Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferrruccio parlava. Sapete infine che
parecchi valenti uomini si diedero a ristorare lo studio della lingua, e fecero
opera altamente civile, perché la lingua per noi fu ricordanza di grandezza di
sapienza di libertà, e quegli studi non furono moda letteraria, come ancor
credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale. Ora tra
questi valenti uomini fu il marchese Basilio Puoti, il quale lasciato il
titolo, la primogenitura, e il governo della famiglia al suo fratello minore,
si messe ad insegnare gratuitamente le lettere e la lingua d’Italia. Eg1i non
era uno scrittore, non aveva concetti nuovi e grandi, e arte di tirare a sé i
leggitori; ma era un solenne maestro, aveva giudizio rotto, gusto squisito,
amore grande agli studi ed ai giovani: era cote non rasoio. Eppure se avesse scritto
come ei parlava, con quei motti, con quei frizzi, quelle ire subite, e poi
quell’abbandono e quella bonarietà tutta sua, sarebbe stato piacevolissimo: ma
la troppa arte lo impacciava, lo rendeva un altro uomo quand’ei scriveva, e non
ti pareva più napoletano. Lo deridevano come purista e cruscante, ed egli
sprezzò anche la beffa che pochi uomini sogliono sprezzare, si circondò di
giovani che lo amarono assai, e fondò una scuola che ebbe gran nome e fece gran
bene. Quelli stessi che prima lo sfatavano, cominciarono a vergognarsi del
sozzo ed infranciosato scrivere, riconobbero la necessità di correggersi,
accettarono una parte delle sue dottrine: ed egli profittando della costoro
opposizione andò temperando il suo rigore. Così avviene di ogni dottrina che
prima nasce direi quasi angolosa ed immaneggiabile; e poi a poco a poco va
accodandosi a la necessità dei tempi. Ci è ancora chi lo chiama pedante: eppure
la pedanteria è un santo rigorismo in mezzo alla licenza, ed ha un profondo
significato nella storia del pensiero. Per me io credo ed affermo che la sua
scuola in fatto di lingua ne seppe più che ogni altra in Italia, e che tra noi
se vi fu e vi è gusto di buona lingua, tutti direttamente o indirettamente ne
sono obbligati a lui. Rarissimo uomo, chi lo conobbe da vicino ne amerà sempre
la memoria.
Mi ricorda la prima
volta che lo vidi. Senza raccomandazioni me gli presentai così a la buona,
tirato da la fama della sua bontà e del suo sapere.
Lo trovai fra una
dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli
scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v’era il suo letto
dietro un paravento. “So che amate i giovani,” io gli dissi, “ed io desidero
farmi amare da voi.” “Bravo, giovanotto; se vuoi studiare saremo amici. Vediamo
quello che sai: spiegami un po’ degli Uffici di Cicerone”. Spiegai,
risposi a varie dimande: “Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una
traduzione dal latino, e una lettura d’un trecentista. Nulla dies sine linea”.
E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai
giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi
passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece
ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri,
avviamento; molti ritrasse da pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva
bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il
francese: pieno di motti e di lepori, facile all’ira, facilmente placabile,
ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza
dare sospetto a chi reggeva. Una volta mi disse: “Pare piccola cosa quella che
io fo, ma quando sarò morto la intenderete. Se io vi dico di scrivere la vera
lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente, e avere in cuore
la patria nostra. Tu vedrai altri tempi, e spero farai intendere ciò che io ho
tentato di fare, e non dimenticherai l’amico della tua giovinezza”. Degli
scolari del Puoti alcuni sono rimasti fedeli alle sue dottrine ed hanno coltivati
studi grammaticali, come il Rodinò, il Melga, il Fabbricatore; altri di
maggiore ingegno, e di più larghi studi, le hanno interamente abbandonate, come
Francesco de Sanctis ed Angelo Camillo de Meis, in quella guisa medesima che si
abbandona i primi elementi in ogni disciplina e si procede innanzi nel vasto
campo della scienza. Questi che io chiamerò i maggiori scolari del Puoti ne
hanno svolte e dilargate le dottrine, le quali anche nella loro primitiva
strettezza sono vere e necessarie a tutti. L’opera del Puoti rimane e rimarrà
sebbene trasformata dai suoi discepoli che vivono una vita novella, e non sono
più napoletani ma italiani.