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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE PRIMA (1813-1849)
    • XX - La rivoluzione del 1848
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XX - La rivoluzione del 1848

La fregata inglese aveva nome Odin, grande e pulitissima: gli uffiziali mi usarono molte cortesie, e subito presero affezione al mio figliuolo Raffaele che io conduceva con me, perché il fanciullo era assai vivace e la madre non poteva contenerlo, e venendo con me imparava, ed io non era interamente solo nell’esidio. Dopo due giorni venne a vedermi lord Napier, e mi disse: “Voi tornerete fra breve”. Più tardi venne Paolo Emilio Im briani con la moglie Carlotta, sorella di Carlo ed Alessandro Poerio, e con due figliuoletti. Il giorno appresso venne ancora mia moglie con la Giulia, e le accompagnarono Cesare e Salvatore Correa. E mentre mia moglie era con me, ecco il secondo comandante luogotenente Wacke, il quale mi dice: “Avremo una visita del principe Luigi: non uscite del vostro camerino, e i bambini non abbiano paura dei colpi di cannoni.” “Bella visita!” mi dice l’inglese con un sorriso secco. La visita durò un’ora. Intanto mia moglie mi diceva: “Dove va questa fregata?” A Cagliari in Sardegna, e di mi sarà facile passare a Genova e poi a Livorno. Intendo di andare in Toscana, dove spero trovar lavoro, e dove verrai anche tu con la bambina. “È vero che il ministro ti ha detto: ‘ritornerete presto’?” “Sì, ma chi sa quando sarà questo presto! io intanto debbo trovar lavoro per vivere.” “Sai che ora tutti dicono che tu hai scritta la Protesta? Ed alcuni mi hanno detto che hanno sparsa la voce per far liberare quei che sono carcerati. Ed io ho risposto che nessuno è stato carcerato come autore. ‘L’avete detto perché non sapete tenere tre ceci in bocca, tutto che siete cospiratori’. Del resto lasciali dire, tu sei in sicuro ora”.

L’Odin andò a Cagliari. Il comandante F. Palham discese a terra, e tornato a bordo mi disse: “Ho parlato al viceré per farvi sbarcare, e non è possibile, non vuole permetterlo. Verrete con noi a Malta”. Il giorno dopo fu il 12 gennaio, e faceva un tempo bellissimo: in quel giorno si combatteva in Palermo, e cominciava la rivoluzione. Venne a bordo il viceré Lamarmora per visitare il legno: era un vecchio alto, coi capelli bianchi, ed alcune decorazioni sul petto. Volevo presentarmi e parlargli, ma certamente non avrei ottenuto ciò che egli aveva negato al comandante, e forse avrei dispiaciuto all’inglese: però non ne feci altro. Vennero ancora alcuni bersaglieri, e tra gli altri un capitano di fiero e nobile aspetto, un bell’uomo, che vedendo me sopra una nave da guerra, mi fece una dimanda in francese, a cui io risposi: ed egli fissandomi con due occhi di sparviero mi disse: “Lei è italiano.” “Sì, e fuggo da Napoli”. Mi strinse la mano. Era il capitano Lions, che fu poi deputato, e combatté da prode, e morì di ferite toccate in battaglia. Parlammo un pezzo delle condizioni d’Italia, ed egli mi ripeté che i popoli si redimono con le armi non con gli evviva.

Il giorno appresso si andò nella baia di Palmas dove era tutta la squadra inglese, il vascello Hibernia sul quale era l’ammiraglio Parker, altri vascelli e fregate a vela, e un solo vapore il Gladiator, simile all’Odin. Era un bello e grandioso spettacolo vedere tutti quei legni, e più bello qundo si mossero e navigarono indirizzandosi a Malta. Primo andava l’Hibernia, ultimo l’Odin. E con quest’ordine s’entrò nel gran porto di Malta.

Ringraziai gli uffiziali dell’Odin, dei quali avrò sempre a mente le squisite cortesie che mi usarono, e sbarcai. Non conoscevo nessuno, avevo udito parlare tanto bene del dottore Stilon, e pensai di rivolgermi a lui. Era questi di origine calabrese, d’un paese presso Monteleone, e da giovane, per la rivoluzione del ‘20, si era fuggito sopra una nave inglese, ed era farmacista e medico, e molto riputato in Malta, dove era stabilito da lunghi anni, e si mostrava amico di tutti i napoletani che capitavano. Mi accolse cordialmente, venne con me a trovarmi un alloggio, mi usò cortesie, mi trattò come amico.

La prima cosa che mi colpì in Malta fu leggere per tutte le cantonate grandi avvisi di vendita di mobili di don Carlo di Borbone principe di Capua. Mi fece pena anzi dolore a vedere uno dei reali di Napoli così vituperato, e ne domandai al dottore, il quale mi rispose: “Muore di fame, e non può uscire di casa, se no i creditori l’arrestano.” “È una cosa che fa pena.” “Non tanto per lui quanto per la moglie che è un’ottima signora inglese, e per due angioli di figliuoletti.” “Re Ferdinando certamente sa tutto questo, e non se ne cura. E se egli è così crudelmente ostinato contro un fratello, che ne possiamo aver noi?”

