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Luigi Settembrini
Ricordanze della mia vita

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  • PARTE SECONDA (1849-1859)
    • Ricordo di Raffaele
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Ricordo di Raffaele

 

Intanto nello stesso mese di gennaio io ed altri sessantacinque compagni uscimmo della galera, e fummo messi sul vapore lo Stromboli, che rimorchiato dalla fregata da guerra l'Ettore Fieramosca ci trasportò a Cadice. Lì stemmo in rada ventiquattro giorni, custoditi severamente, senza potere né scendere né vedere nessuno, aspettando che fosse noleggiato e preparato un grosso legno americano che ci doveva condurre a New York: “Un ufficiale inglese è venuto a bordo, e ha dimandato di voi”. “Dov'è? chi è?” “Ha parlato due minuti col capitano, poi subito è disceso, e v'aspetta su la fregata.” Io monto su la coperta, e trepidante dimando al capitano: “Dite, è mio figlio?” Egli: “E lo vedrete su la fregata”. Io perdetti la conoscenza. Chi è padre può immaginare quello che io sentii. Il buon capitano Cafiero mi condusse su la fregata, dove io rividi ed abbracciai il mio figliuolo dopo otto anni già divenuto uomo, e in divisa d'uffiziale di marina. Egli subito squadernò innanzi al Cafiero, ed al Brocchetti comandante della fregata, la sua patente di secondo uffiziale, disse come era a servigio d'una compagnia inglese, e sopra un vapore che viaggiava da Londra alle Canarie. “E quando sei giunto?” “Ieri, e riparto domattina.” “Dove hai saputo che io ero qui?” “I giornali in Londra annunziavano la vostra partenza; l'altrieri a Lisbona ho saputo che eravate qui. Io tornerò subito a Londra, e di lì col primo postale sarò a NewYork, dove vi aspetterò, o verrò subito dopo di voi, e torneremo in Inghilterra.” E così dicendo mi accennò con l’occhio e mi strinse la mano, e sottovoce soggiunse: “Voi non anderete in America”. Tenni queste parole una bravata giovanile e sorrisi. Ci dividemmo, io tornai su lo Stromboli, egli a Cadice: e l'altro giorno vidi partire il vapore per le Canarie, e in buona fede credetti che egli vi fosse sopra, e stetti molto tempo a sbirciare con un occhialetto.

Dopo una settimana il legno americano fu pronto, e noi con le nostre robe vi fummo trasbordati. Lo Stromboli rimase nella baia, la fregata si legò a poppa il legno americano, e così rimorchiati subito s'andò via da Cadice, e ci allargammo nell'Oceano. Intanto come io salgo l'ultimo sul legno americano, il mio amico e compagno Felice Barilla mi si fa incontro, e dice sottovoce: “Tuo figlio è qui travestito da cameriere. Fingi di non conoscerlo. Egli ha riconosciuto me, e mi ha pregato di avvisarti”. Io entrai in una stanza su la coperta presso a quella del capitano, dove il buon Cafiero aveva fatto allogare Carlo Poerio, Cesare Braico, Silvio Spaventa e me: e rimasto ivi solo, mentre tutti gli altri attendevano alle loro robe, mi vedo innanzi Raffaele, mezzo lacero le vesti, con la faccia lorda, con un cappellaccio in testa, una brocca e una catinella in mano, che mi dice: “Stasera parleremo: state di buon animo, e mangiate bene, a tavola avrete un buon cameriere. Non parlate”. Sopravvenne Silvio Spaventa, che vedendomi turbato, mi chiese che avevo; ed io che a lui amicissimo non sapevo nasconder nulla gli dissi ogni cosa, ed entrambi conchiudemmo: “Bisogna parlargli stasera per sapere quali sono i suoi disegni”. L'americano, egli e tutta la sua ciurma non parlava né intendeva nulla d'italiano né di francese: onde per farci servire prese per camerieri alcuni italiani che a caso si trovavano in Cadice: ma questi erano poco atti a servire, sofferivano mal di mare, e non sapevano che farsi; onde tutti i miei compagni con gesti, e parole mezzo francesi e mezzo spagnuole cercavano di farsi intendere da John, che era Raffaele, il quale non parlava altro che l'inglese, e un po' lo spagnuolo. Tutti comandavano John, ed egli faceva le viste di non intendere, e roteava sempre intorno a me.

