Il dimani passai in casa
di un vicino nostro amico, perché disse mia moglie: “Se verranno ad assalirci e
non troveranno te, non vorranno fare male a me e ai due fanciulli”. Verso la
sera venne mio fratello Alessandro, e volle condurmi seco a Scafati, e il
giorno appresso il 17 ci condusse anche mia moglie e i miei figliuoli. Mia
moglie mi disse come per la via di Portici aveva incontrato alcune compagnie di
guardie reali, che portavano su le punte delle baionette parecchi berretti di
guardie nazionali, e gridavano “Viva il re, mora la nazione”, e pochi fanciulli
cenciosi seguivano quei soldati; e come ella passò quasi per miracolo in mezzo
a loro senza essere costretta a ripetere quel grido selvaggio. E Alessandro mi
diceva che quando venne da me vide innanzi la reggia una gran moltitudine di
femmine con tamburi e nacchere sonare, ballare, cantare, e ogni tanto gridare
“Viva il re, mora la nazione”, ed erano di Santa Lucia, e di altri quartieri
bassi della città, e molte erano male femmine, e facevano baldoria coi soldati.
In Scafati avevo le
triste novelle. Molte centinaia di prigionieri tratti in Castelnuovo, e quivi
parecchi fucilati nel fossato del castello: i soldati entravano nelle case e
per le camere tirando fucilate, e uccisero donne e vecchi e fanciulli: due case
bruciate in via Santa Brigida: palazzo Lieto bruciato e saccheggiato, e mentre
le fiamme uscivano dei balconi, nel cortile soldati e lazzari arraffando si
spartivano biancherie finissime: il caffè sotto il palazzo Buono bruciato e
distrutto: palazzo Gravina, dove era il Circolo nazionale, bruciato, uccisovi
anche una donna; per le vie della città vari cadaveri; dai balconi e dalle
finestre pendere panni bianchi in segno di pace. E i deputati? Stettero sino
all’ultimo, cedettero a la forza, si sciolsero ad un’intimazione del generale
Nunziante, e al chiarore che dirimpetto mandava il palazzo Gravina in fiamme
uscirono fra soldati, e ciascuno prese la sua via. Quando cominciò il conflitto
che fu dopo le undici del mattino, tutti i ministri corsero dal re a pregarlo
ordinasse cessare il fuoco. “E voi ordinate disfare le barricate.” “Non abbiamo
questo potere, nessuno più ci ascolta.” “E nemmeno io posso far cessare il
fuoco. Andate: io non ho più bisogno di voi: ma preparatevi al redde
rationem”. Lo Scialoia si slanciava per rispondere, il Conforti lo ritenne
per un braccio, dicendo: “Che fai? perdi te e noi”. E tra i ghigni minacciosi
dei cortegiani uscirono. Dimandai ad un mercante venuto da Napoli: “E la
costituzione?” “Non ci pensate più. Hanno messo lo stato d’assedio: Napoli è
tutta occupata da soldati che comandano e si fanno ubbidire. Mi hanno detto che
si è pubblicato un proclama del re, ma non l’ho letto, né ci credo. Le ferrovie
sono chiuse, e non ci si transita più: e a la stazione di Napoli ci sono
soldati a cavallo che fanno la guardia con le pistole impugnate.” Intanto
correvano molte voci: che alcuni paesi vicini si erano levati in armi; che la città
di Salerno, il Cilento e tutta la provincia avevano preso le armi, e le genti
venivano sopra Napoli, e le guidava Costabile Carducci che aveva fatta la
rivoluzione in gennaio, e i ragazzi gridavano per le vie: “Mo’ vene don
Costabile”; e le donne dicevano: “Mo’ arriva don Costabile, e povere
noi!” E tutto il giorno e gran parte della notte io non udivo altro che
“don Costabile”, il gracidare dei ranocchi, e il rumore dei telai che in ogni
casa tessevano tele di cotone delle quali c’è gran fabbrica in Scafati.
