Le nostre leggi a pochi delitti danno pena dell'ergastolo:
non di meno sono più di settecento ergastolani, ed in vent'anni ne sono morti
mille e duecento, de' quali più di mille uccisi. Rari sono i condannati a
questa pena nel primo ed unico loro giudizio: il maggior numero è di condannati
a morte che per grazia scendono a questa pena; vi ha di molti che salendo di
misfatto in misfatto e di pena in pena giunsero sino all'ergastolo. Questi
ultimi sono i più tristi; poiché da fanciulli avendo cominciato il mestiere di
ladroncelli, cresciuti ed educati nelle carceri, sono bruttati di tutti i vizi
più nefandi, sogliono morire uccisi da' compagni. Sicché l'ergastolo è la
sentina del regno delle Sicilie, e vi cadono i pessimi tra otto milioni di
uomini.
Nell'entrare in questo
luogo vedi facce aspramente scolpite, angolose, rugose, triste, cineree; occhi
incerti; sorriso raro e sinistro; vesti strane; parole aspre, fendenti,
strascicanti, avvolte, stridenti, di tutti i dialetti del regno. Ciascuno ha le
mani lorde di sangue e di furto; ciascuno ha ucciso un altro uomo o due, e tre,
e cinque, e sette, e più; e taluno il fratello o la sorella; taluno la moglie;
taluno il padre ancora, e la madre, ed i figliuoli suoi.
Ci ha molti vecchi, ci
ha uomini attempati, e giovani: quasi tutti sono gente di vilissima condizione,
e qualcuno che nacque gentilmente è più scellerato, più infame, più sozzo ed
imbestiato degli altri. Tutti hanno intelligenza e ferocia di belve: sono
spaventosamente atei, bestemmiano Dio anche scherzando, credono solo quello che
vedono; non comprendono che sia virtù, e beffano chi ne parla: si vantano de'
loro delitti, e non sentono o mostrano di non sentirne rimorso; non hanno altra
passione che pel vino, pel giuoco, pe' denari; non sentono e non ricordano più
affetti di famiglia, sono ritirati in un'arida e orribile solitudine, non
curano che se stessi. Son chiusi nell'ergastolo da quindici, da venti, da
trent'anni; dimentichi del mondo, dimenticati da tutti: ed hanno presenti alla
loro mente i lunghi anni della loro prigionia, come fossero un giorno solo. Il
tempo non è scorso per essi: ti parlano di cose vecchie ed obliate come se
fossero recenti: credono che il mondo stia al punto che essi lo lasciarono: i
vapori, le strade ferrate, i nuovi trovati delle arti sono ignoti a molti, che
li credono burle che ad essi si vorrebbero fare: parlano come se parlasse un
uomo morto da trent'anni. La prima volta che per caso dimandai uno da quanto
tempo era condannato, mi rispose: “Sono ne' guai da trentotto anni”.
Raccapricciai d'orrore a queste parole pensando che costui penava da che io son
nato al mondo. Ma tosto mi furono mostrati altri vecchi, che da cinquant'anni e
più vanno trascinando la vita nelle galere. C'è un vecchio di 89 anni, nato in
Itri, seguace de’ briganti Pronio e fra Diavolo, condannato alla galera sin dal
1800, sta da trentadue anni nell'ergastolo: c'è un altro calabrese di 75 anni,
stupratore ed omicida il 1797, brigante col cardinal Ruffo, dannato alla galera
in vita il 1802, poi uscito per le vicende politiche, poi capo di scherani, infine
gettato nell'ergastolo nel 1825; si vanta di avere uccisi trentacinque uomini.
Ci sono molti altri antichi briganti, che ebbero parte ne' terribili fatti
narrati dalla nostra storia; ed alcuni di essi portano ancora sui fieri volti e
sui corpi le cicatrici avute nei combattimenti, i quali essi narrano a modo
loro. Qui dove tutti hanno delitti, nessuno vergogna o teme di confessare i
suoi, anzi li dice con orgoglio per mostrarsi maggiore degli altri.
