APPENDICE
Sono qui raccolte la Dichiarazione
13 maggio 1848 e le Difese, secondo il testo dell'Omodeo del 1934.
Dichiarazione
di Luigi Settembrini scritta
il 13 maggio 1848 e non potuta pubblicare per la stampa
Immacolato venni
all'uffizio di capo di dipartimento nel ministero dell'istruzione pubblica,
immacolato ora voglio e debbo discenderne. Lo accettai non perché credetti di
meritarlo, ma perché speravo che con una forte e santa volontà avessi potuto
far bene alla mia patria. Ma ora siamo ridotti a tal punto che un uomo onesto
non può fare il bene, non può stare in uffizio; onde io voglio che
pubblicamente si conoscano le ragioni della mia rinunzia.
Il nostro misero paese è ridotto in miserrimo stato. I ministri, ed
uomini nuovi alla difficilissima arte del governare, uomini deboli ed inetti,
non hanno la forza di disprezzarci e di farci il bene nostro malgrado. Mentre
da una parte gridano che la finanza è povera e fanno prestiti, dall'altra parte
creano novelli uffizi, li dànno ciecamente e per quel buon cuore che è
debolezza d'animo, impiegano quelli che strillano più lazzarescamente, i ladri
conosciuti e già destituiti, i ladri novelli, le spie, gl'infami, e tutta
quella ribaldissima schiuma ch'era ed è ancora a galla. Questa debolezza de'
ministri fa baldanzoso il popolo: ognuno crede di poter salire a quell'impiego
dove vede salito un malvagio o uno stolto: onde i tristi pretendono, i buoni si
lamentano.
I ministri hanno colpa
sì, ma la colpa vera l'abbiam noi, l'ha questa plebe affamata e vilissima,
questa turba di scostumati pezzenti che stanno da mane a sera con la bocca
aperta gridando: “impieghi impieghi!” Salgono tutte le scale, invadono tutte le
case, minacciano con le armi, e i più forti gridatori di libertà sono i primi a
chiedere, e chiedono sfacciatamente, oscenamente, ed avuto il tozzo rinnegano
Dio e la coscienza. Gente meritevole di Del Carretto (e se non l'avesse
meritato non l'avrebbe avuto) crede la libertà un banchetto, la costituzione una
torta di cui ciascuno debba avere una fetta; non sa che oggi è tempo di
sacrifizi non di pretensioni; che l'ordine è necessario anche tra briganti; che
la legge e i magistrati debbono essere rispettati in ogni specie di governo.
Oggi non vi ha più legge, non giustizia, non rispetto, non pudore: tutti
dimandano, i peggiori ottengono, gli scellerati trionfano, si mischiano,
intrigano, cospirano, van meditando sangue e rapine. Anche io sono assordato
dalle grida di uomini sozzamente ambiziosi, e non posso stare più tra questa
gente che ti fa venire a noia ogni cosa più santa. Io credeva di abbracciare
una purissima vergine, ed ho trovata un'oscena meretrice. Oggi è vergogna avere
un uffizio; e se io ritenessi quello che ho sarei creduto simile a tanti tristi,
metterei la mano al parricidio della patria, ed io voglio vivere, come son
vissuto finora, povero, onorato, incontaminato; e chi può dirmi il contrario si
levi e parli contro di me. Taluno forse mi odierà perché dico verità troppo
acri, ma tutti debbono rispettarmi perché dico il vero e senza paura o
speranza, perché sono di nessun colore, ma voglio libertà con leggi, con
ordine, con buona creanza; perché odio i tristi di qualunque condizione sieno,
perché voglio premiato il vero merito, e puniti inesorabilmente i ribaldi di
tutti i colori. Epperò guardiamoci bene: il popolo griderà, il ministero
spropositerà, il Parlamento anche questa volta chiacchiererà, il Re contenterà
tutti e si riderà di tutti.
Debbo aggiungere ancora altre ragioni particolari. Il ministero di
pubblica istruzione, che deve sopraintendere all'educazione di sei milioni di
uomini, che deve preparare la felicità di questo popolo sempre infelice perché
sempre ignorante, che dovrebbe essere il primo e più importante ministero è
tenuto come cosa da nulla, e si dà come giunta, ora a questo ora a quel
ministro; e mentre che dovrebbe essere ministero modello e composto di uomini
ottimi, è composto di uomini la più parte nulli. E da questi uomini dipendono
chiarissimi professori e nobilissimi artisti, gli artisti che sono inferiori
solamente a Dio! Anzi questi uomini sono pagati meglio de' professori e degli
artisti; hanno sedicimila ducati l'anno di soldo: ed oh quanti valorosi ed
onesti non han da mangiare! E quasi fosse poco il soldo che ciascuno ha,
essendo ultimamente rimasto vuoto un posto con 80 ducati il mese, hanno abolito
il posto, e diviso tra loro i danari. Io ho gridato ma inutilmente; onde
inutilmente starei in uffizio, inutilmente proporrei quello che è utile ed
onesto. Io so che è dovere di buon cittadino di servire la patria anche
affrontando l'infamia, ma io sono inutile perché si vuole che io sia inutile.
Onde io rinunzio non per puntiglio, per superbia, o per moda, ma perché la
coscienza e l'onore me lo comandano, perché voglio la cosa e non il soldo, e
non vendo l'onore e la coscienza né per 120 ducati il mese, né per tutto l'oro
che cava dalle sue miniere l'imperatore delle Russie. Tornerò ai miei studi,
tornerò a dettar lezioni di lettere italiane e latine ai cari alunni miei; educherò
questa gioventù che ha bisogno massimamente di educazione, tornerò al mio
pacifico e desiderato nulla, e pregherò Dio che dia senno a coloro che reggono
la mia patria. Quando sarà frenata questa licenza scostumatissima; quando gli
uffizi saranno non cresciuti ma diminuiti, e si daranno ad uomini non di colore
ma di sapore, cioè onesti e meritevoli; quando i ministri si persuaderanno che
dando un uffizio non danno roba loro, ma sangue e lagrime di una nazione
sventurata che ora vorrebbe respirare dopo tante miserie; quando si vorrà far
davvero ed istruire questo popolo ed educarlo, allora la patria se pur vuole,
mi chiami, ed io son pronto a sacrificare la mia pace, i miei studi, la mia
vita, la vita ancora de' miei figliuoli.
Napoli, 13 maggio 1848. Luigi
Settembrini.
Al signor Presidente, Procuratore Generale, e
giudici della Gran Corte criminale di Napoli
Luigi Settembrini prega la gran corte criminale
di leggere questo scritto, prima di decidere alcuna cosa su di lui.
Fu arrestato nel 23 giugno 1849, perché un tristo l'accusava di far parte
della setta dell'Unità italiana, e di aver scritto, fatto stampare, e
pubblicato un proclama rivoluzionarlo. Ma vedendosi che l'accusa era una
semplice assertiva, che poteva essere smentita con un'altra assertiva, lo
avvolgevano nel processo del 16 settembre; e facevano dire da alcuni accusati
di avere inteso dire che egli era uno dei capi e direttori della setta;
che nelle prigioni di Santa Maria Apparente si era formato un comitato; che
egli, Agresti e Pironti approvavano il luglio 1849 il disegno di uccidere il
ministro Longobardi, il prefetto Peccheneda, ed il presidente Navarra. Infine
il procuratore generale lo accusa di detenzione di stampe vietate. Onde egli è
accusato,
1. come capo settario,
2. come autore di un proclama,
3. come detentore di stampe vietate.
E l'accusa si poggia su di un'assertiva, e su di un avere
inteso dire.
Questa è l'accusa apparente: ma l'accusa vera è la fama che Settembrini
ha ingiustamente di fiero e velenoso scrittore, e di essere creduto autore di
quanti scritti ingiuriosi si sono stampati contro il governo e contro i
privati. Per questa fama che moltissimi hanno creduta senza esaminarla, senza
parlare a lui, senza neppure conoscerlo, egli è odiato dal governo e da
moltissime persone che si tengono offese da lui. Onde egli, che conosce
pochissimi, che sente di non avere offeso nessuno, ed onora tutti, ha
innumerevoli ed irragionevoli nemici.
Chi non lo conosce e non vuole conoscerlo, abbia di lui qualunque
opinione; ma la gran corte che deve giudicarlo, deve conoscerlo bene, e non
seguire le pazze opinioni del volgo vestito di vari colori che odia ed ama
senza ragione.
In febbraio 1848 quando non si leggevano che sozze ed ingiuriose stampe,
egli fu il primo che scrivendo una Lettera ai Ministri (18 febbraio)
disse parole non sozze né ingiuriose, biasimò i soprusi e le pretensioni,
raccomandò l'ordine e la giustizia, disse cose approvate dai saggi. Comparve il
giornaletto intitolato il Mondo vecchio ed il mondo nuovo, ed essendone
creduto egli l'autore, fu odiato dagli offesi, fu minacciato di battiture e di
morte. Comparvero altri giornali, e ne fu creduto anche egli uno dei
compilatori. Invano il 18 marzo egli faceva stampare nel giornale il Lume a
gas (ed il numero del giornale è nel processo) una lettera nella quale
smentiva queste accuse: invano il 6 settembre 1848 faceva pubblicare nella Libertà
italiana una protesta con cui dichiarava di non scrivere, non avere mai
scritto, non volere scrivere alcun giornale. O non fu creduto, o non fu letto.
Questa fama disgraziatamente era confermata da taluni, i quali profittando del
suo nome lo mettevano in ogni cosa: se stampavano il prospetto di un nuovo
giornale, dicevano il Settembrini uno dei compilatori: se stabilivano un circolo,
dicevano il Settembrini uno dei fondatori. Si confuse l'uomo onesto e franco
con l'arrabbiato e mordace. Onde il volgo, sempre bestiale e superlativo, lo
credette un uomo pericoloso, un agitatore, un rivoluzionario. Tristi tempi in
cui l'uomo onesto deve sforzarsi a dimostrare la sua onestà!
La cagione di questa
fama non giova indagarla, né i giudici devono cercarla. Ma per conoscere come
essa è esagerata e falsa, per vedere quali erano le idee e i sentimenti del
Settembrini, in tempi che egli non poteva nasconderli, si legga il suo Discorso
su lo scopo civile della letteratura, l'Elogio del marchese Basilio
Puoti, l'Elogio di Giuseppe Marcarelli: nei quali egli ha
consigliato rispetto alle leggi, alla religione, al principe, ai magistrati, a
tutti, non ha detto se non quello che è virtuoso e santo. Quegli scritti son
suoi, da quelli giudicatelo. E giudicatelo ancora dalle sue azioni; le quali
egli non ricorda perché sono pubbliche e note, sono azioni di un uomo onesto
che non ha mai venduta la coscienza, che non ha mai preteso alcuna cosa, che ha
sempre detto il vero dignitosamente. Ora il Settembrini, che fece quegli
scritti, è accusato come autore di un proclama furioso e pieno di orrori:
Settembrini che non ha fama di balordo, avrebbe confidato il suo segreto ad un
malvagio ignorante. Settembrini che ha sempre predicato virtù ed è vissuto
sempre onoratamente, avrebbe approvato un disegno di morte: Settembrini, che ha
patito molte sventure, che neppur conosce i circoli e quelle adunanze segrete o
pubbliche, lecite in quel tempo (come egli dimostrerà con la testimonianza
stessa degli agenti del governo che intervenivano nei circoli), il Settembrini
è accusato come settario, dipinto come un malvagio. Egli è fieramente ed
ingiustamente odiato: e chi l'odiava spingeva ad accusarlo un uomo, che egli
proverà essere agente di polizia salariato, un uomo di quelli che per dieci
carlini si prestano a tutte le voglie, sono testimoni in ogni processo, un uomo
infame a cui un giudice non può nè deve aggiustar fede. E chi l'odiava vedendo
che non poteva perderlo sicuramente, lo avvolgeva nel processo del 16
settembre.
Questo processo tessuto con intrighi, vendette, suggestioni, illegalità,
è falso come l'anima di Giuda, 1. perché fatto in una fortezza, luogo non dipendente
dall'autorità civile; 2. perché fatto (e sarà provato) alla presenza del
prefetto Peccheneda, autorità che la legge non riconosce nell'istruzione, e,
nella causa, parte offesa; 3. perché fatto da più stolte e crudeli sevizie.
Dappoiché si proverà che tra gl'imputati chi fu tenuto a pane ed acqua cinque
giorni, e spaventato da verghe immollate per batterlo: chi ebbe le mani e i
piedi legati per più giorni, slegata solo una mano quando doveva cibarsi; a chi
fu mostrata una palla di cannone per legargliela al collo e gettarlo a mare; a
chi furono fatti vedere i soldati schierati e pronti a fucilarlo; a chi
strappata la barba a pelo a pelo tra ingiurie, schiaffi, sputi in faccia; a
tutti rasa la barba ed i capelli; a chi arrestata la moglie e tenuta cinque
giorni in segreta nella fortezza; a chi dopo vari tormenti dato a bere un
grande bicchiere di vino prima dell'interrogatorio; a chi interrogato dal
comandante fu obbligato rispondere in iscritto. Queste cose già dette in parte
nel costituto degl'imputati, i quali hanno solennemente dichiarato che le loro
parole furono suggerite, queste cose si proveranno, si stamperanno, si
leggeranno in ogni paese.
Ad uomini così stranamente seviziati si è fatto dichiarare di avere
inteso dal Giordano e dal Sessa che il Settembrini era uno dei capi della
setta, e che in prigione egli cospirava, ed in luglio approvava un disegno di
morte. Giordano e Sessa sono assenti: ma il Giordano, su cui cadevano tanti
sospetti, chiamato molte volte dalla polizia, poi arrestato, con nuovo esempio
di mansuetudine fu liberato dopo quindici giorni, pochi dì innanzi il 16
settembre, ed infine senza alcuna molestia uscì dal regno. Come la polizia
spiegherà questa sua insolita bontà verso il Giordano? O essa macchinò, o essa
provocò quel fatto col mezzo de' suoi agenti che ingannarono pochi stolti, ai
quali co' tormenti si fece nominare il Settembrini ed altri più odiati. Eppure
il Settembrini in carcere non vide altre persone che quelle della sua famiglia,
come dimostrerà dalle note fatte dal custode di chi veniva e di chi era
chiamato: eppure in luglio per la riforma avvenuta nel ministero, e per le voci
sparse, egli con tutti gli altri, credeva e sperava un'amnistia. Or se anche
coloro che lo accusano per avere inteso non si fossero disdetti, basterebbe il
semplice buon senso per vedere che chi spera amnistia non cospira, che le
cospirazioni nel carcere sono scellerate macchinazioni della polizia. E come la
polizia abbia inventata questa, come l'abbia condotta, chi sia stato il suo
agente, tutto si dirà nella difesa se sarà necessario.
Infine il Settembrini
non crede che gli possa nuocere l'accusa data dal procuratore generale di
detenzione di stampe vietate, perché in questo non è reato. Fu trovato tra le
sue carte una stampaccia intitolata l'Eremita fra Giovanni, nella quale
si parla ingiuriosamente delle persone reali. Questa carta non poteva essere
approvata dal Settembrini né per la materia, che è sciocca, né per lo stile che
è barbaro; né come documento storico che è una declamazione bestiale. Egli
dunque non poteva stimarla, non poteva usarla, e chi lo conosce afferma che
doveva disprezzarla. La teneva gettata, dimenticata; la teneva come molte
persone oneste terranno ancora di quelle stampe disoneste: come tutti tengono
il giornale il Tempo. Non v'è delitto senza volontà di delinquere; ed
egli non poteva aver volontà di serbar questa carta sciocca; della quale la
gran corte farà quel conto che si fa delle cose sciocche.
Il Settembrini spera che la corte troverà buone queste ragioni, e si
persuaderà che egli non è né capo setta, né autor di proclami. Se egli sarà
giudicato con la legge e con la libera coscienza del magistrato, questa carta
basterà a chiarire come egli è scelleratamente calunniato dalla polizia e dalla
fazione che lo abborrisce credendosi offesa; ma se l'odio antico calpesterà
ogni legge, e si vorrà vendetta cieca e condanna, egli soffrirà tutto perché
l'età, le lunghe sventure e gli studii gli hanno insegnato a sopportar
dignitosamente ogni fortuna. La gran corte giudicherà di lui, ma essa sarà
giudicata da Dio, dalla sua coscienza, e dalla incorruttibile opinione di tutta
l'Europa civile.
Di Castelcapuano, 31 gennaio 1850.
Luigi Settembrini.
Difesa di
Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso dedicata alla Gran Corte
criminale di Napoli
Ogni imputato politico ha due giudici; un
tribunale che gli destina la legge, e la pubblica opinione. Il mio avvocato
parlerà a voi, e mi purgherà dell'accusa che mi minaccia di morte: ma del mio
onore, che mi è più caro della vita, debbo parlare io a tutti gli uomini che
hanno buon senno naturale, e sono severi giudici dell'onore e dell'infamia. E
perché tra questi uomini di buon senno siete anche voi, o giudici della gran
corte criminale, io spero che vorrete leggere queste semplici e franche parole
che io scrivo. Voi avete stampata l'accusa, io stampo la mia difesa: voi
giudicherete di me, l'opinione pubblica giudicherà di me e di voi.
Capo I
Mia vita ed opinioni
Cittadini miei, io sono accusato di delitto
contro lo stato, pel quale mi vorrebbero mandare alla forca: onde ho risoluto
di difendermi innanzi la corte criminale ed innanzi a voi, perché le cause
politiche non appartengono solamente a chi ha la disgrazia di essere accusato,
ma a tutta una città, a tutta una nazione. Se mi siete amici o nemici, se mi
credete del partito vostro o del contrario, per ora poco importa: ma se avete
un poco di buon senso, abbiate la pazienza di leggere questo scritto; ché
infine ci troveremo d'accordo; forse mi vorrete bene, come io ne voglio a tutti
e sento di non odiare nessuno. Ma prima voglio dirvi quale è stata la mia vita,
quali furono sempre i miei sentimenti e le mie opinioni; affinché non facciate
come fanno tutti, i quali se odono una voce che dice, “il tale è un eroe,”
tutti ripetono “è un eroe,” se dice, “è un birbone,” ripetono, “è un birbone.”
Conoscetemi prima, e poi giudicatemi.
Io mi son uno che ho
vissuto sempre fra i libri, dai quali sventuratamente ho cavato pochissimo
profitto e molti dolori: nel mondo porto una faccia di mezzo balordo, e parlo
poco perché non so parlare. Aveva ventitré anni, e dopo un esame in concorso
fui eletto professore d'eloquenza nel liceo di Catanzaro. Dopo tre anni e mezzo
nel 1839 fui accusato insieme con altri di appartenere alla giovine Italia e
condotto a Napoli fui gettato in un criminale, dove stetti per ventisei mesi
senz'altra compagnia che le mie sventure e quelle della povera mia famiglia.
Fui giudicato dalla commissione di stato, tribunale che faceva spavento pel processo
segreto, l'avvocato officioso, la procedura breve, e il presidente Girolami:
ma, conosciuta la nostra innocenza, ci assolveva. Allora il ministro di
polizia, che ci voleva condannati, diceva al re, che la commissione era stata
ingiusta, noi rei: e però proponeva di far rivedere il processo, e mandar noi
provvisoriamente in galera. Il re giusto non permise si violasse il giudicato,
comandò che ciascuno di noi tornasse al suo paese; ed io perché napolitano
rimasi in Napoli. Uscii finalmente nel 1842 dopo tre anni e mezzo d'immeritata
prigionia, dopo quindici mesi che fui assoluto. Non ho cuore di ricordarmi
quello che ho patito in quei terribili tre anni e mezzo, perché la memoria dei
grandi dolori è sempre un dolore: e farei piangere ognuno se narrassi quello
che patì la povera moglie mia, la quale mi diede una figliuoletta mentre io era
in criminale e non potetti vederla e benedirla; la quale sofferì ogni dolore,
ogni più crudele angoscia; parlò per me ai giudici, ai ministri, al re;
sofferiva più di me, e mi nascondeva le sue sofferenze per non accrescere le
mie. Ritornato fra gli uomini vivi, mi furono chiuse tutte le vie per
procacciarmi un pane onorato, mi fu negato di aprire uno studio di letteratura,
si volle che io vivessi soltanto per sofferire, si tollerò che andassi correndo
ed insegnando per le case altrui. Strascinai questa vita sino al 1848 dividendo
i pensieri e gli affetti tra la mia famiglia e i miei studii, ignoto quasi a
tutti, sempre solitario, non diedi alla polizia alcuna cagione di riprendermi
in minima cosa.
