La setta non m’impediva
che io attendessi alle mie faccende ed ai miei studi, né gli studi e le
faccende m’impedivano di attendere a quella cara fanciulla che io adoravo. Un
giorno per una via la incontrai che andava con una monaca e mi parve
un’angeletta: e mi sparì dagli occhi, ma mi rimase nella mente e nel cuore. La
rividi dopo un anno, e seppi che abitava non lungi da casa mia, e viveva
ritiratissima, che la monaca era sua educatrice, e che i suoi genitori, persone
modeste e tutti di chiesa, volevano consacrarla in un chiostro. Io me ne
innamorai perdutamente, e non potevo altro che vederla in qualche chiesa e di
lontano: e mi dissero che tra breve non l’avrei neppure veduta, perché la sua
famiglia la chiudeva in un monastero. “Oh questo non sarà,” dissi io; e un
giorno mi presentai ai suoi genitori e la chiesi in moglie. Non mi ci volle
poca fatica a vincere i loro scrupoli e a persuaderli, perché non volevano
maritarla, ed ella stessa voleva far vita divota. Infine mi dissero che sì, ma
quando sarei stato nominato professore. Così la prima volta la vidi da vicino e
le parlai. Ella aveva nome Raffaella Luigia Faucitano; era un fiorellino di
sedici anni, era timidissima, quella che poi divenuta donna doveva soffrire
tanto e con tanto coraggio; e lavorava a’ suoi bellissimi ricami, ed anche
parlando con me non ismetteva da’ suoi lavori, e di tanto in tanto alzava gli
occhi e mi guardava con un sorriso che mi faceva tremare.
Io volevo ottenere la
cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in
quella città era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me
erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i
nostri nonni e l’ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e così io volevo
riunire colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo
chi vi può dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una
cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: “Ma
sarò io professore?” “E di che temi? tu studi tanto!” “E se mi faranno un
torto? e se nell’esame io mi confondo?” “Non te lo faranno, né ti confonderai
se tu mi ami davvero”. “Se ti amo?” “Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un
santo che sa fare di grandi miracoli”. Così ella mi rianimava e mi accendeva.
Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero,
e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e
mi scordavo d’Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni
d’amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta
sola veramente si ama.
Rimpetto casa mia in via
dell’Infrascata abitava un vecchio sopra settant’anni, a nome Agostino Pecchia,
un esule del ‘99, un uomo dotto, un patriarca d’una buona famiglia, della quale
rimane un figliuolo Ottavio, buono quanto il padre e mio amico. Il vecchio mi
prese a voler bene perché io avevo per lui grande riverenza, e mi propose a la
duchessa di Campochiaro, donna assai colta, la quale non so se per grandigia o
per malattia, non potendo leggere da sé, voleva uno che per due o tre ore al
giorno le facesse una lettura in italiano o in francese, ed ella sdraiata sopra
un seggiolone accanto ad uno specchio ascoltava. Aveva alta e nobile persona,
era stata bella, e belli ancora aveva gli occhi e le mani; e più di udire aveva
bisogno di parlare.”Quanti anni avete?”
“Ventidue.” “Troppo giovane.” “So che vorreste un uomo di trent’anni
almeno.” “Ma via, non importa: soltanto non dovete portare odori su la persona,
che mi offendono.” “Non ne ho portato mai.” “Ebbene leggiamo.” Questa signora
aveva nome Isabella Coppola de’ duchi di Canzano, ed era moglie di Ottavio
Mormile, duca di Campochiaro, già ambasciatore a varie corti d’Europa, e a
quella di Napoleone, e poi ministro, e allora ritirato. Ella dunque parlava
spesso di re e di principi, e massime di Napoleone e de’ suoi marescialli da
lei conosciuti quasi tutti, e mi narrava molti aneddoti curiosi. “Quando la
prima volta andai a corte dell’imperatore egli mi disse in italiano: ‘So che
cantate molto bene, fateci sentire qualche cosa’. Io arrossii, mi confusi, mi
scusai, dissi che ero indisposta; ed egli, come se avesse comandato ad un
coscritto, mi additò il pianoforte dicendo, ‘Obéissez.’ Ubbidii
tremante, ma non potei cantare. ‘Asseyez-vous, madame la duchesse,’ mi disse
egli sorridendo con certa malizia e compiaciuto della mia confusione. Che
birbone! era tiranno anche con le donne! Quell′’obéissez’ non
glielo posso perdonare ancora”. Ella poi parlava de’ miei studi come se fossero
stati anche suoi, aveva letti tutti i classici latini e greci tradotti in
francese; e una volta volle che io leggessi Orazio in latino e lo traducessi in
italiano: io le dicevo che cotesto non si poteva far bene, ed ella sorridendo
rispondeva: “Obéissez, come potete”. Si ragionava un pezzo, poi io
leggevo, ed ella o si mirava nello specchio o teneva gli occhi chiusi. E mentre
io leggevo a un tratto ella mi domandava: “Dunque voi l’amate quella
fanciulla?” “O assai, signora duchessa.”