Venuta la notte ci raccogliemmo in un cantuccio scuro e segreto. “Io vi diceva che non andereste in America, e non ci anderete. Quando sarà finito il rimorchio, e la fregata ci lascerà, e sarem soli in mezzo l'Oceano il capitano dovrà voltare la prua all'Inghilterra, o con le buone o con la forza.”

“Forza no, figliuol mio: perché noi abbiamo il diritto con noi. Poerio ha scritto una protesta, che sottoscritta da tutti, noi l'abbiamo inviata per la posta, a' consoli francese, inglese e piemontese in Cadice. Pica ha scritto un'altra protesta, che tradotta da Schiavoni in inglese, noi presenteremo al capitano quando saremo soli, nella quale gli diciamo che lo accuseremo innanzi ai tribunali di New York.”

“Che proteste, papà mio: ci vuol la forza con questo pescecane di comandante: io so come si tratta questa gente. Se non volta la prua lo legheremo.”

“Piano, figliuol mio: dammi parola che non farai nulla senza il mio consenso, e che mi obbedirai in tutto: dammi questa parola, e poi discorriamo.”

“Ve la do: mi siete padre, e vi debbo ubbidire.”

“Va bene, or dimmi come ti trovi qui; chi ti ha aiutato, consigliato,”

“Ecco qui tutto per filo. Fatto l'esame ed approvato ufficiale, leggo su i giornali la vostra partenza da Napoli, poi l'arrivo in Cadice. Chiedo alla Compagnia Bake ed Adam di darmi un posto sopra uno de' loro vapori o di dar prova di me alla Compagnia che dovrà adoperarmi.” “L'hai detto a Panizzi?” “Certamente ed egli m'ha prestato dieci lire. Vi vedo, mi nasce un pensiero, e rimango a Cadice: dove saputosi che io sono figliuolo d'uno de' deportati, ho molte carezze da' giovani liberali, fo conoscenza col signor Oliveira, inglese, deputato al parlamento, e col conte di Casabruneta ricco e liberale signore di Cuba. A questi due propongo il mio disegno. Il capitano americano ed il console napolitano cercano dei camerieri pe' deportati, io mi offero come cameriere per essere imbarcato con voi, ed o condurvi tutti in Inghilterra, o almeno accompagnar voi, o papà mio, in America. Con l'aiuto di quei due signori sono stato ammesso e imbarcato. Se non riesco a salvarvi, almeno vi assisto. Voi uscite da un sepolcro, e non reggereste ad una lunga navigazione.”

“Ti ringrazio figlio mio.”

“Papà mio, mi feci marino per salvarvi. Basta: il capitano non parla che l'inglese, gli parlerò io, l'ha a fare con me.”

“Adagio, e ricordati la parola. Dimmi: e di questi camerieri ti conosce qualcuno?”

“Uno solo; e gli ho detto che se mi svela prima che cessi il rimorchio, gli brucio le cervella, se mi aiuta gli fo dare un impiego.”

“Sei troppo largo nelle minacce e nelle promesse.”

Il giorno appresso io dissi ai miei amici più cari Poerio, Pica, Braico, Schiavoni, De Simone, ed altri ma pianamente e da non far rumore che John era Raffaele, e che voleva condurci in Inghilterra. Noi tutti sapevamo pur troppo che le carte e le proteste non servono a nulla, ed eravam rassegnati ad andar in America, perché vedevamo che era impossibile non andarvi; ma come fu visto in mezzo a noi Raffaele, un marino, e che poteva far intendere al capitano i nostri pensieri, quel proposito si mutò, e sperammo di non andarvi. Quando finì il rimorchio dopo trent'ore, e la fregata si allontanò, Raffaele fu conosciuto da tutti con molta gioia; e quando la fregata disparve dall'orizzonte, ci presentammo al capitano con Raffaele non più cameriere, ma vestito da uffiziale di marina. Il capitano cadde dalle nuvole: parlò con Raffaele, e disse che egli aveva un contratto, che noi lo rovineremmo, gli dessimo almeno noi il resto del nolo che doveva avere dal console napoletano in New York, che dicessimo di averlo forzato a voltar la prua. E noi rispondemmo, esser poveri e non potergli dar nulla: non volerlo forzare, né dire di averlo forzato: dover egli esser forzato dal fatto suo stesso di averci presi come un branco di negri senza averci interrogati. Il capitano non si persuase. Sperò di cavarci danari, seguitò la sua via verso ponente.