Malta piccola, bella, pulita, lucente, ha le donne con gli occhi parlanti, ed io non vidi donna per vecchia e deforme che avesse gli occhi brutti. Subito mi trovai in mezzo agli esuli, e li conobbi tutti. Agostino ed Antonio Plutino di Reggio, Carlo Gemelli di Messina con altri messinesi che avevano fatto a le schioppettate il primo settembre, Filippo Agresti della causa di frate Angelo Peluso, l’avvocato Luigi Zuppetta e Giorgio Tamaio, e Luigi Fabrizi di Modena, e tra molti altri di cui non ricordo i nomi, Lorenzo Borsini, toscano, che era piacevole poeta, ed aveva fatto il prete, il giornalista, il tabaccaio, il cantante, e in Malta faceva l’occhialaio, e aveva due figliuoli, e io andava sempre a la sua bottega per udirlo parlare, ché diceva le più nuove piacevolezze. Talora andava dal Gemelli che era un colto e gentile uomo di lettere, ed era in letto per malattia, e gli venivano intorno gli altri siciliani che gridavano come ossessi e tempestavano parlando della rivoluzione di Palermo, e della necessità di tornare a Messina. Lessi nei giornali la gran bravura di Palermo, che gettò prima come un cartello di sfida, disse che si leverebbe il 12 gennaio giorno in cui soleva festeggiarsi la nascita del re, e si levò, e combatté con gran valore, e vinse, e scacciò i soldati regi, e ordinò un comitato generale che ebbe Ruggiero Settimo presidente, Mariano Stabile, segretario, stimati universalmente per saldezza di animo e civile coraggio. La rivoluzione si propagava in tutta l’isola, ogni città prese le armi, e combatté e scacciò i soldati: rimaneva sola Messina con la cittadella che era irta di cannoni ed aveva un forte presidio: e pure Messina si levò, e fece rinchiudere i regi nella cittadella, e fu bombardata il 28 gennaio, non vinta. Di Napoli nessuna novella.

In Malta non avevo che fare, mi pareva essere diviso dal mondo, mi tardava di andare in Toscana: il giorno 5 febbraio m’imbarcai col mio Raffaele sopra un postale francese, e nel 6 entrammo nel porto di Messina. Il cielo era coverto di nuvole, e cadeva un’acqua fina e fredda: la cittadella muta e minacciosa non pareva abitata da anima viva, e sovr’essa la bianca bandiera borbonica si muoveva lentamente: su la città sventolavano le bandiere di tutte le nazioni che avevano consoli, e in alto sopra un forte la bandiera tricolore, la gran via su la marina era deserta, molti bei palazzi mostravano qua e lo sdrucito fattovi dalle palle dei cannoni. Vennero su la banchina pochi marinai ed alcuni uomini con una bandiera francese: “Si può scendere?” fu dimandato da bordo. “No, sì; si può, scendete”. Scendemmo parecchi, ed io con gli altri tenendo forte per mano il mio Raffaele. “Camminate diritti, se no da la cittadella vi vengono fucilate”. Per un viottolo entrammo nella città. Tutti erano in armi, tutti erano in armi, ed erano molto popolo, e fra tutti il Piraino, andava, veniva, dava ordini, era presente e in ogni luogo. Ci accolsero bene. “E i nostri quando torneranno da Malta?” mi fu dimandato; ed io: “Con l’altro postale”. Andammo poco innanzi e in una bella piazza al cominciare d’una lunga e diritta via era una barriera di sacchi d’arena, in mezzo ai quali un cannone, e dietro ai sacchi erano postati due giovani armati, bruni e accigliati, che ci sguardarono un momento, e poi fissarono gli occhi giù in fondo a quella via, e così stavano. Bisognò tornare subito a bordo. E come il vapore si mosse ed uscì del porto apparve il sole che ci mostrò tutta la bellezza del Faro, e le isole Eolie, e le coste della Calabria. Il giorno 7 si giunse a Napoli.

Come il vapore entra nel porto e fondo, ecco parecchi battelli con bandiere tricolori, e in uno mio fratello Peppino, il quale da lontano mi grida: “Costituzione, amnistia. Bozzelli ministro dell’interno, Carlo Poerio direttore di polizia: tutto è mutato, scendi, scendi”. Lo abbracciai, e gli dissi: “Come va tutto questo?” “C’è stata una grande dimostrazione il 27 gennaio, e il 29 si è pubblicato il decreto reale che promette una costituzione, e piena amnistia.” “E con le grida si è ottenuto tanto?” “In Napoli sono state grida, ma in Palermo una rivoluzione terribile che ha vinte le truppe, e una rivoluzione nel Cilento.” “E Ferdinando che voleva piuttosto fare il colonnello in Russia che cedere, ha ceduto?” “Sì, e nel sottoscrivere il decreto della costituzione sai che ha detto? ‘Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone tra le gambe, ed io getto a loro questa trave. Spassiamoci ora tutti quanti’.” “Si spassino pure, faremo davvero noi.” “Intanto scendiamo: manderemo Raffaele subito da la mamma, e tu verrai meco in polizia, e poi a casa.” “Oh perché in polizia?” “È ordine: chi scende deve andare in polizia, e dar conto di sé. Oh di che temi? Sai chi è prefetto di polizia? Giacomo Tofano. Egli avrà piacere a vederti.” “Ebbene andiamo.” – “Mia moglie come sta? come la Giulia?” “Bene, ed allegre. Ti aspettavamo il 28, e tua moglie venne ad incontrarti con la coccarda tricolore sul petto, che in quel giorno non la portavano neppure gli uomini; ma tu non venisti in quel giorno, e fu meglio, che forse non saresti disceso”. Andammo dunque in polizia. Il Tofano mi porse la mano, e mi disse: “Ben venga, ben tornato! speriamo che non scriverete altre proteste”. Peppino rispose: “Perché no, se saranno necessarie?”  Io non dissi parola, feci un inchino ed andai via: mi accorsi che il Tofano aveva già preso l’aria di prefetto.