In questa fiera
comunanza di uomini sono tutti gli odi, le invidie, gl'intrighi, i
pettegolezzi, le furberie, e le lascivie ancora che sono in un convento di
frati: s'irritano e s'inviperiscono per la più lieve cagione, per uno sguardo,
per una parola, per nulla: e decidono loro contese con le armi. Tutti hanno
loro coltelli, che chiamano tagliapane, spesso lunghi quanto una spada, e
lavorati con arte fina, e con ornamenti di argento. Pare impossibile che uomini
chiusi in un ergastolo, su di uno scoglio lontano, vigilati severissimamente,
minacciati da terribili castighi, possono avere armi, e tante; ma essi vi
spendono ogni denaro, e se ne fanno portare dai custodi e dai serventi, i quali
loro vendono lime e pezzi qualunque di ferro, cui essi dànno la forma di stile.
Talvolta raccolgono chiodi, e bullette, strappano gangani dalle porte, rompono
pezzi di bandelle, svellono i ferri che uniscono i piperni, rubano maglie di
catena, li gettano nel fuoco, e la notte tra due pietre, l'una che serve da
incudine l'altra da martello fanno di queste armi maravigliose. Le nascondono
nelle mura, sotto le selci del pavimento, negli arnesi di legno sbucati e
turati diligentissimamente, e qualche sottile lama avvolta in cenci taluno ardì
nascondersela nell'ano. Per ritrovarle i custodi usano diligenza incredibile:
ricercano le persone e le fanno spogliare nude; rovistano tutte le masserizie,
sconnettono le pietre del pavimento, staccano l'intonaco dalle mura, e spesso
non giungono a ritrovarle, se da una spia non sanno il luogo certo del
nascondiglio. Raccontano che pochi mesi fa venne da Napoli un uffiziale
maggiore con un battaglione di soldati, e fattili schierare nel cortile, fece
gridare che i condannati dovessero gittar le armi fra tre ore, e chi ne avesse
serbata una sarebbe stato fucilato. Per tre ore nel cortile fu una pioggia di
vari e mirabili coltelli, che raccolti furono più di mille. Partiti i soldati e
la paura, rinacquero i coltelli come per incanto. Tutti debbono avere le armi,
i forti per opprimere, i deboli per non farsi opprimere, i timidi ed i quieti
per indeclinabile necessità. E veramente se un uomo della tua provincia, che tu
neppure conosci, si rissa con un altro; costui ed i suoi paesani se per caso
t'incontrano su la loggia, nel loro cieco furore, ti corrono addosso perché sei
paesano del loro nemico, e ti uccidono. Eppure questi uomini che per nulla si
scannano tra loro non ardiscono toccar gli agozzini: uno solo uccise un
sergente, e subito fu trafitto dagli stessi compagni. Una è la stoltezza del
deboli.
Le più frequenti cagioni
di risse sono il giuoco ed il vino. Il giuoco è severamente vietato; ma
giuocano a carte, che fanno essi stessi con tipi di legno. Giocano il giorno,
giuocano la notte, e ne comperano il tacito permesso dai venali custodi: si
giuocano denari, il pane, la zuppa, il letto, i panni, il pudore. Pel vino non
vi ha alcun regolamento: ognuno ne beve quanto può comperarne dal tavernaio,
quanto ne guadagna giuocando alla mora, ne beve se non nel giuoco, che, dicono,
dà sapore al vino. Molti mangiano la zuppa e mezzo pane senza bere o gonfiandosi
d'acqua; dipoi si uniscono, giocano alla mora, spendono quel che tengono, o che
hanno guadagnato filando per molti giorni, o che hanno preso ad usura, e bevono
dal mezzodì fino alla sera, fino a rendersi bestie. Li vedi bevendo e ribevendo
parlar lungamente, ricordar cose accadute molti anni prima, vecchie e perdonate
offese, e ad un tratto far gli occhi strani, levarsi, far lago di sangue e di
vino. I loro combattimenti non sono forti, e direi generosamente scellerati, ma
traditori e vigliacchi: molti s'avventano su di uno che siede o che dorme, e lo
feriscon di dietro; o mentre passa innanzi una porta gli cacciano un pugnale
nel fianco. Una rissa ne genera molte per molto tempo: gli amici ed i paesani
raccolgono l'eredità dell'odio e della vendetta: l'uccisore è ucciso da un
altro, e questi da un altro, e così sempre. Se la rissa si accende in un piano
inferiore, vedi dal superiore volar pietre, scagliar fornacette che schiacciano
le membra, correre, inseguire, ferire: odi grida terribili e strazianti, urla,
bestemmie, e par che tutto l'ergastolo tremi dalle fondamenta. La sentinella
che sta nella loggia chiama i compagni all'arme: e quando tutto è cessato viene
il comandante, gli agozzini, il chirurgo, il prete: i feriti vanno
all'ospedale; i morti nella sepoltura al cimitero, agli altri si prepara il
castigo: tutti i condannati chiusi nelle celle sono concitati da ira, da pietà,
da gioia feroce, da diversi e strani affetti.
