La fregata inglese aveva
nome Odin, grande e pulitissima: gli uffiziali mi usarono molte
cortesie, e subito presero affezione al mio figliuolo Raffaele che io conduceva
con me, perché il fanciullo era assai vivace e la madre non poteva contenerlo,
e venendo con me imparava, ed io non era interamente solo nell’esidio. Dopo due
giorni venne a vedermi lord Napier, e mi disse: “Voi tornerete fra breve”. Più
tardi venne Paolo Emilio Im briani con la moglie Carlotta, sorella di Carlo ed
Alessandro Poerio, e con due figliuoletti. Il giorno appresso venne ancora mia
moglie con la Giulia, e le accompagnarono Cesare e Salvatore Correa. E mentre
mia moglie era con me, ecco il secondo comandante luogotenente Wacke, il quale
mi dice: “Avremo una visita del principe Luigi: non uscite del vostro camerino,
e i bambini non abbiano paura dei colpi di cannoni.” “Bella visita!” mi dice
l’inglese con un sorriso secco. La visita durò un’ora. Intanto mia moglie mi
diceva: “Dove va questa fregata?” A Cagliari in Sardegna, e di là mi sarà
facile passare a Genova e poi a Livorno. Intendo di andare in Toscana, dove
spero trovar lavoro, e dove verrai anche tu con la bambina. “È vero che il
ministro ti ha detto: ‘ritornerete presto’?” “Sì, ma chi sa quando sarà questo
presto! io intanto debbo trovar lavoro per vivere.” “Sai che ora tutti dicono
che tu hai scritta la Protesta? Ed alcuni mi hanno detto che hanno
sparsa la voce per far liberare quei che sono carcerati. Ed io ho risposto che
nessuno è stato carcerato come autore. ‘L’avete detto perché non sapete tenere
tre ceci in bocca, tutto che siete cospiratori’. Del resto lasciali dire, tu
sei in sicuro ora”.
L’Odin andò a
Cagliari. Il comandante F. Palham discese a terra, e tornato a bordo mi disse:
“Ho parlato al viceré per farvi sbarcare, e non è possibile, non vuole
permetterlo. Verrete con noi a Malta”. Il giorno dopo fu il 12 gennaio, e
faceva un tempo bellissimo: in quel giorno si combatteva in Palermo, e
cominciava la rivoluzione. Venne a bordo il viceré Lamarmora per visitare il legno:
era un vecchio alto, coi capelli bianchi, ed alcune decorazioni sul petto.
Volevo presentarmi e parlargli, ma certamente non avrei ottenuto ciò che egli
aveva negato al comandante, e forse avrei dispiaciuto all’inglese: però non ne
feci altro. Vennero ancora alcuni bersaglieri, e tra gli altri un capitano di
fiero e nobile aspetto, un bell’uomo, che vedendo me sopra una nave da guerra,
mi fece una dimanda in francese, a cui io risposi: ed egli fissandomi con due
occhi di sparviero mi disse: “Lei è italiano.” “Sì, e fuggo da Napoli”. Mi
strinse la mano. Era il capitano Lions, che fu poi deputato, e combatté da
prode, e morì di ferite toccate in battaglia. Parlammo un pezzo delle
condizioni d’Italia, ed egli mi ripeté che i popoli si redimono con le armi non
con gli evviva.
Il giorno appresso si
andò nella baia di Palmas dove era tutta la squadra inglese, il vascello Hibernia
sul quale era l’ammiraglio Parker, altri vascelli e fregate a vela, e un
solo vapore il Gladiator, simile all’Odin. Era un bello e grandioso
spettacolo vedere tutti quei legni, e più bello qundo si mossero e navigarono
indirizzandosi a Malta. Primo andava l’Hibernia, ultimo l’Odin. E
con quest’ordine s’entrò nel gran porto di Malta.
Ringraziai gli uffiziali
dell’Odin, dei quali avrò sempre a mente le squisite cortesie che mi
usarono, e sbarcai. Non conoscevo nessuno, avevo udito parlare tanto bene del
dottore Stilon, e pensai di rivolgermi a lui. Era questi di origine calabrese,
d’un paese presso Monteleone, e da giovane, per la rivoluzione del ‘20, si era
fuggito sopra una nave inglese, ed era farmacista e medico, e molto riputato in
Malta, dove era stabilito da lunghi anni, e si mostrava amico di tutti i
napoletani che lì capitavano. Mi accolse cordialmente, venne con me a trovarmi
un alloggio, mi usò cortesie, mi trattò come amico.
La prima cosa che mi
colpì in Malta fu leggere per tutte le cantonate grandi avvisi di vendita di
mobili di don Carlo di Borbone principe di Capua. Mi fece pena anzi dolore a
vedere uno dei reali di Napoli così vituperato, e ne domandai al dottore, il
quale mi rispose: “Muore di fame, e non può uscire di casa, se no i creditori
l’arrestano.” “È una cosa che fa pena.” “Non tanto per lui quanto per la moglie
che è un’ottima signora inglese, e per due angioli di figliuoletti.” “Re
Ferdinando certamente sa tutto questo, e non se ne cura. E se egli è così
crudelmente ostinato contro un fratello, che ne possiamo aver noi?”