Dopo qualche giorno ebbi
il proclama del 16 maggio. “Che i buoni cittadini si rassicurino. La più grande
vigilanza sarà esercitata dal governo, affinché per l’avvenire alcun disordine
non si riproduca, nè nuovi ostacoli vengano ad opporsi al mantenimento ed al
completo esercizio delle libertà solennemente accordate dalla costituzione che
Sua Maestà ha la ferma volontà di proteggere in tutta la loro inviolabile
integrità”. Era sottoscritto dai nuovi ministri: il principe di Cariati,
presidente, e ministro degli affari esteri, che aveva fama di galantuomo: il
principe d’Ischitella della guerra, il generale Raffaele Carrascosa dei lavori
pubblici, i quali tutti e due e il Nunziante avevano vinte le barricate; il
principe di Torella, all’agricoltura e commercio, liberale moderato; il
Bozzelli all’interno, irritato che gli avevano guasto lo statuto quasi gli
avessero ucciso un figliuolo; Francesco Paolo Ruggiero, a le finanze, ministro
in aprile, poi ritiratosi, fu veduto in abito di guardia nazionale presso le
barricate, si presentò in abito nero a la reggia e fu ministro il 16 maggio. A
questi, pochi giorni dopo furono aggiunti Nicola Gigli, per grazia e giustizia,
buon professore privato di diritto, magistrato di nessun colore politico, uno
di quelli che dicono: “servo chi mi paga”; e il duca di Serracapriola
vicepresidente del consiglio di stato, di cui non si diceva male.
Mentre si scriveva
questo proclama, anzi prima di scriverlo, il nuovo ministero nello stesso
giorno 16 maggio richiamava la spedizione capitanata da Guglielmo Pepe,
scioglieva la Camera, disarmava la guardia nazionale. Queste erano le
condizioni che il re imponeva ai nuovi ministri, ed essi le accettavano.
Disarmar quella guardia nazionale si doveva; sciogliere la Camera non ancora costituita
legalmente, era forse una necessità; ma richiamare le truppe dalla guerra fu un
tradimento ribaldo, stolto, infame, vigliacco, e produsse disastri grandi
all’Italia, ed altri dieci anni di servitù e di dolori. Il re volle quel
richiamo: sì, ma voi altri principi, duchi ed avvocati ministri non dovevate
volerlo voi, dovevate capire che quell’atto rovinava l’Italia, e non salvava
Napoli. Re Ferdinando tradiva l’Italia credendo di salvare il suo regno: dodici
anni dopo tutta Italia veniva sul regno e ne scacciava i Borboni. Tutte le
colpe e le stoltezze umane hanno in sé stesse la cagione del castigo, che tosto
o tardi viene immancabile.
Con un editto del 24
maggio il re diceva ai suoi amatissimi popoli: “La nostra fermissima ed
immutabile volontà è di mantenere la costituzione del 10 febbraio,
preservandola da ogni eccesso. Sola compatibile con i veri bisogni di questa
parte d’Italia, essa sarà l’arca santa che conserverà i diritti dei nostri
amatissimi popoli e la nostra corona... Riprendete adunque le vostre abituali
occupazioni, ed abbiate fede con tutta l’effusione del vostro cuore nella
nostra lealtà, nella nostra religione, nel giuramento sacro spontaneo che noi
abbiamo prestato.” Con decreti dello stesso giorno fu abrogata la legge
elettorale del 3 aprile, richiamata in vigore la legge elettorale provvisoria
del 29 febbraio, convocati i collegi pel 15 giugno, stabilito il 1° luglio per
l’apertura del parlamento.
Dunque la costituzione
non era abolita; ma l’editto affermava troppo come fanno i bugiardi. Io
ritornai in Napoli con la mia famiglia, mandai subito la mia rinunzia al
Bozzelli, e ripresi ad insegnare privatamente. Mi rallegrai a riveder vivi e
sani parecchi che si dicevano morti, ma ebbi gran dolore per tre giovani
perduti. Angelo Santilli di venti anni, con capei biondi e lunghi, grandi occhi
cilestri, e una grande mestizia sparsa sul volto, era un entusiasta che parlava
al popolo e diceva cose che il popolo udiva ma poco intendeva: si trovò in una
casa presso al palazzo Gravina che fu assalito dalle guardie reali, ed egli si
pose a letto fingendosi ammalato; ma una scellerata vecchia disse ai soldato:
“Questi è il predicatore”, e fu ucciso. Un prete rettore del camposanto mi
disse di aver veduto il cadavere ivi portato, che aveva la faccia contratta,
contratte le mani, contratte le gambe, e tre grandi ferite di baionetta sul
petto ed altre nel ventre. Povero Santilli! Vincenzo Melga, bello, ingegnoso,
colto, tornato da un lungo viaggio, fu visto combattere da una casa in via
Santa Brigida, e poi non se ne seppe più nuova né vivo né morto. Invano ne
cercò amorosamente il fratello Michele Melga: scomparve. Luigi La Vista giovine
di alto ingegno e di alte speranze era col padre nell’Albergo dell’Allegria al
largo della Carità, e fu ucciso dagli svizzeri innanzi gli occhi del povero
padre. Ebbe un amico che ne scrisse la vita e ne pubblicò gli scritti, e che fu
il mio caro Pasquale Villari che fece questa buona e bella azione. Su lo stesso
albergo fu preso Gabriele Pepe, il quale perché generale della guardia
nazionale, fu insultato e percosso dagli svizzeri, che l’ammazzavano se un
uffiziale non lo salvava e lo faceva menar prigione in Castel dell’Ovo.
