XIX - Il
1847
La stampa romana
pubblicava ogni parola del nuovo papa, descriveva le feste che gli faceva il
popolo guidato dal suo Ciceruacchio, e parlando parole di libertà e di amore
moveva tutti i cuori. Quelle stampe volavano per tutta Italia. In Toscana, dove
era stato sempre un governo mite, gridando: “viva Pio IX” si ottenne una certa
larghezza nella stampa, e si cominciò a pubblicare giornali che avevano bei
nomi: l’Alba, la Patria, l’Italia, e bandivano nuove idee e nuove
speranze: in Piemonte, specialmente nella fiera Genova, cominciò a pubblicarsi Il
Contemporaneo, nel quale si dissero cose che quel governo un anno prima
aveva severamente vietate e punite. Noi altri in Napoli a leggere quei
giornali, a udire i racconti che ne facevano coloro che tornavano di Roma
sentivamo una stretta al cuore. E i romani davano ai nostri molte spronate:
“Che fate voi altri napolitani? perché non imitate toscani e piemontesi?
Ferdinando è duro: e voi non avete fegato voi, non avete animo di
scoparlo?” Ferdinando diceva, e il Del
Carretto fece stampare la regal frase nel giornale uffiziale, che egli non
voleva “imitare nessun politico figurino di moda”; e tra i suoi ripeteva:
“Stavam così bene, e questo pretarello ci ha guastato ogni cosa”. Intanto da
per tutto si parlava del papa, e quantunque egli in una sua bolla dicesse di
non avere le intenzioni che gli si attribuivano, pure i popoli o non capivano,
o fingevano di non capire, e per ispingerlo a maggiori cose lo lodavano e lo
benedicevano. Tra noi la polizia diveniva più feroce, spiava, incarcerava,
tormentava; e guai a chi avesse ricevuto lettere o giornali dall’Italia
superiore. Taluni meditavano stringersi in segreto per operar qualche cosa: ma
altri li biasimavano come uomini di vecchie idee, e dicevano: “Questa non è
setta, né una parte, ma è consenso generale, è opinione pubblica, che vincerà
ogni ostacolo ed anche Ferdinando”.
Una mattina io passava
in via Assunzione a Ghiaia dove era il palazzo abitato dal ministro Del
Carretto: ecco venire correndo a furia la carrozza coi soliti cavalli sbuffanti
e il solito insolente cocchiere: entra nel portone, e mentre il ministro smonta
corrono a lui una donna e quattro fanciulli vestiti a bruno, tenendo tra le
mani una carta e chiedendo qualche cosa. Il ministro si ferma, e dà ordine ai
servi di scacciarla, e fu villanamente scacciata la povera donna e quei suoi
figliuoletti pallidi e sbalorditi: ella pianse, prese per mano i più piccini,
ed andò via. Io non seppi mai chi era quella donna, ma a quello spettacolo mi
sentii rimescolare tutto il sangue, e dissi tra me: “Ne farò vendetta”. Corsi a
casa presi le carte che stava scrivendo, mi ci messi sopra con nuovo ardore, e
non le lasciai più se non quando ebbi compiuta la Protesta del popolo delle
Due Sicilie. L’idea di questo scritto mi venne a leggere i Casi di
Romagna di Massimo d’Azeglio, e volli in esso fare come un quadro generale
di tutte le miserie che il nostro popolo sofferiva da ventisette anni, e
presentarlo come protesta a tutto il mondo civile, e dicevo chi era il re, chi
erano i ministri, chi erano quelli che ci opprimevano. “Se perderemo la
pazienza, e verrà il dies irae, sappiate che il torto non è nostro”. La
protesta fu scritta tutta da me, tranne una nota dove si parla del Rotschild,
ed un capitoletto intitolato la città di Napoli, che vi furono aggiunti nella
stampa da Giovanni Raffaele siciliano il quale ve le messe di suo capo, e senza
dirmi niente: e mentre fu scritta nessuno ne sapeva nulla, tranne mia moglie a
cui io leggevo lo scritto e chiedevo consigli affidandomi nel suo buon senno.