Per impedire questi
orrori non basta il senno e la vigilanza de' comandanti, non le battiture, il
puntale, le traverse, le manette che sono gli aspri castighi che si dànno ogni
giorno a chi commette i più lievi falli ed i più gravi. Il colpevole è disteso
bocconi sopra uno scanno in mezzo al cortile, e da due agozzini con due grosse
funi impiastrate di catrame ed immollate nell'acqua, è battuto fieramente su le
natiche, e su i fianchi ancora e sui femori. Il comandante prescrive il numero
dei colpi, ed è presente col medico e col prete: i soldati stanno su la loggia
con l'arme al braccio: i condannati debbono riguardare: il battuto urlando
chiama la Vergine ed i Santi che poc'anzi bestemmiava: alcuno soffre muto, e
levatosi dallo scanno con orgogliosa impudenza si scuote i calzoni e le
battiture. Dopo le battiture è incatenato ad un piede, e messo al puntale, cioè
l'altro capo della catena, è fisso ad un grosso anello di ferro che sorge dal
pavimento d'una segreta, o è fisso ad un cancello d'una finestra: e così sta
assai giorni e mesi. Talvolta gli si mettono ancora le traverse, che sono due
semicerchi di ferro messi ai piedi e fermati da un grossissimo perno che pesa
su i talloni e rende difficile e doloroso stendere un passo. Questi castighi
sono continui, le battiture quasi ogni giorno: alcuni in varie volte ne hanno
ricevuto oltre due mila, e ne muoiono consunti da tisi, ma non domati. Dopo
l'omicidio s'incomincia il processo: i testimoni, che spesso sono congiurati,
aiutano il vivo, dicono che è stato provocato da schiaffi o da ingiurie. Il
colpevole dopo tre o quattro anni è mandato a Procida, dove una commissione
militare lo giudica e lo condanna ad altre battiture, o a pochi mesi di
puntale, rarissimamente a morte: onde ritorna più baldanzoso tra i suoi, e
pronto a dare altre morti. Le robe dell'ucciso spesso sono rubate o i paesani
se le dividono: se muore dopo alquanto tempo nell'ospedale, il prete si fa
lasciar qualche cosa o tutto per dirgli una messa di requie: i cenci, il letto,
la cassa, si vendono all'incanto in mezzo al cortile, ed il denaro si divide
tra i creditori, che si ricordano di lui solamente per maledirlo.
Vi sono ancora armi più
crudeli e velenose dei coltelli. Coloro che sanno scrivere fanno scellerate
denunzie contro i loro compagni, e ne hanno particolari favori, o un compenso
di dodici carlini il mese, e quando non sono favoriti o compensati come
vogliono, accusano il comandante, il prete, i medici, dicono cose vere e false,
e con incredibili astuzie mandano le carte al Ministri ed al Re. Qualche
comandante ne ha fatto aspra vendetta: un sicario ha trafitto il denunziatore,
e se la ferita non è stata presto mortale, è stata avvelenata. Così i delitti
sono vendicati coi delitti.