Tornai in casa mia, donde era stato lontano un mese e pochi giorni; tornai a la mia professione dell’insegnamento, tornai a la mia vita consueta lontano dalle adunanze e dai rumori, e raramente uscivo di sera. Andavo sempre guardingo, sapevo che i Borboni non perdonano ed io li aveva offesi, e temevo un pugnale o un veleno: non accettai alcun invito a pranzo, non scrissi mai in alcun giornale. Consideravo attentamente tutte le cose che mi si dicevano, osservavo bene quelle che mi cadevano sotto gli occhi, pensavo sempre, e dimandavo come erano avvenuti i fatti. Ogni volta che io udivo i monelli gridare per le vie, vendendo alcune carte stampate: “L’esilio di Del Carretto, la fuga di monsignor Cocle, la fuga di Campobasso e Morbillo, storie belle a leggere, un grano l’una!” io mi sentivo scuotere, e pensavo: “Questi uomini quindici giorni fa facevano tremare Napoli, ed ed oggi sono vituperati”. Quando il Re aveva le dolorose nuove dalla Sicilia, e sentiva crescere ogni giorno i bollori di Napoli, chiedeva consiglio a quelli che gli erano dattorno, e chi gli diceva usasse il cannone, chi facesse rizzare una forca in capo ad ogni via, chi la forza più irriterebbe il popolo, e doversi concedergli qualche cosa, chi guadagnare i principali e più accesi liberali, e tirarseli con danari, onori, ed anche uffizi: tutti furono di accordo a dire che la cagione di tutti i mali erano gli abusi della polizia, si parlò della pericolosa potenza di Del Carretto, del suo piegare verso i liberali, che tornava il carbonaro che era stato nel 1820, che il ministero di polizia si dovesse abolire, e non confidare più tanti poteri ad un uomo solo. La notte del 26 gennaio fu chiamato il Del Carretto come a consiglio nel palazzo reale; gli si fecero innanzi il ministro della guerra ed il generale Carlo Filangieri, e gli dissero che per comando del re doveva subito allora imbarcarsi su di un vapore che attendeva ed uscire dal regno. Il Del Carretto fu come percosso da un fulmine, chiese di parlare al re, gli fu negato, dovette immediatamente così come si trovava montar sul vapore il Nettuno e partire. Andò a Livorno, e il popolo trasse al porto, e con alte grida maledicendolo e chiamandolo a morte, negò acqua e carboni, e lo fecero partire. A Genova fu peggio; alcuni balzarono nei battelli per assalirlo e prenderlo; e il capitano temendo per sé ed i suoi marinai voltò subito la prua, e partì. Tornò a Gaeta, e dimandò al re che dovesse fare d’un uomo cacciato da tutte le terre d’Italia: fu risposto, lo gittasse in Francia. Andò a Marsiglia, dove anche grida e maledizioni, ma dopo due giorni sbarcò di notte presso al lazzaretto, e si nascose in una villa presso la città. Questa fine ebbe la potenza e l’ambizione di Francesco Saverio Del Carretto: pagò egli per tutti.

Intanto si aspettava con impazienza lo statuto, che il Bozzelli compilava per incarico avuto dal re. Ognuno se lo immaginava secondo le sue voglie, ed alcuni scrissero improvvisamente e stamparono proposte di statuti, e le portavano attorno, e te le davano a leggere, e dimandavano: “Che ve ne pare?” I vecchi dicevano non c’essere bisogno di nuovo statuto, bastare quello del 1820 con qualche leggiera mutazione, così affermarsi non caduti mai i diritti della nazione, così fare i siciliani che volevano non altro che la costituzione del 1812 accomodata ai tempi ma dal parlamento non dal re. Il giorno 10 febbraio fu sottoscritto dal re lo statuto, fu pubblicato il giorno 11. Io ne portavo in mano una copia, un omaccione Matteo V... me la chiese, e avutala salì sovra una panca innanzi ad un caffè, e cominciò a leggere con una voce di campana: il batter delle mani, gli applausi, i cementi, i no, i sì, furono molti: io vedevo ed udivo di lontano. Lo statuto era una copia anzi una traduzione della carta francese del 1830: il Bozzelli credette di aver scritto il codice di Solone che renderebbe lui immortale e il popolo felicissimo. La moltitudine senza discorrere altro, come udì pubblicata la legge che costituiva lo stato, prese a festeggiare, andarono innanzi la reggia, e quantunque cadesse gran pioggia, vollero vedere il re, e salutarlo: egli comparve sul gran balcone, circondato dalla famiglia, dai ministri, e dai nobili servitori con le dorate livree, e fece molti inchini al popolo plaudente. Poi lo vidi uscire in un carrozzino scoperto con a fianco la moglie, e guidava egli i cavalli, e salutava accennando col capo: il popolo gli si affollò intorno, volevano torre i cavalli e tirar la carrozza a mano, ma egli tutto fuoco nel volto con rabbiosa e paurosa impazienza, gridandoLasciate,” e squassando le redini e flagellando i cavalli, si fece dar la via terribilmente, e corse per la città. Per tutta la via Toledo si vedevano carrozze e carri con sopra ogni condizione di persone che agitavano bandiere e gridavano: e tra gli altri su di un carro vedevasi don Michele Viscusi vestito da popolano tra dodici popolani che rappresentavo i dodici quartieri della città, e tenevano ciascuno un gran cartello sul quale era scritto il nome ed il vanto del quartiere14. La sera non interruppe le furiose feste ed il corso che durò gran parte della notte: i balconi tutti illuminati, i cittadini nei cocchi o a piedi agitavano torchi accesi, gridavano, si abbracciavano fra loro chiamandosi fratelli, abbracciavano soldati, gendarmi, birri. Il popolo minuto ed i fanciulli non sapendo che dovevano dire, e pur volendo gridare, e forse beffare, ripetevanoVivooo,” voce senza idea, come senza idea era per essi quel mutamento di cose. Ma non si può dire che sentimento si provava all’udire molti popolani gridare: “Viva Italia! noi siamo Italiani!” Quella parola Italia che prima era profferita da pochi ed in segreto, quella parola sentita da pochissimi e che era stata l’ultima e sacra parola profferita da tanti generosi che morirono, udita allora profferire e gridare dal popolo mi faceva sentire un brivido per la schiena, pei visceri, pel petto, e mi sforzava alle lagrime.