Malta piccola, bella,
pulita, lucente, ha le donne con gli occhi parlanti, ed io non vidi donna per
vecchia e deforme che avesse gli occhi brutti. Subito mi trovai in mezzo agli
esuli, e li conobbi tutti. Agostino ed Antonio Plutino di Reggio, Carlo Gemelli
di Messina con altri messinesi che avevano fatto a le schioppettate il primo
settembre, Filippo Agresti della causa di frate Angelo Peluso, l’avvocato Luigi
Zuppetta e Giorgio Tamaio, e Luigi Fabrizi di Modena, e tra molti altri di cui
non ricordo i nomi, Lorenzo Borsini, toscano, che era piacevole poeta, ed aveva
fatto il prete, il giornalista, il tabaccaio, il cantante, e in Malta faceva
l’occhialaio, e aveva due figliuoli, e io andava sempre a la sua bottega per
udirlo parlare, ché diceva le più nuove piacevolezze. Talora andava dal Gemelli
che era un colto e gentile uomo di lettere, ed era in letto per malattia, e gli
venivano intorno gli altri siciliani che gridavano come ossessi e tempestavano
parlando della rivoluzione di Palermo, e della necessità di tornare a Messina.
Lessi nei giornali la gran bravura di Palermo, che gettò prima come un cartello
di sfida, disse che si leverebbe il 12 gennaio giorno in cui soleva
festeggiarsi la nascita del re, e si levò, e combatté con gran valore, e vinse,
e scacciò i soldati regi, e ordinò un comitato generale che ebbe Ruggiero
Settimo presidente, Mariano Stabile, segretario, stimati universalmente per
saldezza di animo e civile coraggio. La rivoluzione si propagava in tutta
l’isola, ogni città prese le armi, e combatté e scacciò i soldati: rimaneva
sola Messina con la cittadella che era irta di cannoni ed aveva un forte
presidio: e pure Messina si levò, e fece rinchiudere i regi nella cittadella, e
fu bombardata il 28 gennaio, non vinta. Di Napoli nessuna novella.
In Malta non avevo che
fare, mi pareva essere diviso dal mondo, mi tardava di andare in Toscana: il
giorno 5 febbraio m’imbarcai col mio Raffaele sopra un postale francese, e nel
6 entrammo nel porto di Messina. Il cielo era coverto di nuvole, e cadeva
un’acqua fina e fredda: la cittadella muta e minacciosa non pareva abitata da
anima viva, e sovr’essa la bianca bandiera borbonica si muoveva lentamente: su
la città sventolavano le bandiere di tutte le nazioni che lì avevano consoli, e
in alto sopra un forte la bandiera tricolore, la gran via su la marina era
deserta, molti bei palazzi mostravano qua e là lo sdrucito fattovi dalle palle
dei cannoni. Vennero su la banchina pochi marinai ed alcuni uomini con una
bandiera francese: “Si può scendere?” fu dimandato da bordo. “No, sì; si può,
scendete”. Scendemmo parecchi, ed io con gli altri tenendo forte per mano il
mio Raffaele. “Camminate diritti, se no da la cittadella vi vengono fucilate”.
Per un viottolo entrammo nella città. Tutti erano in armi, tutti erano in armi,
ed erano molto popolo, e fra tutti il Piraino, andava, veniva, dava ordini, era
presente e in ogni luogo. Ci accolsero bene. “E i nostri quando torneranno da
Malta?” mi fu dimandato; ed io: “Con l’altro postale”. Andammo poco innanzi e
in una bella piazza al cominciare d’una lunga e diritta via era una barriera di
sacchi d’arena, in mezzo ai quali un cannone, e dietro ai sacchi erano postati
due giovani armati, bruni e accigliati, che ci sguardarono un momento, e poi
fissarono gli occhi giù in fondo a quella via, e così stavano. Bisognò tornare
subito a bordo. E come il vapore si mosse ed uscì del porto apparve il sole che
ci mostrò tutta la bellezza del Faro, e le isole Eolie, e le coste della
Calabria. Il giorno 7 si giunse a Napoli.
Come il vapore entra nel
porto e dà fondo, ecco parecchi battelli con bandiere tricolori, e in uno mio
fratello Peppino, il quale da lontano mi grida: “Costituzione, amnistia.
Bozzelli ministro dell’interno, Carlo Poerio direttore di polizia: tutto è
mutato, scendi, scendi”. Lo abbracciai, e gli dissi: “Come va tutto questo?”
“C’è stata una grande dimostrazione il 27 gennaio, e il 29 si è pubblicato il
decreto reale che promette una costituzione, e dà piena amnistia.” “E con le
grida si è ottenuto tanto?” “In Napoli sono state grida, ma in Palermo una
rivoluzione terribile che ha vinte le truppe, e una rivoluzione nel Cilento.”