“Ed è bella?” “A me pare bella, ed è
anche buona.” “Continuate.” Io continuavo a leggere ed ella chiudeva gli occhi.
Vi so dire che né ella né io in quel punto pensavamo a quello che io leggevo.
Venne il 18 agosto 1835,
ed io mi presentai nell’università innanzi otto professori componenti la facoltà
di letteratura e filosofia. Dei molti scritti al concorso non ci venne che un
solo, il quale ne aveva fatto un altro e ottenuto il secondo luogo, e veniva a
questo con un certa confidenza di ottenere la cattedra. Io temevo perché mi
sentivo a un gran punto. Si aprirono i libri, e ci diedero le tesi: si aprì
Omero, e avemmo a voltare in latino i primi dieci versi della seconda Iliade,
e farvi su un comento filologico: si aprì Cicerone De Oratore, e avemmo
a scrivere una dissertazione latina su l’azione oratoria; si aprì Orazio e
avemmo a scrivere le lodi di Augusto in esametri latini ed in un’ode saffica
italiana. Come udii le tesi respirai, e non tremai più, anzi con una certa
baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l’arena di quel duello
fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la
Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in
greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista
valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un
pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel
greco se n’è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar
pruova come s’ha a parlare da la cattedra. La facoltà diede il suo giudizio, e
lodato il mio avversario nominò me professore. E così per quattro scarabocchi
latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo
ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva
la laurea, e senz’altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando
si tratta di quattrini non c’è greco ne latino che tenga, la facoltà di
letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare. Subito andai da la mia
fanciulla che mi accolse festosa, e mi diede il primo bacio. Sono vecchio di
sessantadue anni, sono quarant’anni che ebbi quel bacio, e me ne ricordo come
della sola e vera dolcezza che ebbi nella vita mia: quel sacro bacio mi accese
una luce che io ho tenuta e tengo sempre innanzi agli occhi miei, e la terrò
sino all’ultimo dei miei giorni. Se il mio canonico ne fu lieto non ve lo dico.
Monsignor Colangelo riferendo al ministro non obbliò di dire che io era quel
desso già proposto da lui: quell’eccellente uomo del Puoti mi abbracciò e mi
diede molti suoi consigli di cui pur troppo abbisognavo; e la duchessa come mi
rivide: “Vi saluto, professore: la sposerete ora.” “Certamente.” “E quando
l’avrete sposata, ricordatevi che voglio vederla.”
Il giorno 8 ottobre di
quell’anno 1835 io tolsi in moglie la mia diletta la quale era nata il 12
febbraio 1818. I suoi vecchi e buoni genitori me la diedero piangendo e
dicendo: “Noi vi diamo la consolazione e l’augurio della casa nostra. Iddio vi
benedica tutti e due”. Le nozze furono ben modeste: eravamo tutti e due
giovani, e ci amavamo l’un l’altro, ed amore che era tutto per noi ci abbelliva
e riempiva la vita.
Un mese dopo, nel
novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia, coi miei fratelli e la
sorella, avendo già pronta la prolusione da recitare; e dopo nove giorni che ci
vollero a percorrere in un carrozzone dugentocinquanta miglia, finalmente
giungemmo in Catanzaro.