Dico questo perché di poi fu detto e scritto che fu compilata da molti, e
alcuni si vantarono di averci messe le mani. Ed io la ricopiai sforzando il
carattere: e dopo che l’ebbi ricopiata chiamai in mia casa Giuseppe Del Re,
Michele Primecerio, Mariano d’Ayala, e la lessi a questi tre fidi amici, i
quali me la lodarono, e il Del Re si tolse il carico di farla stampare. Gli
consegnai il manoscritto, e volli la promessa che subito dopo la stampa mi
sarebbe restituito: e l’ebbi restituito, e mia moglie volle bruciarlo con le
sue mani. Avevamo avuti tanti guai per carte scritte!
Intanto pel cattivo
ricolto dell’anno 1846 si sentiva penuria e fame nelle nostre popolazioni, e il
re provvide a far comperar grani e venderli a modesti prezzi: pure nelle
provincie la povera gente moriva per mancanza di alimento, ed era una pietà
udire tanti racconti che più accendevano gli animi di sdegno. Fra i
provvedimenti presi dal re fu quello di fare un viaggio pel regno. In quei
giorni venne in Napoli la regina di Spagna Maria Cristina, e il re per non
incontrarsi con lei che pure era sua sorella, ma aveva data una costituzione a
la Spagna, affrettò la partenza, e con la moglie andò prima a Trieste per
salutare i parenti di casa d’Austria, poi tornò nel regno che volle percorrere,
e da per tutto trovò miseria, e pochi applausi di plebe prezzolata: in Sicilia
maggiori segni di odio, la sua statua in Messina fu trovata con le orecchie
turate di stoppa, e un cartello dove era scritto: “Non vuoi sentire”. Andò in
Palermo ai primi giorni di luglio alla festa di santa Rosalia: e quivi andando
un giorno in carrozza col principe di Joinville, che lì si trovava, gli fu
gettata su le ginocchia una copia della Protesta, che egli prese, lesse
il titolo, e scrollò il capo. Le prime copie furono portate in Palermo da
Giuseppe Del Re, che andò anch’egli a la festa di santa Rosalia, e le sparse
fra i suoi amici: le altre furono sparse in Napoli. “Avete letto la Protesta?”
mi diceva un signore. “Io no: e che dice?” Ed egli mi ripeteva ogni cosa, e i
tratti che gli avevano fatto maggiore impressione, e i giudizi sugli uomini, e
persino le frasi e le parole. “Potrei leggerla anch’io?” “Mi pare difficile: io
l’ho avuta per sei ore con l’obbligo di restituirla puntualmente.” “Si sa chi
l’ha scritta?” “E chi può saperlo? Dev’essere stato un uomo che conosce a
dentro i fatti della casa reale e del governo, perché ha svelati molti
segreti”. Non ricordava quel signore che molti di quei fatti più segreti me li
aveva detti proprio egli che aveva parenti in corte ed al governo, ed egli
stesso era un uomo di conto. Io non avevo fatto altro che raccogliere e
scrivere tutto ciò che avevo udito dire da lui e da altre persone degne di
fede. Ed egli mi disse ancora un’altra cosa, che il re l’aveva letta, e che la
maggiore offesa l’aveva avuta a quel tratto dove si parla delle udienze reali,
in cui egli non rispondeva altro che: “Bene, bene”, con voce chioccia, e
dimandò ad uno che gli stava vicino: “Ho la voce chioccia io?” Il libro volava
di mano in mano, era letto in piccoli crocchi di amici, tutti ne parlavano: il
ministro Del Carretto che si sentiva ferito gettava fuoco dagli occhi, i suoi
birri erano sbalorditi e andavano fiutando per ogni parte: io vedevo e udivo
tutti, e non dicevo parola, e andavo per le mie faccende; e facevo lo scemo, e
dicevo tra me: “È vendicata quella povera donna”.
Vicino al palazzo del
Nunzio in una botteguccia era il libraio Aniello Ruocco, il quale vedendo un
signore che andava sbirciando gli scartafacci: “Volete un bel libretto, ma per
sei carlini?” gli disse. “Lascialo vedere”. Gli diede il danaro, e andò via.