Mutarono i tempi ma io
non mutai la mia vita ed i miei desiderii. Il re generosamente ci diede una
costituzione, ed io me ne rallegrai, perché vedeva che questa sarebbe un gran
bene pel re e pel popolo, perché sperava finiti gli abusi, le ingiustizie, gli
arbitrii, che aveano prodotto per ventotto anni tanto male al nostro straziato
paese. Onde tra i primi e pazzi furori della stampa io scriveva il 18 febbraio
una lettera ai ministri, nella quale li pregava di essere forti e giusti, non
distruggere tutto il vecchio perché il vecchio non era tutto pessimo; diceva
non essere né giusto, né onesto, né utile che quegli uomini i quali in tempi
corrotti servirono lealmente il re, e non abusarono del potere che avevano,
fossero mandati giù in fascio coi ribaldi: diceva che resistessero forte alle
sfrenate ambizioni di alcuni che si dicevan martiri perché avevan gridato un
evviva o erano stati tre giorni in prigione: desiderava che la Sicilia fosse
tornata al nostro principe, che nessuno avesse dormito, avesse mangiato, si
fosse riposato, prima di finir questo affare: e pregava la maestà del re ed i
ministri di provveder presto a questo male. Quantunque io avessi scritta questa
lettera, nella quale io non raccomandava altro che la giustizia, e diceva cose
approvate dai saggi; pure ebbi fama di fiero e velenoso scrittore, mi
credettero autore di tutti i giornali, attribuirono a me tutte le stampe
ingiuriose al governo ed ai privati; onde io fui, e sono ancora, fieramente
odiato da molte persone che si tengono offese da me, il quale conosco
pochissimi, onoro tutti, e non so offendere nessuno. Invano io diceva a tutti:
“Non son io che scrivo, no, ma è chi è pagato per seminare discordie e partiti,
per aizzar gli animi, per far nascere turbamenti, per toglierci la costituzione
che il re ci ha data”. Invano nel mese di marzo io dichiarava nel giornaletto
il Lume a gas che io non scriveva in alcun giornale, non offendeva
nessuno, rispettava la Costituzione ed il re, badava ad ammaestrare i giovani,
e consigliava a tutti di mettersi un sughero in bocca ed un rotolo di neve in
capo. Fu tutto invano: quegli stessi che per prezzo o per malvagio animo
scrivevano per turbare il paese, gridavano: “Settembrini scrive”: ed il volgo
vestito di vari colori, sempre bestiale e superlativo, ripeteva, che io
scriveva: gli offesi si sdegnavano contro di me, e taluno mi minacciò di
battiture e di morte. La cagione di questa fama io non voglio dirla, ma tutti
la sanno e la dicono. Ma io sperava nel tempo, sprezzava queste voci,
ringraziava Iddio ed il re che ci aveva dato uno statuto: per me non voleva
altro bene particolare che aprire uno studio, ammaestrare la gioventù, stampare
senza revisione qualche mia povera scrittura letteraria: chi vive di studi non
ha maggiori bisogni di questi.
Ma l'onorevole mio amico, ed ora compagno di sventura, barone Carlo
Poerio, allora ministro della pubblica istruzione, credette che io potessi
essere utile come capo di ripartimento in quel ministero, mi fece forza ad
accettar questo uffizio, e mi propose al re, che benignamente approvò la
proposta il 22 marzo 1848. Stetti in uffizio modestamente, non feci male a
nessuno, feci tutto il bene che potei, non permisi si violasse la giustizia per
favori di partito; e chi può rimproverarmi del contrario si levi e mi accusi.
L'uffizio nuovo e grave per me vissuto sempre lontano dalle faccende, il
continuo mutar dei ministri che pel breve tempo e le gravi quistioni politiche
non potevano fare alcun bene, le ambizioni e la petulanza di molti mi turbarono
l'animo, e mi fecero desiderare la pace della vita privata, e quei cari giovani
che io ammaestrava, che io tanto amava, e che tanto mi amavano. E però il
giorno 13 maggio, che fu sabato, scrissi la mia rinunzia e voleva farla
stampare; ma non potetti la domenica, né il sanguinoso lunedì. Il 21 maggio
scrissi quest'altra, che è breve, e la mandai al ministro Bozzelli: “Per non
rubar tempo a lei, che è ministro, e per non perderne io, non vengo a parlarle:
le scrivo ed è tutt'uno. Fin da sabato 13 maggio io aveva deliberato di
rinunziare al mio uffizio di capo di ripartimento nel ministero d'istruzione
pubblica, ne aveva scritto le ragioni, e voleva stamparle. Ora alle vecchie
ragioni si aggiungono le nuove; per le quali tutte io non posso, non voglio, non
devo rimanere più in uffizio: sarei inutile alla mia patria, di vergogna a me
stesso. Si compiaccia V. E. di fare accettare dal re questa mia irrevocabile
rinunzia”. Il Bozzelli non l'accettò, e non la ricusò: ma io non andai più al
ministero, e mi posi tranquillamente ad insegnare.
Né mai si potrà dire che io rinunziai perché abborriva quel governo ed
amava le sedizioni. Dappoiché nel mese di giugno, mentre più ferveva la
insurrezione in Calabria, io invitato dal deputato Faccioli andai in sua casa,
dove trovai i deputati Poerio, Wallin, Iacampo, ed altri, tra i quali si
discuteva del modo di aiutare il governo costituzionale e persuadere gli
elettori ad andar nei collegi e nominare i deputati. Si decise di fare un
manifesto, e fu dato a me l'incarico di scriverlo. Io lo scrissi, ed approvato
da tutti con poche modifiche fu stampato. Questo manifesto fu creduto allora
una scrittura di un retrogrado, e fu bruciato pubblicamente in provincia di
Lecce come cosa scellerata. Io che lo scrissi, ora sono accusato come autore di
proclami rivoluzionari. Gli uomini non cangiano sì presto, né io ho mutato né
muterò mai sentimenti.
Intanto il Bozzelli per buona opinione che aveva di
me proponeva al re di darmi il terzo del soldo in pensione ma io gli scriveva
questa lettera.
“Sento il dovere di
ringraziarla che ella presentando al re la mia rinunzia ha proposto che mi si
dia una pensione di quaranta ducati al mese; e la prego di ringraziare in mio
nome la maestà del re che generosamente ha approvata questa proposta. Ma ella
mi permetta che io le dica di non potere accettare la munificenza del principe,
perché io sono stato in uffizio un mese e mezzo, non ho reso alcun grande
servigio, e non merito pensione. Non disprezzo un benefizio reale: ma io sono
avvezzo a lavorare, ed esserne compensato: un dono mi umilia, e mi fa vile a me
stesso. Se V. E. vuole che io abbia un soldo, e che io lo accetti, mi faccia
lavorare come e dove le pare: ed io le posso promettere di servire esattamente
ed onoratamente. La prego di far noti a sua maestà questi miei sentimenti, e di
fargli leggere la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai al mio ufficio;
affinché il re vegga quale uomo io mi sono, non quel tristo che la malvagità
degli uomini ha voluto dipingere con neri colori.” Non so che fece il Bozzelli
dopo questa lettera: la mia rinunzia non fu ancora accettata.
Allora mi chiamò il
ministro delle finanze signor Francesco Paolo Ruggiero, e mi offerì un uffizio
nel suo ministero con soldo maggiore di quello che aveva. Gli risposi che io
non poteva accettarlo, perché non sapeva affatto di finanza, e in tutta la vita
mia non aveva studiato che letteratura. “Per un uomo d'ingegno,” mi rispose
l'eccellentissimo, “questa non è cosa difficile: anch'io non ne sapeva niente,
ed in quindici giorni l'ho imparato e ne sono maestro.” “Ma io non posso
paragonarmi con voi”: gli replicai, lo salutai, e me ne andai.
Nel mese di novembre
1848 si dovevano eleggere alcuni deputati; e molti mi domandavano se io voleva
essere eletto. Bella e desiderata cosa è per un cittadino rappresentare la sua
nazione: ma io non aveva l'ingegno e la parola pronta, non ancora era stata
accettata, la mia rinunzia, non poteva essere deputato. Ma allora mi avvidi che
il mio nome non vi era discaro, o miei cittadini; dappoiché voi nei collegi
elettorali del 24 novembre con maggioranza assoluta di voti mi eleggeste a
deputato, non richiedente anzi repugnante. Or difendetemi voi dell'accusa che
mi da il Procuratore generale, che scrive: “che Settembrini in novembre 1848
aveva per mezzo di Iervolino fatto diffondere dei cartellini fra gli elettori
per indurli ad eleggere deputati al Parlamento nazionale esso Settembrini,
Nisco, e Turco”: dite voi, che lo sapete, chi ho pregato io? quali pratiche ho
fatto? a chi ne ho solamente parlato? E poteva io parlarne all'Iervolino che è
un garzone d'orefice, un miserabile, e non è neppure elettore? Ma l'avessi pur
fatto: è delitto questo? Il ministero non ha mandato attorno le liste dei suoi
candidati? In tutti i paesi costituzionali non si fanno le liste del candidati?
è delitto esser candidato? E se non è delitto, perché il procurator generale me
ne accusa? Io sono accusato di cosa che non è delitto, come Pasquale Montella è
accusato “di tenere un proclama firmato Aurelio Saliceti, tendente a cangiare
il governo in repubblica.” E questo preteso proclama sono le parole che il
Saliceti disse in Roma quando si proclamò la Costituzione sul Campidoglio, non
han che fare nulla con noi, furono stampate in tutti i giornali 4. Come
l'Esposito è accusato che “conservava una fascia tricolore, e Molinaro deteneva
del pari un fazzoletto tricolore, emblemi di setta.” E si chiamano emblemi di
setta quei tre colori che per un anno e mezzo sono stati sulle bandiere
napoletane. Come è accusato il Leipnecher, “che nella casa di lui rinvenivansi
alcuni opuscoletti del Galanti che han per titolo La voce della verità e la
bancograzia (sic), carte che del pari spirano principii liberalissimi.” E
questi opuscoletti liberalissimi furono stampati col permesso del ministro
Delcarretto, lodati nel giornale uffiziale dell'Anzelmi, ed in altri giornali
letterari 5. Se il processo è riboccante di prove, come dice l'accusa,
perché scegliere queste che non son prove, anzi per contrario provano brutte
intenzioni?
Fui eletto deputato il
24 novembre, e finalmente il Bozzelli fece accettare la mia rinunzia; ma perché
quando fui eletto non ancora avevan voluto tormi l'uffizio, io dissi che la mia
elezione era nulla, rinunziai spontaneamente, e la Camera approvò la mia
rinunzia. E questa sia la risposta che io fo a chi mi accusa che io brigava per
essere deputato.
Disciolta la Camera, gli
amici, i conoscenti, e quelli che non mi conoscevano, mi venivono attorno,
m'investivan per le strade, e mi dicevano: “O Settembrini, vattene, muta cielo:
tu sei odiato a morte e più di tutti: se ti afferrano, guai a te”. Io
ringraziava tutti del consiglio, e rispondeva che io non doveva temere perché
non mi sentiva reo di nulla, perché il governo sapeva le mie azioni e le mie
temperate opinioni. E poi chi mi deve odiare, se io non ho offeso nessuno? chi
può temere di me che in tutto il giorno non fo altro che studiare ed insegnare?
Ma per non dare occasione a queste voci, per godere un poco di tranquillità, e
per ristorare la salute della povera moglie mia, che da quelle antiche sventure
non ha avuto più un'ora di bene, andai il 6 maggio 1849 ad abitare in un casino
sulla collina di Posilipo; dove sperava di aver pace, donde non discendeva se
non per le solite mie lezioni. Un dì tra gli ultimi di maggio discendendo dal
casino incontrai nella strada di Chiaia il mio rispettabile amico Carlo Poerio,
che da lungo tempo io non vedeva. Questi mi disse che in sua casa talvolta
andava un tale Iervolino per cercargli protezione ed impiego, ma ch'era una
spia salariata; che egli aveva avuto tra le mani un rapporto che costui
scriveva al commissario di polizia Gennaro Cioffi nel quale parlava di esso
Poerio e di me: e di me diceva che io gli aveva data speranza di prossima
rivoluzione. Io risposi non conoscere neppure di nome quest'uomo: non mi curai
di nulla perché avvezzo ad udire simili spaventi, perché era sicuro della mia
coscienza, era sicuro che il governo mi conosceva, e non avrebbe commesso un
abuso contro di me senza un'accusa legale. Ma il 23 giugno “in linea di
prevenzione e per ordine di S. E. il ministro dell'Interno” il prefetto di
polizia mi faceva arrestare.
Tutti questi fatti della
mia vita e gli altri che dirò appresso, saranno da me provati innanzi la corte
criminale con bei testimoni e con documenti. E quantunque da questi fatti si
veggano chiare le mie opinioni, pure io voglio dire più apertamente ed al
cospetto di tutti come penso e come sento.
Nel mondo non vi sono
altri che due soli partiti, gli uomini onesti, ed i birbanti. Io mi sono
sforzato sempre di appartenere agli onesti, e non mi son brigato mai dei nomi,
perché ho veduto molte opere nefande commesse da uomini detti o realisti, o
liberali, o assolutisti, o repubblicani, o costituzionali. Io amo la libertà,
la quale per me significa l'esercizio dei propri diritti senza offendere
nessuno, significa giustizia severa, significa ordine, significa rispetto ed
obbedienza alle leggi ed alle autorità. Questa libertà io amo caldamente,
questa è la libertà desiderata dagli uomini onesti: e se amarla è delitto, mi
confesso reo, e ne accetto la pena. Per ottenere questa libertà io desidero un
governo con leggi giuste, e rigorosamente osservate da tutti senza distinzione:
a questo governo date il nome che volete, che poco m'importa; ma leggi e non
arbitrio, leggi e non partiti. Negli anni passati non avevamo molte buone
leggi, e le poche buone erano violate e calpestate dall'arbitrio; onde
nascevano tanti mali, tanto scontento, tanti turbamenti politici: e si vedeva
manifesto il bisogno della nazione che voleva buone leggi ed osservate. Vedendo
questo bisogno il provvido principe ci diede una costituzione, la quale giunse
desiderata e cara a tutti, se non a pochissimi che son nati come i serpi per
strisciare ed avvelenare. Per opera di questi pochissimi quella costituzione
ora è straziata e lacerata in tutti i suoi ottantanove articoli. Credete voi
che questo strazio e questa lacerazione non produrrà altri mali? o che li
potrete impedire come vi piace? Voglia Iddio che io sia falso profeta! Io
voglio per poco parlare a voi che abborrite la costituzione, che congiurate per
rovesciarla interamente: che ne vorreste cancellato anche il nome: Capite voi
quello che dite e quello che fate? Credete di amare e di lodar il re, ma voi lo
abborrite e lo vituperate. Infatti chi dice che io ho dato una cosa per paura,
mi chiama vile, chi dice che l'ho dato a chi non la desidera e non la pensava,
mi chiama pazzo: chi mi consiglia di riprendere un dono che io ho fatto ed ho
giurato di mantenere, mi consiglia di essere spergiuro. Vedete quale empietà
commettete senza saperlo. Onde io grandemente mi maraviglio che il procurator
generale, Filippo Angelillo, che è dotto ed egregio magistrato, sul principio
dell'accusa abbia scritte queste parole: “In aprile 1848, rotto ogni freno di
morale e di religione, i faziosi tendevano a slacciarsi pur da quello di un
reggimento costituzionale, che la magnanimità di principe clementissimo avea
generosamente donato, seguendo l'impulso del suo reale animo più che il supremo
bisogno del sudditi, alla cui immensa maggioranza tutto nuovo, non
desiderato, non pensato giungeva”. Queste parole calunniano la nazione, ed
offendono il principe: il quale sapientemente ha voluto la costituzione,
generosamente l'ha data, religiosamente l'ha giurata, e per sua gloria la
manterrà. Chi dice il contrario, sì, offende il principe, ond'è ribelle e degno
di pena. Io con tutti gli uomini onesti non ho mai diffidato della religione
del principe; ho sempre creduto che egli ci diede uno statuto perché lo
credette necessario al nostro bene, ed utile alla sua gloria; e spero
fermamente che questo principe giusto e religioso avendoci data una buona legge
nella costituzione, voglia farla rigidamente osservare, togliendoci da questo
penoso stato d'incertezza, e punendo severissimamente tutti coloro (e me primo,
se son reo) che con vari nomi infrangono la giustizia, turbano l'ordine,
confondono ogni cosa. Dappoiché la vera cancrena che divora questo paese, la
vera cagione che ha prodotti e produrrà tutti i nostri mali infiniti è appunto
il non osservare alcuna legge. Or io domando a tutti coloro che mi odiano: Sono
onesti questi desideri? sono giuste queste parole? Ed io sempre questo ho
desiderato, sempre così ho parlato; eppure sono stato giudicato ingiustamente.
Capo II
Processo a me particolare - Addentellati
in altri processi
Con questa vita, con
questi sentimenti, con le più sante intenzioni del mondo io mi trovo quinto tra
quarantadue persone, che il procurator generale ha chiesto di sospendere a
quarantadue forche, perché ci accusa tutti di appartenere alla setta dell’Unità
italiana, di cui i primi quindici sono capi, di voler cangiare la forma del
governo, di cospirare contro la sacra persona del re, di avere stabilito di
pugnalar ministri e magistrati, di voler rovesciare e distruggere mezzo mondo,
e pone me tra i primissimi capi e motori di questa grande macchina di setta e
di rivoluzione. In diversi tempi ed in vari luoghi la polizia aveva fatto
processi contro varie persone per causa di questa setta: il procurator generale
li ha riuniti tutti pel solo titolo della setta, senza badare che i fatti e le
persone non avevano alcuna relazione tra loro; ha unito i briganti, i
truffatori, i galeotti, gl'infami con uomini di chiara fama e di specchiata
onestà, già stati ministri, deputati, magistrati, e con altra gente onorata,
quasi per avvilirli e renderli spregevoli. Così è nato un mostruoso processo
dove sono le più strane e scellerate fantasie che diconsi pruove: e da questa
informe congerie si cava l'accusa, e si fa come chi volesse torre una storia
vera dall'Orlando furioso. Io so che i grandi apparati nascondono sempre
povertà; e pare che si sia accozzato un gran processo per fare una grande mostra
ed un grande spavento sul volgo; ma chi non è volgo con un po' di giudizio e di
pazienza osserva le cose placidamente, vede sparire di mano in mano il castello
incantato, e sorride. Io dunque parlerò prima del mio processo particolare, e
poi del generale per quella parte che mi riguarda.
I miei nemici che
fieramente e ingiustamente mi odiavano e volevano vendetta ad ogni modo,
dissero fra loro: “Settembrini fu altra volta accusato come settario, e lo
dicono acre scrittore: facciamolo dunque accusare come settario dell'Unità
italiana, e come autore di un proclama rivoluzionario.” Tra i delatori
pagati, che sono testimoni in ogni processo, e che quantunque carcerati per
truffe e per furti o per note calunnie, sono sempre carezzati ed adoperati, fu scelto
quel tristo Iervolino, e fu comperato per accusarmi. Costui è un agente
salariato della polizia, come lo mostra quel suo rapporto al Cioffi che sarà
presentato dal Poerio, era un cagnotto del Cioffi, è un malvagio che riceve per
prezzo d'infamia dodici ducati il mese. Nel 1844 si faceva accusatore di suo
padre, dicendo che parlava male del governo con Gaetano Bracale, a cui il
commessario Marchese mostrò la denunzia scritta dal figliuolo contro il padre e
contro di lui: il Bracale disse a me quest'orrendo fatto. Ecco l'uomo che fu
scelto.
Costui, il giorno 23
aprile 1849 scriveva un libello e diceva: che trovandosi senza lavoro e senza
pane cominciò ad assistere il Poerio per avere un impiego, e non avendolo
subito, pensò che l'indugio derivasse da non appartenere egli ad una società,
onde fe' premura al Poerio di ascriverlo, sperando così di spingerlo a dargli
impiego essendo lui il ministro di stato: che il Poerio accolse con
piacere questa domanda, e lo spedì a Nicola Nisco, facendolo accompagnare da
Nicola Attanasio: che il Nisco lo condusse in casa di Federico d'Ambrosio, il
quale gli fe' prestare giuramento, gli dié parole e segni settarii: che il
Poerio contento di tutto questo gli fece larghe promesse non mai adempiute,
quantunque egli assistesse sempre il Poerio, il Nisco, il Settembrini (così io
son nominato la prima volta, quasi caduto dalle nuvole): che da tutti noi ebbe
incarico di diffondere tra gli elettori dei cartellini in istampa per far
nominare deputato Settembrini, Ignazio Turco, e Nisco; e diffondere manifesti
stampati coi quali si consigliava il popolo a non fumare, non giocare al lotto,
non pagar fondiaria: che gli amici e confidenti del Poerio erano il
Settembrini, il Nisco, l'Attanasio, il padre Grillo cassinese: confidenti del Nisco
Luigi Tittipaldi e Giovanni Turco: gli amici e confidenti miei erano diversi,
ma non sapeva il nome di alcuno.