Chi tirò il primo colpo?
non si sa, né importa saperlo: fu reo non chi tirò il primo colpo ma chi fece
le barricate. Armati di qua, armati di là partì un colpo anche per caso, e
cominciò la zuffa. Il 15 maggio fu l’ultima e necessaria conseguenza di tutte
le dimostrazioni che si fecero dal 27 gennaio, di tutte le grida di “morte” e
di “abbasso” che si fecero nelle piazze, e che il governo non seppe né impedire
né frenare, e governo furono tutti i ministri per quei quattro mesi. Uomini
rispettabili per molti versi ebbero paura di offendere la libertà con uno
squadrone di cavalleria, e la fecero andare a rovina. Ad un popolo come il
napoletano che usciva da lunga servitù la libertà fu come un’imbriacatura, e ci
voleva la forza per impedirlo di sfuriare in eccessi e per fargli tornare il
senno. Per governare i popoli, per educare i fanciulli, e per curare i pazzi
non basta la ragione e la parola, perché l’uomo ha pure quel della bestia, che
vuol essere corretto con la forza. Questo non lo capirono quei governanti,
ebbero paura di poche grida ed ingiurie, non seppero spregiare popolarità, ed
essi ebbero colpa di ciò che avvenne il 15 maggio come ha colpa l’educatore del
male che fanno i fanciulli da lui non saputi correggere a tempo. Questa è
l’opinione mia, e la dico schietta. Ferdinando aveva ragione a ridere di quei
ministri, e a chiamarli responsabili di avere sfrenata la moltitudine. Il 15
maggio lo fecero i pazzi, non seppero impedirlo i savi, un furbo ne profittò.
Mettiamoci una mano sul petto, e diciamo il vero: la colpa l’ebbero tutti,
ciascuno per la sua parte: il popolo fu pazzo, i governanti inesperti e
fiacchi, il re malvagio e bugiardo.
Venivano le novelle. In
tutte le province grande commozione e sdegno per i casi di Napoli, che la fama
narrava più atroci; ma senza accordi, senza capi, senza un’idea quei moti furono
facilmente repressi in varie città, anche perché molti dicevano che il re non
aveva abolita la costituzione, anzi aveva convocato il parlamento pel 1°
luglio, e spargevano i decreti reali. In Calabria gli sdegni scoppiarono più
gagliardi, come più gagliarda è la natura di quelle genti che avevan fresca la
memoria delle stragi del ‘44 e del ‘47, e vivo il sentimento della vendetta, e
nessuna fede in Ferdinando. E però in Cosenza il 18 maggio fu creato un governo
provvisorio, di cui fecero parte il colonnello Spina comandante le armi della
provincia, e il maggiore Pianelli che comandava un battaglione di cacciatori; e
disarmarono i gendarmi; in Catanzaro il 19 fu stabilito un comitato di
sicurezza presieduto dal barone G. Marsico intendente della provincia. E questo
fecero per difendere la costituzione che credevano manomessa. Giuseppe
Ricciardi rifuggito il 15 maggio con molti altri su le navi francesi che erano
nella rada di Napoli, e andato a Malta, fece un ardito disegno: venne a Messina
e prese accordi, sbarcò in Calabria, e passando per Nicastro e Catanzaro si
fermò a Cosenza, dove in nome suo e di altri tre deputati Domenico Mauro,
Eugenio de Riso, e Benedetto Musolino pubblicò un manifesto nel quale diceva:
“I fatti di Napoli hanno distrutta la costituzione, hanno rotto ogni patto tra
principe e popolo”. Prima che il parlamento fosse sciolto dalla forza fu
scritta una solenne protesta da molti deputati, con la quale promettevano di
riunirsi dove e come avrebbero potuto. Essi dunque invitavano i loro colleghi a
riunirsi in Cosenza il 15 giugno; e come mandatari della nazione chiamavano il
popolo a prendere le armi. La rivoluzione che scoppiò in tutta la Calabria fu
una conseguenza legittima della protesta del 15 maggio. Altre novelle
dall’Italia superiore. Il 22 maggio in Bologna il generale Guglielmo Pepe ebbe