Quel libretto era la Protesta e quel signore il famoso commessario di
polizia Campobasso. Dopo un’ora Aniello fu preso. “Chi ti ha dato questo
libro?” “Il torcoliere dello stampatore Seguin”. Preso il torcoliere, preso il
Seguin. “Chi ti ha dato a stampare il libro?” “Il Corsini, quegli che ha il
gabinetto di lettura in via Toledo”. È preso il Corsini, che da prima nega, poi
confessa di avere avuto il manoscritto da Giuseppe Del Re. Questi saputo
l’arresto del Corsini fugge sopra un legno francese, e va prima in Grecia poi a
Marsiglia. Così il filo si rompe. La polizia cercava sapere qualcosa dal
Corsini, e dimandava: “Ma il manoscritto era opera di Del Re, o di altri?” “Non so: ma non credo autore il Del Re,
perché costui mi faceva grandi premure per riavere il manoscritto, e
restituirlo a don Luigi.” “Chi è cotesto don Luigi?” “Non lo so, perché egli
non disse altro”. La polizia non pensò a me; ché io non avevo stampato una
riga, non andavo a caffè, a ritrovi, a gabinetti di lettura, ed era riuscito a
farmi dimenticare: ritenne in prigione i presi, che non furono altri, e aspettò
tempo. Le copie del libretto non furono prese, e si sparsero per tutta Italia.
“Ci vuoi altro che
proteste, ci vogliono armi,” diceva Domenico Romeo, “ed io vado a prenderle”.
Era questi un gentiluomo di Santo Stefano, terra vicino Reggio, che cauto ed
animoso aveva preso accordo coi principali uomini delle provincie di Reggio e
di Messina per un moto simultaneo, e partì da Napoli dicendo ai suoi amici: “Se
io moro, non vi scuorate, andate innanzi e ricordatevi del vostro amico”. Il
giorno primo di settembre in Messina verso la sera una cinquantina di uomini
levano il grido “Viva Italia, viva Pio IX, viva la costituzione.” Era loro
disegno sorprendere gli uffiziali del presidio radunati a convito, ma questi
avvisati si erano rifuggiti nella cittadella: onde essi corrono per la città,
levano il rumore, combattono con valore disperato, feriscono il generale
Busacca, ma sopraffatti dal numero maggiore si salvano tutti con la fuga,
lasciando ai soldati di sfogare la rabbia su di un povero sartore che fu
fucilato e un prete che fu straziato crudelmente. Nello stesso giorno in Reggio
Domenico Romeo, suo fratello Giovanni Andrea, e molti loro figliuoli, nipoti,
parenti ed amici scesero a Reggio, e levarono lo stesso grido: Federico
Genovese, Domenico Muratori, i fratelli Agostino ed Antonio Plutino, il
canonico Paolo Pellicano, Antonio Cimmino, Casimiro de Lieto, tra i primi
cittadini di Reggio per autorità e ricchezze, si unirono ad essi, costrinsero
ad arrendersi i soldati che presidiavano il castello comandati dal principe di
Aci, disarmarono i gendarmi, s’impadronirono per tre dì del governo,
diminuirono il prezzo del sale, cantarono il Te Deum, fecero feste, e si
abbracciarono con tutti. Ma cominciò un certo scuoramento quando seppero
fallito il moto di Messina. Ed ecco comparire due navi a vapore con soldati da
sbarco comandate dal principe Luigi fratello del re. Alcuni proponevano salvare
almeno l’onore, combattere, ed assalire i soldati quando sbarcavano confusi,
barcollanti, nauseati: ma il cannone tuonava, e fu detto: “Tutto è finito,
ritiriamoci”. Mentre il principe Luigi faceva trarre coi cannoni su le case
della città, gli armati si dispersero e rifuggirono su le montagne
d’Aspromonte, dove ebbero la caccia dalle guardie urbane e dai villani istigati
e pagati dal general Nunziante, che proscriveva i capi del movimento,
prometteva taglie a chi li pigliasse e diceva: “Date addosso a questi briganti,
che si sono mossi per rubare e saccheggiare”. Vecchie arti di tirannide,
ingannare gli sciocchi per opprimere i generosi. Domenico Romeo percosso in una
gamba dal calcio d’un cavallo non poté seguire gli altri, e si ricoverò in un
pagliaio col nipote Pietro figliuolo di Giovanni Andrea. Assalito dalle guardie
urbane di Pedavoli, è ferito nel petto: Pietro con una palla colpisce il
feritore, che rotolando viene a cadere ai piedi di Domenico; il quale lo
calpesta, e dicendo: “Scellerati, che vi ho fatto?” gli cade sopra morto. Gli
mozzano il capo, lo mettono in cima d’un palo, e dicono a Pietro; “Portalo tu,
e grida ‘Viva il Re’.” Quel fiero giovine non si mosse né disse parola, ed ebbe
percosse e strazi, e fu trascinato a Reggio. Dei fuggiti i soli fratelli
Plutino si salvarono a Malta; gli altri o furono presi per brutti tradimenti o
si presentarono spontanei.
