Il giorno 8 aprile di
quell’anno 1837 mi nacque il caro e benedetto mio figlio Raffaele Michelangelo Tiziano.
Dovevo rifare mio padre, trassi buon partito dal nome, e vi aggiunsi altri due
nomi di artisti, immaginando che così il mio figliuolo riuscirebbe un nuovo
miracolo nell’arte, e avrebbe le virtù di tutti e tre quei grandi pittori. Chi
sa come è fatto il cuore d’un padre può immaginare la mia gioia, le speranze, i
disegni, i castelli che facevo. La Gigia ed io eravamo sempre attorno al bimbo,
che veniva su vispo e robusto, e ragionavamo sempre di lui, e le amiche di mia
moglie volevano vederlo diguazzare nell’acqua fredda, e ne maravigliavano
assai.
Intanto mia sorella
Teresina entrò nel monastero della Maddalena e dopo qualche anno si fece
monaca: mio fratello Vincenzo tornò in Napoli e si fece frate alcantarino:
Peppino impiegato nell’intendenza aveva preso moglie. Giovanni studiava
architettura, ed Alessandro ancora giovanetto venne ad abitare con me per
continuare i suoi studi. Finito il cholera io mi godeva la pace della mia
famiglia, attendevo ai miei studi e ad insegnare nel liceo a quei bravi giovanotti.
La sera passeggiavo fuori la città verso i Cappuccini con due amici, coi quali
ragionavo degli avvenimenti del mondo, delle ultime rivoluzioni, di tanti
condannati alla galera, e di tanti altri ridotti a mendicare la vita. Era una
sera bellissima, le stelle scintillavano più vive, avevamo ragionato un pezzo
su la misera condizione della patria, ed io parlai loro la prima volta
apertamente della giovane Italia, come di una novella religione politica della
quale noi dovevamo essere apostoli e martiri ancora, spiegai loro ogni cosa, e
terminai col dire: “Noi la vedremo un’Italia unita e forte, vedremo le armi di
un console o del dittatore valicare le Alpi, cingere Vienna, e piantare su quei
baluardi la nostra bandiera negra.” I due amici non avevano fiatato, non
m’avevano interrotto, e quando io ebbi finito mi si gettarono tra le braccia e
mi strinsero forte.
Essi furono i primi
affiliati a la setta che io feci in Catanzaro.
Per avere da Napoli le
novelle politiche, e per ragguagliare il mio amico Musolino di ciò che io
facevo, ci scrivevamo lettere con caratteri invisibili, le quali andavano e
venivano per la posta con poca prudenza. Non mi domandate che cospirare era
quello, che fine io avevo.
Cospiravo perché non
sapevo starmi cheto tra gli oppressi, ne mettermi tra gli oppressori, perché
rimanermi inerte mi pareva codardia.
Così passarono gli anni
1837 e 1838. Ma tosto ci fu un traditore.
Un prete mio amico
G[aetano] L[arussa] volle che io conoscessi il parroco di un paesello chiamato
Crichi, col quale ei mi disse che s’erano allevati insieme in seminario, e che
era liberale e bravo, e si chiamava Nicola Barbuto. Quando io vidi questo
parroco Barbuto sentii certa ripugnanza per lui, e mia moglie con quel fino
senso che hanno le donne lo temeva come un nemico, ché egli era brutto e nero
come un topo e aveva il labbro leporino; pure io lo accolsi e gli feci dare un
catechismo. Dopo alquanti giorni mi disse dover andare per sue faccende a
Cosenza e poi a Napoli, e mi chiese lo raccomandassi a qualche persona. “Dàgli
pure le lettere,” mi disse G[aetano] L[arussa], “e non dubitare della sua
bruttezza”. Io gliene diedi una per Raffaele Anastasio, farmacista in Cosenza,
ed una per Musolino in Napoli. Poi che il parroco fu partito sapemmo che egli
aveva parlato più volte con l’intendente, e io cominciai a sospettare, e
ricordare la sua aria, i suoi occhi, e certo suo smarrimento quando mi chiese
le lettere. G[aetano] L[arussa] non poteva darsi pace: io scrissi subito
all’Anastasio ed al Musolino che si guardassero, e stetti in guardia per me.
Tutto questo avvenne perché io non sapevo bene l’arte del cospirare, fidavo
troppo negli amici, e non ricordavo la prescrizione del catechismo, uno con uno
e non più! Il reverendo parroco aveva rivelato ogni cosa all’intendente, che lo
mandò al ministro in Napoli, perché egli aveva accusato me solo, temendo del
prete che era paesano e poteva col tempo fare una vendetta calabrese. Non
timore di Dio né fedeltà al principe, ma desiderio di farsi ricco e potente
spinse quest’uomo, che vedendo come la grazia di Dio gli fruttava poco, volle
la grazia del governo.