Dopo 23 giorni, cioè il
6 maggio, chiamato dal commessario di polizia signor Maddaloni dichiara che il
libello è scritto e sottoscritto da lui, che la setta è l'Unità italiana, che
per la remotezza del tempo non ricorda il giuramento, le parole, i segni; che
conobbe me per mezzo del Poerio; che il Poerio, il Settembrini, il Nisco,
l'Attanasio, l'Ambrosio, il Grillo son tutti settari: che non può dar testimoni
di questi fatti perché tutto avveniva nel segreto.
Il 29 maggio scrive un
altro libello che diceva: essere andato in casa Poerio, avervi trovato un
farmacista, il deputato Cicconi, e tre altri ignoti, i quali tutti parlavano di
un cancelliere ucciso negli Abruzzi per opera di una setta che voleva uccidere
tutti i nemici de' liberali: il Poerio averlo spinto a venire da me; egli venne
per sapere alcuna cosa di nuovo, io gli dissi non saper nulla, ma gli dimandava
quanti uomini egli aveva alla sua dipendenza e quanti armati; ei mi disse una
bugia, io me la bevvi, e gli dissi di tornare altra volta.
Ecco l'accusa, ma vaga e
preparatoria; ma diretta principalmente contro il Poerio e contro me: tutti e
due dovevano essere colpiti, io prima, egli dipoi: per tutti e due bisognava un
fatto, per me fu facile trovare un proclama, per lui dovettero fingere una
lettera speditagli dal Dragonetti. Circolava per Napoli un proclama sedizioso,
si pensò di attribuirlo a me, e di trovare così un fatto pel mio arresto.
Questo pensiero trasparisce chiaramente dal vol. 20, fol. 3, processo a mio
carico, dove è scritto. “Certifico io sottoscritto cancelliere di polizia che
emergendo da indicazioni riservate di alta polizia che l'orefice Luigi
Iervolino avesse scienza e potesse somministrare chiarimenti intorno alla
diffusione di un proclama sedizioso, circolato nei scorsi giorni per questa
capitale, il commessario di polizia don Giuseppe Maddaloni in seguito
d'incarico superiore ha disposto chiamarsi il suddetto Iervolino onde sentirlo
opportunamente. Napoli 6 giugno 1849.”
Che cosa sono queste
indicazioni riservate? Iervolino che è diligentissima spia e scrive tutti i
suoi libelli, come non scrive un altro libello per dire che egli sa del
proclama? come la polizia sa che egli lo sa? se lo sa dall'Iervolino, perché
non c'è una dichiarazione o un libello di costui? perché costui parla di poi?
Perché prima non sapeva niente. Infatti nello stesso giorno va innanzi il
commessario, e dimandato, non risponde a voce, non fa scrivere le sue parole
dal cancelliere, ma le scrive egli stesso, cioè presenta il libello datogli e
da lui copiato: nel quale dice: che mi conosce da più tempo, ed è varie volte
venuto in mia casa, perché io son dell'Unità italiana, alla quale anche
egli fu affiliato. Che il 2 giugno venne in mia casa, io gli dissi di andare da
Ludovico Pacifico, che egli chiama mio fido, per farsi dare un proclama che io
gli aveva dato; che egli vi andò, non l'ebbe, tornò da me che gliene diedi
quattro copie con l'incarico di diffonderle, e che egli consegna alla polizia:
che avendomi veduto spesso nella libreria di Gabriele Rondinella crede che
costui abbia fatto stampare il proclama.
Tutti questi libelli
scritti di mano dello stesso Iervolino con molti grossi errori di ortografia,
ma con accorte e maliziose parole e con regolare filo d'idee, mostrano
chiaramente che furono copiati da lui, inventati da altri. E veramente il
Maddaloni, vecchio e sagace commessario di polizia, che aveva per mano altri
processi settari, con insolita bonarietà si contenta di queste dichiarazioni, e
non dimanda al denunziatore mille cose e del Poerio, e di me, e degli altri
tutti. Intorno a me per esempio poteva dimandargli: “Non ricordi il tempo
preciso che conoscesti il Settembrini? Ti ha dato mai catechismi, diplomi, o
altre carte? Ti ha mai parlato della setta? Ti ha detto a che tendeva? Se
andavi spesso in casa sua, come non conosci il nome di nessuno de' suoi amici?
Quanta è questa remotezza di tempo che ti ha fatto dimenticare le parole ed i
segni della setta? Come sai che il Pacifico è fido di Settembrini? gli hai
veduti mai insieme, e come, e dove, e quante volte? Conosci tu il Rondinella?
l'hai udito mai parlar col Settembrini, e di che?” Nessuno dirà che il
Maddaloni non fece queste dimande perché mi voleva bene e non voleva scoprire
il vero; non si può dire che non le fece per ignoranza, perché egli sa bene il
suo mestiere, e le son tali che anche un bambino le avrebbe fatte. Si dee
dunque dire che le dichiarazioni scritte gli furono mandate, ed ei dovette
rispettarle perché la fazione che mi odiava e che gliele mandò non sapeva far
di meglio, e credeva che quello che era scritto bastasse a perdermi, perché si
voleva un pretesto per arrestarmi, non una regolare accusa. Se la denunzia fosse
stata vera, il commessario l'avrebbe sminuzzata in minime parti, avrebbe fatto
ben tornar la memoria al denunziante, lo avrebbe ritenuto come complice non
come testimone a carico, avrebbe chiarito ogni cosa, e in quello stesso giorno
6 giugno, avuto facilmente il permesso del ministro, avrebbe fatto arrestar me,
cercar la mia casa e la libreria del Rondinella: ma per contrario si da tutto
il tempo di diffondere i proclami per l'Europa, perché io sono arrestato il 23
giugno, e la libreria del Rondinella è dimenticata; e solo in luglio, e per
ordine di un altro commessario, è ricercata, e non vi si trova nulla. Se opera
così chi vuole scoprire il vero, io rinunzio alla qualità di essere
ragionevole. Il commessario dovette tacere e rispettare i libelli avuti: e capì
che era un pretesto messo in mezzo per arrestarmi, e mi fece arrestare. Il
Poerio fu colpito di poi, il Nisco era già in prigione: gli altri furono tenuti
in serbo, perché meno odiati.
Legalissimamente, cioè
in linea di prevenzione e per ordine del ministro dell'interno, fui arrestato
dagl'ispettori fratelli Cioffi, i quali accompagnati dal loro vecchio padre,
che si tenne nascosto nelle scale, vennero in mia casa, cercarono e frugarono
per tutto con assai diligenza. Era con me il mio egregio amico, avvocato Nicola
Mignogna di Taranto, e fu arrestato anch'egli, perché, secondo dice il verbale,
“sfornito di carte giustificative e per conservare diverse carte”; mentre egli
è in Napoli da venti anni, ed aveva in tasca citazioni sentenze, ed altri libelli
giudiziari. Sopravvenne un distributore di libri a nome Angelo Barrafaele
romano, che soleva portarmi libri a dispense, e fu arrestato col pretesto di
essere “sfornito di carta di soggiorno, e per avergli trovate carte manoscritte
addosso”; ma la causa vera fu perché seppero che era romano e parlava un
orribile dialetto. Sopravvennero dei giovani studenti: gli ispettori videro
loro libri e carte, e forse ebbero vergogna di arrestarli. Fummo condotti in
prefettura: quei due gettati nei criminali e misti ai ladri, io in un luogo men
reo. Anche legalissimamente dopo quattro giorni fui condotto innanzi al
commessario Federico Bucci incaricato della istruzione del processo; il quale
con modi assai garbati esaminò le mie carte, e non vi trovò nulla che avesse potuto
farmi temere o arrossire. Poi m'interrogò e disse: “Voi siete negli arresti
perché imputato di far parte della setta nominata Unità italiana, e di
aver diffuso un proclama col quale si eccita il popolo ad armarsi contro
l'autorità reale, cangiar la forma del governo, ed eccitar la guerra civile nel
regno”. Allora seppi finalmente l'accusa che era il pretesto della mia
prigionia, e risposi non conoscere questa setta nemmeno di nome; per indole,
per ragione, e per trista esperienza abborrire le sette, e sprezzarle: cercai,
ma inutilmente, di sapere chi fosse il mio accusatore, di vederlo in viso per
confonderlo; dissi di non aver mai dato proclami, chiesi leggere quello, e mi
fu letto. Era una sozza e pazza scrittura. Io allora con un poco di santa superbia
rammentai e feci scrivere tutte le azioni della mia vita, rammentai le antiche
ed ingiuste cagioni che mi facevano odiare, rammentai gli scritti da me
pubblicati nei quali si scorgono franche ed oneste opinioni; e col semplice
tuono della verità dissi cose per le quali il commessario faceva atti di
maraviglia, e mi pareva dicesse fra sé: “Questo è quel terribile uomo che mi
hanno detto?” Infine divenimmo quasi amici: e pochi giorni appresso egli disse
ad un mio amico che a me lo ripeteva: “Io non so perché si debba temer tanto
del Settembrini ed odiarlo, mentre egli è un onesto uomo”. Se tutti quelli che
mi odiano volessero vedermi e parlarmi, forse mi diverrebbero amici. Fui
condotto nelle prigioni di Santa Maria Apparente, e non fui più interrogato: intanto
il processo seguitava.
Il 30 giugno il
commessario chiamò l'Iervolino e gli dimandò: “Se tu sei stato più volte in
casa Settembrini, chi vi hai trovato?” E quegli, che aveva detto di non
conoscere il nome di alcuno dei miei amici, subito nominò il Mignogna che era
stato arrestato con me. E poi disse che egli veniva in casa mia quando la
polizia mi arrestava, onde corse a darne avviso al Poerio, il quale lo mandò
subito ad avvisarne l'architetto Francesco Giordano: ei va, non lo trova nel
caffè dove soleva trattenersi, e per dargli l’avviso del mio arresto non trova
altro espediente che scrivere il suo nome su di un pezzo di carta, e darlo al
caffettiere incaricandolo di farlo capitare al Giordano: ripete che mi conobbe
per mezzo del Poerio; dice che non ha mai veduto in casa mia il Rondinella, che
non lo conosce nemmeno di vista, ma che arguisce la nostra intimità perché m'ha
veduto spesso nella libreria. Dall'intimità che un uomo di lettere ha con un
libraio si arguisce che costui abbia stampato un proclama. Logica di polizia!
Interrogato il Mignogna
dice: non conoscere l'Iervolino, non averlo mai veduto in casa mia: messi a
confronto entrambi, ognuno sostiene il suo detto. Ma il Mignogna gli dimanda:
“A qual ora mi hai veduto?” e quei non ricorda. E dopo tutto questo, dopo che
il Mignogna fu arrestato per caso, e accusato come mio complice e settario, e
pena ben sette mesi in prigione, allora si cerca la libreria del disgraziato
Rondinella, e non si trova nulla: si esaminano le carte trovate in casa del Mignogna
e del Barrafaele e non si trova nulla: si cerca la casa di Pacifico, e nulla, e
lo lasciano pacificamente. Solamente in casa del Giordano il 4 luglio trovano
un notamento di 87 persone con sopra questo scritto: nota di Sessa, ed un altro
notamento di 90 persone: ma il Giordano non è arrestato, e solo dopo sei
giorni, il 10 luglio, è chiamato dalla polizia a voler dare spiegazioni su
quelle note. Et dice: che in febbraio 1848 un tale Siniscalchi di Salerno gli
diede quelle note di persone cui si dovevano dare soccorsi gratuiti: non saper
del Sessa: conoscer me fin dall'infanzia in Caserta, dove suo padre era tenente
di gendarmeria, e mio padre era impiegato nell'intendenza. (Il buon padre mio
era un onesto e libero avvocato, e non fu mai impiegato d'intendenza. Io
conobbi il Giordano nell'infanzia; ma nella giovinezza e nella virilità nol
vidi più, e per diversità di studi e di occupazioni non ebbi mai dimestichezza
con lui): disse non avere intime relazioni col Poerio; non conoscere
l'Iervolino; aver saputo nel caffè che una persona lo cercava, ma non aver
avuta la carta col nome. Si cerca delle persone notate, e si trova esser poveri
ed arrestati. Chiamato e richiamato il Giordano, finalmente il tre agosto dice
aver saputo che quel Siniscalchi era morto il 15 maggio 1848. Il commessario se
ne contenta, e lo fa rimanere in prefettura per esperimento, dopo che lo fece
star libero un mese dalla ricerca fattagli in casa. Intanto la polizia verifica
la morte del Siniscalchi, e non potendo sapere altro dal Giordano, il 19 agosto
lo libera. Un uomo accusato come settario, come amico mio e del Poerio, la qual
cosa suona peggio di settario, un uomo a cui si trovano in casa due note di 177
persone è liberato. La polizia fu giusta ed umana questa volta. Il povero
Barrafaele dopo due mesi, e dando cento ducati di cauzione, poté finalmente
uscire di carcere.
Qui finisce il mio
processo particolare, il quale comincia dalla denunzia scritta dall'Iervolino
il 6 giugno: le altre antecedenti servono per dar principio al processo contro
il Poerio, arrestato circa un mese dopo di me, il 19 luglio; il quale esporrà
egli e confonderà le stoltissime ed invereconde accuse a lui fatte. Qui io
debbo dire che egli dice di conoscere l'Iervolino, perché quand'era direttore
dell'interno, questi gli chiedeva un posto, che ei non potette dargli perché
non c'eran vacanti: quando egli era deputato, quel tristo gli chiedeva un posto
subalterno alla Camera ed egli con lettera lo raccomandò al presidente signor
Capitelli. Non avere avuta altra relazione con lui, non averlo mai mandato da
me. Lo scelleratissimo uomo si vendette l'anima al Cioffi, che la comperò per
12 ducati: cominciò dal calunniare chi gli aveva fatto bene e non aveva potuto
fargliene maggiore: poi si prestò a tutte le voglie, fu strumento di tutte le
vendette.
Ecco la sostanza del mio
processo, dal quale non risulta altra pruova contro di me, se non un'assertiva
che può essere smentita da un'altra assertiva; un'assertiva di un malvagio la
quale è solennemente mostrata falsa da tutta la vita di un uomo onesto;
un'assertiva di una spia salariata a cui la legge stessa comanda che non si
presti fede 6. E nessuno gli
prestava fede, e la polizia stessa vedeva e sapeva la nullità del processo:
onde non faceva istruzione su i libelli, non incarcerava alcuno dei nominati in
essi, neppure quel Federico d'Ambrosio, che l'Iervolino accusa di averlo
ascritto nella setta; il quale di poi e ben tardi fu arrestato, ma per
esperimento, e per altra cagione, e presto liberato. Io potrei dire: “Infine
Iervolino che pruove dà che io gli ho consegnato un proclama? nessuna. E perché
si dee credere a lui e non a me che sono un onesto uomo?” Ma questo dire
potrebbe lasciare un dubbio nell'animo di chi vuol sapere netto il vero; se la
non curanza di un solerte commessario, le denunzie stesse copiate
dall'Iervolino, l'essere egli considerato come testimone, mentre apparisce
complice, e il non esser mai venuto a me innanzi, non mostrassero chiaramente
che quel tristo è stato strumento dell'odio altrui, e mi ha sfacciatamente
calunniato.
Il processo cadde
nell'acqua: tutti mi dicevano, ed io lo sentiva, che m'avevan posto in carcere
per un cieco sdegno di cui si sa la cagione. Ed io mi rassegnai a soffrire le
pene del carcere, vedeva solamente mia moglie ed i diletti figliuoli che
venivano a visitarmi; aspettava la mia sorte tranquillamente; udiva con
indifferenza le voci di amnistia sparse ad arte dai tristi per tormentare,
ripetute dal buoni per desiderio di consolare, credute dai prigionieri che soffrono
e sperano, da me, che credo solo ai fatti, non credute né discredute.
Mentre le liete fantasie
napoletane fingevano e credevano un'amnistia, i delatori si preparavano, i
processi si istruivano, e s'istruivano a questo modo. In un popolo per tanti
anni e tanti modi corrotto non è stato difficile di trovare un centinaio di
delatori pagati, i quali come cani rabbiosi si gettano contro quelli che ad
essi vengono designati, o che essi odiano per particolari cagioni. Uno di essi
fa da accusatore, e chiama gli altri per testimoni; e questi dicono le stesse
cose con lo stesso ordine, le stesse parole, la stessa fronte, la stessa
coscienza; e poi vanno attorno alle famiglie dei denunziati, e per vie
indirette cercano denari, e se non ne hanno quanti ne vogliono, son pronte
altre denunzie. Così ha fatto un Francesco Paladino, che cercò 300 ducati al
Nisco, il quale lo proverà; così hanno fatto i famosi delatori Barone e
Carpentieri, che sono carcerati perché stancarono il mondo con le loro
sfacciate ribalderie e scrocconerie. Così nel processo contro il Barilla ed il
Leipnecher ha fatto Gaetano Vittoria che ha chiamato come testimoni gli agenti
di polizia Stefano Longobardo, Natale Ardissone, Luigi Antico, Giacomo Vitolo,
il famoso Gerardo Guida, ed altri. Nello stesso modo si fa un processo contro
tutta la provincia di Salerno: si manda in Salerno un Ruggiero Marano, per
iscoprire la pretesa setta: questo scellerato inventa le più infami e stolte
calunnie contro gli uomini migliori della provincia, accusa lo stesso
intendente signor Consiglio, come colui che faceva due parti in commedia, il
realista ed il liberale; addita come testimoni Emilio Gentile, Samuele
Longo, Oronzo Villari, Giacomo Carpentieri, ed altra canaglia poliziesca, di
cui scrivo i nomi affinché sieno conosciuti e ricordati. Il commessario
Maddaloni va in Salerno, fa un'istruzione segreta, e senza saputa
dell'intendente, il quale sospettando di segrete mene fa arrestare il
commessario, ma poi egli è tolto di uffizio. Altri poi si fa incarcerare, e tormentando
i miseri prigionieri, torcendone le parole, numerandone i sospiri, li denunzia;
come ha fatto Bernardino Cristiano, del quale io posso mostrare a tutti le
scellerate denunzie, le note delle persone che ei dice pertinaci nel
repubblicanismo, le dimande con cui cerca un impiego e in cui espone i suoi
meriti di essersi chiuso due volte nel carcere di San Francesco per ordine de'
commessari Cioffi e Maddaloni, carte scritte tutte di sua mano. Parlo di
questi, perché questi sono accusatori e testimoni in processi sull'Unità
italiana, i quali insieme al mio formano il gran processo riunito, che è un
ammasso di nefandezze, di stoltezze, di sporchezze, è una sporta di cenciaio, e
fa più vergogna a chi l'ha tessuto che paura a coloro cui è stato fatto. In alcuni
dei quali processi particolari ci è sempre una velenosa dimanda sul conto mio,
la quale non ha avuta una velenosa risposta, perché c'era altro di più grave, e
perché io non era additato principalmente. Fra i più schifosi e fecciosi
denunziatori è un Antonio Marotta, di Pietrapertosa in Basilicata, or carcerato
per ladro in Avellino ed accusato presso la corte criminale di Potenza per
calunnia in causa politica che egli ordì contro il canonico Caramella di
Tricarico. In luglio 1849 accusa come settario il prete Francesco Nardi, suo
zio, ed uomo di poca levatura; e per persuaderlo a confermar le sue denunzie si
veste pulitissimamente ed accompagnato dall'ispettore Campagna, va in carcere
dallo zio, gli dice che è cameriere di un ministro ed ha tutti i beni del
mondo; che anch'egli avrebbe una buona cappellania se volesse confermar le sue
parole: e persuase il prete. Poi denunziò il Romeo come stampatore della setta
e capo di un comitato settario; denunziò molte altre persone di mano in mano
secondo che egli se ne ricordava, cioè secondo gli erano additate, e voleva o
compensi o vendetta. In una stalla del Romeo si trovano moltissime stampe
settarie, le quali costui dice avere stampate per commissione avuta dal signor
Antonio Miele, in casa del quale dice di aver udito parlare di setta, e che ne
erano capi il Settembrini, il Poerio, il duca Proto, l'ex ministro Bozzelli, ed
il principe di Torcella. Nominava questi due ultimi quando eran già usciti dal
ministero in luglio 1849. Anche questo colpo contro di me andò fallito,
perocché nessun altro, neppure il Marotta, mi nomina, ed il Romeo stesso nel
suo costituto ritratta questa particolarità, mentre conferma le altre, e
confessa che gli è stata suggerita.
