L'isoletta, o per meglio dire lo scoglio di Santo
Stefano, lontana circa un miglio da Ventotene, è sita rimpetto a Gaeta,
distante da essa un trenta miglia, ventiquattro da ischia, venticinque da
Ponza: ha un circuito minore di due miglia, non altri edifizi che l'ergastolo,
non altri abitatori che i miseri condannati, i loro custodi, poche capre che
danno latte per gl'infermi, e qualche asino. Difficilmente vi si approda, e
soltanto sovra piccoli battelli, perché intorno è irta di scogli, e lo stretto
mare che la divide da Ventotene è sempre agitato e rumoroso. Tutti i venti la
battono, e vi portano in uno stesso giorno il rigore il tepore il calore di
tutte le stagioni. È fama che queste due isolette di Santo Stefano e di
Ventotene un tempo fossero state unite e poi divise per terremoto; e che l'una
e l'altra eran chiamate con nome comune: Pandataria. Io credo che se
questa separazione fu vera avvenne in tempi remotissimi; che il nome di Pandataria
o Pandateria, guastandosi in Vandateria siasi cangiato nel
presente Vendetene o Ventotene, e solamente a quest'isola fu dato; e che Santo
Stefano ebbe altro nome particolare, il quale pel tempo e per la piccolezza
dell'isola andò obbliato e perduto. Nondimeno le tradizioni storiche di
Ventotene appartengono ancora a Santo Stefano; dappoiché coloro che abitarono
quell'isola vennero ancora in questa vicina.
Queste due isole rendute celebri per le sventure
di antiche donne illustri, furono sempre albergo di pene e di dolori, in
Pandataria fu rilegata Giulia, figliuola di Ottaviano, celebre per bellezza e
lascivia, la quale qui pianse per la vendetta di Livia e la fredda ferocia di
colui che uccise la patria e la figliuola, di quel furbo fortunato che dagli
adulatori fu detto Augusto. Qui stette la sventurata donna sette anni, privata
di ogni cosa, consolata sol dalla madre Scribonia, che volontaria l'accompagnò
nell'esilio; e dipoi fu mandata in Reggio Calabria, dove morì di miserie e di
stenti. Nella parte più alta di Santo Stefano, sono alcune rovine di una villa,
che serba ancora il nome di casa di Giulia; e son poche mura di fabbrica
reticolata, alcune pareti che serbano vivi i colori onde furon dipinte, qualche
pavimento a mosaico, ed una cisterna ancora buona ed usata. Un secolo fa
cavandosi la terra vi fu trovato un sepolcro, che da una lapide, ora serbata
nel Museo di Napoli, si conobbe essere stato di un Metrobio, liberto di Augusto
prefetto di Pandataria, e quivi morto: il quale forse fu il custode ed il tormentatore
della misera Giulia. Tiberio vi mandò Agrippina, la magnanima moglie di
Germanico, e ve la fece morire. Caligola divenuto imperatore venne in
Pandataria, tolse le ceneri della madre, e quelle dei fratelli morti in Ponza,
e le portò in Roma onoratamente. Nerone vi chiuse l'infelice Ottavia sua
moglie, e dopo di averle ucciso il padre ed il fratello, averla sprezzata e
posposta a Poppea, fattala accusare dal carnefice Aniceto, a vent'anni le fe'
segare le vene in un bagno. Cornelio Tacito, grande scrittore di grandi
sventure, ci lasciò queste memorie: e se fossero rimaste tutte le sue opere,
avremmo anche conosciuti i dolori della buona Domitilla congiunta di Domiziano,
la quale perché non temette di confessarsi seguace di Cristo, fu qui relegata
dal ferocissimo tiranno.
