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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE PRIMA (1813-1849)
    • IX - Una cattedra
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IX - Una cattedra

La setta non m’impediva che io attendessi alle mie faccende ed ai miei studi, né gli studi e le faccende m’impedivano di attendere a quella cara fanciulla che io adoravo. Un giorno per una via la incontrai che andava con una monaca e mi parve un’angeletta: e mi sparì dagli occhi, ma mi rimase nella mente e nel cuore. La rividi dopo un anno, e seppi che abitava non lungi da casa mia, e viveva ritiratissima, che la monaca era sua educatrice, e che i suoi genitori, persone modeste e tutti di chiesa, volevano consacrarla in un chiostro. Io me ne innamorai perdutamente, e non potevo altro che vederla in qualche chiesa e di lontano: e mi dissero che tra breve non l’avrei neppure veduta, perché la sua famiglia la chiudeva in un monastero. “Oh questo non sarà,” dissi io; e un giorno mi presentai ai suoi genitori e la chiesi in moglie. Non mi ci volle poca fatica a vincere i loro scrupoli e a persuaderli, perché non volevano maritarla, ed ella stessa voleva far vita divota. Infine mi dissero che sì, ma quando sarei stato nominato professore. Così la prima volta la vidi da vicino e le parlai. Ella aveva nome Raffaella Luigia Faucitano; era un fiorellino di sedici anni, era timidissima, quella che poi divenuta donna doveva soffrire tanto e con tanto coraggio; e lavorava a’ suoi bellissimi ricami, ed anche parlando con me non ismetteva da’ suoi lavori, e di tanto in tanto alzava gli occhi e mi guardava con un sorriso che mi faceva tremare.

Io volevo ottenere la cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella città era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i nostri nonni e l’ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e così io volevo riunire colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: “Ma sarò io professore?” “E di che temi? tu studi tanto!” “E se mi faranno un torto? e se nell’esame io mi confondo?” “Non te lo faranno, né ti confonderai se tu mi ami davvero”. “Se ti amo?” “Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa fare di grandi miracoli”. Così ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d’Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d’amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta sola veramente si ama.

Rimpetto casa mia in via dell’Infrascata abitava un vecchio sopra settant’anni, a nome Agostino Pecchia, un esule del ‘99, un uomo dotto, un patriarca d’una buona famiglia, della quale rimane un figliuolo Ottavio, buono quanto il padre e mio amico. Il vecchio mi prese a voler bene perché io avevo per lui grande riverenza, e mi propose a la duchessa di Campochiaro, donna assai colta, la quale non so se per grandigia o per malattia, non potendo leggere da sé, voleva uno che per due o tre ore al giorno le facesse una lettura in italiano o in francese, ed ella sdraiata sopra un seggiolone accanto ad uno specchio ascoltava. Aveva alta e nobile persona, era stata bella, e belli ancora aveva gli occhi e le mani; e più di udire aveva bisogno di parlare.”Quanti anni avete?”  “Ventidue.” “Troppo giovane.” “So che vorreste un uomo di trent’anni almeno.” “Ma via, non importa: soltanto non dovete portare odori su la persona, che mi offendono.” “Non ne ho portato mai.” “Ebbene leggiamo.” Questa signora aveva nome Isabella Coppola de’ duchi di Canzano, ed era moglie di Ottavio Mormile, duca di Campochiaro, già ambasciatore a varie corti d’Europa, e a quella di Napoleone, e poi ministro, e allora ritirato. Ella dunque parlava spesso di re e di principi, e massime di Napoleone e de’ suoi marescialli da lei conosciuti quasi tutti, e mi narrava molti aneddoti curiosi. “Quando la prima volta andai a corte dell’imperatore egli mi disse in italiano: ‘So che cantate molto bene, fateci sentire qualche cosa’. Io arrossii, mi confusi, mi scusai, dissi che ero indisposta; ed egli, come se avesse comandato ad un coscritto, mi additò il pianoforte dicendo, ‘Obéissez.’ Ubbidii tremante, ma non potei cantare. ‘Asseyez-vous, madame la duchesse,’ mi disse egli sorridendo con certa malizia e compiaciuto della mia confusione. Che birbone! era tiranno anche con le donne! Quell′’obéissez’ non glielo posso perdonare ancora”. Ella poi parlava de’ miei studi come se fossero stati anche suoi, aveva letti tutti i classici latini e greci tradotti in francese; e una volta volle che io leggessi Orazio in latino e lo traducessi in italiano: io le dicevo che cotesto non si poteva far bene, ed ella sorridendo rispondeva: “Obéissez, come potete”. Si ragionava un pezzo, poi io leggevo, ed ella o si mirava nello specchio o teneva gli occhi chiusi. E mentre io leggevo a un tratto ella mi domandava: “Dunque voi l’amate quella fanciulla?”  “O assai, signora duchessa.” “Ed è bella?”  “A me pare bella, ed è anche buona.” “Continuate.” Io continuavo a leggere ed ella chiudeva gli occhi. Vi so dire che né ella né io in quel punto pensavamo a quello che io leggevo.

Venne il 18 agosto 1835, ed io mi presentai nell’università innanzi otto professori componenti la facoltà di letteratura e filosofia. Dei molti scritti al concorso non ci venne che un solo, il quale ne aveva fatto un altro e ottenuto il secondo luogo, e veniva a questo con un certa confidenza di ottenere la cattedra. Io temevo perché mi sentivo a un gran punto. Si aprirono i libri, e ci diedero le tesi: si aprì Omero, e avemmo a voltare in latino i primi dieci versi della seconda Iliade, e farvi su un comento filologico: si aprì Cicerone De Oratore, e avemmo a scrivere una dissertazione latina su l’azione oratoria; si aprì Orazio e avemmo a scrivere le lodi di Augusto in esametri latini ed in un’ode saffica italiana. Come udii le tesi respirai, e non tremai più, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l’arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel greco se n’è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar pruova come s’ha a parlare da la cattedra. La facoltà diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E così per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz’altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c’è greco ne latino che tenga, la facoltà di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare. Subito andai da la mia fanciulla che mi accolse festosa, e mi diede il primo bacio. Sono vecchio di sessantadue anni, sono quarant’anni che ebbi quel bacio, e me ne ricordo come della sola e vera dolcezza che ebbi nella vita mia: quel sacro bacio mi accese una luce che io ho tenuta e tengo sempre innanzi agli occhi miei, e la terrò sino all’ultimo dei miei giorni. Se il mio canonico ne fu lieto non ve lo dico. Monsignor Colangelo riferendo al ministro non obbliò di dire che io era quel desso già proposto da lui: quell’eccellente uomo del Puoti mi abbracciò e mi diede molti suoi consigli di cui pur troppo abbisognavo; e la duchessa come mi rivide: “Vi saluto, professore: la sposerete ora.” “Certamente.” “E quando l’avrete sposata, ricordatevi che voglio vederla.”

Il giorno 8 ottobre di quell’anno 1835 io tolsi in moglie la mia diletta la quale era nata il 12 febbraio 1818. I suoi vecchi e buoni genitori me la diedero piangendo e dicendo: “Noi vi diamo la consolazione e l’augurio della casa nostra. Iddio vi benedica tutti e due”. Le nozze furono ben modeste: eravamo tutti e due giovani, e ci amavamo l’un l’altro, ed amore che era tutto per noi ci abbelliva e riempiva la vita.

Un mese dopo, nel novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia, coi miei fratelli e la sorella, avendo già pronta la prolusione da recitare; e dopo nove giorni che ci vollero a percorrere in un carrozzone dugentocinquanta miglia, finalmente giungemmo in Catanzaro.




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