Ma chi odia fortemente
non si stanca mai: io riposava sicuro della mia coscienza, e v'era chi non
riposava per perdermi, per farmi comparire non solo settario, ma consigliatore
di assassinii; per tormi non solo la pace e la libertà, ma la vita ancora e
l'onore. Ma l'onor mio non è in mano de' miei persecutori; io difendo la mia
causa, il mondo dia l'infamia a chi si appartiene.
Capo III
Processo dell'esplosione innanzi la reggia
il 16 settembre 1849 - Sevizie - Giudizio di ricusa - Ricorsi per eccezioni
d'incompetenza
Stava io pazientemente
nel carcere di Santa Maria Apparente quando il giorno 29 ottobre 1849 fui
chiamato dall'ispettore di polizia signor Primicile Carafa, il quale con una di
quelle solite bugie che sono le cortesie che fa la polizia per non ispaventar
la gente, dissemi che il prefetto voleva parlarmi; e senza darmi tempo nemmeno
di mutar panni, così come era vestito mi fe’ salire in carrozza e mi condusse
in Castel dell'Ovo, dove fui chiuso solo in una stanza, e mi furono rasi
villanamente quei pochi e modesti peli che io portavo alle gote. Seppi che dopo
di me vi fu condotto anche l'egregio mio amico signor Filippo Agresti, che poi
vidi rinchiuso in orrida spelonca incavata nel sasso, buia, e sozzissima per un
cesso dove gettavansi i vasi immondi degli altri prigionieri. Esule diciotto
anni, era tornato in Napoli in febbraio 1848, fu arrestato in marzo 1849, ed è
ancora mio compagno d'infortunio. Io sapeva che la polizia pochi giorni innanzi
per uno di quegli arbitrii che sono indorati col nome di misure
amministrative, dalle prigioni di Santa Maria Apparente aveva tramutati
nella Vicaria i signori Trinchera, Cammarota, Nisco, Guadagno; che di notte
aveva balestrati in castel Sant'Elmo il Leopardi, il Dragonetti, il Pica, il
Barbarisi, l'Avossa, lo Spaventa; che il Poerio ed il Pironti erano stati
condotti in Castel dell'Ovo: onde io credeva che per una simile misura fossi
stato ivi condotto anche io. E credeva, come credo e sono certo, che di tutti
questi trabalzamenti eran cagione le calunnie di un delatore carcerato, che mi
odiava perché io lo conosceva, lo sprezzava, e quando io era in uffizio non
aveva voluto ascoltare una sfacciata domanda di lui sfacciatissimo gridatore.
Ma il giorno 11 novembre
il commessario signor Silvestri mi fe’ chiamare, e m'interrogò dicendomi che io
era accusato di appartenere all'Unità italiana, e di essere autore di un
proclama. Risposi e feci scrivere che il commessario Bucci cinque mesi prima
m'aveva dimandate le stessissime cose, onde io mi riportava a quello che aveva
risposto a lui. Sottoscritto questo brevissimo interrogatorio, io chiesi perché
mi si facevan le medesime domande. E il commessario mi rispose, che egli
istruiva un processo contro coloro che erano imputati di aver voluto il 16
settembre disturbare la benedizione che il papa dall'alto della reggia dava al
popolo, facendo scoppiare una bottiglia di materia accensibile. “E in questo
che c'entro io che son carcerato da giugno?” “Quel fatto fu ordinato dalla
setta, della quale voi siete accusato essere uno dei capi, di aver tenuto
riunioni in vostra casa, nelle quali si propose di uccidere quattro ministri;
che nel carcere voi coll'Agresti e col Pironti approvaste il disegno di
uccidere il ministro Longobardi, il prefetto di polizia signor Peccheneda, ed
il presidente della corte criminale signor Navarra.” Io non ricordo che parole
io dissi quando intesi così scellerate e codarde calunnie, con quanta istanza
chiesi di vedere in faccia quel vilissimo uomo che mi trafiggeva l'onore così
malignamente. Allora intravidi tutta l'opera che i miei nemici avevano fatto
contro di me, tutto l'odio implacabile, tutta la vendetta che volevano
compiere. Non più solamente settario, ma capo; non datore, ma autore, di un
proclama; non solo imputato politico, ma consigliatore di assassinii. Dissi,
dissi, ma il freddo commessario mi rispose con un'eloquente stretta di spalle,
e mi rimandò nella mia stanza. Il dimane il processo compiuto fu mandato alla
corte criminale; onde per sola sevizia io stetti quarantadue giorni nelle
segrete del castello, per sola forma fui interrogato; ché molti altri sono
avvolti in questa causa e non furono mai nel castello.
Il 12 dicembre fui
condotto nelle buie e fetenti caverne della Vicaria, dove conobbi che i venuti
dal castello eravam ventisette: e fummo tutti gettati in mezzo ad altri
tormentati politici, ed in mezzo ai ladri, ai falsatori, agli omicidi. Io avrei
voluto che i magistrati che ci debbono giudicare fossero stati presenti quando
la prima volta c'incontrammo e ci guardammo tutti per questo buio: avrebber
veduto che pochissimi si conoscevan tra loro, che io conosceva pochissimi, che
non eran tra noi quelle relazioni che malignamente si credono e si affermano. O
con che cuore io rividi ed abbracciai Carlo Poerio, uomo chiaro per fama
paterna e propria, chiaro per isventure, per ingegno, per amabile facondia, già
ministro e consigliere del re, poi due volte deputato, ora carcerato, ammalato,
gettato a perir nella Vicaria: abbracciai Michele Pironti già valoroso avvocato
in Salerno, poi deputato, e giudice criminale in Terra di Lavoro, e che io
conobbi in casa del marchese Basilio Puoti: abbracciai Filippo Agresti, che io
conobbi in Malta: con dolorosa maraviglia rividi ed abbracciai Michele Persico
uomo placidissimo ed onesto, che io conobbi perché mi chiese leggere una mia
scrittura stampata, che in luglio era andato in Francia per suoi negozi, n'era
tornato in ottobre per essere gettato in carcere: rividi il cavalier Ferdinando
Carafa de' duchi di Andria, che io conosceva perché venne in mia casa ad udire
una prolusione alle mie lezioni di letteratura, che io lessi in marzo 1848, e
col quale talvolta per istrada aveva scambiati saluti e cortesie d'uso. Gli
altri io non conosceva, io non sapeva che esistessero al mondo.
E nelle prigioni della
Vicaria io ho saputo cose maravigliosamente terribili, le quali io voglio dire
affinché la storia le registri ed il mondo conosca il modo onde è stato
compilato questo processo. Lorenzo Vellucci accusato di avere appiccato ad una
cantonata un cartello rivoluzionario nella notte che precedette il 16 settembre,
e Salvatore Faucitano accusato come autore della esplosione avvenuta innanzi la
reggia, quando furono arrestati e legati, ebbero a soffrire strazi inauditi.
Strascinati a spettacolo della plebaglia per le strade della città, furon
battuti, feriti, sputati in faccia, insultati da pochissima canaglia che
seguiva il notissimo tavernaro detto Monsù Arena, il quale entrò fin
dentro al castello, ed al cospetto di onorati militari svelse i peli ad uno ad
uno dalla faccia di quei disgraziati, e presosi una ciocca dei capelli rasi al
Vellucci se ne andò con essa trionfante. Il Faucitano stanco e rifinito dai
tormenti, atterrito dalle minacce di altre battiture e di morte, essendo
innanzi all'inquisitore ed al prefetto, e chiedendo un bicchier d'acqua per
ristorarsi, gli fu porto un gran bicchier di vino, e poi fu interrogato: come
egli stesso dirà e proverà. Il prefetto di polizia che non doveva immischiarsi
nella istruzione, e che in questa causa è parte offesa, assisteva
agl'interragatorii, ed interrogava i detenuti Faucitano, Margherita, Carafa.
Luciano Margherita arrestato in Siracusa e condotto legato ed a piedi in
Messina, e di là in castel dell'Ovo, dove stette tre giorni digiuno, fu
assalito con altre arti. Gli si disse che ei dovesse sottoscrivere una dichiarazione
che non nuocerebbe a nessuno ma assicurerebbe il governo. Gli fu promesso un
impiego e la protezione dei prìncipi italiani, se no una palla al collo e
gittato in mare. La dichiarazione fu scritta, il prefetto la postillò ben
quattro volte e ricopiata che fu, il Margherita la sottoscrisse, credendo non
nuocere ad alcuno, aver l'impiego e la protezione. Nello stesso modo fu
assalito il Carafa, il quale nato ed educato gentilmente, spaventato da minacce
e dal carcere solitario, disse e scrisse quello che da lui si voleva. Ognuno
degl'imputati ha raccontato quello che ha patito nel castello. Nicola Muro fu
tenuto cinque giorni con le mani legate, scioltagli sola una mano quando doveva
cibarsi di solo pane ed acqua. La moglie di Giovan Battista Sersale fu tenuta
cinque giorni in una segreta del castello. Gaetano Errichiello dovendo esser
raso e tosato fu fatto sedere su di una seggiola in una piazza in mezzo a
soldati armati che dicevano doverlo fucilare. Io e pochissimi fummo in stanze
non orride perché le terribili erano occupate da altri, perché io giunsi tardi,
compiuto il processo, rallentati i rigori. Ho saputo ancora che alcuni imputati
furono moltissime volte chiamati dall'inquisitore, il quale diceva loro: “per
non fare confusione aggiungiamo queste novelle cose al primo interrogatorio, e
facciamone uno solo”. Gl'imputati ignoranti acconsentivano: si lacerava il
primo interrogatorio, se ne scriveva un altro con la data del primo; così
compariscono prima molte cose dette di poi, così si leggono dichiarazioni
lunghissime, ordinate, studiate, rotonde, ed anche eleganti. Questo fatto non
può provarsi, perché avvenuto tra l'inquisitore, il cancelliere, e gl'imputati
veduti ed ascoltati solamente da Dio; ma l'inquisitore, il cancelliere, e
gl'imputati dovranno giurare innanzi a Dio sulla verità del fatto. Ho saputo
che il comandante del castello signor colonnello Almeyda, onorato e gentile
militare, spinto da lodevole zelo, ma ignorando le attribuzioni sue e quelle
d'inquisitore, fu adoperato anch'egli nella istruzione di questo processo
strano. Sforzandosi di persuadere il detenuto Gualtieri di dir molte cose, gli
dettò alcune dimande, e volle che il Gualtieri gli rispondesse in iscritto.
Questi tornato nella sua stanza lesse quel dettato all'Agresti che era in una
stanza contigua alla sua e divisa per una porta: rispose, e ritenne la minuta
la quale comincia così: “Si chiede conoscere dalla giustizia i seguenti
particolari, mentre la stessa è in piena conoscenza con prove incontrastabili”
e dopo tre dimande finisce così: “I tristi congiurati a commettere delle nuove
rivoluzioni non che progettarsi in tradimento per uccidere il prefetto della
polizia, e il degno magistrato della presidenza criminale”. Chi conosce
l'Almeyda lo ascolta parlare. Nondimeno io non intendo di offendere
quell'egregio uomo, e cortesissimo verso di me, e che io pregio altamente, ma
voglio indicare chi lo spingeva a questi atti e in quale modo fu fatto il
processo.
Il procuratore generale
credé che questo processo fosse piccola cosa, e piccolo il numero di ventisette
persone; onde raccolse tutti i processi dell'Unità italiana, nei quali si
leggono accusate di setta più di dugento cinquanta persone, e tra i presenti ed
arrestati ne sceglie quarantadue, e contro tutti i quarantadue scaglia
un'accusa di morte, e chiede che il giudizio si faccia dalla corte criminale
con rito speciale, cioè con procedimento più breve, senz'appello, e la
decisione si esegua tra ventiquattr'ore. Dopo quest'atto d'accusa ne seguirono
tre altri simili, l'uno contro quindici poveri contadini di Gragnano 7,
il secondo contro dodici popolani del mercato 8, il terzo contro 57
persone imputate di aver fatto una dimostrazione il 29 gennaio 1849 per
festeggiare l'anniversario della costituzione. Così in poco più di un mese il
procurator generale Filippo Angelillo chiede umanissimamente la morte di cento
sei uomini.
Essendo ancor segreta
l'accusa fummo chiamati a costituto innanzi la corte criminale. Allora quelli
che avevano patito, parlato o scritto, narrarono i loro tormenti, dissero le
suggestioni, le minaccie, le lusinghe avute, ritrattarono quello che avevan
detto nella prima istruzione. Gl'imputati Poerio e Pironti dissero che tra le
accuse v'era quella che i settari avevan fatto disegno di uccidere il signor
presidente Navarra, giudice nella causa e commessario; onde rispettosamente e
senza intenzione di offenderlo lo ricusavano. Questa ricusa fece sospendere i
costituti: fu sottoscritta un'apposita dimanda da dodici di noi imputati, e
dagli avvocati signori Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo, e presentata alla
corte per giudicarne. Per verità prima di questo il signor presidente si aveva
fatto questo scrupolo, ma la corte glielo aveva levato, decidendo che il
presidente poteva giudicarci: onde rigettò la nostra ricusa. Ne facemmo ricorso
in suprema corte, e questa rigettò il nostro ricorso, e c'impose come
presidente, giudice, e commessario della causa il Navarra, contro la cui vita,
come dicevano alcuni imputati confessi, si macchinava, e congiurava dai
settari. Le decisioni della corte criminale e della suprema corte sono
stampate, e si possono leggere da chi desiderasse sapere quali furono le
ragioni e le considerazioni per le quali ostinatamente fu rigettata la nostra
dimanda. Io non le ho mai capite, perché sono un uomo fatto alla grossa, con
solamente un po' di senso comune in capo, ed il senso comune ora è cosa
differente dalla legge, ed in certi tempi il senso comune e la legge son cose
che si debbono mettere da banda. Ricominciamo i costituti: ultimo il Pironti
lesse per tre ore una sua lunghissima memoria di descarico, e nello stesso
giorno, che fu il 9 febbraio di quest'anno, la corte dopo di aver meditato con
divina intelligenza le memorie presentate dal Poerio, dal Pironti, dal Nisco, da
me, e tutti i discarichi di quarantadue imputati, dopo una discussione di
mezz'ora conferma l'accusa, e passa serenamente a trattar la causa de'
contadini di Gragnano. Così è pubblicato l'atto di accusa, che è un bel libro,
stampato, con l'elenco de' documenti, e la decisione della corte criminale che
lo conferma. Allora vidi tutta la tela variatissima del processo, conobbi di
che io era accusato, quali eran le volute pruove contro di me, e scorsi l'opera
della malizia, dell'odio segreto e represso che meditò contro me una terribile
e infallibile vendetta.
Parlerò del processo nel
capitolo seguente: ma prima di finir questo, debbo dire due cose gravissime. La
prima è che Giacomo Tofano e Gennaro de Filippo nostri avvocati, che con la
parola e con gli scritti avevano coraggiosamente difese le nostre ragioni nel
giudizio di ricusa, furono il Tofano imprigionato, il De Filippo costretto a
fuggire dal regno. Questi uomini generosi certo non si son doluti di aver
incontrata una sventura per aver esercitata una virtù; ma ben ci siamo doluti
noi per la bruttezza del fatto, e per aversi compagni nel dolore.
La seconda cosa è la
seguente. Contro la decisione che conferma l'accusa e dichiara la corte
speciale abbiamo fatto tre ricorsi alla suprema corte di giustizia. Il primo in
nome di tutti dice: “Noi siamo accusati di cospirazione contro la sacra persona
del re: di questo reato non ci avete nemmeno interrogati, ed il procurator
generale nell'accusa non ne adduce la più piccola e la più lontana pruova: onde
la corte, che ha ammessa l'accusa ritenendo i fatti e le pruove espresse dal
procurator generale, ha fatta una decisione non motivata, ha male giudicato, e
la sua decisione dev'essere cassata”. È stata confermata. L'altra in nome del
Poerio, il quale diceva: “Voi mi accusate di un delitto che l'accusa stessa
sostiene che io ho commesso quando io era deputato: or l'articolo 48 dello
statuto dice che i deputati che hanno commesso un delitto durante il tempo del
loro mandato debbono essere giudicati dalla camera de' pari costituita in alta
corte di giustizia; e però se ancora v'è la costituzione, se lo statuto non è
lacerato, la corte criminale non può giudicarmi”. La suprema corte l'ha
rigettato. Il terzo in nome di Nisco diceva: “Tra le accuse datemi c'è quella
che io voleva sedurre i militari. La legge dice che se a questo reato se ne
aggiungono altri qualunque, debbono tutti essere giudicati dal consiglio di
guerra: dal quale io dimando di essere giudicato”. La corte suprema, che ha
rimandati al consiglio di guerra molti accusati che dicevan belle ragioni per
esser giudicati dalla corte criminale, si riserva delle stesse belle ragioni e
le ritorce per rigettare il ricorso, e rimandar Nisco alla corte criminale. E
quasi che tutto questo fosse poco, abbiam dovuto sofferire di leggere sul
giornale il Tempo che le nostre eccezioni eran cavilli e pretesti per
ritardare la causa e la condanna che meritiamo. Sia lecito al Tempo di
sragionare e di calunniare noi, purché non calunni e non offenda una nazione
sventurata.
Rimane adunque la
pubblica discussione, tremenda per tutti, perché in essa si scopriranno molte e
forti verità. In essa interverranno solo pochi uomini e presenti, molti dei
quali sono preoccupati da oblique opinioni o sono stupidamente curiosi, e non
possono formare quel chiaro ed imparziale giudizio che chiamasi pubblica
opinione, e che sarà formato sicuramente ed esattamente dai lontani e dai
posteri, ai quali io volgo il pensiero e credo di parlare in queste carte.
Capo IV
Sguardo generale sul processo
Gettando uno sguardo
sopra tutta la immensa mole del processo, si vede che tra le denunzie e le
confessioni, tra gl'indizii, gli artifizii, e le pruove sorge una pruova
gigantesca, scorgesi un gran fatto che genera tutti gli altri, odesi una voce
generale ed uniforme: che tutto quello che si dice avvenuto, è avvenuto perché
si voleva togliere la costituzione; che la stessa esplosione avvenne per
impedire una dimostrazione anticostituzionale. Se si vogliono ritenere i fatti
se ne deve ritenere ancor la cagione ch'è questa: se il fatto è reo, più rea è
la cagione che lo produce: e se non si rimuove questa cagione è inutile punire
questi fatti, che ne nasceranno altri più gravi. È tristamente vero che le cose
umane sono governate dalla forza, e che quando un partito vince opprime l'altro
senza guardare a diritto o a giustizia, parole inventate dai deboli ed usate in
pace. Ma la pubblica opinione è anche forza, e la storia che registra i giudizi
delle nazioni e dispensa l'onore e l'infamia ha qualche potenza che non hanno i
cannoni. Un giorno si saprà con orrore che nel nostro paese una fazione
retrograda e stoltamente nemica di se stessa, del principe e della nazione, ha
congiurato e congiura per rovesciare la costituzione; e bestialmente
sdegnandosi contro quelli che a lei si oppongono, li accusa di cospirazione
contro quel governo che essa cerca di abbattere, li chiama con quei nomi che
convengono a lei, li giudica con quella legge che condanna lei, li condanna a
quella pena che essa dovrebbe subire. Questo fatto sorge luminoso e grande
sopra tutto il processo, ed esso solo basta per annullarlo, e rivolgerlo non
contro i quarantadue accusati, ma contro i nemici del principe e del paese che
compongono la fazione retrograda. E sebbene questa fazione sia una setta, e
come tale dovrebbe essere punita; pur non dimeno se quelli che a lei si
oppongono hanno scelto il mezzo della setta, questo mezzo è reo, e deve essere
punito. Io non nego né affermo l'esistenza della setta dell'Unità italiana;
quantunque potrei dire che i denunzianti ed i confessi, se togli l'Iervolino,
non parlano di giuramento, senza il quale la legge non riconosce setta; che le
riunioni non sono provate, o almeno non hanno carattere settario: io affermo e
sostengo che io non sono settario. Io son certo, e lo proverò in modo che altri
avranno la mia certezza, che il processo è una gran macchina inalzata dalla
polizia sopra pochi fondamenti veri, e che due o tre uomini insofferenti e
sconsigliati, volendosi opporre a chi voleva distruggere la costituzione,
posero mano a varii mezzi, usarono varii inganni, si servirono dell'autorità di
varii nomi, e forse tentarono anche la setta; la polizia li scoprì, li credette
utili ai suoi disegni, li circondò dei suoi agenti, li fe’ consigliare
satanicamente, li spinse ad ogni eccesso, li condusse fino ad un fatto che
avesse colpito le fantasie altrui, ma non avesse nociuto a persona, e poi formò
un processo che pare un castello incantato, e nel quale ha posti gli uomini che
essa voleva perdere. Queste sono arti sue, ed arti vecchie: così mescolava i
suoi agenti tra quelli che più oscenamente gridavano abbasso: così li mescolava
tra quelli che formarono le barricate il 15 maggio; e così per mezzo loro
suole accendere e ravvivare ogni opera scellerata. Ma l'anello che romperà
questo incanto è la ragione. Esaminiamo dunque il processo.