Nei giorni seguenti continuarono grida, luminarie, canti, musiche; ed una sera innanzi la reggia fu cantato un inno in onore del principe da molte signore e gentiluomini, e fu bellissimo. In questa ecco il carro di Mamone, tutti illuminato, e coi ritratti del Pagano, del Cirillo, e di altri del 1799. Il re l’ebbe come un insulto, e se ne sdegnò fieramente, e il povero Domenico Mamone Capri, che era un professore di chimica, e aveva fatto quel carro coi suoi giovani, ebbe dipoi a passare i guai suoi, che furono molti e grossi.

Dei mali sofferti per tanti anni si dava la colpa ai ministri, al confessore, e a taluno altro: dicevano che il Re era buono, e generoso sino a dare spontaneo uno statuto costituzionale, ma era stato tradito, ingannato, non aveva saputo mai nulla dei dolori del popolo. Il Bozzelli stesso diceva a tutti: “Il Re è un leale cavaliere, ha maniere incantevoli ha ingegno non mediocre, è di buona fede, ve lo assicuro io, è più costituzionale di noi”. “Neh!” rispondeva alcuno, “e noi per ventisette anni non l’avevam conosciuto!” In tutti gli uomini di senno stava la ferma persuasione che il Re era di mala fede, che tutti i Borboni per tradizione di famiglia rappresentano la monarchia assoluta che è stata la loro grandezza, che cedono sforzati da necessità, ed all’occasione ripigliano il pieno potere, che Ferdinando aveva data la costituzione per imbrogliare le cose non per ordinarle, che chi pochi giorni innanzi aveva fatto bombardare Palermo, Messina, Reggio non era a un tratto diventato un angelo. “Stiamo attenti, smettiamo le feste, attendiamo a lo stato, ordiniamo la guardia nazionale, provvediamo a le provincie”. Ma le feste continuarono, anzi crebbero come si seppe che Carlo Alberto l’8 di febbraio e Leopoldo di Toscana il 10 avevano dato anche essi le loro costituzioni. Feste per la nostra, feste qui per le loro. La rivoluzione di Napoli cominciò con l’agitare de’ fazzoletti, crebbe con le grida e le chiacchiere, doveva finire con le schioppettate.

Il 24 febbraio fu solennemente giurata la costituzione dal Re nella chiesa di San Francesco di Paola che è dirimpetto la reggia. Il Re vi andò a piedi tra due file di guardie nazionali, e vedendo tra queste un giovane Michele de Chiara che aveva la coccarda tricolore e gli andava da presso, gli disse: “Togliete cotesta coccarda: non sono i colori napoletani”. Il giovane se la cavò, e la pose in tasca. Giurò il re a voce alta, giurarono i principi reali, tutti gli alti uffiziali dello stato, e le milizie: molti siciliani che avevano uffici civili o militari in Napoli non vollero giurare, dicendo non sapere quale costituzione avrebbe la Sicilia. Furono altre feste ed allegrezze, ma i vecchi scrollavano il capo e dicevano: “Ha giurato, e spergiurerà come il nonno Ferdinando I”.

Dopo due giorni viene un corriere che chiede parlare al Re e dargli un dispaccio: il maggiordomo dimanda: “Che novelle?” “Rivoluzione a Parigi, fuga di Luigi Filippo, repubblica in Francia”. “Madonna santissima!” gridò il maggiordomo e svenne. Questo fatto mi fu narrato da Carlo Poerio. Fu uno spavento, e molti dicevano tornare il 1793, ma gli anni non tornano, come gli uomini non rinascono.