Caduto l'impero romano, queste due isole furono
soggette ai greci imperatori, che le aggiunsero alla signoria de' duchi di
Gaeta. Nell'anno 813, saccheggiate dai barbari che correvano il mare, rimasero
deserte d'abitatori ed incolte: pensomi che nelle miserie e nell'ignorante
obblio di quel tempo Santo Stefano perdette il suo nome antico. Rimasero così
abbandonate sino alla metà del secolo XI: ed Adinolfo secondo duca di Gaeta nel
1063 le donò ai monaci cisterciensi” che erano in Ponza. Di là alcuni di quei
frati si recavano in queste isole per menarvi una vita solitaria e tranquilla,
e nell'isoletta minore fabbricarono una chiesetta in onore di papa Stefano, che
essendo ancora frate si piaceva di questa solitudine. E da lui l'isoletta ebbe
il novello nome. Altri pontefici vi fecero costruire un piccol carcere per
chiudervi e correggere i preti discoli. Ma la chiesa, il carcere, ed ogni cosa
fu distrutto dal tempo, dai pirati, dai venti; e le due isole rimasero un'altra
volta deserte ed incolte, come Ponza e gli altri isolotti sparsi intorno.
Divennero nidi di corsari, che da essi spiccavansi per devastare le vicine
spiagge; e solo pochi arditi pescatori per speranza di guadagno venivano da
Ischia e da Gaeta per tagliar legno in queste isola selvagge, e per pescar nel
mare che le circonda. Uno di questi pescatori è degnissimo di ricordanza.
Nella state dell'anno 1768 Pasquale Regine di
Forio d'Ischia, padrone di una di quelle barche pescherecce che diconsi
paranzelli, con un suo figliuoletto di dodici anni a nome Vincenzo da lui
teneramente amato, e con altri sei pescatori suoi paesani e parenti, venne in
Ventotene per tagliar legne. Approdò in un piccol seno detto Cala di
Battaglia, e lasciati quattro compagni a guardia della barca e del figliuolo,
con gli altri due si avviò per una valletta, sparsa di grotte che allora erano
vuote, ed ora servono di abitazioni ad uomini, asini e maiali. Mentre il
dabbene uomo sul monte tagliava la legna coi compagni, ecco una galeotta
tunisina, nascosta in un altro seno dell'isola, uscire d'agguato, assalire e
predare la barca, i pescatori, il fanciullo. Allo strepito lontano volgesi il
misero padre, e veduto il vero gettasi a correre giù piangendo e gridando come
forsennato: giunse al lido, e veduta la galeotta, che spiegate le vele e si
traeva dietro la barca, slanciasi nell'acqua, e nuota, e giunge, ed offresi di
andare schiavo col figliuolo. Si rallegrano i ladri di questa nuova preda; e si
rallegra l'amoroso Pasquale di abbracciare il diletto figliuolo, e spera di
potergli serbare l'onore e la fede. Giunti in Tunisi, il bey scegliendo fra i
cattivati, compera il fanciullo, il padre ed un altro: e vuole che il fanciullo
lo serva in casa, e gli altri due lavorino ne' giardini. Lavorava il buon
Pasquale, e di continuo teneva gli occhi sul figliuolo, che per la fresca età e
l'avvenenza della persona aveva pur bisogno di chi lo tenesse saldo nella fede
di Cristo, e gli desse forza a resistere alle insidiose promesse di ricchezze e
di onori che faceva il barbaro padrone. Scrisse il dabben uomo alla moglie,
fece vendere ogni masserizia, e raggruzzolati quanti denari poté, aggiuntine
altri dai buoni frati di Santa Maria della Mercede della redenzion de' cattivi,
dopo due anni riscattò il figliuolo. E poi che l'ebbe baciato e benedetto, lo
mise in barca per l'Italia, e ringraziò Iddio che aveva liberato quel suo caro
innocente dai pericoli della schiavitù. Indi ad un anno fu riscattato anch'egli
ed i compagni.
Intanto essendo Re Ferdinando I di Borbone, fu
mandata in Ponza una colonia di molti condannati per vari delitti, e furono
invitate ad andare ad abitarla molte famiglie povere di Torre del Greco, città
allora distrutta dal Vesuvio, e pescatori d'Ischia. E volendosi ripopolare
anche Ventotene, vi furono primamente mandati nel 1768 dugento galeotti a
costruire le case per la colonia, ed un castello per un bastevol presidio di
soldati. Questa povera gente finì le fabbriche, ma quasi tutti morirono, perché
la notte eran rinchiusi nelle rovine di una antica, vasta ed umida cisterna
romana. Nel 1771 vi andò la colonia: erano tutti ladroncelli, ai quali furono
date in mogli alcune donne condannate: vi corsero ancora famiglie di Torre del
Greco è d'Ischia; tra le quali Pasquale Règìne con la moglie ed il figliuolo.