Prima che Salvatore
Faucitano, accusato come autore di quella esplosione, fosse arrestato la
mattina del 16 settembre innanzi la reggia, in un'altra strada della città
verso l'alba dello stesso giorno era arrestato il Vellucci come colui che aveva
affisso ad una cantonata un cartello nel quale si consigliava il popolo di non
concorrere alla benedizione del papa. Costoro dissero di avere ciò fatto per
consiglio ed ordine di quel Francesco Giordano, del quale ho parlato innanzi, e
con l'opera e l'aiuto di Francesco Catalano, di Errico Piterà, e di altri.
Dimandati ambedue se sapessero l'autore dei cartelli, il Vellucci disse non
saperlo, il Faucitano rispose: “Giordano non indicò colui che aveva i cartelli
scritti, però da Catalano venne a sapere che egli aveva fatto il borro de'
cartelli, e che fattolo rivedere nelle prigioni a Poerio e Settembrini, il
primo lo voleva moderato verso il governo, l'altro cioè il Settembrini
intendeva farlo oltremodo vibrato; ma che egli rifacendolo vi aveva dato del
settembriniano e del poeriano: così l'aveva fatto affiggere senza nemmeno
indicarmi per mezzo di chi 9”. Il Catalano nel suo interrogatorio del
28 settembre confessa che egli ed il Piterà scrissero di loro mano i cartelli:
poi soggiunge queste parole: “Animandosi quistione tra me ed il Piterà su di
una frase dei detti bigliettini che Piterà diceva non essere acconcia, io
sostenni il contrario e per mera millanteria, mentre in realtà non ve n'era
niente, dissi di averli fatti leggere a Poerio ed a Settembrini, il primo
detenuto di San Francesco, l'altro in Santa Maria Apparente; anzi per dare più
tuono alla cosa dissi che Poerio era sempre transigente, perché aveva fatto
togliere alcune parole del proclama: ma questo è meramente falso, perché tali
individui non li conosco affatto 10”. Ecco come sono nominati due
uomini onesti perché hanno fama di amare onesta libertà e di sapere accozzar
due parole scrivendo. Il Catalano ci nominava perché ci aveva intesi nominati
da altri, i quali vendevano i nomi nostri e di altre persone. Or qui si dee
sapere che il Catalano è un uomo d'anima, tutto di chiesa e di orazioni, ha
confessato ingenuamente il fatto suo, e non si è mai smentito. L'istruttore che
lo aveva odorato, dopo gl'interrogatorii gli si appoggiava al braccio, e
passeggiando per la stanza, e carezzandolo gli dimandava mille cose, e due ne
voleva sapere per forza, che il Poerio ed io avevamo scienza di quei cartelli,
e che il Giordano aveva stretta corrispondenza coi detenuti di Santa Maria
Apparente. Se il Catalano non fosse stato un uomo di coscienza, se non avesse
confessato ingenuamente di aver detto una bugia per dar tuono alla cosa, il
Poerio ed io avremmo anche quest'altra accusa: la quale essendo invincibilmente
provata stolta e falsa, non ci tocca più, ed io la getto e la dimentico.
Il fatto dei cartelli e
della esplosione è originato da quel Giordano, verso il quale la polizia mostrò
sì buone viscere e tanta materna amorevolezza che fa meraviglia. Dappoiché se
abbiam veduto e vediam arrestar la gente a furia e per niente, e rimaner
dimenticata in carcere; se è stato arrestato e giudicato dalla corte criminale
un Eduardo Cassola fanciullo di dodici anni per avere scritta una lettera fanciullesca
ad un compagno di scuola della stessa sua età; il Giordano accusato settario
dall'Iervolino, e che ha in casa due note di centosettantasette persone, non è
arrestato affatto; ma è carezzevolmente chiamato dalla polizia, che lo
ammonisce a dire il vero, e dopo un mese gli dà la correzioncella di tenerlo
sedici giorni per esperimento in prefettura, e lo libera il 19 agosto. E dopo
il 16 settembre la polizia avendolo scoperto capo settario e capo di un
comitato, non adopera quella sua profonda sagacia, decantata dal procurator
generale nell'atto di accusa, non ne segue le tracce, non va fiutando per
iscovarlo dal nascondiglio, anzi neppure lo cerca e gli dà tempo ed agio di
uscire dal regno. O la polizia ha cangiato natura, o la cosa va ben altrimenti.
Compagno ed amico del Giordano era Angelo Sessa, sotto direttore dello
stabilimento dei matti a Pontirossi, il quale nel processo è qualificato col
titolo di “uomo pieno d'impegni e di estesi rapporti.” La polizia doveva sapere
che costui era un cervello torbido, un uomo pericoloso, e nientemeno che capo
di un circolo o comitato; perché Achille Vallo soldato congedato 11 nel
suo interrogatorio del 28 settembre dice: che sei o sette mesi prima per mezzo
del Margherita conobbe il Sessa, fu ascritto nel comitato di cui questi era
presidente; che egli vi si ascrisse per consiglio di don Domenico Mercurio
agente del governo, e che a costui poi diceva fedelmente e minutamente ogni
cosa. Ed il Vallo chiamerà il Mercurio per provare i suoi detti. Doveva la
polizia saperlo perché in casa Giordano trovò la nota di Sessa; perché quando
fu chiamato Gaetano Errichiello disse che fra gli avventori e parlatori nel suo
caffè andava il Sessa; perché è cosa nota che di poi si fece una perquisizione
in casa del Sessa; il quale fu sempre cercato e non mai trovato. Doveva la
polizia saperlo, perché il 7 settembre gli agenti segreti Natale Ardissone e
Michele Andreozzi scrivevano al prefetto che Angelo Sessa, Giovanni Fiorentino
e Luciano Margherita avevano giurato di ucciderlo con “pugnalarlo nell'ora
della ritirata; che tengono delle riunioni settarie demagogiche ma sempre in
diversi luoghi per non essere scoperti”; che Raffaele Ubaldini conosce tutto e
può dirlo 12. L'Ubaldini, altro agente di polizia, conferma ogni cosa,
specialmente contro il noto demagogo don Angelo Sessa 13. Si sa tutto
dalla polizia, e non si cerca il Sessa, il quale non si può dire nascosto,
perché aveva relazione con i suoi affiliati, perché mandava danari e panni al
Margherita sul finire di agosto, perché era in casa Catalano la sera del 14
settembre, perché era conosciuto e seguitato dal Vallo. Il prefetto dorme sul
suo pericolo, forse perché non lo crede: ma dopo il 16 settembre che il Sessa è
stato scoperto settario e capo, non è carcerato, e assai comodamente se n'esce
dal regno come il Giordano.
Questi due amici col
Catalano, col Vallo, col Francesco Antonetti, col Vellucci, col Piterà si
radunavano nella bottega da caffè di Gaetano Errichiello a Pontenuovo, ed ivi
tra il fumo e le tazze discorrendo di politica, gridavano, spropositavano,
facevano i più strani disegni del mondo; i quali sarebbero rimasti innocenti
disegni se la polizia non vi avesse posto la mano. Udite che dice di loro il
caffettiere Errichiello, il quale dopo di aver detto che tutti i soprannominati
frequentavano il suo caffè soggiunge: “Avvenuto lo scioglimento delle camere
legislative, Sessa, Catalano, e Giordano intensamente dispiaciuti, e con
accanimento si pronunziavano contro il ministero d'allora, rivolgendo fra
l'altro il loro risentimento ai ministri Bozzelli e Ruggiero, che quantunque
creati dalla rivoluzione propugnavano per abbattere la costituzione. Tutti i
surriferiti individui seguitarono a venire nel caffè, quando circa due mesi
dopo a tale epoca in una mattina Sessa e Giordano parlando tra loro di affari
politici, intesi che il Sessa diceva all'altro che era necessario starsi uniti,
ma che per conseguire tale scopo faceva d'uopo d'istallarsi dei circoli.
Giordano vi si opponeva dicendo che i circoli a nulla menavano, ma sibbene si
doveva badare allo spirito pubblico e siccome Sessa insisteva nella sua
opinione se ne andarono questi contrastati: ed in effetti per due o tre giorni
non si trattarono. Quindi essendosi di bel nuovo avvicinati decisero d'istallare
i circoli ecc... 14”
Dopo di costui udiamo
quel dabben uomo di Catalano nella sua ingenua confessione che ritrae tutta la
serenità d'una coscienza pura, e che è principale elemento del processo: “Nel
mese di aprile e di maggio ultimo con esso Giordano guardando la situazione
d'Italia nella consumazione d'ogni vestigio liberale in Napoli, e persuasi che
ciò avveniva non per mala fede del re ma per la corruzione degli uomini,
progettammo di formare un comitato diretto allo scopo di effettuare la
costituzione col titolo di comitato di operazione, il quale avrebbe dovuto
dipendere da un altro comitato superiore che progettammo di fare istallare
nelle carceri di Santa Maria Apparente fra quei detenuti politici (allora dei
nominati c'era colà il solo Agresti), tendente a costituirsi in comitato di
direzione, ma quest'ultimo comitato per quanto io ne sappia non si costituì.
Intanto verso la fine di luglio o i principii di agosto ultimo, vedendo che le
cose invece di migliorare andavano al peggio, risolvemmo d'attuare isolatamente
il detto comitato di operazione; e fu perciò che io ne parlai al Sessa, questi
al Gualtieri, e Giordano ne tenne parola a Faucitano, acciò ognuno si fosse
cooperato a rinvenire i mezzi per l'attuazione del medesimo 15”. E
l'Antonetti dice anch'egli lo stesso. “Rivedendoci quasi tutte le sere nel
caffè di un tale Errichiello alla strada pontenuovo seppi da Sessa che costoro
tutti dipendevano da lui per rendere servizi al comitato che Sessa con Giordano
e Catalano sempre progettavano e dicevano voler istallare, ma mai se ne vide
l'effetto, tanto che principiammo a dare ai medesimi del ciarlone. Non ci siamo
mai riuniti in qualche casa, e non si è detto lo scopo a cui tendeva il
comitato che Sessa intendeva creare: solo sentiva dire da Sessa medesimo che si
doveva sostenere la costituzione che dal re era stata conceduta 16.” Il
Vellucci, il Vallo, il Piterà dicono le stesse cose. Onde si vede
chiarissimamente che la setta, i comitati, i circoli, i concerti, le dimostrazioni,
le uccisioni, e tutto quell'abisso di rivoluzioni che apparisce dal processo
sono un racconto di fate che si faceva dal Sessa, dal Giordano ai loro amici
nel caffè dell'Errichiello: sono sogni di fantasie napolitane che gareggiavano
nell'immaginare, che credevano vero quello che essi immaginavano, e credettero
di fare uno sforzo da scrollare il mondo con affiggere due cartelli
manoscritti, e sparare un salterello innanzi la reggia. Se non ci fosse lo
spirito di parte che ingrandisce e maligna ogni cosa, se non ci fosse la
polizia che trasforma ogni azione in delitto, questi fatti dovrebbero far
ridere la gente di buon senno. Il Sessa ed il Giordano per dar credito alle
loro fantasie parlavano di un gran comitato o di un grande consiglio che stava
nelle nuvole, e talvolta scendeva in tutta la sua grandezza sull'altura di
Santa Maria Apparente, come gli Dei di Omero discendevano a consiglio sul monte
Ida: e di questo alto consiglio essi erano parte, essi lo ragunavano, essi ne
eseguivano i decreti, essi ne sapevano le intenzioni, essi ne erano mente ed
esecutori insieme. Quelli li ascoltavano intenti e ne bevevano le dorate
parole. Povere menti umane! poveri sognatori cercati a morte dal procurator
generale!
Il Sessa ed il Giordano
sono assenti, perché la polizia avendoli circonvenuti con i suoi agenti ed
avendoli spinti dove essa voleva, capiva bene che questi non avrebbero detto
quello che essa desiderava, anzi avrebbero svelato qualche segreto importante,
avrebbero detto nettamente come andava la cosa, non si sarebbero avvolti nel
processo gli uomini odiati e segnati di nero; onde finse di dormire, li fece
fuggire, e poi li fece parlare come essa voleva per bocca de' loro seguaci. Non
c'è potenza di ragione umana che su questo punto possa negare che la polizia è
o calunniatrice, o incredibilmente sciocca. E chi vorrà crederla sciocca? Il
Giordano ed il Sessa formano l'anello che unisce la esplosione alla setta, ed
all'alto consiglio: e le dichiarazioni di Luciano Margherita loro confidente,
che dice quello che ha inteso da loro, sono il principal perno intorno a cui si
aggira il processo. Io le esporrò minutamente nel capo seguente.
Capo V
Prima e seconda dichiarazione di Luciano Margherita, fondamento principale
dell'accusa
Luciano Margherita, come
dice lo stesso prefetto 17 congedato dalla reggia, fu nel mese di
giugno arrestato in Napoli come vagabondo e rilasciato in consegna a Giovanni
de Simone, poi arrestato altra volta fu mandato in Siracusa sua patria il 30
agosto, donde fu tratto in castel dell'Ovo. Fece la sua prima dichiarazione il
giorno 11 ottobre, che in breve è questa: “Nutrisce attaccamento al governo, il
bisogno solo lo fa comparire reo: dirà come fu tratto in inganno, e se colpa vi
è si deve ai capi attribuire”. In agosto 1848 rivide il suo amico Onofrio
Pallotta, brigadiere dei dazi indiretti, il quale gli fece conoscere don Angelo
Sessa, che “apparteneva al comitato centrale ed era uomo pieno d'impegni e
d'estesi rapporti.” Ei gli si raccomandò, ed il Sessa lo fece ammettere nello
studio dell'architetto Francesco Giordano. “Non andò guari che questi gli disse
che se non si fosse ascritto al suo comitato, ei lo avrebbe allontanato dallo
studio, che egli non voleva essere in contatto con realisti.” Egli per non
perdere il pane disse di sì; e da quel punto conobbe che il Sessa ed il
Giordano appartenevano all'Unità italiana, ed erano capi di due circoli; egli
fu ascritto alla dipendenza del Sessa che prima conobbe. Questo avveniva fra il
fine di settembre e 'l principio d'ottobre. In marzo 1849 ebbe dal Sessa il
diploma della setta, e l'incarico di cercare altra gente e farla ascrivere al
circolo. Egli vi fece ascrivere il Vellucci, il Piscopo ed altri ai quali fu
dato il diploma. Venuta la Pasqua il Sessa distribuì del danaro, a lui, al
Pallotta, ad altri popolani ignoti. “Questo circolo non si è mai riunito
malgrado che Sessa sempre diceva di volerlo fare seguire, ed alle volte Sessa,
Giordano, ed altri individui che dipendevano dal circolo di costui si riunivano
al caffè di Gaetano Errichiello. Dai discorsi fatti da Sessa e Giordano intesi
nominare don Michele Pironti, don Michele Persico, Agresti, e Settembrini come
membri del comitato centrale; e siccome per quanto essi Sessa e Giordano
dicevano che ogni membro del gran comitato potea presedere ad un circolo, io
sospettai che ognuno dei detti quattro individui dovesse presedere qualche
circolo.” Dice che fu arrestato il 14 giugno, e dopo dodici giorni liberato.
Verso la metà di luglio fu arrestato un'altra volta ed il 30 agosto imbarcato
in Siracusa, lasciando il suo diploma a Giovanni de Simone che la prima volta
gli aveva dato mallevadoria, la seconda lo visitava, gli dava del suo, e danari
ed abiti mandatigli dal Sessa. Dimandato a che tendeva la setta, risponde: “Io
l'ignoro, ma per quanto Sessa e Giordano dicevano, lo scopo era quello di
mantenere la costituzione, che dal governo si voleva rimuovere”. Non conosce e
non ha veduto mai in compagnia del Sessa o del Giordano né l'Agresti, né il
Settembrini, né il Persico: stando una volta in casa Giordano, vide venire un
signore con gli occhiali che seppe chiamarsi Pironti. Quattro o cinque mesi
dietro ebbe dal Sessa diverse copie d'un proclama stampato con l'incarico di
propagarlo tra i componenti del circolo: e il Sessa gli disse che tal proclama
era stato composto dal Settembrini. Ei né diede copia al Vellucci, al Piscopo
ed altri.
Si trova una copia del
proclama in casa del Vellucci, il quale dice averlo avuto dal Margherita, e da
costui aver saputo che l'aveva composto io. È lo stesso proclama presentato
dall'Iervolino.
Quanto il Margherita
dice del preteso comitato e del proclama, l'aveva udito dire dal Giordano e dal
Sessa; i quali se fossero presenti forse direbbero come il Catalano: “Noi
abbiamo nominato queste persone per mera millanteria, per dar tuono alla cosa,
noi abbiamo mentito”. E qui io considero come intatta la dichiarazione del
Margherita, il quale si è interamente disdetto nel costituto, confessando che
fu costretto a sottoscrivere ogni carta dalle minacce, dagli apparati dei
tormenti, dalle lusinghe e dalle promesse che gli faceva l'istruttore. Del suo
costituto non voglio giovarmi punto, accetto le dichiarazioni come stanno. Il
signor Silvestri che è stato l'ingegnosissimo architetto di questo processo,
dal quale ha ritratto grande lode e maggiore uffizio, si contenta anche egli di
questa dichiarazione, la quale è monca, e piena di lacune: ed anch'egli non
dimanda niente di quello che era importante dimandare. Imperocché nessuno si
persuade che tra agosto e settembre il Margherita conosce il Sessa, che lo
presenta a Giordano, e questi gli dice: “O sii settario con me, o vattene”; e
che in sì breve tempo divenne intimo di ambedue e fu ascritto alla setta: o il
tempo sarà stato più lungo, o ci sarà stata qualche altra persona per mezzo, e
la cosa sarà andata altrimenti. E questo ascrivere che cosa significa? fu forse
notato il nome in un libro? diede giuramento? Margherita tace: il commessario
non glielo dimanda: non gli dimanda neppure che cosa fece da ottobre 1848 a
marzo 1849 spazio di cinque mesi. In marzo ha il diploma, ma le istruzioni
della setta l'ha avute? il giuramento l'ha prestato? come poteva avere il
diploma senza essere settario? come si può essere settario senza giuramento,
senza conoscere le regole della setta? Niente di questo gli dimanda
l'istruttore. Il quale udendo parlar della setta, avendone lette le istruzioni,
che la polizia già aveva avute, doveva pur dire al Margherita: “Ma questo
comitato centrale che cosa è? Nelle istruzioni non c'è questa parola.
Confondete voi i nomi, o questo comitato è un'altra cosa?” Non voglio dire che
avrebbe dovuto dimandargli quando e dove il Giordano ed il Sessa gli avevan
parlato di questo comitato, e dei suoi pretesi membri; ma per Dio! il
Margherita confessa che è stato due volte arrestato e il commessario non gli
dimanda perché. Questo perché viene detto dopo dieci giorni, il 21 ottobre, e
dal prefetto, ed un perché freddo; come vagabondo; ma non si è detto perché fu
tenuto da luglio a tutto agosto in carcere e poi mandato in Siracusa. Ma sia
pure qualunque la causa della nessuna curiosità con cui fu fatto questo
interrogatorio, il commessario dovette certamente rileggerlo, e rileggendolo
doveva non contentarsene, richiamare il Margherita e fargli mille altre dimande.