“E Ferdinando che voleva piuttosto fare il colonnello in Russia che cedere, ha
ceduto?” “Sì, e nel sottoscrivere il decreto della costituzione sai che ha
detto? ‘Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone tra le
gambe, ed io getto a loro questa trave. Spassiamoci ora tutti quanti’.” “Si
spassino pure, faremo davvero noi.” “Intanto scendiamo: manderemo Raffaele
subito da la mamma, e tu verrai meco in polizia, e poi a casa.” “Oh perché in
polizia?” “È ordine: chi scende deve andare in polizia, e dar conto di sé. Oh
di che temi? Sai chi è prefetto di polizia? Giacomo Tofano. Egli avrà piacere a
vederti.” “Ebbene andiamo.” – “Mia moglie come sta? come la Giulia?” “Bene, ed
allegre. Ti aspettavamo il 28, e tua moglie venne ad incontrarti con la
coccarda tricolore sul petto, che in quel giorno non la portavano neppure gli
uomini; ma tu non venisti in quel giorno, e fu meglio, che forse non saresti
disceso”. Andammo dunque in polizia. Il Tofano mi porse la mano, e mi disse:
“Ben venga, ben tornato! speriamo che non scriverete altre proteste”. Peppino
rispose: “Perché no, se saranno necessarie?”
Io non dissi parola, feci un inchino ed andai via: mi accorsi che il
Tofano aveva già preso l’aria di prefetto.
Tornai in casa mia,
donde era stato lontano un mese e pochi giorni; tornai a la mia professione
dell’insegnamento, tornai a la mia vita consueta lontano dalle adunanze e dai
rumori, e raramente uscivo di sera. Andavo sempre guardingo, sapevo che i
Borboni non perdonano ed io li aveva offesi, e temevo un pugnale o un veleno:
non accettai alcun invito a pranzo, non scrissi mai in alcun giornale.
Consideravo attentamente tutte le cose che mi si dicevano, osservavo bene
quelle che mi cadevano sotto gli occhi, pensavo sempre, e dimandavo come erano
avvenuti i fatti. Ogni volta che io udivo i monelli gridare per le vie,
vendendo alcune carte stampate: “L’esilio di Del Carretto, la fuga di monsignor
Cocle, la fuga di Campobasso e Morbillo, storie belle a leggere, un grano
l’una!” io mi sentivo scuotere, e pensavo: “Questi uomini quindici giorni fa
facevano tremare Napoli, ed ed oggi sono vituperati”. Quando il Re aveva le
dolorose nuove dalla Sicilia, e sentiva crescere ogni giorno i bollori di
Napoli, chiedeva consiglio a quelli che gli erano dattorno, e chi gli diceva
usasse il cannone, chi facesse rizzare una forca in capo ad ogni via, chi la
forza più irriterebbe il popolo, e doversi concedergli qualche cosa, chi
guadagnare i principali e più accesi liberali, e tirarseli con danari, onori,
ed anche uffizi: tutti furono di accordo a dire che la cagione di tutti i mali
erano gli abusi della polizia, si parlò della pericolosa potenza di Del
Carretto, del suo piegare verso i liberali, che tornava il carbonaro che era
stato nel 1820, che il ministero di polizia si dovesse abolire, e non confidare
più tanti poteri ad un uomo solo. La notte del 26 gennaio fu chiamato il Del
Carretto come a consiglio nel palazzo reale; gli si fecero innanzi il ministro
della guerra ed il generale Carlo Filangieri, e gli dissero che per comando del
re doveva subito allora imbarcarsi su di un vapore che attendeva ed uscire dal
regno. Il Del Carretto fu come percosso da un fulmine, chiese di parlare al re,
gli fu negato, dovette immediatamente così come si trovava montar sul vapore il
Nettuno e partire. Andò a Livorno, e lì il popolo trasse al porto, e con
alte grida maledicendolo e chiamandolo a morte, negò acqua e carboni, e lo
fecero partire. A Genova fu peggio; alcuni balzarono nei battelli per assalirlo
e prenderlo; e il capitano temendo per sé ed i suoi marinai voltò subito la
prua, e partì. Tornò a Gaeta, e dimandò al re che dovesse fare d’un uomo
cacciato da tutte le terre d’Italia: fu risposto, lo gittasse in Francia. Andò
a Marsiglia, dove anche grida e maledizioni, ma dopo due giorni sbarcò di notte
presso al lazzaretto, e si nascose in una villa presso la città. Questa fine
ebbe la potenza e l’ambizione di Francesco Saverio Del Carretto: pagò egli per
tutti.
Intanto si aspettava con
impazienza lo statuto, che il Bozzelli compilava per incarico avuto dal re.