Intanto il pensiero più grave che occupava tutti era la Sicilia che rifiutava lo statuto napoletano del 10 febbraio, e rispondeva sempre volere la sua costituzione del 1812 accomodata ai tempi dal suo parlamento, voler essere un regno tutto diviso, indipendente, con un viceré che fosse o principe reale o cittadino siciliano, ed avesse poteri amplissimi, che i ministri sarebber nominati dal Re ma stessero in Palermo, non più milizie napoletane in Sicilia; che per gli affari comuni ai due regni sarebbe una commissione mista scelta tra i membri di ciascun parlamento. Queste condizioni parevano dure non pure al Re, ma a parecchi napoletani e italiani, i quali dicevano e stampavano che la Sicilia separandosi da Napoli si separava dall’Italia, che questo sicilianismo era gretto, era un rancore antico di Palermo contro Napoli che è metropoli del regno, che i popoli fratelli debbono unirsi con le leggi e le istituzioni simili che producono costumi e sentimenti simili, che le due costituzioni separerebbero più del mare e per sempre i due popoli; che lo statuto del 10 febbraio era stato dato non per le grida di Napoli ma pel sangue di Palermo, lo accettassero adunque come loro conquista. Rispondevano i siciliani che essi non si separavano dall’Italia, che la loro indipendenza non nuoceva all’Italia la quale doveva unirsi in federazione non in un regno; che la loro costituzione non l’avevano mai perduta perché i popoli non perdono mai i loro diritti, ed ora l’avevano riconquistata col sangue non con le grida, che si toglierebbe ogni rancore, ogni cagione di odio se Napoli fosse sorella non padrona, che conoscevano il Borbone e non volevano neppure il bene che venisse da lui; che non volevano più vedere in Sicilia quei cari fratelli napoletani che avevano bombardate le loro città. Queste cose che in Sicilia si dicevano e si stampavano erano ripetute in Napoli da molti siciliani con parole accese, e dai calabresi di Reggio; onde le parti si aizzavano, i giovani pel caffè discutevano di politica, gridavano contro i ministri e contro tutti. Il Re, che aveva contro i siciliani quello sdegno che si può immaginare, non parlava, lasciava fare i ministri, i quali indecisi e lenti trattavano questo affare, e cedevano a poco a poco, e i siciliani pretendevano. Il ministro Scovazzo che era siciliano diede le sue dimissioni. Si offerse compositore di pace lord Minto, legato straordinario inglese a le corti italiane, il quale stava da lungo tempo in Italia, e fu pregato di andar subito a Palermo ed egli parti, e molti sperarono e pochi sorrisero. Non conchiuse nulla; i siciliani non cessero d’un punto, anzi aggiunsero altre dimande: il nobile lord non tornò più in Napoli, ma fece sapere la risposta del comitato. La Sicilia si staccò da Napoli: il suo parlamento si aprì in Palermo il 25 marzo. Ferdinando II fece una sua protesta, e aspettò tempo.

Il ministero, che non aveva saputo trovar modo di comporre la grande quistione della Sicilia, non cadde ma si trasformò; e di sette che erano i ministri ne comparvero dieci il giorno 6 marzo, perché si disse che i primi non erano d’accordo, e ci dovevano entrare più liberali; e si volle anche dar luogo ad ambizioni novelle. E fu rimpastato così: il duca di Serra Capriola, presidente; il barone Bonanni agli affari ecclesiastici; Il principe Dentice a le finanze; il principe di Torella all’agricoltura e commercio; il Bozzelli all’interno; il principe di Cariati agli affari esteri; Degli Uberti alla guerra; Giacomo Savarese ai lavori pubblici; Carlo Poerio all’istruzione pubblica; Aurelio Saliceti a grazia e giustizia. Il Tofano salì a direttore di polizia, e in suo luogo a prefetto di polizia un altro avvocato Teodorico Cacace. E come se dieci fossero pochi, alcuni ministri si scelsero loro coadiutori con centocinquanta ducati il mese, e poi tutti vollero un cencinquanta.

Carlo Poerio mi offrì il posto di uffiziale di ripartimento, o capo divisione, nel ministero d’istruzione pubblica, io l’accettai, e fui nominato il 22 marzo. Ci stetti quasi due mesi, e non ricordo di aver fatto nulla, e pure avrei voluto fare qualcosa. Mi trovai in una baraonda: tutti venivano, tutti chiedevano, e chi non chiedeva per sé raccomandava altri, o dava consigli; ed indi a pochi giorni uscì il Poerio, ed entrò ministro l’Imbriani, che non stette un mese e si ritirò, e il ministero fu preso da Carlo Troya: tre ministri in cinquanta giorni. Il 16 maggio me ne andai anch’io, e mandai la mia rinunzia al Bozzelli. Mi ricordo che in quei giorni ebbi un continuo capogiro, da professore diventato segretario non mi raccapezzavo più.