Niente affatto: la cosa, come tutte le cose di questo paese, va al contrario.
Dapoiché il 16 ottobre il commessario volendo mostrare al detenuto Luciano
Margherita il diploma a lui intestato dice: “lo abbiam fatto rilevar dalle
prigioni e venire in nostra presenza, e fattogli estensivo tal diploma l'ha
riconosciuto 18”: e nello stesso giorno 16 ottobre il Margherita,
sentendo che nella sua dichiarazione ci erano quelle mancanze che il
commessario non aveva sentite, chiede egli di voler parlare e dire grandi cose
che interessano il governo 19. Queste cose sarebbero impossibili anzi
inconcepibili, se non ci fosse una chiara e limpida spiegazione: che si
macchinava e si sperava di far dire altro da Margherita; e però non si badava a
questa prima dichiarazione, si preparava la seconda che è larga e lavorata,
nella quale si vede la grande architettura e l'industrioso ricamo delle
postille. Questa è la dichiarazione sottoscritta dopo le promesse d'impiego e
di protezione, e comparisce spontanea; fu fatta nello stesso giorno 16 ottobre,
perché il prefetto venne nel castello a 22 ore; questo è il capolavoro del
processo perché è la sola che svela tutti i membri del gran consiglio, tutti i
disegni della setta, tutte le cose che diconsi fatte, ferisce da mille parti,
in mille modi, moltissime persone. Esaminiamola a parte a parte, e la vedremo
vergognosamente cadere, perché il falso non può mai celarsi interamente, la
verità non può essere mai interamente offuscata.
“1. Per darvi una pruova che per le mie critiche
circostanze soltanto e non per avversione al governo io mi ascrissi fra coloro
che cospiravano contro di esso, intendo
rivelarvi molti altri fatti che sono a mia notizia, per potere conoscere
li veri autori di questa trama, ed apporvi
un efficace rimedio.”
Queste non sono parole del Margherita, il quale non voleva e non poteva
apporre rimedio a niente, ma sono l'eco e la fine di un discorsetto morale che
gli fu fatto per indurlo a sottoscrivere la dichiarazione. “Tu non comparisci
accusatore tu, ma chi ti ha detto quello che tu riferisci: la colpa è loro non
tua, perché essi operano il male, e tu dici la verità. E poi quando sarà
provato che sono autori di questa trama quelli che si conoscono, noi vi
apporremo un efficace rimedio: sappiamo che la colpa si deve attribuire ai
capi, voi altri siete gente ingannata e sedotta: il governo può temere di voi?”
Queste ultime parole rimasero profondamente scolpite nell'animo del Margherita,
che le disse al Faucitano, e tutti e due dicevano fra loro e ad altri (fra'
quali al Catalano); “Vediamo, ricordiamoci chi conosciamo, e nominiamoli:
quanti più capezzoni nominiamo e facciamo venire qui, noi più presto
usciremo, perché questi salvando sé stessi salveranno noi”.
“2. Vi dico adunque che tra la fine di settembre
ed i princìpi di ottobre scorso anno essendomi io pronunziato con don Angelo
Sessa e don Francesco Giordano di abbracciare il loro partito liberale, tanto
che Sessa mi mise alla sua dipendenza come vi precisai nel mio interrogatorio,
divenni l'intimo di essi Sessa e Giordano, e per mezzo dei medesimi venni a
sapere che nella capitale vi era un comitato centrale, il quale dirigeva tutte
le mosse del partito liberale, quel comitato si componeva dal signor Agresti,
colonnello al ritiro, che n'era il presidente, don Luigi Settembrini
segretario, don Michele Persico cassiere, don Michele Pironti, don Michele
Primicerio, don Carlo Poerio, il signor Pica, il marchese Venusino, il duca
Proto, un titolato di cognome Carafa, non che essi Giordano e Sessa, membri del
detto comitato centrale, e qualche altro che non rammento.”
Se questa dichiarazione
si guarda, per servirmi di una felice espressione del procurator generale, “a
traverso del prisma delle istruzioni della setta,” le quali sono stampate fra i
documenti dell'accusa, si vedrà chiaro che i suoi colori sono falsi; perché
secondo queste istruzioni nella setta non v'è comitato centrale, non v'è
l'ufficio di segretario, non di cassiere. Nelle istruzioni è proibito
espressamente di nominare le persone, e quindi difficile di poter conoscere
massime i capi: ed il Margherita, conoscente di un mese, giovine di studio del
Giordano, non ancora settario ma semplicemente ascritto, diviene l'intimo di
due persone, conosce tutti i nomi dei componenti il consiglio della setta, i
loro diversi uffici. Chi gli avrebbe detto quando in agosto rivide il Pallotta,
che sulla fine di settembre avrebbe saputo tanti segreti, conosciute tante
persone, sarebbe divenuto anch'egli un personaggio importante? A me poi si deve
dar sempre una penna in mano; se si ha a creare uffizio di segretario dev'esser
mio. Chi può negare la cagione dell'odio che mi perseguita? Al povero Persico
si dà la cassa, perché è un negoziante. L'Agresti, che non è un colonnello al
ritiro, ma un ex capitano, e fu capitano aiutante maggiore nella guardia
nazionale, dal Margherita è detto presidente di un comitato dove sono uomini
che hanno maggiori cognizioni di lui (non offendo un mio egregio amico il quale
ha voluto che io scrivessi queste parole), hanno maggior fama e conoscenza nel
paese ed hanno occupati alti uffizi, e dal Marotta è confuso tra gli ultimi
omicciattoli che formano il comitato di cui è presidente il Romeo, povero
stampatore ed umile persona.
“3. Verso la fine del
mese di ottobre Giordano mi consegnò cinque bigliettini suggellati, diretti ad
Agresti, Settembrini, Pironti, Primicerio, Persico (dice la casa di ciascuno)
ed avendo con tutti personalmente parlato a norma degli ordini ricevuti da
Giordano, diede l'appuntamento di farsi trovare in quella sera nel caffè di De
Angelis a Toledo: ed in effetti nella sera medesima avendo io seguiti i
suddetti Giordano e Sessa nel detto caffè ci rinvenni i mentovati cinque
individui, i quali dopo associatisi al Sessa e Giordano, si recarono in casa
dell'Agresti, ed io rimasi a passeggiare sotto la medesima. Dopo più di due ore
calarono Giordano e Sessa, in compagnia di Persico, Settembrini, Primicerio ed
altri quattro o cinque individui a me ignoti, che ritenni essere anche membri
di tal comitato, ma non so dire chi questi fossero, dappoiché io non conosceva
di persona Poerio, Pica, il Venusini, il duca Proto, il Carafa, per non avere
ai medesimi giammai portato alcun biglietto. Agresti si rimase in casa: nel
portone si divisero prendendo io col Sessa e Giordano la direzione della strada
Portamedina, mentre gli altri s'incamminarono per Toledo. Posteriormente anche
per effetto di bigliettini inviati per mezzo mio dal Giordano ai signori
Persico, Agresti, Primicerio, Settembrini e Pironti in altre sere dopo di essersi
tutti riveduti nel caffè di De Angelis, si recarono in casa di Agresti,
intervenendovi pure il Sessa il quale mai si dipartiva dal Giordano.”
In questo fatto di
bigliettini il Margherita è testimone diretto, che dice quello che ha operato
egli: tutto l'altro l'ha saputo dal Giordano e dal Sessa. Nella prima
dichiarazione dice di non conoscere alcuno, tranne il Pironti per caso: ora
conosce cinque di noi: sia questa la verità: ma non dice come ci conosce. Se ci
conobbe quando ci portò quei sigillati bigliettini, perché non li portò agli
altri? e se a questi altri furono portati da altra persona, perché egli, che
sapeva tutto, non lo nominava? Egli era l'intimo del Giordano, e doveva sapere
ciò ch'era scritto nei bigliettini, e se egli lo sapeva perché sigillati? e se
parlò con tutti e cinque noi, che fortunatamente per lui ci trovammo tutti in
casa, a che servivano quei bigliettini che dovevano dirci quello che egli ci
disse? Perché moltiplicare enti senza necessità? Se le riunioni si tenevano in
casa dell'Agresti, è cosa veramente ridicola che si mandi un avviso anche a lui
per farlo uscir di casa, andare al caffè, e dire a tutti gli altri quello che
tutti già sapevano, cioè di andare a casa sua. Qui manca il senso comune.
Inoltre se l'Agresti era presidente, io segretario e il Persico cassiere, che
cosa era il Giordano che da sé, e sempre, e per mezzo di suoi agenti e di
bigliettini diceva ad uomini molto più reputati di lui, raccoglietevi, e quelli
si raccoglievano? Dopo questa riunione, che durò ben due ore, il Margherita non
dimanda al Giordano o al Sessa di che cosa s'era parlato, che decreto s'era
fatto; né quelli depongono alcuna cosa nelle fide orecchie di lui che tanto
aveva girato per portar bigliettini, che aveva passeggiato per due ore lunghissime.
Il Margherita vede che solamente noi cinque eravamo nel caffè, non solamente
noi cinque scendevam dalla casa dell'Agresti, ma tutto l'altissimo consiglio, e
non ha la curiosità di dimandare di nessun altro, non sente il desiderio di
conoscere neppure il Poerio che ei dice di non aver mai veduto, che non ha mai
sentito parlare dalla tribuna: nulla di tutto questo: conosce cinque e non si
cura degli altri. Queste cose non reggon innanzi alla ragione, sono sfacciate e
stolte bugie fatte dire al Margherita per confermare l'accusa, ma essi la
screditano, la indeboliscono, la distruggono.
“4. Nei princìpi di
decembre ultimo da essi Sessa e Giordano seppi che il comitato centrale aveva
in una delle sue sedute deciso ammanirsi delle somme per dare delle sovvenzioni
nel venturo natale ai popolani che dallo stesso dipendevano; ma costoro, per
quanto quelli dicevano, erano braccia materiali, perché ignoravano affatto cosa
voleva significare setta o comitato, né ciò se gli manifestava per mantenerli
nell'ignoranza, ed affinché si avessero potuto far muovere a seconda del
bisogno.”
O il Giordano disse
questo, ed ecco le speranze e le promesse ch'egli dava ai suoi agenti, a lui
devoti per pochi danaruzzi e moltissime parole. Noi altri che siamo accusati di
comporre quel sognato comitato siamo uomini di picciola fortuna, ed io viveva
sottilmente di mie fatiche; né potevamo radunar danari perché non eravam di
quelli che hanno il privilegio di far proprie le pubbliche entrate. O il
Giordano non lo disse, ed è stato suggerito a Margherita per confermar le voci
che i liberali davano quattro carlini al giorno ai popolani poveri. Si sa, ed
un tempo si dirà, quali grida furono pagate per pochi e brutti tornesi.
“5. Scorsi pochi giorni
da tal notizia, Giordano e Sessa mi dissero che in una delle riunioni del
comitato centrale, in cui erano tutti i membri sopraccennati intervenuti, era
stato deliberato di fare uccidere i ministri Bozzelli, Ruggiero, Longobardi e
Gigli, non che il commessario Merenda, ed il capitano del treno Palmieri; i
primi perché facevan di tutto per distruggere nel Consiglio di stato ogni
vestigio di costituzione, ed i secondi, presedendo i comitati realisti,
facevano dai loro dipendenti insultare e manomettere i liberali. Giordano
diceva che ad esso era stata affidata la esecuzione di tali assassini
coll'aiuto e cooperazione di Sessa.”
Questa è la più
scellerata cosa che sia stata inventata da mente scelleratissima. Accusar di
sei assassinii uomini di vita intemerata, vissuti sempre virtuosamente, che
avendo avuto il potere in mano hanno beneficato gli stessi loro nemici, è tale
infamia che non ha nome. Odiatemi, opprimetemi, uccidetemi pure, ma dovete
rispettarmi perché sono migliore di voi. La storia dirà che si sono commessi
assassinii, e dirà da chi sono stati commessi. Io per moderazione ho taciuto
nel capo I, che in marzo 1848 si tentò di assassinar me in mia casa, e fui
salvo pel concorso della guardia nazionale: ho taciuto e tacerò ancora molti
fatti più scellerati, ma se sarò ridotto all'estremo io dirò cose tali che
faranno tremare gli occulti e palesi miei accusatori. Fu deciso un macello, fu
deciso da tutti, fu deciso in dicembre 1848 quando il ministero aveva
riconvocata la Camera pel 1° febbraio 1849, fu deciso dal Poerio, dal Pica, dal
Proto deputati, e da me eletto e possibile deputato. Io non so chi è più stolto
e chi più m'offende se quello stolto che disse queste cose, o chi le credeva
possibili a credersi dagli uomini di senno, e ne faceva accusa contro di noi.
Quando in un processo sono queste infamie dovrebbe esser bruciato per le mani
del boia. E qui lascio lo sdegno, e rimando l'infamia a chi spetta; gli
accusati non possono essere raggiunti né colpiti da sì basse calunnie.
Né qui s'arresta il
Margherita, e dice che il Giordano per mezzo di Raffaele Basile e di Giovan
Battista Sersale fe’ venire quattro sicari da Avellino, che diede a lui
l'incarico di accompagnarli e mostrar loro le sei vittime designate; che egli
li accompagnava per la città, ma non curavasi di altro che di mangiarsi i denari
che il Giordano dava ai sicari, dei quali egli dice solo il nome di uno; i
quali dopo un mese furono rimandati, e il Giordano fu creduto vile e ciarlone.
Tutto fa, tutto sa, in
mezzo a tutto è il Margherita: e intanto la polizia per mezzo di lui non cerca
di scoprire questi quattro sicarii, non lo conduce in Avellino per
riconoscerli, e si contenta che egli ne descriva solamente le fattezze. Ma dirà
alcuno: dunque fu tutto invenzione? Io non so che cosa faceva e che cosa voleva
il Giordano; non so se egli avesse avuto qualche delirio febbrile, non so se
fosse stato matto, non so se è reo o calunniato; ma so che i miei amici ed io
non abbiamo perduto il senno, so che sentiamo troppo di essere uomini, abbiamo
dato troppe pruove di virtù per non esser creduti capaci di discendere a tanta
degradazione morale, a tanta infamia da volere assassinati sei uomini. Questi
feroci delitti non sono nostri.
“6. Avvenuto lo
scioglimento della Camera legislativa in febbraio ultimo, da Giordano e Sessa
venni a sapere che si stava cospirando onde far propagare la setta degli
unitari italiani, e che il comitato presieduto da Agresti e nel quale
seguitavano ad appartenere tutti gl'individui di sopra indicati, aveva preso
nome di alto consiglio della setta suddetta, ed il signor Agresti qual
presidente era in corrispondenza con l'Italia. Mi dissero pure che ogni membro
dell'alto consiglio era rivestito di un incarico, per effetto di che Poerio
coltivava la corrispondenza della setta nelle tre Calabrie onde farvi istallare
i circoli, il deputato Pica per i tre Abruzzi, Giordano per la provincia di
Terra di Lavoro ed Avellino, Sessa si corrispondeva con i casali dintorno
Napoli.”
Lo scioglimento della
camera avvenne il 14 marzo 1849, l'Agresti fu arrestato due giorni dopo, il 16
marzo, onde è falso quanto si dice di lui, e però è falso quanto si dice degli
altri intorno a questi incarichi che sono sogni ed imposture del Giordano. E
perché quel cangiamento di nome? Perché il Margherita conobbe la pretesa setta
e seppe che ci doveva essere l'alto consiglio solamente in marzo, come dice nel
brano seguente.
“7. In data del 1° marzo
Sessa mi diede il diploma, le regole, ed il proclama della setta: ed il tutto
già si trova assicurato alla giustizia”
Dunque il 1° marzo
dovette dare il giuramento, il 1° marzo divenne settario. E fino a questo tempo
non essendo egli settario come conosceva tutt'i capi della setta, sapeva
minutamente quello che dicevano e facevano? come egli li ragunava co'
bigliettini, ne eseguiva le deliberazioni, ed aveva finanche il gravissimo
incarico di far eseguire sei assassinii? O è falso tutto quello che egli dice
di aver fatto fino al 1° marzo, o è falso il diploma che egli ha riconosciuto e
che ha la data di marzo. Se ebbe il diploma in marzo, in marzo divenne settario
e prestò giuramento, dappoiché non si può essere settario senza dar giuramento,
e dato il giuramento si ha il diploma. Ecco quello che si vede col prisma del
procurator generale.
“8. Avvenuto l'arresto
del signor Agresti non so in qual epoca, l'alto consiglio si riuniva in casa di
Settembrini, per essere costui subentrato nelle funzioni di presidente: e
ricordo bene che Sessa mi disse che in una delle sedute avute luogo in casa di
Settembrini era surta una quistione tra Poerio, Pica ed un altro, che non mi
ricordo il nome, col rimanente dei componenti il consiglio; dappoiché i primi
tre intendevano di fare la rivoluzione con lo scopo di consolidare la
costituzione, gli altri volevano muoverla per proclamar la repubblica o la
costituente: per [la] quale discrepanza di opinione l'alto consiglio si era
disciolto, e che riunitisi poi altro giorno senza l'intervento dei sudetti
Poerio, Pica ed il terzo che non rammento, era stato deciso che costoro non ci
dovevano più appartenere perché di princìpi opposti ai loro, e perciò non erano
più chiamati. Ciò avvenne per quanto vado rinnovando nell'idea tra la fine di
maggio e princìpi di giugno corrente anno.”
Io proverò
chiarissimamente nel mio discarico che in mia casa non aveva altre riunioni che
di giovani studenti; proverò che in tutte le ore del giorno io ero severamente
occupato alle mie lezioni, perché dalle sole mie fatiche onorate io traeva il
sostentamento della mia famiglia; che la sera io per costume, per istanchezza,
e per amore allo studio ed alla famiglia non usciva mai di casa, e me ne stava
coi miei figliuoli. E per provare che questa vita di fatiche e di stenti non mi
lasciava briciola di tempo, io chiamerò in testimonianza il padron della casa
che io abitava, gli altri inquilini, e quelle persone in casa di cui io andava
a dar lezioni. Chi viveva a questo modo è accusato di essere presidente e capo
d'una setta, dalla quale scacciava il Poerio, il Pica, ed un altro, e meditava
repubblica e costituente; e così rifiutava l'opera delle Calabrie dipendenti
dal Poerio, degli Abruzzi dipendenti dal Pica, e chi sa di qual altra potenza
del mondo dipendente dal terzo ignoto. Il Pica ed il Poerio, che secondo il
Margherita approvarono con tutti gli altri il disegno di assassinar sei
persone, si sarebbero fatto scrupolo per la repubblica e la costituente.
Arrestato l'Agresti, mancava anche la corrispondenza con l'estero; e non si
dice se altri si prese, questo carico, se lo prese uno o più. Forse l'Agresti
solo bastava: ma l'estero è il mondo, e il mondo è tanto grande che non bastava
uno solo a tener questa corrispondenza. Ci sono certe assertive che un uomo
onesto si degrada a combattere e mostrarle false. Il Poerio e il Pica erano
odiati, e furon detti settari: erano conosciuti troppo per quello che con senno
e con facondia avevan detto dalla tribuna, onde furono separati dagli altri che
si dovean mostrare anelanti alla repubblica: e per non iscoprire la malizia
nominando essi due soli, si aggiunse a loro un terzo ignoto. Il Poerio ed il
Pica sono tali uomini che in ogni adunanza non sarebbero secondi a nessuno, né
a me. Bisogna conoscere gli uomini che son detti comporre questo sognato
consiglio, per vedere quanto è stolta, quanto svergognata e scellerata
l'accusa.
“9. Se pur non
m'inganno, in luglio Settembrini, ultimo, fu anch'egli arrestato, e sebbene la
carica di presidente si fosse deferita a Pironti, pure perché questi non aveva
una casa a sé, l'alto consiglio non si riuniva in nessuna abitazione; e solo
quando i componenti dello stesso si volevano rivedere onde comunicarsi qualche
segreto, si mandavano appuntamenti per riunirsi sul tondo di Capodimonte,
quando al largo del Castello, ed altre volte nella strada Foria, più fiate io
personalmente per ordine di Giordano dava simili appuntamenti a Persico,
Pironti e Primicerio. Arrestato Pironti non so chi assunse la carica di
presidente, ma seguitavano a riunirsi nel luogo di sopra indicato.”