Quando la sera verso il
tramonto, levato il ponte, tutti sono noverati e chiusi nelle loro celle,
rimangono per qualche tempo muti e pensosi, riguardando il cielo dall'angusta
ferrata, e parlando coi propri dolori. Alcuno per ubbriachezza, per noia, o per
costume si corica: gli altri, accesa la lucerna, fan cerchio, filano canape, e
cominciano i discorsi della sera. Terribili discorsi che ti volgono sotto sopra
l'anima, ti straziano il cuore profondamente, e talvolta ti fan tutto tremare e
sudare ed arricciare i capelli sul capo per lo spavento. Raccontano la storia
dell'ergastolo, cioè gli orribili delitti che qui hanno veduti, e le cagioni
delle risse: descrivono i lunghi coltelli, le ferite, le grida, gli atti del
ferire e del morire, ti additano i luoghi, e ti dicono che non v'è cella, non
v'è pietra che non sia stata sparsa di sangue. Spesso raccontano la storia de'
misfatti altrui, spesso dei propri. Un mostro fece incesto con sua madre, e
saputo che suo padre usciva dal carcere, con lei gli va incontro, e l'uccide:
dannato a morte, ebbe grazia dal principe, ma nell'ergastolo fu ucciso per
volere di chi è più giusto de' principi. Un altro uscito di galera dice alla
madre mendica che la sera gli faccia trovare certi denari: la misera non li
raccoglie dall'elemosina: lo scelleratissimo la lega al letto, v'appicca fuoco
e parte: alle grida accorron le vicine e salvano la vecchia mal viva. Per altri
delitti costui fu mandato all'ergastolo, dove perì pugnalato. Un bottaio
giocava in una cantina e poco lavorava: la moglie un dì manda a chiamarlo per
un figliuoletto: quegli dal giuoco e dal vino renduto bestia, scagliasi sul
fanciullo e con un temperatoio lo uccide. Or piange continuamente, ha quasi
perduto il senno, e non sa morire. Presso Lecce un ciarlatano, ingannato ed
ingannatore, persuade alcuni contadini, che sotto le macerie di una
cappelluccia era nascosto un gran tesoro, che poteva trovarsi uccidendo un
fanciullo. Una notte un romito che abitava presso la cappelluccia ode un
lamento di un fanciullo, che dice: “Mamma mia, aiutami”; riconosce il
ciarlatano ed i contadini, e li denunzia. I giudici inorridiron del misfatto,
ma non sapendo o non volendo trovarne l'autor vero, perché avrebbero dovuto
punire chi vuol tanta ignoranza, condannarono quattro di quelli sciagurati
all'ergastolo. Un giovin di diciotto anni, di agiata ed onorata famiglia,
educato assai gentilmente, di svelto ingegno e di persona bellissima, studiando
in Napoli abitava in casa di una signora vedova, che appigionava stanze a varie
persone. Avendo perduti al giuoco ottantatré ducati, datigli per mandarli al
padre, era forte turbato dal timore de' paterni rimproveri. La donna gli
dimandò la cagione del turbamento, e saputo il vero, gli disse: non si
affannasse; se egli era uomo, aveva coraggio ed un compagno, poteva avere non
ottantré ma sessantamila ducati, che tra i suoi inquilini era il cavaliere S.
vecchio ricchissimo, avaro, smemorato, solo; che ella lo aveva fatto rubar due
volte da un servitore, ed egli non se ne era accorto; che ora potrebbero torgli
ogni cosa sicuramente. Lo sciagurato giovine ascolta la malvagia femmina, parla
e persuade un suo compagno, giovine anch'egli e di buone speranze: entrano
nella stanza del vecchio, lo rubano, gli dànno di un pistello sul capo, e
l'uccidono. Presi con la donna che confessò il fatto, giudicati e condannati a
morte, ebbero per grazia la vita, e sono da vent'anni nell'ergastolo. Il bel
giovane imbestiato in tutti i vizi che si possono immaginare, ubbriaco ogni dì,
trema in tutte le membra: l'altro divenuto epilettico piange amaramente il suo
fallo, il dolore e lo scorno della sua famiglia. Terribile esempio ai giovani. Un
altro giovine gentiluomo abruzzese renduto deforme e cieco di un occhio dal
vaiuolo, s'innamorò fieramente d'una donzella appartenente ad una famiglia,
che, secondo avviene nei paeselli, era nemica della sua. Ottenne di essere
riamato; ma non potendo vincere l'odio del padre della fanciulla, prese il
feroce consiglio di farlo uccidere da due sicari, i quali seguendo loro costume
lo rubarono ancora. Fu scoperto il fatto e la vergogna: e l'innamorata donna,
sia che non lo credesse colpevole, sia che per aiutarlo volesse mostrare che
tra le due famiglie non v'era odio di sangue, sia per altra ragione, ebbe cuore
di sposare il fratello di chi gli aveva tolto il padre. Il giovine dannato a
morte, bevve un veleno, ma fu fatto vivere per seppellirlo nell'ergastolo, dove
sta da trent'anni, ed ancora si strugge d'amore e piange miseramente. Io non
voglio dire, né ricordarmi di altri, che la mano non mi regge a scrivere:
immagina qualunque più nefanda scelleratezza, e tra questi uomini la troverai.