l’ordine, scritto il 16 dall’Ischitella ministro della guerra, che richiamava
senza alcun ritardo le truppe napoletane ed i volontari, e se egli non voleva
ritenere il comando della ritirata, questo doveva essere affidato al generale
Statella, che gli presentava quel dispaccio. Il Pepe addolorato e costernato di
quella vergogna e sapendo che i soldati non lo conoscevano né lo avrebbero
ubbidito, rimise il comando allo Statella; ma i Bolognesi si levarono a rumore,
lo Statella impaurito fuggì a Firenze, e il Pepe ripigliò il comando. Cercò
spingere innanzi i soldati e farli passare il Po, ma essi tumultuarono non
vollero ubbidire, e presero la via del ritorno. Il Pepe passava il Po con mille
uomini tra soldati di linea e cacciatori, oltre trecento artiglieri, e con
questa mano di generosi andò a Venezia. Il nostro 10° reggimento di linea che
aveva combattuto a Montanara e Curtatone e con tanto valore a Goito il 29
maggio fu richiamato anch’esso e dovette tornare. I soldati ubbidiscono al re.
Tutti i soldati piemontesi seguivano Carlo Alberto che coi suoi figliuoli
combatteva contro gli austriaci per l’indipendenza d’Italia: i soldati
napoletani ubbidirono al re quando li mandava con quella bandiera tricolore che
essi avevano combattuto in Sicilia e in Calabria come ribelle, ubbidirono
quando il re li richiamava. Pochi sentirono che il disubbidire era carità di
patria, era dovere più alto ed onorato. Oggi dopo tanti anni io mi sento ancora
commosso alla memoria di quel fatto, e mando una benedizione alla memoria di
Guglielmo Pepe, un saluto a quegli uffiziali e soldati che magnanimi seguirono
quel magnanimo e salvarono almeno l’onore del nome napoletano. Nel ritorno il
colonnello Lahalle si uccise con un colpo di pistola, il colonnello Testa morì
di dolore: pochi ufficiali e sottoufficiali tornarono al Pepe in Bologna: tutti
gli altri maledetti dalle popolazioni tra cui passavano, si ridussero nel
regno, e sentendosi vituperati e spregiati perché avevano ubbidito al re,
s’inviperarono fieramente e divennero nemici del popolo. Re Ferdinando riusciva
così a separare l’esercito dal popolo, e farlo tutto suo.
Scrivevano dalle
Calabrie, che verrebbero essi sopra Napoli a cacciare il Borbone; e forse il
Ricciardi, come il cardinal Ruffo nel 1799, voleva sollevare le moltitudini
calabresi e ingrossando per via come una fiumana rovesciarsi sopra Napoli, e
andare anche oltre: ma altri uomini, altri tempi, altra causa, ed egli non
cardinale. La rivoluzione di Calabria era cosa molto grave, se fosse cresciuta:
e però il governo pensò di opprimerla subito e con vigore. Ferdinando trovò
subito soldati, armi, munizioni, vesti, scarpe, ogni cosa necessaria: e ai
primi giorni di giugno partì per mare il generale Ferdinando Nunziante con
quattromila uomini, sbarcò al Pizzo, si fermò in Monteleone: con duemila partì
il generale Busacca, e sbarcato a Sapri prese la via delle Calabrie, e così le
separò dalla Basilicata e dal Cilento che cominciavano a rumoreggiare: il
generale Lanza con altri duemila uomini per terra prese la via consolare
minacciando le popolazioni d’intorno, e più tardi si univa al Busacca. Così
dunque i regi strinsero le Calabrie da ogni parte: i calabresi si
apparecchiarono a resistere e chiesero ai siciliani i promessi aiuti, e il
giorno 15 giugno il piemontese Ribotti con seicento siciliani sbarcò a Paola, e
il giorno seguente fu a Cosenza. E pure il Ribotti fece un grande errore a
mettersi così tra il Nunziante, il Busacca e i due mari, senza pensare ad un
modo di ritirata, ed essendo a capo di gente che non eran soldati né decisa a
vincere o morire. Se i siciliani avessero avuto senno e preveggenza dovevano