Il rifatto ministero non poteva far cessare l’agitazione degli animi la quale ogni giorno cresceva. Si scomponeva la gran macchina del vecchio governo ma con poco senno: si toglievano i tristi, ma non si sapeva trovare i buoni per metterli al posto di quelli: i furbi rimasero; i nuovi spesso inetti non sapevano che fare: tutti chiacchieravano, nelle vie si gridava da tutti. Con le grida avevano ottenuto una costituzione, dunque con le grida ciascuno credeva di ottenere un posto. Nei circoli si faceva un gran parlare di tutte le cose, e chi aveva lo scilinguagnolo più spedito, e sfoderava disegni più strani era più applaudito. La stampa sfrenata pubblicava vergogne, calunnie, verità, nefandezze, mordeva tutti. La plebe diceva: “E se non si lavora, e noi stiamo digiuni, che libertà è questa? Prima il Re era uno e mangiava per uno: ora son mille e mangiano per mille. Bisogna che pensiamo ai fatti nostri, anche noi”. Nelle province i contadini invadevano e dividevano tra loro i terreni appartenenti al demanio, o a proprietari che se n’erano già impossessati, ed erano odiati perché arricchiti per usure ed estorsioni: onde si udivano lamenti da tutte le parti. E in Napoli la plebe non avendo terre a dividere, meditava di assalire le case e saccheggiare come aveva fatto nel 1799. A questo scompiglio venne ad aggiungersi come olio a fiamma la narrazione che facevano i giornali della rivoluzione e della repubblica in Francia, i movimenti già cominciati nell’Italia superiore, la costituzione data da Pio IX il 13 marzo per non poter fare altro, la cacciata de’ gesuiti da Genova: onde i cervelli andavano in visibilio, la costituzione non contentava più nessuno, e dicevano bisognava dilargarla per non andare addirittura alla repubblica.

Tutto quel vociare che facevano i napoletani era come lo stridulo ronzio delle api quando vengono a zuffa tra loro: se vi getti un pugno di terra la battaglia finisce. Bisognava un pugno di terra per farli tacere e chetare, bisognava una mano forte, e non v’era; anzi uomini anche sennati dicevano che bisognava andare innanzi, e il ministro Saliceti osò consigliare il re di mettersi a capo della rivoluzione per padroneggiarla, e ricordarsi di Luigi XVI e di Napoleone, l’uno a la coda della rivoluzione vide sparire la monarchia nella repubblica, l’altro alla testa della rivoluzione fa sparire la repubblica nell’impero. Queste parole spiacquero al re, il quale credette vedere nella faccia del Saliceti una somiglianza al Robespierre. Non ci volle altro per dirlo repubblicano terrorista. Era egli un uomo che andava diritto al suo scopo, breve nel dire e nel fare. Cominciò a scopare i magistrati indegni; e propose ai suoi colleghi questo decreto: “Tutti i gesuiti usciranno dal regno, i loro beni sono incamerati”.

I colleghi se ne spaventarono, “sì, no”. L’altro giorno gran popolo va a gridare innanzi a la porta de’ gesuiti, i quali protetti dalle guardie nazionali, escono, vanno ad imbarcarsi, portano un vecchio ammalato sopra un seggiolone a spettacolo per commuovere il popolo. Sbarcano a Baia, e travestiti tornano in Napoli quelli che vogliono tornarvi. Di questa cacciata fu incolpato principalmente il Saliceti, che divenne segno all’odio di tutti i gesuitanti e lo spauracchio di tutti gli uomini fiacchi che sono la massima parte. Si temeva degli attruppamenti del popolo, si credeva che un giorno o l’altro proclamerebbero la repubblica, si volle proibirli con una legge provvisoria dichiarandoli reati contro lo stato e da disperderli subito con le fucilate. Il Saliceti non approvava la legge, e cercava dissuadere i colleghi: non poté andare al consiglio dei ministri perché ammalato: il presidente gli scrisse, andasse o rinunziasse. Il Saliceti capì, e mandò la sua rinunzia: fu ministro sette giorni. In suo luogo fu nominato il mio Giuseppe Marcarelli uomo ottimo e dolcissimo, che anch’egli comparì e disparve con gli altri. Quei ministri erano come le figure d’una lanterna magica. Fu fatta la legge, e non ebbe effetto, ché i tumulti crebbero, ed ogni giorno ed ogni ora vedevi una moltitudine di poltroni variamente vestiti con le gole spalancate gridare abbasso ministri, abbasso questo e quell’altro impiegato. Il governo tremava di quelle voci, e delle ingiurie dei giornali tra i quali velenosissimo era un giornaletto intitolato Mondo vecchio e mondo nuovo.

Si spargeva che cacciati via i gesuiti si doveva cacciare ancora i frati di Sant’Alfonso, e quelli del Carmino. La plebe del Mercato che ama la sua antica chiesa del Carmine, e la sua madonna, e i suoi frati che sono, si leva a rumore, in gran moltitudine, e viene verso via Toledo scagliando pietre, e preparando rovine: accorre la guardia nazionale che a fucilate la insegue e la sperde. La belva si era destata, e faceva terrore; onde il Bozzelli consigliò il Re di pubblicare un decreto col quale la guardia nazionale aveva a protettrice la madonna del Carmine, e che quando sarebbe tutta vestita ed ordinata anderebbe solennemente a visitare la madonna in quella chiesa. La plebe stette cheta, dissero pel decreto, io credo per le fucilate.

La legge provvisoria su la guardia nazionale fu pubblicata il 13 marzo; ma la guardia nazionale non fu mai né ordinataistruita. Chiunque avesse fatto scrivere il suo nome nei registri, si metteva una piastra d’ottone al cappello, e senz’altro era guardia nazionale. Nei primi giorni di febbraio era bello il vedere moltissimi nobili giovani assai pulitamente vestiti, dimenticar le delizie, gli spassi e persino le donne e comparire gioiosi col fucile in mano e mantener l’ordine e la quiete nella città; ma dopo un mese ogni tristo, ogni spia, ogni più feccioso uomo prendeva il fucile, ed era guardia nazionale, e faceva ciò che ei ci voleva; ed uomini vigliacchi e malvagi ottennero gradi di ufficiali. Ci erano i buoni e i bravi, ma pochi.