Ed in questo ergastolo,
tra questi uomini stiamo venti prigionieri politici, sei ergastolani,
quattordici condannati da venticinque a trent'anni di ferri. Questi ultimi son
tutti povera gente, condannati per avere con parole sparso il malcontento
contro il governo; e tra essi sono sei miseri contadini di Gragnano, che la
corte criminale di Napoli condannò come appartenenti ad una setta così detta
Repubblica. Nell'ergastolo è Gennaro Placco giovane albanese calabro, che
combattendo valorosamente a Castrovillari, perdé l'indice della destra mano: è
Giovanni Pollara siciliano, che nello stesso combattimento perdé un occhio e
mezzo naso; e siamo noi quattro E[milio] M[azza], S[alvatore] F[aucitano],
F[ilippo] A[gresti] ed io L[uigi S[ettembrini].
Per noi si usa più
rigore che per tutti gli altri: e solo quattro de' nostri compagni condannati
ai ferri, disperati per la miseria, fanno i cucinieri ed i serventi per
guadagnar qualche cosa. A che può essere condotta la virtù sventurata! Uomini
puri, che amarono il bene senza ambizione, essere costretti a servire gli
assassini ed i parricidi! Noi dall'alta loggia dell'ergastolo con uno
stringimento di cuore riguardiamo i nostri compagni di dolore strascinar pel
cortile le pesanti catene: ed essi amorosamente ci salutano, e ci domandano un
conforto, una speranza, che noi non abbiamo per noi stessi. I condannati
politici son quasi i soli che vanno alla Chiesa, perché chi crede nella virtù
crede in Dio, e sente che da lui solo avrà il premio delle azioni virtuose; per
le quali questi uomini soffrono immeritatamente e trascinano le catene
scellerate senza lamento, con dignitosa pazienza, con viva fede nell'avvenire,
con accesa speranza, quantunque ignorati dal mondo, e compianti soltanto da
pochi, che come essi piangono le lunghe sventure del nostro paese.
Quando io entrai nella
cella che mi fu destinata, volli conoscere coloro coi quali io doveva abitare:
e questi mi narrarono ciascuno la sua vita ed i suoi delitti. Il primo è quel
vecchio calabrese che ha 75 anni e trentacinque omicidi: magro, alto, diritto,
parla rado ed assennato: dice che per ardore di gioventù commise il primo
delitto, per necessità gli altri; che ora deve pagare il mal fatto e non
lamentarsi: ha perduto moglie, figliuoli, parenti, aspetta tranquillamente la
morte. Il secondo è un altro calabrese di un paesello presso Cosenza, co'
capelli canuti, ma robusto come un toro, col braccio sinistro rotto a mezzo
dell'omero e pendente sul petto. Questo brigante detto Moscariello,
narra i suoi casi ridendo e schiettamente nel suo nasale ed ispido dialetto. Fu
soldato, disertò, prese moglie, e lasciata la zappa si diede con altri a
rubare: narra ad uno ad uno i furti che fece, le persone che egli spogliò, i
denari e le robe che prese, e ritenne per sé o diede ai suoi protettori; come una
volta essendo nascosto con altri in un macchione per attendere uno che dovevano
svaligiare, un povero contadino per caso li vide e conobbe alcuni, i quali
tosto lo presero, lo legarono, e condottolo sul monte, egli lo uccise per non
essere scoperto; come altra volta uccise quelli che rubò; come è bella la vita
del brigante, padrone di tutto, temuto da tutti; come un dì egli dormiva in una
grotta, e due compagni, sperando impunità, gli tirarono un colpo di fucile, che
gli spezzò l'osso dell'omero sinistro e gli fece larga ferita su la mammella;
come egli inseguì i traditori che fuggirono e non osarono finirlo; come stette
sei giorni senza curar la ferita che lo ardeva; come ricoverato da un romito
invece di vedere un chirurgo, vide i gendarmi che legatelo su di un asino, e
messogli sul berretto un cartello dove era scritto “II famoso Moscariello”, lo
menarono prigione in Cosenza. Quando egli una sera narrandomi questi fatti, mi
mostrava le sconce cicatrici ed il braccio inutile, desiderava vendetta del feritore
che è anche nell'ergastolo, e parlando mi avvicinava l'altra mano grossa,
ispida, callosa, omicida, mi fece un indicibile spavento. Una mattina
svegliandosi sa che la notte è stato ucciso un ergastolano, che gli aveva
rubate alcune salsicce: egli si leva, e con feroce sorriso dice: “Ora manderò
l'acquavite a chi lo ha ucciso; ed oggi io mi voglio ubbriacare”. E fece quello
che disse. Il terzo è un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi
Giovanni. Costui racconta che un signore suo padrone volendo il sangue e la
roba di un suo parente che lo aveva offeso, chiamò a sé alcuni briganti che
andavano correndo la campagna. Una notte, mandato innanzi esso Giovanni con un
asino carico di fieno, gli comandò di picchiare alla porta della casa del parente
che era in campagna. Facilmente come a conosciuto gli fu aperto: allora il
signore e gli assassini entrarono, uccidono spietatamente undici persone, fra
le quali donne che piangevano e pregavano, ed una madre ed un fanciullo di
diciotto mesi, rubano tutto, ed appiccano fuoco alla casa. Un giovane benché
ferito a morte gettasi furtivamente da una finestra, e vive tanto da nominare
alcuni degli assassini, e Giovanni che aveva picchiato. Giovanni, sperando
impunità, narra tutti i casi del feroce eccidio, e nomina i compagni: dei quali
sei col padrone furono impiccati, egli con altri dannato all'ergastolo, dove è
giunto da pochi mesi. Il quarto è un giovane anche abruzzese, il quale dice che
avendo poco più di diciotto anni era sempre battuto ed insultato da un
contadino, al quale un suo fratello aveva tolto l'innamorata; e il contadino
non potendo offendere il rivale, offendeva lui fratello minore e più debole.