mandare subito e prima dell’arrivo del Nunziante, una forte mano di uomini a
Reggio dove era un debole presidio, e vinto questo facilmente venire su
ingrossando ed occupare essi Monteleone; ma indugiarono, ed in ultimo presero
il partito peggiore di cacciarsi proprio in mezzo ai nemici. La rivoluzione di
Calabria non aveva un’idea potente su le moltitudini, dicevano di farla per
mantenere la costituzione, e scacciare Ferdinando che l’aveva violata; non
aveva capi e guidatori, ché il Ricciardi compito gentiluomo e liberale
entusiasta faceva bei discorsi e larghi disegni, Domenico Mauro, scrittore di
rabbuffate poesie e di versi ventosi, era tutto orgoglio e vanti e minacce:
Pietro Mileti, antico uffiziale e maestro di scherma buono a combattere, ma di
corto vedere, e facile ad accendersi: gli altri buone persone, colti, generosi,
stimabili per molti versi, ma non sapevano che fare. Lì si trattava di
combattere soldati, e i soldati non li vincono poche centinaia, ma ci vuole
tutto un popolo che tolga loro il vitto, che li molesti sempre e in ogni parte
con imboscate e insidie, che faccia la guerra senza farsi vedere, e fuggendo e
apparendo da ogni lato, e stancando il nemico non dandogli posa mai.
Intanto i giornali
diffondevano le notizie, che il general Nunziante sul fiume Angitola era stato
disfatto, i suoi tutti dispersi, egli morto: che il Nunziante era vivo, che i
suoi soldati erano entrati in Filadelfia, e l’avevano saccheggiata, poi avevano
saccheggiato il Pizzo, e uccise molte persone, fra le quali il padre di
Benedetto Musolino che era un vecchio settuagenario, e il fratello Saverio, e
avevano devastata interamente la casa: che calabresi e siciliani presso
Spezzano avevano vinto il Busacca e costrettolo a ritirarsi in Castrovillari;
poi che i regi si avanzavano vincitori, le bande si scioglievano, i siciliani
s’imbarcavano, comitati fuggivano, pochi si ritiravano su la Sila per resistere
su quei monti ed aspettare occasioni migliori: che il Nunziante andava sopra
Catanzaro con soldati feroci e ladri e sanguinari.
Mentre in Calabria si
combatteva, in Napoli si apriva la Camera il primo giorno di luglio. Erano
stati eletti gli stessi deputati che furono cacciati il 15 maggio, e alcune
città non vollero rifare le elezioni perché non riconobbero l’atto che le
annullava. E questo fu pruova di coraggio civile. Il 1° luglio adunque si
apriva il parlamento, e non nella sala della biblioteca che è nel palazzo del
museo dove si va per via ampia e diritta facile ad esser tenuta da soldati e
spazzata da cannoni.
Non ci veniva il re, ma
suo delegato il presidente dei ministri duca di Serracapriola, un bell’uomo ed
alto, ma con un brutto naso: egli lesse il discorso della corona, nel quale il
re lamentava il disastro del 15 maggio, si rallegrava di veder riuniti i
deputati, raccomandava di occuparsi delle leggi amministrative, dichiarava le
sue immutabili intenzioni di mantenere ai popoli una libertà saggiamente
limitata, e invocava a testimoni Dio e la storia. A questo discorso nessuno si
commosse, salvo il duca che era sudato per aver letto; nessuno disse una
parola. Dei centosessantaquattro deputati furono presenti solo settanta: dopo
qualche giorno furono ottanta, ed elessero presidente l’avvocato Domenico
Capitelli, vicepresidente Roberto Savarese. Fecero la risposta al discorso, e
con temperate parole chiesero cambiamento di ministero, guerra per
l’indipendenza italiana, leale esecuzione dello statuto. Furono tutti unanimi i
centocinque deputati presenti ad approvare questa risposta, e dodici la
portarono al re, che non volle riceverli, e li fece andar via, e vietò ai
ministri di intervenire alle tornate della Camera.