Un’altra legge del 17 marzo scioglieva la gendarmeria: alcuni formarono i reggimenti detti dei carabinieri, altri furono guardie di sicurezza interna seguitando a trattar funi e manette. Questo scioglimento mise in gravi sospetti i soldati, ai quali si andava dicendo che si aveva in pensiero di sciogliere l’esercito perché la guardia nazionale bastava a tutto. I soldati vinti in Sicilia per inettezza de’ loro capitani, trafitti dalle ingiurie e dalle beffe che contro di loro scrivevano i siciliani, come in Napoli furono tenuti chiusi nei quartieri, raramente uscivano, e taluni di essi furono anche fischiati nelle vie. Si rodevano per questi sconsigliati ed ingiusti disprezzi, si rodevano a vedere le insegne di ufficiali su certi ometti di stoppa a cui dovevano fare il saluto militare. Chi pensa quanto è cocente la gelosia di mestiere non crederà lieve questa cagione di odio che l’esercito portava a la guardia nazionale. I soldati stavano cagneschi contro tutti i liberali; ma come conoscerli? dal vestito, e li chiamarono nazionali. Vergogna, desiderio di vendetta, disprezzi, sospetti, gelosie, interesse, e poi star sempre su l’armi e palpitanti, non dormire, non posare, e chiusi come belve nei quartieri dove era vietato leggere ogni carta, vietato parlare, vietato vedere cittadini: tutte queste cose li aspreggiavano, l’irritavano, li tenevano come mastini a la catena.

In quei giorni di marzo ecco rivoluzione a Vienna e fuga del ministro Metternich: sorge Milano e combatte gloriosamente per cinque giornate e scaccia gli austriaci; sorgono le altre città lombarde, sorge Venezia a la voce di Daniele Manin, e fa uscire lo straniero, sorgono Modena e Parma; Carlo Alberto re di Piemonte, leva la bandiera italiana, ed entra con un esercito in Lombardia: rivoluzione in Ungheria, in Boemia, in Baviera, in Sassonia, nel Wurtemberg, a Berlino, a Posen, in tutta la Germania: l’Europa si apre ed arde come un immenso vulcano. Anche oggi dopo tanti anni a ricordare quei tanti miracoli politici che cominciarono in Palermo il 12 gennaio, sento che il cuore mi palpita più forte, e dico come dicevo allora: “Non è caso cotesto che muove nello stesso tempo tanti popoli d’Europa dalla Sicilia al Jutland; ma è un lavorìo antico e nascosto che si è fatto nella coscienza di questi popoli che sofferivano gli stessi mali. Tornerà a niente tutto questo? Non è possibile: è fuoco che nasce di dentro, sono fatti necessari che nascono dalla coscienza. L’Europa si rinnova: avrà travagli, ma si rinnova certamente”. Allora parve sonata la grande ora del riscatto italiano: non vi fu gioia più pura, speranza più lieta, concorso di casi più felice. Il nostro popolo sentì quasi per istinto che in Lombardia si decideva della libertà e della vita di tutti gl’Italiani, che il primo e più sacro dovere di tutti era quello di prendere le armi e correre e scacciare lo straniero. Se saremo concordi e saremo tutti, chi ci resisterà?

Alcuni corsero al palazzo dell’ambasciatore austriaco, tolsero l’abborrito stemma dell’aquila, lo ruppero, lo bruciarono tra le grida di viva Italia, morte all’Austria. Biasimerei queste ire, ma ricordo i soldati austriaci frustare i carbonari, fustigare le donne nude, infilare i bambini a le baionette, e gridarePorca italiana”; le scuso queste ire, e le biasimo soltanto perché si volsero sopra uno stemma.

Un’immensa moltitudine di popolo andò innanzi la reggia e gridò si mandassero soldati in Lombardia; andò a casa del Bozzelli a chiedere che il governo mandasse subito soldati in Lombardia, e desse le armi ai volontari: i nostri giovani davano i loro nomi per quella santa crociata, e di niente altro parlavano, niente altro desideravano che correre in Lombardia con la croce sul petto dell’uniforme nazionale. Cristina Trivulzio, principessa di Belgioioso, milanese, che allora era in Napoli, si fece guidatora di una schiera di giovani ardenti e con essi partì il 29 marzo. Fin dalla Sicilia, dalla implacabile Sicilia, vennero uomini generosi, e dimenticando ogni gara ed offesa, si abbracciarono coi napoletani, si chiamarono fratelli, e corsero insieme in Lombardia.

Tra le carte che io scriveva allora e che mi furono salvate da mia moglie, trovo una memoria di questi fatti, e queste parole: “E tanti sforzi generosi, e tanto sangue sparso, e tanta virtù mostrata sarà stato tutto vano? sarà stato un sogno? Per Dio! E torneremo a le antiche angosce, alle antiche miserie, all’antica, obbrobriosa, nefanda, oscena servitù? No, no: Italia è stata svegliata da Dio: e o Dio non esiste, o Italia risorgerà. Io lo credo, io lo sento, io lo giuro, quantunque ora che scrivo l’austriaco sia tornato a Milano, e in Germania si sieno fatte feste e banchetti per la servitù d’Italia: il tedesco uscirà d’Italia. Io non odio i tedeschi, sieno liberi, sieno ricchi, sieno felici: amicipadroni no, per Dio, no, no: io odio e maledico e son pronto a dare mille volte la morte a chi vuoi togliermi la patria, l’onore e il sacro nome d’italiano”.