Quanto sono ingegnosi
gli errori di data che fa il Margherita! Talvolta bisogna sapere errare per dar
colore più schietto al racconto. Io fui arrestato il 23 giugno. Egli, come dice
nella prima dichiarazione, uscì di carcere il 26 giugno, e vi entrò a mezzo
luglio, dove stette fino al 30 agosto. In questi venti giorni, egli niente
atterrito dal carcere, ritorna in mezzo ai segreti ed agli affari della setta;
sa che il Pironti è il novello presidente, vede il consiglio divenuto
peripatetico, e che i suoi membri si uniscono, congiurano e decidono grandi
cose passeggiando per le strade, e seguita a portar le imbasciate per queste
riunioni peripatetiche. Ma se questi membri si vedevan fra loro, non potevan
darsi il tempo ed il luogo per rivedersi? Non potevano in qualche caso mandarsi
l'un l'altro un servitore, una serva, un cane coll'ambasciata? Ci dovea essere
per forza il Margherita spedito dal Giordano fin dal lontanissimo Pontenuovo? E
portava ambasciate solo a quei tre e non agli altri? E le portava a voce o con
quei sigillati biglietti? Arrestato il Pironti il tre agosto, come sa che
“seguitano ad unirsi nel modo di sopra indicato,” se egli era in carcere fin da
mezzo luglio, Persico fin dal 9 luglio era partito per la Francia? se non resta
che il solo Primicerio, e gli altri egli non li conosce? Menzogne aperte,
calunnie sfacciate. E pure la grande accusa del procurator generale è tutta
fondata su questa dichiarazione, della quale ho copiate persin le parole.
“10. Li mentovati Sessa
e Giordano alla fine di giugno o principii di luglio, quando già Pironti era
stato arrestato, mi confidarono che in una delle dette riunioni dei componenti
l'alto consiglio si era deciso di stabilire una setta di pugnalatori, onde far
uccidere il ministro Longobardi, il prefetto di polizia Peccheneda, ed il
presidente della corte criminale Navarra: i primi due perché proponevano al re
l'arresto dei liberali, l'altro per le mostruose condanne che infliggeva a
persone innocenti. Per essere in ciò consigliati per due o tre volte scrissero
ai surriferiti Agresti, Settembrini e Pironti nel carcere di Santa Maria
Apparente, facendo a costoro ricapitare le lettere per mezzo di Francesco
Vellucci e di Francesco Antonetti: e li medesimi Sessa e Giordano dicevano che
Agresti, Settembrini, e Pironti avrebbero inteso il parere di Trinchera, e
degli altri carcerati politici che si rattrovavano nelle prigioni suddette.
Essi Agresti, Settembrini, e Pironti, per quanto Sessa e Giordano mi dissero,
approvarono il progetto di assassinio; e perciò costoro incaricarono me di
proporre individui che fossero stati capaci di pugnalare a sangue freddo i
mentovati personaggi mercé una gran somma che loro si sarebbe data.”
Il procurator generale
fermandosi alle prime parole del Margherita ritiene che quest'altra invenzione
della setta de' pugnalatori fu stabilita nel mese di luglio: ma il Margherita
dice “quando il Pironti era stato arrestato,” e parla dì cose che il Pironti
con l'Agresti e con me avrebbero approvato stando in Santa Maria Apparente; il
Pironti fu arrestato il 3 agosto. Dunque questi pugnalatori entrano nel dramma
dopo il 3 agosto: il Margherita sbaglia le date, e questo sbaglio fa cadere
ogni cosa. Dappoiché se egli la seconda volta fu arrestato verso la metà di
luglio, e stette in carcere fino al 30 agosto, nel qual giorno fu imbarcato per
la Sicilia, come poteva sapere di questi pugnalatori e di questi assassinii
stabiliti dopo l'arresto del Pironti? come poteva avere l'incarico di trovare i
sicarii? chi gli poteva dire, chi poteva fare quest'altra invenzione tragica,
se anche il Giordano, architetto di tutte le invenzioni, fu arrestato il 3, ed
uscì il 19 agosto? Come il procurator generale non ha veduta questa
contraddizione di date, ch'è così chiara, e così chiaramente mostra la falsità
di tutta la dichiarazione? Inoltre quell'alto consiglio che voleva essere consigliato,
a chi era ridotto in agosto? L'Agresti, il Pironti, ed io eravamo arrestati; il
Poerio ed il Pica arrestati, il Proto uscito dal regno fin da marzo, il Persico
in Francia, il Primicerio o uscito, o nascosto, o certo ammalato; resta
l'ignoto Venusino, il Carafa, il Giordano ed il Sessa; anzi restano soli, come
sono stati sempre, soli, il Giordano ed il Sessa i quali nel caffè
dell'Errichiello immaginavano, parlavano, bevevano, e non si levavan dalla
seggiola. Il Vellucci e l’Antonetti, che hanno confessate molte cose, hanno
detto di non conoscere alcuno di noi, non esser mai venuti in Santa Maria
Apparente non aver mai portato lettere. Or se non c'era più alcuno di questo
preteso consiglio, se il Margherita era in carcere, e non poteva avere nessuna
confidenza dal Giordano e dal Sessa, non è egli più chiaro della luce del sole
che le confidenze l'ebbe dalla polizia? La polizia voleva farsi merito, voleva
esser creduta operosa, e però odiata dai rivoluzionarii; ed ecco fa comparire
in grave pericolo il suo capo pel quale ci sono prima avvisi di agenti segreti,
poi indizi, poi la pretesa confessione del Margherita: ma il prefetto dorme
sempre sicuro. Si desidera che i giudizi sieno fatti più con rigore sdegnoso e
con astio di parte che con imperturbata giustizia, ed ecco far comparire il
disegno di assassinare il ministro di giustizia, il presidente della corte
criminale. Si desidera di avvolgere nella ordita trama gli uomini più odiati:
ed ecco fingersi accordo e cospirazioni in carcere; ecco obliquamente nominato
il Trinchera, odiatissimo perché fu capo di dipartimento nel ministero
dell'interno, e comandò in quella polizia che ora per vendetta lo tormenta.
Così disparisce tutto il maraviglioso del gran dramma del processo, e si vede
ancora che gli altri sei assassinii sono maligne e scellerate fantasie di chi
vuole accrescere odio sul capo di uomini che sono odiati per quella stessa
ragione che ogni virtù è odiata e perseguitata dai tristi.
Questa è la grande e
lavorata dichiarazione del Margherita. E si è tanto lavorato per dir tante
manifeste menzogne che fanno vergogna a chi le ha dette, ed a chi le ha fatte
dire. Ma dirà taluno: queste dichiarazioni sono tutte false da capo a fondo, e
non c'è nulla di vero? No, c'è il vero in questa dichiarazione, ed in tutto il
processo. Il vero lo ha detto il Catalano, il quale ha francamente confessato
quello che ha fatto, non si è mai smentito, non è mai caduto in nessuna
contraddizione, ha detto parole che spirano candore e verità: ha detto sempre,
che tutto era in progetto, che niente fu mai effettuato, che per mera
millanteria, e per dar tuono alla cosa egli nominò persone riputate. Onde nasce
limpido questo concetto: il Giordano ed il Sessa molto immaginarono, moltissimo
parlarono, pazzamente operarono, e per acquistar credito ed importanza
nominarono uomini conosciuti, inventaron consigli, comitati, riunioni,
rivoluzioni: il Margherita allettato alle larghe promesse d'impiego e di
protezioni, secondò le voglie e le suggestioni della polizia, diede come reale
quello che era immaginario, ed aggiunse molto del suo a quello che aveva udito:
la polizia vi dié l'ultima mano con le postille, il ricamo, la cornice. E
questo ancora è il concetto generale che un uomo di senno deve formarsi di
tutto il processo: ci sono fatti veri ma innocenti o lievi: la polizia col
mezzo dei denunzianti li fa rei e gravi: ed istruisce i processi con odio e
stizza di parte. Ed in prova di questo, nessun fatto ha turbato l'ordine
pubblico e la tranquillità del popolo, quantunque in molti modi provocato.
Questa setta stessa di cui si mena tanto rumore non si può comprendere che cosa
sia veramente; ad ogni poco cangia scopo e cangia nome: or vuole serbar la
costituzione, or pretende la costituente, or la repubblica: ora è comitato
centrale, or alto consiglio, or setta di pugnalatori: in fondo v'è l'intrigo di
alcuni pochi, la sciocchezza di altri, e la malignità della polizia.
La corte criminale ha
sentito che il detto Margherita non meritava piena fede, ed ha deciso bisognare
altre pruove per confermare l'accusa contro alcune persone che il Margherita
nominò, come il Pica, il Palomba, il Gargano, ed il Cuomo. Spero che la gran
corte non crederà sufficiente per me quello che ha creduto insufficiente per
altri: spero che l'odio cieco e tenebroso che ostinatamente mi perseguita si
arresti innanzi al tribunale della giustizia.
Capo VI
Lettera del Carafa - Conchiusione
Ferdinando Carafa de'
duchi d'Andria dalle segrete del castel dell'Ovo scriveva una lettera al
prefetto di polizia il 29 ottobre, lo stesso giorno che io fui colà condotto.
Parlerei di questa lettera se essa non offendesse più l'onor suo che me; e se
egli subito che uscì dal castello e poté liberamente parlare, non l'avesse
sdegnosamente ritrattata e ributtata con lo scritto e la parola innanzi la
corte criminale. Egli ha narrato quello che ha patito nelle segrete, quello che
il prefetto gli disse, quello che da lui si voleva, quello che gli fu in vari
modi suggerito ed imposto, e le sue parole sono un'altra chiara pruova di
quello che io ho detto del modo onde è stato fatto il processo. Quantunque la
lettera contenga lieve accusa contro di me, ed il Carafa abbia il dovere di
difendere l'onor suo e quelli che egli per suggestioni altrui e per propria
debolezza ha nominati, purnondimeno quella lettera mostra chiaramente una lotta
tra il cuore e la mente sotto l'impressione della paura. Ne parli dunque il
Carafa: io non ne dico di più.
Adunque tutta l'accusa
contro di me è poggiata sulla denunzia dello scelleratissimo Iervolino, che
dice esser io un settario ed avergli dato un proclama; e sulla dichiarazione
del Margherita che dice di aver inteso dal Giordano e dal Sessa, che io era uno
dei capi della setta, aveva riunioni in casa, aveva composto il proclama: è
poggiata su di un'assertiva ed un aver inteso dire. Per
quest'accusa io non temerei il giudizio di qualunque tribunale che giudicandomi
stesse alla ragione ed alla legge; ma contro di me c'è odio di parte, odio
personale, desiderio di vendetta tardata. Io usando di una virtù che è ignota
ai miei persecutori li perdono di tutto cuore, prego Iddio che non dia loro a
colpa le amarezze che fanno sofferire a me ed alla mia famiglia, ed aspetto
serenamente l'esito del giudizio, perché la coscienza non mi rimorde di nulla,
io non cospirai contro la persona del re, io non volli mai setta né rovesciare
il governo, io non consigliai né approvai assassinii, ma fra quarantadue fui
assassinato anch'io. Se io avessi potuto aver copia di tutto intero il
processo, e tempo ed agio di leggerlo, forse io anche in questa oscura e
fetente spelonca dove son chiuso senza veder raggio di sole, dove sento mozza
la mente e logorat[o] il corpo stanco, forse avrei più largamente ragionato
della causa ed abbracciato tutto nel processo. Nondimeno credo che quello che
ho detto basti per mostrare a tutto il mondo, che quegli uomini, i quali hanno
congiurato e congiurano per rovesciare la costituzione, ed han pubblicamente
scritta la dimanda di abolirne finanche il nome che solo è rimasto, quegli
uomini hanno fatto nascere i pochi fatti veri segnati nel processo; quegli
uomini per odio di parte hanno inventati moltissimi fatti falsi, hanno
malignamente trasfigurati i veri: rimane a vedere che gli stessi uomini ci
faranno giudicare e condannare pei fatti cagionati ed inventati da loro. Essi
vorrebbero far cadere almeno poche teste, ma non potranno far cadere le
speranze dell'umanità che desidera solo giustizia; non potranno far tacere la
storia che dirà il vero inesorabilmente; non potranno ingannare o impaurire la
pubblica opinione che giudicherà di me, dei miei persecutori e della corte
criminale.
Dalle prigioni di
Castelcapuano, aprile 1850.
Discarico
1
Io scrissi la mia difesa
per gli uomini di buon senso, e con grande soddisfazione dell'animo mio ho veduto
che in questo disgraziato e calunniato paese gli uomini di buon senso son
molti, perché quella povera mia scrittura a molti non è dispiaciuta. Solamente
pochissimi hanno detto che le mie parole sono state acerbe, che molte cose io
poteva non dirle, e che ho scritto un libello e non la mia difesa. Costoro non
capiscono o non vogliono capire che in questa causa non si tratta della vita o
della morte di quarantadue persone, ma della sorte del nostro paese; onde io ho
dovuto parlare non solo di me, ma delle cagioni che hanno prodotto questo
giudizio e ridotta la nostra patria nelle presenti infelici condizioni. E le
cose che ho detto sono una minima particella di quelle che io sapeva e poteva
dire, e che ora per buone ragioni ho taciute. L'acerbità poi sta nei fatti, non
nelle parole: ed i fatti non son opera mia: distruggete i fatti, negateli se
potete, negatene anche uno, ed allora io sarò acerbo e libellista. Ma
fintantoché i fatti saranno fatti ed innegabili, dovete arrossir voi che li
fate, non io che li dico. È dispiaciuto il modo: io non so l'arte
d'inzuccherare le sozzure, amo di parlare schietto proprio e breve, farmi
capire da tutti, e dire al pane pane, e al sasso sasso. Se tu sei ladro, che
colpa ho io che ti chiamo ladro? Sii un santo, ed io ti chiamerò santo e ti
adorerò. È dispiaciuto che io ho detto alcune poche verità, che [ho] disvelato
le arti oblique e nefande con cui la polizia istruisce i processi, e con cui ha
istruito questo dell'Unità italiana; che ho parlato della
costituzione ed ho detto che tutti i mali che sono avvenuti in questo paese, e
gli altri che infelicemente e necessariamente avverranno, nascono da una
fazione cieca retrograda e cosacca, la quale da due anni cospira per togliere
la costituzione, che ormai è un bisogno generale di tutti i popoli civili; la
quale vorrebbe veder tornati i beatissimi tempi del santo uffizio ed il ricco
mercato dei ladri. Ma non ostante tutte le petizioni, le orazioni, i voti e gli
scongiuri, lì dobbiamo andare, e lì andremo, perché lì sta la giustizia, lì il
bene di tutti: e chi non lo capisce o non lo vuol capire, mal per lui. Io non
mi pento di aver detto quelle poche verità, anzi avrei voluto dirne di altre e
di molte; perché la verità dispiace a pochi e per poco, ma non nuoce mai; e
perché è santo dovere di ogni uomo onesto di dirla senza paura. Né scrivendo
quelle verità nella mia difesa io ho voluto offendere alcuno, dappoiché chi si
difende non vuole farsi odiare per offese, ma farsi amare da tutti. Che se io
dicendo il vero non ho voluto offendere, e taluni si sono offesi, bisogna dire
che io non ho colpa, ed essi si sono conosciuti rei.
Ora con la stessa santa
intenzione di esporre la verità, io debbo nuovamente rivolgermi ai miei
cittadini, anzi a tutti gli uomini civili, e narrare altri fatti di singolare
ingiustizia, altri insulti alla ragione umana, altre oppressioni che io soffro.
Dirò prima di una stretta che ho ricevuto dalla polizia per la stampa della mia
difesa, poi dirò quello che ho patito dalla corte criminale.
2
Subito che fu pubblicata
la mia difesa, nacque un rumore ed uno sdegno grande. Venne da me un ispettore
di polizia per chiedermene qualche copia, il manoscritto, e il nome dello
stampatore: ma non ebbe né seppe niente. Cercarono tutte le tipografie di
Napoli, trovarono che il Reale per suo guadagno si preparava a stamparla, lo
arrestarono e lo tengono ancora in carcere. A tutti gli altri tipografi sono
stati fatti spaventi e minacce grandi, e si è fatto sottoscrivere un obbligo di
non stampare qualunque scritto di causa politica sotto pena di multa e di
prigionia.
Il giorno 26 aprile, per
comando del direttore di polizia, l'ispettore Campagna fece una minuta ricerca
nella casa dove ora è mia moglie, senza condurvi me che per legge vi doveva
esser presente.
Per quasi cinque ore
fiutò e cercò ogni angolo, ogni buco, ogni masserizia; raccolse con le sue mani
e gittò in un sacco ogni materia di carta che gli venne innanzi; e non raccolse
più, perché non c'era più, né il facchino poteva portare di più. Il 29 aprile
il commissario delegato delle prigioni signor Casigli citò mia moglie a
comparire nella delegazione per assistere alla dissuggellazione del sacco delle
carte. Io chiesi ed ottenni dalla benignità del commessario, di esser presente
anch'io. Legalmente fu aperto il sacco alla presenza del commessario, del
cancelliere, e di tre ispettori; i quali tutti con dieci occhi si diedero a
leggere ogni stampa, ogni cartolina, ogni letterina ed esemplare dei miei
figliuoli; e non trovarono nulla di reo né di sospetto, quantunque avessero
letto dalle dieci alle cinque. Intanto la povera moglie mia ammalata e digiuna
aspettava e guardava; ed in casa una mia figliuoletta non vedendo la madre, la
credeva carcerata, piangeva e n'è stata molti giorni ammalata. Ma dovendosi
mostrare di aver fatto qualche cosa, le carte furon divise in due specie: le
une dette attendibili, furono descritte in un verbale, richiuse e risuggellate
nel sacco: le altre dette inattendibili furono richiuse e risuggellate in un
altro sacco, affinché se quei dieci occhi non l'avessero osservato bene, si
avesse potuto leggerle con l'aiuto di lenti e di microscopii.
E che cosa sono queste
carte attendibili descritte nel verbale? La lettera che scrissi al ministro
delle finanze quando offeriva allo stato un terzo del mio soldo, stampata nel
giornale del governo: la mia rinunzia all'ufficio di capo ripartimento: la
dichiarazione che io scrissi quando rinunziai: la lettera che io scrissi al
Bozzelli quando rinunziai al terzo del soldo che mi si voleva dare come
pensione: la memoria che presentai alla corte nel mio costituto, e che sta nel
processo; le mie posizioni a discolpa, presentate alla corte; una lettera al
compilatore del giornale la “Libertà italiana,” nella quale protestava che io
non aveva mai scritto né scriveva alcun giornale: minute tutte di mia mano.
Inoltre venti copie del mio Elogio di Giuseppe Marcarelli; sette volumi
delle opere di Vincenzo Gioberti; Poche parole su la Costituzione, opuscolo
di Achille Corrado, fratello dell'intendente, Dichiarazione del ministero
del 1° marzo 1848; Benedizione di Pio IX all'Italia; ed altre carte
simili: infine venti copie della mia difesa. Da queste carte dichiarate
attendibili si può giudicare delle altre dette inattendibili! Buona cosa è che
la parola attendibile non sia registrata in alcun vocabolario, ed essendo una
sozzura del tempo le si possa dare ogni significato.
Intanto l'ispettore
Campagna aveva detto al direttore Peccheneda che egli aveva fatto la gran
preda, tra le mie carte aveva trovato e preso il manoscritto della difesa. Il
direttore lesse il verbale, e non vi trovò registrato il manoscritto: e
prestando più fede al Campagna che ad un vecchio commessario ad un cancelliere,
ed a tre ispettori, ordinò si riaprissero i sacchi e si rivedessero le carte
alla presenza del Campagna. Il quale dopo molto tempo e molte osservazioni
riconobbe che egli aveva creduto manoscritto della difesa la dichiarazione che
io scrissi il 13 maggio 1848 quando rinunziai all'uffizio; e tutto che sia un
valentissimo e zelantissimo ispettor di polizia confessò ingenuamente di non
saper troppo leggere. Richiuse e risuggellate le carte la terza volta, se ne scrisse al procurator generale, il
quale rispose tornarsi a rivedere le inattendibili, farsene esatto elenco, e
non trovandosi in esse alcuna cosa sospetta, restituirmisi. Così è stato fatto
e dopo ben quindici giorni l'ho riavute. Le attendibili sono ancora in
lazzaretto, ed aspettano che il procurator generale dichiari che un'offerta di
danari, due rinunzie, un costituto, le posizioni a discolpa, e la benedizione
di un papa non sono carte appestate e si possono rendere al padrone.