La Camera dei pari si
riunì più tardi, ai 19 di luglio, e fece anch’essa la sua risposta nella quale
ringraziava il re per l’ordine che aveva ristabilito, e prometteva il suo aiuto
per l’avvenire. Il solo principe di Strongoli, generoso vecchio, osò levare la
voce e dire che la nazione nominando gli stessi deputati aveva già condannato
il governo, che il non aver mantenuto le promesse fatte nel programma del 3
aprile aveva prodotto il 15 maggio e la rivoluzione di Calabria; che era stato
un errore grave richiamare le soldatesche dalla Lombardia; che pensassero i
ministri, essendo repubblica in Francia, ad unire e salvare la monarchia in
Italia. Il buon vecchio fu lodato da una parte, vituperato dall’altra, e poi
costretto ad andare in esilio: quelle sue parole furono le sole che fanno
ricordare la Camera dei pari.
Il Bozzelli soleva dire
ai suoi amici che egli si trovava stretto in mezzo tra la Camera e la
camarilla, l’una voleva troppo, l’altra negava tutto; e che egli, che voleva
salvare qualche cosa, spiaceva agli uni ed agli altri. Così avviene sempre agli
uomini che nelle rivoluzioni, mentre tutti corrono o in un verso o in un altro,
vanno adagio; ei sono travolti e calpestati. Non s’accorse che egli fu un
istrumento maneggiato dal re, il quale dopo un poco lo gettò via come ottuso, e
prese i taglienti.
Che cosa era la
camarilla? I borbonici che cospiravano contro la libertà avevano un gruppo di
uomini che stavano attorno al re. Era composto principalmente di uffiziali
della guardia reale, che dimoravano sempre in Napoli, e facevano la guardia al
palazzo; e ne era capo il principe di Turchiarolo, che desiderava il bastone di
capitano delle guardie del corpo, uffizio tra i maggiori di corte, e che era
vuoto, ed egli teneva quell’uffizio ma non il grado né gli onori. Costui
abitava proprio in palazzo, e nelle regie stalle tra staffieri e servitori
ragunava i più devoti. Ai militari si aggiungevano vecchie birbe di polizia, e
spie, e ribaldi di ogni specie purché provati fedeli. Erano potenti perché
avevano le armi, ed avevano vinto il 15 maggio, e si erano uniti ed ordinati, e
difendevano la causa del re; ma la maggior parte erano sciocchi ed ignoranti, e
dicevano le più grosse corbellerie, e un colonnello proponeva si facesse venire
anche la flotta svizzera. Quegli uffiziali appartenenti a nobili o ricche
famiglie erano stati educati dal prete, dai cocchieri e dalle ballerine, e si
credevano onoratissimi a fare i regi servitori, e i regi sgherri. Fra essi ce
n’eran di furbi, che li guidavano un po’, e saliti più in alto, uscivano di
quella fangaia. Il Re lasciava fare, ma badava che non facessero troppo, non
gli guastassero i suoi disegni, e talvolta li frenava, tanto per mostrar loro
che il padrone era egli, comandava egli, e non si lasciava vincere la mano da
nessuno.
La camarilla avrebbe
voluto togliere subito lo statuto, accoppare tutti i liberali o almeno i capi,
e governar con la sciabola, e odiava fieramente i deputati, e li chiamava i
chiacchieroni, e più volte proposero, di uccidere quelli che parlavano più
arditi. Nella Camera il deputato Giuseppe Massari disse memorevoli parole ai
ministri: “Noi dimentichiamo tutti i vostri errori e le vostre colpe, ad un
solo patto, che mandiate subito il nostro esercito e le nostre navi a
combattere per la causa italiana: aiutate la causa d’Italia, e noi vi
perdoneremo, anzi vi benediremo”. Il Bozzelli disse che egli per ragioni di
civile prudenza non poteva rispondere. E che poteva dire egli ministro di
Ferdinando II, che era il più fiero nemico della causa italiana, e che avrebbe
mandati i suoi soldati, sì, ma per aiuto all’Austria? E quando su la fine di
agosto si seppe la ritirata, la sconfitta, la sventura di re Carlo Alberto,
nella Camera si levò la voce: “Vadano i nostri soldati a rimettere la fortuna,
che c’è ancora Venezia che combatte”. I ministri non risposero. Il deputato
marchese Luigi Dragonetti interpellava il ministro su le inique e feroci opere
del governo nelle Calabria: e il Bozzelli difendeva quelle opere come giuste ed
inevitabili, e diceva che era liberale anch’egli, e sollevando i polsi: “Ho
ancora qui i segni delle manette che più volte mi hanno stretto i polsi”. E in
questo dire e dimenarsi cade su gli scalini della tribuna. “Bene, bene,
meritamente,” fu gridato dalle tribune: questo fu il solo applauso che egli
ebbe. Si levò inviperato, ed andò via. Surse il deputato Carlo Poerio, e narrò
tutte le scelleratezze commesse nelle Calabrie, e l’eccidio di Filadelfia e del
Pizzo, la ferocia de’ soldati, i crudeli comandi del Nunziante. Dopo pochi giorni
fu pubblicata nel giornale uffiziale una lettera del Nunziante al ministro
della guerra; nella quale erano molte ingiurie al Poerio ed alla Camera. Allora
il magnanimo Poerio con suo grave discorso confermò i fatti che aveva prima
narrati, e propose che la Camera dichiarasse come quelle ingiurie non
giungevano a lei; e la proposta fu votata con appello nominale e fu vinta.