Stava egli però pieno di sdegno e di mala voglia: una notte mentre egli
falciava il fieno, un pastore lo avvisa che il suo nemico e percussore era poco
lontano; egli corre, e con la falce gli taglia il capo, e gli fa tante ferite
quanti schiaffi ed oltraggi aveva ricevuti: gli ruba settantacinque piastre che
aveva in cintura, e lascia il corpo che fu divorato dai lupi. Il pastore lo
denunziò, un suo cugino lo fece arrestare: dannato a morte, per grazia vive
nell'ergastolo: intanto il fratello uccise il pastore ed il cugino, e fu spento
anch'egli da altri. Il quinto è un pugliese che era garzone di un fittaiuolo,
al quale un altro contadino tolse un fondo: il fittavolo con questo garzone ed
un altro mettesi in agguato: uccidono e rubano il contadino, e son condannati
tutti e tre all'ergastolo.
Questi cinque uomini
sono tra i condannati migliori e più tranquilli, non mai li ho veduto
ubbriachi, non mai rissarsi fra loro, e sono qui da assai degli anni. Quando
co' due miei amici io entrai nella cella, essi non avevano più che farci e che
offerirci, si dolevano di esser poveri e di non poterci offerire un pranzo,
ciascuno di essi volle un giorno pagare il caffè per noi, ci dettero i loro
posti, e qui il posto è caro quanto la casa, fecero ogni opera per fornirci di
letti, ora ci servono studiosamente. E non solo essi, ma tutti quest'infelici
che sono nell'ergastolo ci usano cortesie, ci vorrebbero confortare, e ci
dicono ch'essi sanno che noi siamo qui perché volevamo il bene di tutti, ed
anche il bene de' condannati. Con questi cinque compagni io discorro la sera:
essi confessando i loro misfatti dicono con stupida rassegnazione di meritare
la pena che soffrono; anzi Moscariello soggiunge che egli non paga nemmeno
l'erba che ha calpestato in campagna. Ma il pugliese non sa darsi pace e dice:
“Io era un povero capraio, io aveva diciannove anni, io non sapeva quello che
faceva, io ubbidii al mio padrone: ora conosco che allora feci un orribile
delitto, ma son vent'anni che piango, vent'anni che non ho mancato in nulla. E
come? Iddio perdona, e gli uomini non perdoneranno giammai? Si fa grazia agli
omicidi, e tra questi v'è chi ha ucciso il padre e la madre: e non si fa grazia
a chi ha rubato una volta per fame, a chi ha ucciso una volta per consiglio
altrui! Io non ho grazia perché sono un capraio”. I miei amici ed io li
confortiamo ed esortiamo a sperare in Dio, ma questi miseri non credono in Dio;
perché alcuni nati gentiluomini e condannati come falsatori, facendo pompa di
stolida sapienza, hanno persuaso a questi miseri che se vi fosse Dio non vi
sarebbe ergastolo. Noi li confortiamo, ed essi udendo le nostre parole
sospirano profondamente, e pare che si tolgano un gran peso dal petto. Oh
scelleratissimo chi toglie Dio agli sventurati!
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