All’ardore del popolo il governo si mostrava freddo e lento: onde crebbero gli sdegni e le ire contro ministri che furon chiamati traditori e cercati a morte. Era un garbuglio, era un viluppo di nodi, da non potersi sciogliere, sì tagliare d’un colpo, e non si ebbe forzacoraggio da tagliare. La guerra contro l’Austria era santa e necessaria: ma volere che questa guerra la facesse Ferdinando II, era una pazzia; credere di poterlo sforzare a farla, era una stoltezza; avrebbe opposta ogni resistenza, avrebbe fatto il peggio, come fece, e se si fosse data un’occasione si sarebbe unito all’Austria. O bisognava rimaner napoletani, senza pensare all’Italia, e stare contenti a lo statuto del 10 febbraio senza andare più in : o volendo combatter l’Austria e dilargar lo statuto bisognava cacciare Ferdinando, almeno ritorgli di mano tutto il potere che aveva su l’esercito, e lasciargli non altro che il nome di re. Egli aveva ragione quando diceva: “Lo statuto è giurato: bisogna mantenerlo intatto. Che direste voi se lo violassi io? e che debbo dire io se lo violate voi e dopo pochi giorni senza pure aspettare a vederne gli effetti?” Aveva ragione allora, ma quando poi lo violò egli, anzi lo annullò, fece vedere chiaramente che egli allora mentiva, e che il popolo giustamente diffidava di lui. In quelle agitazioni egli ricercò di consiglio il generale Carlo Filangeri, figliuolo d’illustre padre, rispettato per imprese di guerre al tempo di re Gioacchino, uomo di molto ingegno, e astuto, ma negoziante fallito, e però non più pregiato dalla parte liberale come ci voleva. Costui disse al re: “Fate fare tutto ai ministri, voi fingete cedere ad ogni dimanda: una cosa dovete far voi, stringere a voi le milizie, e separarle dal popolo, anzi irritarle contro di esso: lasciate crescere il disordine e l’anarchia, anzi versate olio sul fuoco: ché quando il disordine sarà intero, pochi uomini ordinati opprimeranno tutti: per tornare al servaggio bisogna abusare la libertà”. Il Re si valse del consiglio, e rispose: “Mi hanno canzonato con le chiacchiere: questo mi duole più di ogni altra cosa. A suo tempo risponderemo coi fatti”.

In uno di quei giorni Carlo Poerio mi disse: “Tra il popolo che grida, il re che inganna, e i ministri che non sanno quello che fanno, un galantuomo non ci può stare. Stamane ho dato la mia dimissione: e ti prometto che nella mia vita non accetterò più mai un ufficio pubblico. Non doveva accettare il ministero, e me ne pento, perché chi ha cospirato con tanti, non può contentare le ambizioni di tanti. Rimani tu al tuo posto finché ti sarà consentito dall’onore. Io anderò alla Camera”. Lo avevano ingiuriato, avevan detto che Ferdinando gli dava i sigari e fumava lungamente con lui, e che egli era un traditore. Voci di plebe stolta e sfrenata. Pochi giorni appresso, su la fine di marzo, tutto il ministero non potendo reggere a la tempesta, si dimise senza aver fatto nulla di bene che rimanga: uomini non tristi, anzi rispettabili per molti versi, ma incapaci di governare in quelle burrasche: anche lo stesso Bozzelli a me parve sempre un vanitoso, non un malvagio come poi si disse. Napoletani non intesero che Napoli o doveva salvarsi con l’Italia, o con l’Italia cadere.




14 Michele Viscusi, nato di civile condizione, piacevole, arguto, e beffardo, come napolitano prese a predicare al popolo, e spiegargli che cosa fosse la costituzione. Il nostro popolo abborriva questo nome di costituzione, perché non intendeva altro che o re o repubblica, e ricordava i mali sofferti dal 1820, la venuta degli austriaci, le morti, le condanne, le rovine di molte famiglie. Andava Don Michele nelle piazze più popolose, e montato in alto parlava ad una gran moltitudine, che lo interrogavano, e gli rispondevano. “Sapete che è la costituzione? È come il giuoco del tocco. Il re è padrone del vino, e se lo può bere tutto se ha stomaco, ma se ne vuole dare ad altri deve avere il permesso del sotto-padrone che è il parlamento. La costituzione è come una rota di carro: il re sta in mezzo ed è il mozzo: i ministri sono i raggi, e il parlamento è il cerchio di ferro che stringe in mezzo ogni cosa. E così la rota cammina.” “Don Miche, e addò cammina?” “Mappata di f...! ncoppa a le spalle noste.” “Embé?”Embé che? Mo sentimmo lo chirchio, primma sentivamo le pponte che ce trasevano dinto a le costate.” “Viva Don Michele!”. Quest’uomo viveva con una donna che era la sua croce: gelosa, capricciosa, indomabile. Un giorno andò su le furie e corse ad un balcone per precipitarsi giù. Don Michele l’afferra per la vita, la trattiene, la calma: poi scende giù su la via, la chiama, ella si fa al balcone, ed egli le dice: “Ora se volete, madama, servitevi pure.” (N.d.A.)






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