Era il giorno 13 luglio
ed io vidi molte carrozze chiuse, che circondate da soldati a cavallo con le
pistole in pugno presero la via di castel Sant’Elmo. Erano i capi delle milizie
siciliane state in Calabria, e fatti prigionieri, che andavano ad essere
sepolti in quel castello. Caduta la rivoluzione di Calabria, i siciliani
fuggirono sopra alcuni piccoli legni, e dopo lunghi travagli mentre erano a
poca distanza da Corfù e si tenevano salvi, furono sopraggiunti dal vapore
napoletano lo Stromboli, comandato dal Salazar, e furono fatti
prigionieri, ed erano circa seicento, tra i quali il Ribotti. Menati a Reggio,
poi a Napoli, i capi furono gettati nei sotterranei di Sant’Elmo, gli altri
mandati in galera: Giacomo Longo e Filippo Delli Franci, perché antichi
uffiziali dell’esercito napoletano, furono sottoposti a giudizio d’un consiglio
di guerra. Carlo Poerio, come avvocato, si presentò a difenderli, e sebbene si
vedesse intorno militari che lo minacciavano e lo schernivano, egli fece il suo
dovere. Furono condannati a morte: per grazia all’ergastolo; stettero sepolti
in un sotterraneo di torre d’Orlando in Gaeta sino al 1860. Giacomo Longo come
ne uscì corse a Capua dove si combatteva, fu ferito nella fronte, e cadde; si
levò, fasciò la ferita, gridò, “viva Italia”, e seguitò a combattere, finché fu
ritratto dagli amici. Il Ribotti penò molti anni in castel Sant’Elmo: gli altri
nelle galere prima, poi sulle isole. I deputati Scialoia e Conforti dicevano ai
ministri: “Se i siciliani sono ribelli, giudicateli: se sono prigionieri di
guerra trattateli come prigionieri”. E i ministri rispondevano con ingiurie ai
siciliani, ai calabresi, ai deputati chiamandoli stolti e faziosi. Fra i
prigionieri era Francesco Angherà, giudicato col Longo e il Delli Franci, ma
assoluto perché aveva già preso il suo congedo dalla milizia quando si messe a
combattere per la rivoluzione. Assoluto sì, ma era tenuto nel carcere di San
Francesco senza speranza di uscirne: onde egli, che piacevole uomo era, si
travestì e sfigurò in modo che uscì dal carcere con molta franchezza e senza
essere riconosciuto. Lo sdegno della polizia fu grande, e grandissime le risa
dei liberali.
In quei giorni si vide
passeggiare innanzi la reggia tra i militari un prete grosso della persona e
vecchio e brutto; ed io lo vidi in mezzo a due uffiziali della guardia che
cianciavano con lui e ridevano. Quel prete Vincenzo Peluso di Sapri aveva ucciso
di sua mano il deputato Costabile Carducci, che sbarcava ad Acquafredda tra
Sapri e Maratea, e gli aveva reciso il capo, e fattolo asciugare in un forno,
lo aveva presentato in un paniere al Re, e non pure non fu punito
dell’assassinio, ma ebbe una pensione e carezze molte; e fu punito il
procurator generale Pasquale Scura che aveva dato ordine di fargli un processo,
e se non fuggiva il povero Scura lo avrebbero arrestato. La moglie del
Carducci, che era sorella di Giuseppe del Re, non seppe mai della morte del
marito, ed era una pietà a vederla, a udirla che aspettava lettere dall’America
dove le avevano detto che si era fuggito il Carducci.