In Gerace furono capi
del movimento cinque gentili e fiorenti giovani: Michele Bello di Siderno,
Gaetano Ruffo di Bovalino, Domenico Salvatore di Bianco, Rocco Verducci di
Caraffa, e Pietro Mazzoni di Roccella. Essi salvarono dall’ira del popolo che
li voleva morti il sottointendente Antonio Buonafede ribaldo ed odiato, e il
capo della gendarmeria, dicendo non doversi cominciare un’opera di virtù e di
rigenerazione con effusione di sangue. Sapute le nuove di Reggio, si spersero
anch’essi, vagarono per aspri monti, ma quattro furono presi e menati al
Nunziante. Il Mazzoni perseguitato dal Buonafede, dagli sbirri, dalle guardie
urbane, fuggì a Catanzaro, dove fu nascosto ed aiutato dall’amore di Eleonora
De Riso, nobile fanciulla che egli aveva giurata sposa: ma persuaso dalle
ingannevoli promesse del Nunziante, si presentò spontaneo, e dopo poche ore nel
medesimo giorno 2 ottobre fu giudicato, condannato, e fucilato con gli altri
quattro. Il padre del Bello perdé il senno e poi la vita: il padre del Mazzoni
morì di dolore, e l’unica figliuola rimastagli morì anch’ella: rimaneva sola a
chiedere vendetta a Dio ed agli uomini la sconsolata De Riso.
In Reggio furono
riempite le carceri: il commissario di polizia Cioffi, osceno di volto,
diabolico di animo, tormentava, rapiva, spogliava tutti così sfacciatamente che
poi fu accusato e condannato come ladro: e questo gli fu merito più tardi. La
commissione militare condannò parecchie centinaia di uomini a varie pene, quarantasei
a morte: e questi ebbero per grazia mutata la pena nell’ergastolo. Condotti in
Napoli, mentre erano ferrati nell’arsenale in luogo scoperto, dicesi che il re
dietro l’invetriata d’un balcone della reggia li guardava con l’occhialino e
dimandava ai suoi cortegiani chi era il tale, o il tale altro: e che dei
condannati taluno gli volse le spalle, e taluno mirava fiso a quel balcone.
Questo avveniva tra noi mentre in Toscana Leopoldo II toglieva dal suo codice
la pena di morte. Tutti gl’italiani compiansero tanti sventurati, e
specialmente ricordavano i cinque giovani di Gerace, i quali in Livorno ebbero
esequie solenni: e dipoi i livornesi montati in furore andarono a casa del
console napoletano, ruppero lo stemma, e gridarono morte al tiranno delle Sicilie.
Come giunsero in Napoli
le novelle di Messina e di Reggio, fu grande agitazione negli animi, e la
polizia incarcerò Carlo Poerio, Mariano d’Ayala, Domenico Mauro, Francesco
Trinchera, i baroni Stocco, Marsico, Cozzolino, tutti e tre calabresi. Ma il
carcere non faceva più paura, neppure ai condannati, perché tutti sentivano e
dicevano che così non poteva durare, e che un dì o l’altro aveva a mutare la
scena; e si ripetevano le parole del Romeo: “Se io moro non vi scuorate, e
andate innanzi”. Ma quando si seppe della morte di quei cinque giovani alcuni
formarono un fiero disegno, assalire la carrozza del re, prenderlo e condurlo
in luogo sicuro, o anche ucciderlo, e così cominciare la rivoluzione. Questi
furono Vincenzo Mauro, un prete De Ninno, Giuseppe Lamenga, Giuseppe Scola capo
di popolani, Vincenzo Dono, ed altri di cui non ricordo i nomi. Saputo che il
re andava a Portici la domenica del 31 ottobre dopo il mezzodì lo aspettarono
su la via della Marinella per dove la carrozza doveva passare, e dove speravano
di avere aiuto dai popolani guidati da lo Scala. Vincenzo Mauro e prete De
Ninno passeggiavano insieme accigliati e muti, e ogni tanto si rivolgevano per
vedere se veniva. Aspettarono sino a sera, deliberarono di tornare un altro
giorno: la notte sette di essi furono arrestati. Un tal Vito Matera di Albano
in Basilicata gli aveva denunziati a la polizia; e per questo avviso il Re non
uscì in quel giorno, e il fiero disegno non ebbe effetto. Chiusi nelle segrete
di Santa Maria Apparente stettero saldi ai tormenti e a le promesse che lor
faceva il commessario Campobasso, il quale non potendo indurli a confessare
nulla, e vedendosi fallire tutte le sue arti poliziesche, disse: “Voi negate,
ma io lo so pur troppo che volevate uccidere il nostro Re, il nostro padre
amatissimo”. E cavandosi di tasca un fazzoletto piangeva e singhiozzava. Carlo
Poerio mi diceva che trovandosi egli nel medesimo carcere al civile, entrato
nella stanza dove si erano fatti gl’interrogatori e v’erano per terra molti
pezzi di carta scritta lacerata, egli, parlando al commessario per non so che
cosa, pose il piede prima sopra uno sputo e poi sovra quei pezzetti di carta
dov’era più scritto, e due gli s’attaccarono alla suola delle scarpe, che egli
poi destramente prese, e lesse alcune parole, dalle quali non seppe niente.