Tutti ebbero terre, arnesi rurali, sementi, frumento e viveri sino alla
ricolta. Andovvi un curato e tre preti: e fu eretta una chiesa a santa Candida
di Cartagine, una cui immagine nascosta fra le rovine era adorata dai pescatori
che qui approdavano. Ora nella chiesa vedesi l'immagine della santa, a cui
stanno innanzi genuflessi e presentando le catene un vecchio ed un fanciullo,
che sono Pasquale Règìne ed il figliuolo. Oggi Ventotene è una vaga isoletta
con mille abitatori, più che quattro miglia di circuito, quattrocento moggia di
terreno coltivabile, ed a tramontana un porto per picciole barche. In Ponza ed
in Ventotene si mandano tutti i condannati alla relegazione, la più parte
ladri: ed ora senza condanna vi sono più di quattrocento giovani generosi, che
hanno il delitto di aver combattuto da prodi su i campi della Lombardia e della
Venezia. Rispettati ed onorati dagli stessi nemici, qui stanno mezzo nudi,
mutilati, con le ferite ancor sanguinanti, misti ai ladri, penando nella
miseria, scherniti da chi non rispetta neppure i sacri diritti della sventura.
Ripopolata Ventotene, rimaneva ispida e selvaggia
la vicina Santo Stefano; dove nel 1794 fu costruito l'ergastolo, e ne fu
architetto Francesco del Carpio. Qui furon mandati tutti i galeotti condannati
a vita, e quelli che nelle altre galere erano più feroci ed incorreggibili:
onde divenne luogo di più grave pena, ricetto di scelleratissimi. Nel 1799 vi
furono chiusi ed incatenati oltre cinquecento prigionieri politici, tra i quali
il carissimo padre mio che vi penò quattordici mesi. Nel 1806 ne furono tratti
tutti i galeotti dal brigante Fra Diavolo, il quale ne condusse alcuni in
Sicilia alcuni in Ponza, dove furono armati dal Principe di Canosa, ed alcuni
in Gaeta, dove il principe di Philipstadt li mandava ad inchiodare i cannoni
francesi e morire. Durante la signoria francese, essendo mal sicuro il mare,
l'ergastolo rimase vuoto e quasi distrutto: ma nel 1817 fu rifatto dal Ministro
Medici. Dopo i tristi casi del 1821 quei condannati a morte ai quali fu fatta
grazia del capo, furono qui gettati e sepolti: qui stettero il marchese
Tupputi, il colonnello Celentano, e il cavalier Fasulo, il maggiore Gaston, e
tra moltissimi altri l'infelice capitano Piatti, che qui visse dodici anni
filando canape. In tutti i paesi civili d'Europa i prigionieri politici sono
tenuti con rigore sì, ma con rispetto; non son misti ai ladri, agli assassini,
ai parricidi, come si fa nel nostro paese. Questa compagnia di uomini perduti e
scellerati fa più dolore che la catena ed i ceppi, perché tormenta il cuore e
l'anima: quasi che non bastasse di punire la virtù, si vorrebbe anche
macchiarla, schernirla, e spegnerla; se la virtù potesse spegnersi. Nel 1836
questo edifizio fu destinato per i soli condannati all'ergastolo, e per pochi e
pessimi condannati ai ferri. La pena dell'ergastolo stabilita nel nostro codice
fu sostituita all'altra dei ferri in vita: per essa il condannato è chiuso in
una stanza per tutta la sua vita, senza ferri, e con abiti suoi: perde tutti i
diritti civili, è considerato come morto ab intestato, e si apre agli
eredi la successione. Pena terribile, perché senza speranza.
Ma entriamo in questa tomba, dove sono sepolti
circa ottocento uomini vivi: vedremo dolori che il mondo non conosce e non può
mai immaginare: vedremo uomini imbestiati che sono discesi all'ultimo fondo
dell'abiezione morale: e da questo abisso di dolore e di delitti innalzeremo
gli occhi e la voce a Dio affinché consoli chi soffre, e consigli chi fa
soffrire.