Ognuno se lo immaginava secondo le sue voglie, ed alcuni scrissero
improvvisamente e stamparono proposte di statuti, e le portavano attorno, e te
le davano a leggere, e dimandavano: “Che ve ne pare?” I vecchi dicevano non
c’essere bisogno di nuovo statuto, bastare quello del 1820 con qualche leggiera
mutazione, così affermarsi non caduti mai i diritti della nazione, così fare i
siciliani che volevano non altro che la costituzione del 1812 accomodata ai
tempi ma dal parlamento non dal re. Il giorno 10 febbraio fu sottoscritto dal
re lo statuto, fu pubblicato il giorno 11. Io ne portavo in mano una copia, un
omaccione Matteo V... me la chiese, e avutala salì sovra una panca innanzi ad
un caffè, e cominciò a leggere con una voce di campana: il batter delle mani,
gli applausi, i cementi, i no, i sì, furono molti: io vedevo ed udivo di
lontano. Lo statuto era una copia anzi una traduzione della carta francese del
1830: il Bozzelli credette di aver scritto il codice di Solone che renderebbe
lui immortale e il popolo felicissimo. La moltitudine senza discorrere altro,
come udì pubblicata la legge che costituiva lo stato, prese a festeggiare,
andarono innanzi la reggia, e quantunque cadesse gran pioggia, vollero vedere il
re, e salutarlo: egli comparve sul gran balcone, circondato dalla famiglia, dai
ministri, e dai nobili servitori con le dorate livree, e fece molti inchini al
popolo plaudente. Poi lo vidi uscire in un carrozzino scoperto con a fianco la
moglie, e guidava egli i cavalli, e salutava accennando col capo: il popolo gli
si affollò intorno, volevano torre i cavalli e tirar la carrozza a mano, ma
egli tutto fuoco nel volto con rabbiosa e paurosa impazienza, gridando
“Lasciate,” e squassando le redini e flagellando i cavalli, si fece dar la via
terribilmente, e corse per la città. Per tutta la via Toledo si vedevano
carrozze e carri con sopra ogni condizione di persone che agitavano bandiere e
gridavano: e tra gli altri su di un carro vedevasi don Michele Viscusi vestito
da popolano tra dodici popolani che rappresentavo i dodici quartieri della
città, e tenevano ciascuno un gran cartello sul quale era scritto il nome ed il
vanto del quartiere14. La sera
non interruppe le furiose feste ed il corso che durò gran parte della notte: i
balconi tutti illuminati, i cittadini nei cocchi o a piedi agitavano torchi
accesi, gridavano, si abbracciavano fra loro chiamandosi fratelli,
abbracciavano soldati, gendarmi, birri. Il popolo minuto ed i fanciulli non
sapendo che dovevano dire, e pur volendo gridare, e forse beffare, ripetevano
“Vivooo,” voce senza idea, come senza idea era per essi quel mutamento di cose.
Ma non si può dire che sentimento si provava all’udire molti popolani gridare:
“Viva Italia! noi siamo Italiani!” Quella parola Italia che prima era
profferita da pochi ed in segreto, quella parola sentita da pochissimi e che
era stata l’ultima e sacra parola profferita da tanti generosi che morirono,
udita allora profferire e gridare dal popolo mi faceva sentire un brivido per
la schiena, pei visceri, pel petto, e mi sforzava alle lagrime.
Nei giorni seguenti
continuarono grida, luminarie, canti, musiche; ed una sera innanzi la reggia fu
cantato un inno in onore del principe da molte signore e gentiluomini, e fu
bellissimo. In questa ecco il carro di Mamone, tutti illuminato, e coi ritratti
del Pagano, del Cirillo, e di altri del 1799. Il re l’ebbe come un insulto, e
se ne sdegnò fieramente, e il povero Domenico Mamone Capri, che era un
professore di chimica, e aveva fatto quel carro coi suoi giovani, ebbe dipoi a
passare i guai suoi, che furono molti e grossi.
Dei mali sofferti per
tanti anni si dava la colpa ai ministri, al confessore, e a taluno altro:
dicevano che il Re era buono, e generoso sino a dare spontaneo uno statuto
costituzionale, ma era stato tradito, ingannato, non aveva saputo mai nulla dei
dolori del popolo. Il Bozzelli stesso diceva a tutti: “Il Re è un leale
cavaliere, ha maniere incantevoli ha ingegno non mediocre, è di buona fede, ve
lo assicuro io, è più costituzionale di noi”. “Neh!” rispondeva alcuno, “e noi
per ventisette anni non l’avevam conosciuto!” In tutti gli uomini di senno
stava la ferma persuasione che il Re era di mala fede, che tutti i Borboni per
tradizione di famiglia rappresentano la monarchia assoluta che è stata la loro
grandezza, che cedono sforzati da necessità, ed all’occasione ripigliano il
pieno potere, che Ferdinando aveva data la costituzione per imbrogliare le cose
non per ordinarle, che chi pochi giorni innanzi aveva fatto bombardare Palermo,
Messina, Reggio non era a un tratto diventato un angelo. “Stiamo attenti,
smettiamo le feste, attendiamo a lo stato, ordiniamo la guardia nazionale,
provvediamo a le provincie”. Ma le feste continuarono, anzi crebbero come si seppe
che Carlo Alberto l’8 di febbraio e Leopoldo di Toscana il 10 avevano dato
anche essi le loro costituzioni. Feste lì per la nostra, feste qui per le loro.
La rivoluzione di Napoli cominciò con l’agitare de’ fazzoletti, crebbe con le
grida e le chiacchiere, doveva finire con le schioppettate.
Il 24 febbraio fu
solennemente giurata la costituzione dal Re nella chiesa di San Francesco di
Paola che è dirimpetto la reggia. Il Re vi andò a piedi tra due file di guardie
nazionali, e vedendo tra queste un giovane Michele de Chiara che aveva la
coccarda tricolore e gli andava da presso, gli disse: “Togliete cotesta
coccarda: non sono i colori napoletani”. Il giovane se la cavò, e la pose in
tasca. Giurò il re a voce alta, giurarono i principi reali, tutti gli alti
uffiziali dello stato, e le milizie: molti siciliani che avevano uffici civili
o militari in Napoli non vollero giurare, dicendo non sapere quale costituzione
avrebbe la Sicilia. Furono altre feste ed allegrezze, ma i vecchi scrollavano
il capo e dicevano: “Ha giurato, e spergiurerà come il nonno Ferdinando I”.