Questi disperati e
feroci partiti, queste ire impotenti di schiavi dispiacevano agli uomini di
senno, i quali dicevano che questi fatti non s’accordavano con quelli degli
altri italiani e manderebbero tutto in rovina con danno e vergogna: e
consigliavano di mostrar coraggio e dignità civile, non temere di parlare
francamente e dire la verità in faccia ad ogni uomo, sperare nell’opinione
generale che si andava mutando; con questo solo mezzo lento ma sicuro potersi
vincere la bestiale ostinazione del governo: che quando un principe ha torto,
più duro pare, più cede: “aspettiamo ancora, e non ci mettiamo noi dal lato dei
torto”. L’aspettare è senza pericolo, e piacque. Intanto il Re cominciò a
tentennare licenziò il ministro Santangelo, e, come gli consigliava il
Pietracatella divise in tre il Ministero dell’interno, ponendo il d’Urso ai
lavori pubblici, lo Spinelli all’agricoltura, commercio ed istruzione, ed il
Parise all’amministrazione interna, tutti e tre uomini di buona fama. Al
Santangelo lo intero stipendio, molti ringraziamenti per gli onorati servigi
renduti al Re, ed il titolo di marchese. Il Re gli dava il titolo, il popolo
gli assegnava il feudo, dicendolo marchese di Tremiti, isoletta dove erano
relegati i ladri. Il Santangelo non ha lasciato altra ricchezza che un museo
già cominciato da suo padre. Ci sono tempi in cui anche i Catoni son detti
ladri, ed altri in cui anche i ladri son detti eroi.
A dimostrare la generale
compiacenza per questo fatto, e spingere il Re a cose maggiori, ad unirsi alla
lega doganale italiana che si stringeva tra Roma, Toscana e Piemonte, si pensò
di fare una pubblica dimostrazione, e per incuorare i timidi si fece di notte.
La sera del 24 novembre stando molta gente a udir la musica nella piazza che è
innanzi il palazzo reale, ecco un batter di mani, un gridare “Viva Italia, viva
Pio IX, viva la lega doganale, viva il re”. Le grida continuarono e crebbero
dopo la musica: ed un trecento persone trascorsero la via Toledo invitando
tutti a seguirli, e giunti al palazzo del nunzio raddoppiarono le grida, e si
dispersero quietamente. Pochi furono presi dai birri. Io mi trovai tra la folla
con Francesco Lattari, che gridava “viva Italia e la lega”, e non si accorse
dei birri che aveva a fianco perché vedeva poco, e fu preso: io che ero
tutt’occhi, e non avevo gridato, me la sguizzai destramente. Parve un gran
fatto: la polizia ne fu turbata, il re sdegnato rimprovero il ministro Del
Carretto, comandò non più sonasse la musica, radunò i ministri a consiglio, e
fece in sua presenza compilare un avviso, il quale sottoscritto dal prefetto di
polizia, fu appiccato su tutte le cantonate, e diceva: “Sono vietate tutte le
grida sediziose e di viva il re e chi le rinnova sarà punito come perturbatore
dell’ordine pubblico”. A questo avviso io scrissi la seguente risposta che fu
sparsa, ed io andai accompagnato da mia moglie per non dare sospetto, a
gettarne una copia nella buca della posta. La trascrivo per mostrare i desideri
e le speranze di quel tempo.