La notte dell’8 maggio
1839 mentre io dormivo mi fu accerchiata la casa da gendarmi e poliziotti, i
quali in nome della legge entrarono, messero sossopra carte libri masserizie,
mi rubarono parecchie cose e fra le altre un paio di orecchini di mia moglie
che parevano di diamanti. Intimarono a tutti di vestirci ed uscire: e chiusero
la casa, e portarono via la chiave. Mia moglie con Alessandro che portava il
bambino in collo fu condotta in casa di mio fratello Peppino; io accerchiato da
birri fui condotto nel quartiere dei gendarmi, dove condussero anche il
giovanetto Alessandro. Dopo ventiquattr’ore Alessandro fu liberato, e mia
moglie tornò in casa, dove alla sua presenza fu fatta un’altra ricerca
minutissima, e non trovarono nulla, e presero alcune carte per prendere qualche
cosa. Io rimasi nel quartiere otto dì, guardato a vista da gendarmi che non mi
lasciavano mai solo né la notte né il giorno. Tra quei gendarmi era un giovane
bello di aspetto e di umore piacevole, il quale mi disse: “Voi siete
professore, ed io voglio insegnare a voi una cosa, e ricordatevela: i nemici
dell’uomo sono tre, carta, calamaio, e penna”.
All’alba dell’ottavo
giorno mi fecero montare a cavallo fra quattro gendarmi, e mi condussero a
Tiriolo, paese che è su la grande strada delle Calabrie. Cavalcando passo passo
sento di dietro venire correndo un altro cavallo, mi volto e vedo mio fratello
Giovanni: i gendarmi gli vietarono avvicinarsi, ed ei porse loro del danaro per
me, mi salutò mestamente, e tornossene. Stetti in Tiriolo sino a la mezzanotte:
in quell’ora giunse la diligenza, ed io vi montai con un solo sergente a nome
Failla, che condusse anche sua moglie. Prima di entrare in diligenza egli mi
disse: “Signore, debbo condurvi in Napoli, e son dolente di adempiere questo
dovere, ma capite che è dovere. Potrei condurre con me altri gendarmi, potrei
mettervi le manette, ma io fido in un galantuomo. Mi date la vostra parola che
non fuggirete?” “Sì, vi do la mia parola.” “Posso esser sicuro?” “Più che se mi
conduceste in mezzo ad un reggimento.” “Va benissimo.” E veramente ei mi fu
molto cortese, non volle accettar danari che gli offerii, mi trattò con
rispetto, e la moglie parvemi una buona donna. Nel quarto luogo della diligenza
entrò un pretarello magro e squarciato come un levriero, che con un fagottino
sotto l’ascella camminava a piedi quando la diligenza andava adagio. “Dove si
va, abate?” “A Roma, per vedere la canonizzazione del beato Alfonso de Liguoro
e del beato Francesco de Girolamo. E voi?” “Io? vo con questo sergente.” “A
Napoli?” “Voi andate a vedere un pochino di paradiso, ed io vo’ all’inferno,
vo’ carcerato.” Il povero prete mi aprì tanto un paio d’occhi in faccia, si fe’
pallido, e non disse più che monosillabi.
La terza notte giungemmo
in Napoli, e dismontammo innanzi l’ufficio delle poste. Quivi il sergente mi
disse: “Abbiate un occhio al mio fucile, che non me lo rubino”. Me lo porse e
si allontanò con la moglie. A quell’ora, in quel luogo, in una città così
grande di cui io conoscevo tutti i viottoli, nessuno sapendo che io era
prigioniero, mi venne la tentazione di fuggire e gettare il fucile in qualche
parte, ma avrei tradito un uomo che aveva fidato in me, lo avrei rovinato, fattolo
arrestare, subissare: rimasi e gli consegnai il fucile quando ei tornò. Ei
condusse la moglie in un albergo, e poi me in prefettura, dove mi disse: “Spero
di rivedervi subito libero”. Non ho più riveduto quel gendarme galantuomo.
Nella prefettura fui chiuso
in una stanza terrena dove era un cesso terribilmente fetido, ed un gran
tavolato sul quale gettai il mio valigiotto, sul valigiotto poggiai il capo e
mi addormentai come Diomede. Dopo non so quante ore sentii scuotermi forte e
scrollare da una mano, e dirmi il carceriere: “Alzatevi, vi vuole il
commessario”. Nel balzare in pié mi trovai le mani rosse e fetide di cimici,
che allora sentii per tutta la persona. Il commessario mi domandò: “Siete voi
il professor Luigi Settembrini?” “Sono io.” Montate in carrozza”. E aggiunse
altre parole che io non intesi mezzo stordito come ero dal sonno. Montai con
due sbirri che vollero una mancia perché non mi legarono, e fui menato in Santa
Maria Apparente prigione dei ladri e dei rei di stato.