Dopo due giorni viene un
corriere che chiede parlare al Re e dargli un dispaccio: il maggiordomo
dimanda: “Che novelle?” “Rivoluzione a Parigi, fuga di Luigi Filippo,
repubblica in Francia”. “Madonna santissima!” gridò il maggiordomo e svenne.
Questo fatto mi fu narrato da Carlo Poerio. Fu uno spavento, e molti dicevano
tornare il 1793, ma gli anni non tornano, come gli uomini non rinascono.
Intanto il pensiero più
grave che occupava tutti era la Sicilia che rifiutava lo statuto napoletano del
10 febbraio, e rispondeva sempre volere la sua costituzione del 1812 accomodata
ai tempi dal suo parlamento, voler essere un regno tutto diviso, indipendente,
con un viceré che fosse o principe reale o cittadino siciliano, ed avesse
poteri amplissimi, che i ministri sarebber nominati dal Re ma stessero in
Palermo, non più milizie napoletane in Sicilia; che per gli affari comuni ai
due regni sarebbe una commissione mista scelta tra i membri di ciascun
parlamento. Queste condizioni parevano dure non pure al Re, ma a parecchi
napoletani e italiani, i quali dicevano e stampavano che la Sicilia separandosi
da Napoli si separava dall’Italia, che questo sicilianismo era gretto, era un
rancore antico di Palermo contro Napoli che è metropoli del regno, che i popoli
fratelli debbono unirsi con le leggi e le istituzioni simili che producono
costumi e sentimenti simili, che le due costituzioni separerebbero più del mare
e per sempre i due popoli; che lo statuto del 10 febbraio era stato dato non
per le grida di Napoli ma pel sangue di Palermo, lo accettassero adunque come
loro conquista. Rispondevano i siciliani che essi non si separavano
dall’Italia, che la loro indipendenza non nuoceva all’Italia la quale doveva
unirsi in federazione non in un regno; che la loro costituzione non l’avevano
mai perduta perché i popoli non perdono mai i loro diritti, ed ora l’avevano
riconquistata col sangue non con le grida, che si toglierebbe ogni rancore,
ogni cagione di odio se Napoli fosse sorella non padrona, che conoscevano il
Borbone e non volevano neppure il bene che venisse da lui; che non volevano più
vedere in Sicilia quei cari fratelli napoletani che avevano bombardate le loro
città. Queste cose che in Sicilia si dicevano e si stampavano erano ripetute in
Napoli da molti siciliani con parole accese, e dai calabresi di Reggio; onde le
parti si aizzavano, i giovani pel caffè discutevano di politica, gridavano
contro i ministri e contro tutti. Il Re, che aveva contro i siciliani quello sdegno
che si può immaginare, non parlava, lasciava fare i ministri, i quali indecisi
e lenti trattavano questo affare, e cedevano a poco a poco, e i siciliani
pretendevano. Il ministro Scovazzo che era siciliano diede le sue dimissioni.
Si offerse compositore di pace lord Minto, legato straordinario inglese a le
corti italiane, il quale stava da lungo tempo in Italia, e fu pregato di andar
subito a Palermo ed egli parti, e molti sperarono e pochi sorrisero. Non
conchiuse nulla; i siciliani non cessero d’un punto, anzi aggiunsero altre
dimande: il nobile lord non tornò più in Napoli, ma fece sapere la risposta del
comitato. La Sicilia si staccò da Napoli: il suo parlamento si aprì in Palermo
il 25 marzo. Ferdinando II fece una sua protesta, e aspettò tempo.
Il ministero, che non
aveva saputo trovar modo di comporre la grande quistione della Sicilia, non
cadde ma si trasformò; e di sette che erano i ministri ne comparvero dieci il
giorno 6 marzo, perché si disse che i primi non erano d’accordo, e ci dovevano entrare
più liberali; e si volle anche dar luogo ad ambizioni novelle. E fu rimpastato
così: il duca di Serra Capriola, presidente; il barone Bonanni agli affari
ecclesiastici; Il principe Dentice a le finanze; il principe di Torella
all’agricoltura e commercio; il Bozzelli all’interno; il principe di Cariati
agli affari esteri; Degli Uberti alla guerra; Giacomo Savarese ai lavori
pubblici; Carlo Poerio all’istruzione pubblica; Aurelio Saliceti a grazia e
giustizia. Il Tofano salì a direttore di polizia, e in suo luogo a prefetto di
polizia un altro avvocato Teodorico Cacace. E come se dieci fossero pochi,
alcuni ministri si scelsero loro coadiutori con centocinquanta ducati il mese,
e poi tutti vollero un cencinquanta.
Carlo Poerio mi offrì il
posto di uffiziale di ripartimento, o capo divisione, nel ministero
d’istruzione pubblica, io l’accettai, e fui nominato il 22 marzo. Ci stetti
quasi due mesi, e non ricordo di aver fatto nulla, e pure avrei voluto fare
qualcosa. Mi trovai in una baraonda: tutti venivano, tutti chiedevano, e chi
non chiedeva per sé raccomandava altri, o dava consigli; ed indi a pochi giorni
uscì il Poerio, ed entrò ministro l’Imbriani, che non stette un mese e si
ritirò, e il ministero fu preso da Carlo Troya: tre ministri in cinquanta giorni.