“Al prefetto di polizia
il popolo. Voi, o prefetto, avete scritto l’avviso minaccioso, e voi direte al
re queste parole del popolo. Noi abbiamo oneste intenzioni, noi rispettiamo il
re ed amiamo tutti, anche i commessari Campobasso e Morbillo traviati fratelli;
noi non vogliamo né sangue né rapina, ma civiltà, e la cerchiamo con
moderazione. Onde ci siamo meravigliati che il governo dopo un grido abbia già
aperte le carceri, preparati cannoni e cavalli, ordinato che si afferri, si
batta, si uccida chiunque griderà: ‘Viva il re, viva Pio IX, viva la lega
italiana’. Questo procedere anzi questa paura del governo ha fatto vergogna noi
stessi: pure abbiamo ubbidito e taciuto, ma ci siamo radunati altre due volte,
per mostrare che possiamo e non vogliamo né abbiamo paura, e crediamo che il
governo non possa commettere sì grande violazione. Noi ci uniremo altre volte,
ed il re ci udirà, e non ci crederà perturbatori dell’ordine pubblico. Regni da
padre, e noi saremo amorosi figliuoli. A lui costa così poco fare il bene, sì
poco noi desideriamo, tanta gloria, tante benedizioni gliene verranno, perché
nol farà? Perdoni a tutti gl’imputati politici, faccia osservare le leggi che
abbiamo, tolga gli impiegati ladri e carnefici che in suo nome tiranneggiano,
ci lasci parlare e scrivere con moderata libertà per renderci civili e dirgli
quel vero che ora gli è nascosto, ci faccia essere uomini e non bestie, perché
la potenza dei re sta nei popoli, e un re di bestie è nulla. Questo si vuole, e
non torgli diritti, né diminuire la maestà; ci tratti da padre e noi saremo
figliuoli. Provi, provi pure il divino piacere di far bene, e di sentirsi
chiamar padre da otto milioni di uomini. Ma se Iddio lo accieca o i ministri lo
ingannano, se vuol continuare il dissennato rigore, e vuole più ceppi e più
sangue, consideri che la causa nostra è causa di civiltà e di religione; che
Dio e il suo vicario parlano per noi; che la bilancia italiana deve
necessariamente equilibrarsi; che né normanni, né svevi, né angioini, né
durazzani, né aragonesi furono più di quattro che frenarono il napolitano
cavallo, ed egli potrebbe essere il quarto ed ultimo de’ Borboni; che
quest’anno ‘47 è stato per quattro secoli terribile nel regno; che le opinioni
sono più forti de’ cannoni; che tra i soldati ci è popolo ed uomini che
pensano, soffrono, e parlano; che l’Europa e Dio ci guardano ed attendono; che
chi si oppone al corso eterno delle cose e delle opinioni rovina
irreparabilmente. Non sono minacce ma consigli. Troppo sangue si è sparso: se
ne vorrà altro, gli ricadrà tutto sul capo: il mondo saprà che noi siamo stati
disperatamente provocati”.
E appresso a questa
scrissi una lettera a Pio IX, una lettera ai soldati dell’esercito e della
marina e non le ho più. Le scrivevo da me, senza incarico, senza consiglio,
senza saputa di nessuno: le davo a copiare a due giovani senza dir loro chi le
aveva scritte, e quei le diffondevano. Pareva una legione, ed era io solo. Ma
l’eran carte, non altro che carte!
Dopo alquanti giorni si
seppe che nel teatro di Palermo e nel pubblico passeggio era stata un’altra
dimostrazione di popolo assai più numerosa, onde fu deciso di rispondere la
sera del 14 dicembre. Io avevo parecchi scolari calabresi, tra i quali Cesare
Correa di Catanzaro, a me carissimo, ed altri tre giovani di Gioiosa, Errico
d’Agostino, Vincenzo Lucà, Raffaele Palermo i quale avevano conosciuti quei
cinque di Gerace, e me ne parlavano sempre, ed erano accesi di sdegno. Io dissi
loro: “Ci vedremo il 14”. E in quella sera furono moltissime persone, e si
gridava: “Viva Palermo e la Sicilia”. Ed ecco comparire gli sbirri, ecco i
commessari Campobasso e Morbillo, e un menar di mani, di bastoni, di stocchi.