Raffaele sbuffava e mi diceva: “Le parole non fanno niente con costui. Bisogna legarlo, e condurrò io il bastimento”.

“Figliuol mio smetti l'idea della forza. Una violenza produrrebbe qui una rovina.”

“La ciurma è di soli diciassette.”

“Ma ci sono quei due negri, che valgono per cinquanta.”

“Io ho quattro pistole, e accheterò quattro negri.”

“Raffaele mio, acchetati. Che rimorso sarebbe per noi di spargere sangue per non voler fare un viaggio un poco più lungo? E se cade qualcuno de' nostri? Oh, non pensare neppure a queste cose.”

Con le buone parole mi feci consegnare le quattro pistole che consegnai a Francesco de Simone due, e due a Ferdinando Bianchi.

Intanto gli altri compagni che alla vista di Raffaele avevano levato gli animi e le speranze, sapendo il niego del capitano, sospettarono che questi la notte facesse chiudere sotto-coperta il giovane, e poi incatenar tutti, e Dio sa che altro: onde tutta la notte stettero quattro a guardia su la coperta, scambiandosi con altri quattro.

La mattina fu riferito al capitano che la notte s'era fatta questa guardia, e gli fu anche portata una capsula caduta al De Simone o al Bianchi mentre io lor porgeva le pistole. Il capitano al vedere questa capsula ci credette armati, fece gran sospetti per la guardia, ci sapeva usciti dalle galere, e che eravam sessantasei, ebbe una paura maledetta. La paura vinse l'avarizia: chiamò la sua ciurma: dichiarò, che noi non volevamo andare in America, che egli dirigeva la prua per Cork in Irlanda.

Come la ciurma udì questo gridò “Urrah”, e i due negri gridando “liberty” vollero abbracciare capitan Raphael, e non si saziavano mai di riguardarlo, e sorridergli scrollando il capo.

Dalla voltata fino a Cork durammo quattordici giorni. E da quella navigazione di quattordici giorni potemmo giudicare che sarebbe avvenuto di noi se fossimo andati a New York in cinquanta o sessanta giorni sopra un legno a vela.

Il corridoio sotto coperta aveva sessanta letti intorno, e le tavole da pranzo in mezzo. Dalla stiva s'innalzava un puzzo inestimabile, che veniva da galline, tacchini, capre, pecore, oche, conigli, che dovevano servirci per cibo. Quasi tutti sofferivano mal di mare, e i camerieri anch'essi, e non potevano né spazzare né fare altro servizio; sicché nel muoversi del legno vedevi cader piatti e bottiglie e pitali, e correr brodo, vomito, e orina a rigagnoli. Il puzzo era grande, il sudiciume orribile, ognuno gettato sul suo giaciglio non aveva forza di muoversi, non reggeva cibo nello stomaco, non poteva neppure avvicinarlo alla bocca. La ciurma attendeva alla manovra delle vele, e non si curava punto di noi.

Alcuni de' nostri erano proprio sfiniti: non so se saremmo giunti tutti vivi in America.

Il 16 marzo si sbarcava a Queenstown nella baia di Cork.

Io narro di quei fatti solamente la parte che riguarda Raffaele, serbando ad altra scrittura la narrazione compiuta d'ogni cosa. Andammo subito a Londra Silvio Spaventa, Raffaele ed io, e fummo accolti dal caro Panizzi, dal marchese d'Azeglio ministro sardo, da Giacomo Lacaita, da Giuseppe Devincenzi, dei quali serberò sempre carissima memoria. Molti signori inglesi vollero vederci, e ci accolsero con quella cortesia che è propria di un popolo grande e generoso.





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