Il 16 maggio me ne andai anch’io, e mandai la mia rinunzia al Bozzelli. Mi
ricordo che in quei giorni ebbi un continuo capogiro, da professore diventato
segretario non mi raccapezzavo più.
Il rifatto ministero non
poteva far cessare l’agitazione degli animi la quale ogni giorno cresceva. Si
scomponeva la gran macchina del vecchio governo ma con poco senno: si
toglievano i tristi, ma non si sapeva trovare i buoni per metterli al posto di
quelli: i furbi rimasero; i nuovi spesso inetti non sapevano che fare: tutti
chiacchieravano, nelle vie si gridava da tutti. Con le grida avevano ottenuto
una costituzione, dunque con le grida ciascuno credeva di ottenere un posto.
Nei circoli si faceva un gran parlare di tutte le cose, e chi aveva lo
scilinguagnolo più spedito, e sfoderava disegni più strani era più applaudito.
La stampa sfrenata pubblicava vergogne, calunnie, verità, nefandezze, mordeva
tutti. La plebe diceva: “E se non si lavora, e noi stiamo digiuni, che libertà
è questa? Prima il Re era uno e mangiava per uno: ora son mille e mangiano per
mille. Bisogna che pensiamo ai fatti nostri, anche noi”. Nelle province i
contadini invadevano e dividevano tra loro i terreni appartenenti al demanio, o
a proprietari che se n’erano già impossessati, ed erano odiati perché
arricchiti per usure ed estorsioni: onde si udivano lamenti da tutte le parti.
E in Napoli la plebe non avendo terre a dividere, meditava di assalire le case
e saccheggiare come aveva fatto nel 1799. A questo scompiglio venne ad
aggiungersi come olio a fiamma la narrazione che facevano i giornali della
rivoluzione e della repubblica in Francia, i movimenti già cominciati
nell’Italia superiore, la costituzione data da Pio IX il 13 marzo per non poter
fare altro, la cacciata de’ gesuiti da Genova: onde i cervelli andavano in
visibilio, la costituzione non contentava più nessuno, e dicevano bisognava
dilargarla per non andare addirittura alla repubblica.
Tutto quel vociare che
facevano i napoletani era come lo stridulo ronzio delle api quando vengono a
zuffa tra loro: se vi getti un pugno di terra la battaglia finisce. Bisognava
un pugno di terra per farli tacere e chetare, bisognava una mano forte, e non
v’era; anzi uomini anche sennati dicevano che bisognava andare innanzi, e il
ministro Saliceti osò consigliare il re di mettersi a capo della rivoluzione
per padroneggiarla, e ricordarsi di Luigi XVI e di Napoleone, l’uno a la coda
della rivoluzione vide sparire la monarchia nella repubblica, l’altro alla
testa della rivoluzione fa sparire la repubblica nell’impero. Queste parole
spiacquero al re, il quale credette vedere nella faccia del Saliceti una
somiglianza al Robespierre. Non ci volle altro per dirlo repubblicano
terrorista. Era egli un uomo che andava diritto al suo scopo, breve nel dire e
nel fare. Cominciò a scopare i magistrati indegni; e propose ai suoi colleghi
questo decreto: “Tutti i gesuiti usciranno dal regno, i loro beni sono
incamerati”.
I colleghi se ne
spaventarono, “sì, no”. L’altro giorno gran popolo va a gridare innanzi a la
porta de’ gesuiti, i quali protetti dalle guardie nazionali, escono, vanno ad
imbarcarsi, portano un vecchio ammalato sopra un seggiolone a spettacolo per
commuovere il popolo. Sbarcano a Baia, e travestiti tornano in Napoli quelli
che vogliono tornarvi. Di questa cacciata fu incolpato principalmente il
Saliceti, che divenne segno all’odio di tutti i gesuitanti e lo spauracchio di
tutti gli uomini fiacchi che sono la massima parte. Si temeva degli
attruppamenti del popolo, si credeva che un giorno o l’altro proclamerebbero la
repubblica, si volle proibirli con una legge provvisoria dichiarandoli reati
contro lo stato e da disperderli subito con le fucilate. Il Saliceti non
approvava la legge, e cercava dissuadere i colleghi: non poté andare al
consiglio dei ministri perché ammalato: il presidente gli scrisse, andasse o
rinunziasse. Il Saliceti capì, e mandò la sua rinunzia: fu ministro sette
giorni. In suo luogo fu nominato il mio Giuseppe Marcarelli uomo ottimo e
dolcissimo, che anch’egli comparì e disparve con gli altri. Quei ministri erano
come le figure d’una lanterna magica. Fu fatta la legge, e non ebbe effetto,
ché i tumulti crebbero, ed ogni giorno ed ogni ora vedevi una moltitudine di
poltroni variamente vestiti con le gole spalancate gridare abbasso ministri,
abbasso questo e quell’altro impiegato. Il governo tremava di quelle voci, e
delle ingiurie dei giornali tra i quali velenosissimo era un giornaletto
intitolato Mondo vecchio e mondo nuovo.