Il Correa menò botte da orbo, ne toccò, ma ne diede, e si salvò. Un nipote del
Morbillo stava per venire ai ferri con lo zio. Grida, arresti, colpi, un
parapiglia. Sopraggiunsero altri armati, e la via Toledo rimase vuota: ma il
fatto era fatto, la dimostrazione era avvenuta. I due commessari acquistarono
la grazia del re, andavano al palazzo, riferivano a lui, avevano ordini da lui
che faceva il gran commessario di polizia e non si curava del ministro;
disponeva fosse nominato cavaliere il Campobasso, il quale andò dal
Pietracatella a chiedere l’onore promesso, e questi scacciò di casa quello
sbirro sfacciato; andò dal Del Carretto, il quale con fine ironia gli disse:
“Oh, io proporrò al re che vi faccia commendatore”. Gli arrestati furono
parecchi tra i quali il duca Francesco Proto, Camillo Caracciolo dei principi
di Torella, Gennaro Sambiase duca di Sandonato; e si cominciò un gran processo.
Questi fatti accendevano gli sdegni di tutti, accrescevano il coraggio,
scrollavano il governo: i prigionieri erano lodati, visitati dai loro
conoscenti o da persone che desideravano conoscerli: l’andare in prigione era
come una moda, e tutti ne ridevano. Tra i prigionieri era Carlo Poerio,
arrestato sin dal 7 settembre dopo i fatti di Reggio, uomo di non mediocre
ingegno, facile parlatore, arguto, astuto, onesto, principe de’ cospiratori,
tirava a sé tutti i liberali che lo stimavano e lo amavano, e dipendevano da
lui; onde egli quantunque in prigione parlava con tutti, consigliava,
disponeva, ordinava ogni cosa, rinfocolava gli animi, prometteva, assicurava: e
così per una strana sciocchezza del governo, il carcere era mutato in un
ritrovo di liberali. Nella reggia il Re non si occupava che di affari di
polizia coi due commessari, e con altre sue spie particolari con le quali
s’intratteneva lunghe ore. Spesso malediceva Pio IX che aveva mosso il vespaio,
e spregiava come deboli Leopoldo e Carlo Alberto; ed entrando nel Rodomonte
diceva: “Anderò piuttosto a fare il colonnello in Russia o in Austria, che
cedere e mostrare debolezza”. E ordinava si cacciassero di Napoli gli studenti,
perché pieni delle nuove idee, e facili ad accendersi e maneschi: e subito
molti poveri giovani furono cacciati a fu ria: ma gli sdegni, le parole, i
lamenti di tutti furono tanti, che l’ordine fu revocato. Poteva durare
lungamente un governo che non sapeva essere né interamente tristo né veramente
buono?
Intanto io mi accorsi
che alcuni miei amici e conoscenti mi salutavano con un sorriso molto
significativo; e un giorno incontrai per via il presidente Marcarelli, il quale
mi disse: “E non vuoi stare quieto tu? Gli altri non ti hanno riconosciuto, io
sì.” “Ma di che parlate? io non intendo.” “Oh, tu intendi bene, e senza
parlare”. E sorridendo mi lasciò. Venne da me Ferdinando Vercillo e mi disse:
“Tu devi salvarti, perché sei mezzo scoverto.” “E come?” Roberto Savarese mi ha
detto che egli ha pensato lungamente chi poteva essere l’autore della Protesta,
e con metodo di esclusione è giunto a te. “Come con metodo di esclusione?”
Ha ragionato così. Il tale non può essere, perché non iscrive così, né il tale
altro, né quell’altro, ed ha esaminato tutti queli che sogliono scrivere.
Dunque dev’essere un ignoto. E chi è questo ignoto? Io gli aveva parlato di te
tempo fa, ed egli secco secco mi ha detto: ‘È lui, non può essere che lui. Come
l’ho riconosciuto io, può riconoscerlo la polizia se vi pensa, e in questi
furori capiterebbe male. Bisogna farlo partire’.” Roberto Savarese, Paolo
Emilio Imbriani, Francesco del Giudice, e Ferdinando Vercillo vollero che io
partissi, mi fecero avere dal ministro lord Napier un ordine d’imbarcarmi sopra
una fregata inglese che era in rada, ed essi tutti e quattro mi accompagnarono
come per diporto, e montati a bordo mi strinsero la mano e dissero: “Ora sei
sicuro”. Era il giorno 3 gennaio 1848.