Si spargeva che cacciati
via i gesuiti si doveva cacciare ancora i frati di Sant’Alfonso, e quelli del
Carmino. La plebe del Mercato che ama la sua antica chiesa del Carmine, e la
sua madonna, e i suoi frati che lì sono, si leva a rumore, in gran moltitudine,
e viene verso via Toledo scagliando pietre, e preparando rovine: accorre la
guardia nazionale che a fucilate la insegue e la sperde. La belva si era
destata, e faceva terrore; onde il Bozzelli consigliò il Re di pubblicare un
decreto col quale la guardia nazionale aveva a protettrice la madonna del
Carmine, e che quando sarebbe tutta vestita ed ordinata anderebbe solennemente
a visitare la madonna in quella chiesa. La plebe stette cheta, dissero pel
decreto, io credo per le fucilate.
La legge provvisoria su
la guardia nazionale fu pubblicata il 13 marzo; ma la guardia nazionale non fu
mai né ordinata né istruita. Chiunque avesse fatto scrivere il suo nome nei
registri, si metteva una piastra d’ottone al cappello, e senz’altro era guardia
nazionale. Nei primi giorni di febbraio era bello il vedere moltissimi nobili giovani
assai pulitamente vestiti, dimenticar le delizie, gli spassi e persino le donne
e comparire gioiosi col fucile in mano e mantener l’ordine e la quiete nella
città; ma dopo un mese ogni tristo, ogni spia, ogni più feccioso uomo prendeva
il fucile, ed era guardia nazionale, e faceva ciò che ei ci voleva; ed uomini
vigliacchi e malvagi ottennero gradi di ufficiali. Ci erano i buoni e i bravi,
ma pochi.
Un’altra legge del 17
marzo scioglieva la gendarmeria: alcuni formarono i reggimenti detti dei carabinieri,
altri furono guardie di sicurezza interna seguitando a trattar funi e manette.
Questo scioglimento mise in gravi sospetti i soldati, ai quali si andava
dicendo che si aveva in pensiero di sciogliere l’esercito perché la guardia
nazionale bastava a tutto. I soldati vinti in Sicilia per inettezza de’ loro
capitani, trafitti dalle ingiurie e dalle beffe che contro di loro scrivevano i
siciliani, come in Napoli furono tenuti chiusi nei quartieri, raramente
uscivano, e taluni di essi furono anche fischiati nelle vie. Si rodevano per
questi sconsigliati ed ingiusti disprezzi, si rodevano a vedere le insegne di
ufficiali su certi ometti di stoppa a cui dovevano fare il saluto militare. Chi
pensa quanto è cocente la gelosia di mestiere non crederà lieve questa cagione
di odio che l’esercito portava a la guardia nazionale. I soldati stavano
cagneschi contro tutti i liberali; ma come conoscerli? dal vestito, e li
chiamarono nazionali. Vergogna, desiderio di vendetta, disprezzi, sospetti,
gelosie, interesse, e poi star sempre su l’armi e palpitanti, non dormire, non
posare, e chiusi come belve nei quartieri dove era vietato leggere ogni carta,
vietato parlare, vietato vedere cittadini: tutte queste cose li aspreggiavano,
l’irritavano, li tenevano come mastini a la catena.
In quei giorni di marzo
ecco rivoluzione a Vienna e fuga del ministro Metternich: sorge Milano e
combatte gloriosamente per cinque giornate e scaccia gli austriaci; sorgono le
altre città lombarde, sorge Venezia a la voce di Daniele Manin, e fa uscire lo
straniero, sorgono Modena e Parma; Carlo Alberto re di Piemonte, leva la
bandiera italiana, ed entra con un esercito in Lombardia: rivoluzione in
Ungheria, in Boemia, in Baviera, in Sassonia, nel Wurtemberg, a Berlino, a
Posen, in tutta la Germania: l’Europa si apre ed arde come un immenso vulcano.
Anche oggi dopo tanti anni a ricordare quei tanti miracoli politici che
cominciarono in Palermo il 12 gennaio, sento che il cuore mi palpita più forte,
e dico come dicevo allora: “Non è caso cotesto che muove nello stesso tempo
tanti popoli d’Europa dalla Sicilia al Jutland; ma è un lavorìo antico e
nascosto che si è fatto nella coscienza di questi popoli che sofferivano gli
stessi mali. Tornerà a niente tutto questo? Non è possibile: è fuoco che nasce
di dentro, sono fatti necessari che nascono dalla coscienza. L’Europa si
rinnova: avrà travagli, ma si rinnova certamente”. Allora parve sonata la
grande ora del riscatto italiano: non vi fu gioia più pura, speranza più lieta,
concorso di casi più felice. Il nostro popolo sentì quasi per istinto che in
Lombardia si decideva della libertà e della vita di tutti gl’Italiani, che il
primo e più sacro dovere di tutti era quello di prendere le armi e correre e
scacciare lo straniero. Se saremo concordi e saremo tutti, chi ci resisterà?
Alcuni corsero al
palazzo dell’ambasciatore austriaco, tolsero l’abborrito stemma dell’aquila, lo
ruppero, lo bruciarono tra le grida di viva Italia, morte all’Austria.
Biasimerei queste ire, ma ricordo i soldati austriaci frustare i carbonari,
fustigare le donne nude, infilare i bambini a le baionette, e gridare “Porca
italiana”; le scuso queste ire, e le biasimo soltanto perché si volsero sopra
uno stemma.
Un’immensa moltitudine
di popolo andò innanzi la reggia e gridò si mandassero soldati in Lombardia;
andò a casa del Bozzelli a chiedere che il governo mandasse subito soldati in
Lombardia, e desse le armi ai volontari: i nostri giovani davano i loro nomi
per quella santa crociata, e di niente altro parlavano, niente altro desideravano
che correre in Lombardia con la croce sul petto dell’uniforme nazionale.
Cristina Trivulzio, principessa di Belgioioso, milanese, che allora era in
Napoli, si fece guidatora di una schiera di giovani ardenti e con essi partì il
29 marzo. Fin dalla Sicilia, dalla implacabile Sicilia, vennero uomini
generosi, e dimenticando ogni gara ed offesa, si abbracciarono coi napoletani,
si chiamarono fratelli, e corsero insieme in Lombardia.
Tra le carte che io
scriveva allora e che mi furono salvate da mia moglie, trovo una memoria di
questi fatti, e queste parole: “E tanti sforzi generosi, e tanto sangue sparso,
e tanta virtù mostrata sarà stato tutto vano? sarà stato un sogno? Per Dio! E
torneremo a le antiche angosce, alle antiche miserie, all’antica, obbrobriosa,
nefanda, oscena servitù? No, no: Italia è stata svegliata da Dio: e o Dio non
esiste, o Italia risorgerà. Io lo credo, io lo sento, io lo giuro, quantunque
ora che scrivo l’austriaco sia tornato a Milano, e in Germania si sieno fatte
feste e banchetti per la servitù d’Italia: il tedesco uscirà d’Italia. Io non
odio i tedeschi, sieno liberi, sieno ricchi, sieno felici: amici sì padroni no,
per Dio, no, no: io odio e maledico e son pronto a dare mille volte la morte a
chi vuoi togliermi la patria, l’onore e il sacro nome d’italiano”.
All’ardore del popolo il
governo si mostrava freddo e lento: onde crebbero gli sdegni e le ire contro
ministri che furon chiamati traditori e cercati a morte. Era un garbuglio, era
un viluppo di nodi, da non potersi sciogliere, sì tagliare d’un colpo, e non si
ebbe forza né coraggio da tagliare. La guerra contro l’Austria era santa e
necessaria: ma volere che questa guerra la facesse Ferdinando II, era una
pazzia; credere di poterlo sforzare a farla, era una stoltezza; avrebbe opposta
ogni resistenza, avrebbe fatto il peggio, come fece, e se si fosse data
un’occasione si sarebbe unito all’Austria. O bisognava rimaner napoletani,
senza pensare all’Italia, e stare contenti a lo statuto del 10 febbraio senza
andare più in là: o volendo combatter l’Austria e dilargar lo statuto bisognava
cacciare Ferdinando, almeno ritorgli di mano tutto il potere che aveva su
l’esercito, e lasciargli non altro che il nome di re. Egli aveva ragione quando
diceva: “Lo statuto è giurato: bisogna mantenerlo intatto. Che direste voi se
lo violassi io? e che debbo dire io se lo violate voi e dopo pochi giorni senza
pure aspettare a vederne gli effetti?” Aveva ragione allora, ma quando poi lo
violò egli, anzi lo annullò, fece vedere chiaramente che egli allora mentiva, e
che il popolo giustamente diffidava di lui. In quelle agitazioni egli ricercò
di consiglio il generale Carlo Filangeri, figliuolo d’illustre padre,
rispettato per imprese di guerre al tempo di re Gioacchino, uomo di molto
ingegno, e astuto, ma negoziante fallito, e però non più pregiato dalla parte
liberale come ci voleva. Costui disse al re: “Fate fare tutto ai ministri, voi
fingete cedere ad ogni dimanda: una cosa dovete far voi, stringere a voi le
milizie, e separarle dal popolo, anzi irritarle contro di esso: lasciate
crescere il disordine e l’anarchia, anzi versate olio sul fuoco: ché quando il
disordine sarà intero, pochi uomini ordinati opprimeranno tutti: per tornare al
servaggio bisogna abusare la libertà”. Il Re si valse del consiglio, e rispose:
“Mi hanno canzonato con le chiacchiere: questo mi duole più di ogni altra cosa.
A suo tempo risponderemo coi fatti”.
In uno di quei giorni
Carlo Poerio mi disse: “Tra il popolo che grida, il re che inganna, e i ministri
che non sanno quello che fanno, un galantuomo non ci può stare. Stamane ho dato
la mia dimissione: e ti prometto che nella mia vita non accetterò più mai un
ufficio pubblico. Non doveva accettare il ministero, e me ne pento, perché chi
ha cospirato con tanti, non può contentare le ambizioni di tanti. Rimani tu al
tuo posto finché ti sarà consentito dall’onore. Io anderò alla Camera”. Lo
avevano ingiuriato, avevan detto che Ferdinando gli dava i sigari e fumava
lungamente con lui, e che egli era un traditore. Voci di plebe stolta e
sfrenata. Pochi giorni appresso, su la fine di marzo, tutto il ministero non
potendo reggere a la tempesta, si dimise senza aver fatto nulla di bene che
rimanga: uomini non tristi, anzi rispettabili per molti versi, ma incapaci di
governare in quelle burrasche: anche lo stesso Bozzelli a me parve sempre un
vanitoso, non un malvagio come poi si disse. Napoletani non intesero che Napoli
o doveva salvarsi con l’Italia, o con l’Italia cadere.