Ma perché si è cercato
con tanta affannosa premura il manoscritto, mentre io non ho negato che la
difesa l'ho scritta io? Questo perché non l'ho potuto sapere, nessuno ha saputo
dirmelo, non l'ho potuto indovinare da me. È lecito agli uomini non comuni
operare contro il senso comune. Ma per onore della verità e della umanità debbo
dire che molti impiegati di polizia mi fanno cercar copie della mia difesa, me
la lodano, e dicono di volerla gelosamente conservare; e conosco che non
parlano ad inganno. Sia lode a Dio, che il buon senso sta anche in molti
impiegati di polizia.
3
Vengo a quello che la
corte criminale ha deciso. Nei termini di legge io ho presentato per mezzo del
mio avvocato le ripulse, le posizioni a discolpa, le nullità: lo stesso hanno
fatto gli altri imputati. La corte ha rigettate le ripulse e le nullità di
tutti: ha ammesso il minor numero di discolpe per gli altri quarantuno: per me
ha rigettato tutto, a me solo ha negato tutto; per me solo non v'è difesa
giudiziale. Onde io ben feci quando indirizzai le mie parole a tutti gli uomini
civili; ed ora credo di ben fare se contro la decisione della corte criminale
io mi appello a Dio, che è giudice di tutti i giudici, ed alla pubblica
opinione in cui sta la voce ed il giudizio di Dio. Dirò quello che ho
dimandato, e come la gran corte m[e] l'ha negato.
Ripulsa. Io dicevo:
Luigi Iervolino mio accusatore è un ribaldo denunziante che ha il soldo di
dodici ducati il mese dalla polizia, come possono attestare i tali testimoni:
ed essendo denunziante pagato la legge comanda che non gli si presti fede, e
che non possa comparire a deporre nella pubblica discussione. La gran corte
nella sua decisione mi ha risposto: “Rigetta la ripulsa, ed ordina sentirsi il
testimone ripulsato, per tenersi della sua dichiarazione quel conto che
merita”. Il procurator generale nella sua nota dei testimoni a carico dà al
Iervolino la qualità di denunziante; la Corte lo dichiara testimone, e non
vuole ascoltar me che voglio provare che è denunziante ed è pagato. E non solo
il Iervolino, ma tutta quell'altra schiuma di ribaldi, che si sono confessati
agenti di polizia nelle loro denunzie scritte, che il procurator generale ha
detto denunzianti, sono dichiarati dalla gran corte fiori di galantuomini,
testimoni che debbono udirsi; che carità cristiana a coprirsi i difetti altrui!
chi non farebbe la spia! se anche suo malgrado è dichiarato galantuomo!
Ecco le mie dieci
posizioni a discolpa.
1. La polizia ha
presentato un falso certificato della decisione che la commissione di stato
fece sul mio conto nella causa della “giovine italia.” Io per dimostrar falso
quel certificato dimandava si richiamasse quel processo; e dimandava ancora che
la corte chiedesse dalla polizia i rapporti su la mia condotta politica dal
1842 al 1848. Ma la gran corte vuol credere ciecamente alla polizia, non vuol
farmi provare o la falsità del certificato o il mio errore; non vuol sapere
della mia condotta politica, rigetta la posizione.
2. Io sono odiato ed
accusato perché creduto sfrenato scrittore ed autore di quante stampe
clandestine si sono fatte contro il governo e contro i privati. Per provare che
questa posizione è falsa, quindi l'odio ingiusto, e ingiustissima l'accusa, io
presentavo alcune proteste da me scritte in certi giornali, ed alcuni miei
opuscoli stampati; e chiedeva si leggessero, per vedere se chi ha quei
sentimenti, quelle opinioni, e quello stile possa scrivere quel sozzo proclama
che a me si attribuisce. La gran corte non vuol leggere niente, non bada a
stile, rigetta la posizione.
Con le seguenti quattro
posizioni io intendeva provare come in tempi torbidi sono stato moderatamente
sereno, e come, da che il principe diede e giurò una costituzione, io sono
stato sempre costituzionale.
3. In marzo 1848 si
radunarono in casa del Poerio parecchi uomini ragguardevoli per discutere la
nomina di un nuovo ministero; e fra gli altri v'intervenne il conte del Balzo,
marito della regina madre, ed il capitano Carrascosa. Il dimani per commissione
del Poerio io dovetti parlar lungamente col conte, e di gravi affari. Chiedeva
alla corte d'interrogare il conte, per sapere che moderate parole gli dissi,
che giusti e santi sentimenti gli manifestai. La corte ha deciso di non
incommodare il conte, ed ha rigettato la posizione.
4. Il 13 maggio 1848 io
rinunziai al mio ufficio perché abborrivo dalle intemperanze del tempo.
Chiedeva si interrogassero testimoni, e si cercasse dal ministero una copia
della mia rinunzia: la corte ha rigettata la posizione.
5. In giugno 1848
durante la rivoluzione di Calabria per consiglio ed autorità di alcuni amici,
scrissi, e fu stampato, un manifesto agli elettori per persuaderli ad
intervenir nei collegi: e questo era aiutare e secondare il governo. La gran
corte ha rigettata la posizione.
6. Il Bozzelli proponeva
al re di darmi in pensione un terzo del soldo; ed io in una lettera lo
ringraziava, e lo pregava di ringraziare il re, e rifiutava ogni dono.
Interrogate il Bozzelli, fatevi dare una copia di quella lettera. La gran corte
ha rigettata la posizione.
Eppure con questi fatti
io voleva offerire ai giudici una pruova morale che chi opera e scrive a questo
modo non può essere un arrabbiato settario, non può cospirare contro la vita
del principe, non può consigliare né comandare assassinii. Inutilmente.
7. Luciano Margherita
diceva aver inteso dire che in mia casa si radunava un alto consiglio o
comitato settario, che era composto di una buona dozzina di persone: il
procurator generale nel suo atto di accusa ritiene questo fatto. Io voleva
provare che in mia casa non aveva né poteva avere riunioni, e chiedeva si
dimandassero i vicini, il padron di casa, gli abitanti nel medesimo palazzo se
avesser mai veduto venire in mia casa o uscire altre persone che giovani
studenti. Non poteva, perché dovendo dar pane alla mia famiglia tirava una
pesantissima carretta di faccende. Faceva il conto sulle dita pel tempo che
aveva e diceva: “Il tal giorno all'ora tale io faceva la tale lezione che
durava tante ore; poi ne faceva un'altra, ed un'altra: il tale altro giorno
faceva la tale altra lezione per tanto tempo. Dimandate i testimoni che vi
nomino su le ore precise delle mie occupazioni. A queste ore faticose
aggiungete il tempo necessario per mangiare, dormire e fare tutti i fatti miei;
e vedrete che, se anche avessi voluto, non avrei potuto cospirare e tenere
riunioni perché di tutta la settimana non mi restava un'ora da respirare”.
8. Nell'atto di accusa
si dice che io con altri cospirava in carcere, e approvava disegni di
assassinii. Onde io diceva: “Chiedete all'ispettore delegato del carcere i
rapporti su la mia condotta; chiedete la nota che il custode faceva delle
persone che visitavano i detenuti politici, e vi convincerete che io non vedeva
altri che le persone di mia famiglia”.
“Il procurator generale
ha chiesto accogliersi gli articoli 7 e 8, riducendosi i[l] numero dei
testimoni nell'articolo 7 e richiedendosi i[l] rapporto dell'ispettore locale
di Santa Maria Apparente, per conoscersi se oltre la famiglia Settembrini,
accedevano nelle prigioni altre persone di sua intrinsichezza.”
“La gran corte ‑
sugli articoli 7 e 8 ‑ dacché i fatti che si enunciano nelle posizioni
suindicate non sono tali che influiscono necessariamente nella causa per
dichiararsi pertinente ‑ a maggioranza di voti quattro ‑ dichiara
non pertinenti alla causa gli articoli 7 ed 8, e li rigetta.”
9. Io voleva provare che
il direttore di polizia signor Peccheneda venne molte volte in castel dell'Ovo,
interrogò vari imputati, interrogò lungamente il Margherita, e ben quattro
volte postillò e fece ricopiare la dichiarazione sottoscritta da costui, la
quale tanto mi offende. Però lealmente io chiamava in testimonianza lo stesso
signor Peccheneda, l'istruttore, il cancelliere, il comandante del forte, altri
uffiziali, ed i custodi. La gran corte ha dichiarato questa posizione non
pertinente, e l'ha rigettata.
10. Nella decima
posizione io diceva di associarmi all'egregio mio amico e coaccusato signor
Michele Pironti per le eccezioni di nullità da lui prodotte, e largamente
ragionate.
“La gran corte ‑
dacché il dedotto nell'articolo 10 non essendo motivato, come era obbligo
dell'articolante di produrre in sua difesa, senza riportarsi a ciò che un altro
accusato produce per sé; e mancando le spieghe opportune, non può accogliersi
tale posizione per dichiararsi pertinente ‑ a voti uniformi ‑
rigetta la domanda contenuta nell'articolo 10 delle posizioni.”
Se mi aveste chiamato io
avrei dato le spieghe opportune, ed avrei ben motivata la dimanda, perché avrei
detto: che avendo il Pironti, avvocato, ed ex giudice criminale, scritta una
memoria sulle eccezioni di nullità, io o avrei fatto un bene a lui, o avrei
detto le stesse cose con diverse parole: onde per non perder tempo, e per non
farne perdere alla corte con una lunga scrittura, mi sono associato a lui.
Questo motivo mi pare non solo legale, ma naturale, e fatto per buona creanza
per evitare seccaggini e lungaggini. Ma se anche avessi spiegato e motivato
questo articolo e tutte le eccezioni del mondo, sarebbe stato lo stesso: perché
la corte ha rigettate tutte quelle prodotte dal Pironti. Le quali essendo
ancora mie debbo qui riferirle.
Eccezioni di nullità. ‑
Il processo istruito dal commessario Silvestri in castel dell'Ovo è nullo pel
luogo, perché il castello non è carcere legale, ma privato ed arbitrario, e non
sottoposto alla vigilanza del procurator generale. È nullo per la forma, perché
si sono fatti arresti per misure di prevenzione e per incarichi verbali; perché
si sono fatti abusi di potere e di sevizie ai detenuti, i quali hanno dimandato
di provarli; perché gl'imputati non furono interrogati subito dopo l'arresto
come vuole la legge; perché ad essi non furono indicate tutte le loro
imputazioni; perché si sono interrogate le mogli contro i mariti, come Maria
Giuseppa Cuccaro contro suo marito Giovan Battista Sersale, la quale fu tenuta
cinque giorni nelle segrete del forte; i padri contro i figliuoli, come Gaetano
Vellucci contro suo figlio Lorenzo 20; le figliuole contro il padre,
come Filomena, Clelia ed Almerinda Errichiello fanciulle di 12, 10, ed 8 anni
contro il loro genitore Gaetano. È nullo per le persone che vi hanno preso
parte, perché attribuendosi agl'imputati il disegno di uccidere il prefetto di
polizia, il commessario Silvestri non poteva avere le due qualità d'impiegato
dipendente dal prefetto e di giudice indipendente; non poteva essere istruttore
imparziale, perché non impediva anzi ordinava la nostra illegale detenzione;
perché il prefetto abusando della dipendenza dell'istruttore metteva ambo le
mani nel processo, ed interrogava egli stesso gl'imputati, egli che nella causa
è parte offesa; perché il comandante del forte signor Almeyda faceva anche egli
interrogatorii, e poi li conferiva con l’istruttore, il quale se ne serviva, e
li faceva passare nel processo come dichiarazioni giudiziali.
Secondamente il
procurator generale richiedeva, e la gran corte criminale, con decisione del 19
dicembre 1849, ordinava riunirsi cinque processi dell'unità italiana, e
procedersi contro tutti gl'imputati ad un solo giudizio. Or la corte medesima
non può contro la legge e contro la stessa sua decisione, tra i più che dugento
imputati dipinti nei cinque processi, sceglierne soli quarantadue, e sottoporli
ad accusa. Ma giacché li ha sottoposti ad accusa con la decisione del 9
febbraio 1850, ora non può giudicare definitivamente, inappellabilmente, in
corte speciale, con esecuzione tra ventiquattr'ore, di questi soli quarantadue,
non tenendo conto degli altri per molti dei quali si è ordinato proseguirsi
l'istruzione. Adunque se questi cinque processi non sono interamente compiuti
per tutti, come si può giudicar su di essi, come possono servire per elementi
di pruova?
Insomma io diceva: “Se la corte vuole essere rigorosamente
e legalmente giusta deve dichiarare nullo il processo fatto in castel dell'Ovo:
se vuol essere equa deve sospendere il giudizio ed aspettare che si compia
l'istruzione per tutti. Così farete un giudizio solo, giudicherete con
coscienza sicura, e nessuno avrà che dirvi. Se sopra questi incompiuti processi
voi mi condannarete e mi farete mozzare il capo, e dimani proseguendo
l'istruzione, nasceranno pruove limpidissime della mia innocenza, come mi
restituirete quel fiato divino che Dio mi ha dato e voi mi avete tolto? Ogni
uomo troverà ragionevoli queste dimande, ma la corte criminale le ha trovate
irragionevoli, ed ha ragionato così:
“La gran corte ‑
sulle eccezioni di nullità di atti ‑ osserva che l'alta polizia
ordinaria, per effetto del regolamento emanato dopo la nomina della commissione
suprema pe' reati di stato e di setta, attribuiti alla di lei competenza, e
devoluti alla competenza della gran corte speciale, è facoltata per mezzo de'
suoi agenti a compilare i processi, raccogliere tutte le pruove concernenti
tali reati. Che per effetto di tali principii la istruzione di cui è parola in
detta eccezione è stata compilata dai funzionari competenti, previo ordine dato
dal ministro dell'interno.
“Che non essendovi
l'elenco delle prigioni, l'alta polizia vigila per la prevenzione, e per
tutt'altro che riguarda i detenuti, e quindi ben poteva giusta le sue facoltà
detenere nei castelli gl'imputati per reità di stato, tanto lo è vero che la
suprema commissione di stato li deteneva negli stessi forti, e colà compilava
la istruzione: essendo questa una eccezione alle regole di procedura penale.
“Che ogni funzionario
giudiziario porta seco la presunzione di diritto d'istruire legalmente, e
coscienziosamente per la verità, e senz'alcun riguardo: e vano è tutt'altro che
domanda l'accusato in dette eccezioni, che rigettare si debbono.” E rigetta
tutto.
Rispetto il giudicato;
ma dico a chi non lo sa che la suprema commissione nel 1846 fu abolita, i
giudizi di stato e di setta furono affidati alle corte criminali, che hanno i
loro regolamenti, le loro leggi legali e non eccezionali; e non si può ritener
per morta la commissione e per vivi i suoi regolamenti. Questa commissione
essendo mista di magistrati e di militari, si adunava nei castelli, e colà
deteneva gl'imputati pel solo tempo che durava la discussione della causa.
L'istruzione era fatta dalla polizia, e nelle carceri ordinarie. E questo posso
dirlo ed affermarlo bene perché nel 1841 fui giudicato da quella commissione.
La corte criminale senza turbare il riposo de' morti poteva dire, come ha
detto: “e vano è tutt'altro che domanda l'accusato in dette eccezioni che
rigettare si debbono”.
Queste eccezioni sono
state discusse per forma coi soli avvocati a porte chiuse, in segreto, e senza
gl'imputati a' quali la legge permette di esser presenti. Era ammalato
l'avvocato di Michele Pironti, e questi chiedeva istantemente di essere
ascoltato egli. La corte non ha voluto ascoltarlo, voleva che gli avvocati
Castriota e Russo che avevano solamente presentati i discarichi del Pironti, li
avessero discussi; ma questi scusandosi di non potere discutere perché non
sapevano le accuse e le difese del Pironti, la corte ha comandato a costui di
scegliere subito un altro avvocato, egli ha dovuto nominarlo per fargli udire
rigettare le sue eccezioni. Adunque per me ripulse no, discolpe no, eccezioni
no.
4
Dieci posizioni a
discolpa io aveva presentate, e tutte dieci contro ogni legge, contro ogni
sentimento di umanità, mi sono state ostinatamente e sdegnosamente rigettate.
Io solo, non pure fra i quarantadue imputati ma fra quanti uomini sono stati,
sono, e saranno, io solo son privato del diritto di addurre pruove in mia
difesa. Quando i giudizi si facevano colla corda, col fuoco, con l'acqua e con
la ruota, il processo era breve e segreto, sì; ma se un imputato diceva un
fatto in sua discolpa, il giudice lo verificava a suo modo, ma lo verificava.
Ed oggi nella civile Europa, ed in italia, e in Napoli, e regnando Ferdinando
II, e da magistrati napolitani, si rigettano tutte le discolpe di un accusato,
non si ammettono le pruove che egli presenta, non si ascolta quello che egli
dice. Si dirà che non erano pruove. Sia pure; ma almeno burlatemi, almeno
ammettetene una e poi fatene quel conto che credete, concedetene una a chi è
accusato a morte. Il procurator generale ed un sol giudice volevano che si
ammettessero la 7. e l’8.; volevano non si desse un esempio nuovo, inaudito,
terribile nella storia dei giudizi, un esempio che farà maravigliare tutti
quelli che lo sapranno. Io ringrazio il procurator generale e l'ignoto giudice;
e ringrazio ancora gli altri quattro, se per sentimento di giustizia hanno così
giudicato; se per altra cagione io li perdono.
Io aveva chiesto di
voler esser presente alla discussione delle mie discolpe; fu risposto, che io
ho la febbre, e non si può discutere con chi ha la febbre. Io non ho febbre,
perché non ho delitti, non ho rimorsi, non ho le mani lorde di sangue, non ho
oppresso né insultato nessuno, ma sono serenamente tranquillo perché credo in Dio,
credo nella virtù, spero nel progresso dell'umanità, non odio nessuno, perdono
i miei nemici, e, ad esempio di Cristo li chiamo fratelli; quantunque essi,
abusando di questa santa e generosa parola, mi rispondano con beffa di farisei:
“fratello”. Vedo bene che l'odio contro di me non più si nasconde ma procede
scoperto e mi toglie per fin la difesa. Sento dire: che la giustizia deve farsi
nelle cause comuni, ma nelle cause di stato chi è vinto dev'essere punito. Che
dunque mi resta a fare? Abbandonarmi alla giustizia di Dio, e dignitosamente
tacere: mi sono difeso al cospetto del mondo, mi giudichi il mondo. Ma vorrò
vedere anche questo, che per un'assertiva di una spia pagata, e per un avere
inteso dire di un uomo che poi si è disdetto, otto giudici vorranno
dichiararmi reo; e se essi per timore di non perdere il loro uffizio vorranno
vendere per cento otto ducati il mese l'anima loro, la loro fama, la fama dei
loro figliuoli, il sangue di quarantadue persone, e la sorte della patria.
Difesa
di Luigi Settembrini dettata innanzi la corte criminale di Napoli il dì 9 e 10
gennaio 1851
I
Quando il procurator
generale mi richiedeva a morte, i miei figliuoli, che dalla tribuna udirono le
sue parole, discesi giù nel carcere piangendo, ed abbracciandomi mi dissero:
“Padre che delitto avete fatto? Perché vi vogliono far morire?” Io per non
ispegnere in essi troppo presto i germi di virtù, li benedissi, e risposi loro,
che confidassero nei giudici. Confidando adunque in voi, o signori, e volendo
anche da questo sgabello dare agli infelici miei figliuoli un insegnamento, che
forse può essere l'ultimo, io vi dirò brevemente alcune parole in mia difesa;
non per aggiungere alcuna cosa a quello che disse il dotto e cordato mio difensore,
ma perché la legge mi da questo diritto, ed io voglio usarne.
Il rispetto che m'incute
la vostra presenza, la naturale mia verecondia, l'estremo pericolo che mi
sovrasta e questo momento solenne e terribile mi turbano il cuore e mi fan
tremare la mente. Onde io vi prego di ascoltarmi benignamente, e di non voler
prendere in senso sinistro, se qualche parola potrà sfuggirmi dal labbro, che
non meriti la vostra approvazione. Attribuitela piuttosto alla coscienza
dell'uomo onesto, che si sente crudelmente trafitto: io voglio difendere me,
non offendere, né accusar nessuno. Pensomi che vedeste con quanta serenità di
animo e di volto ascoltai la requisitoria del procurator generale, e le sue
parole che contro di me furono più acerbe che contro gli altri. Né io me ne
dolgo, dappoiché se io son reo, le merito, se sono innocente non mi toccano. E
son certo che lo stesso pubblico accusatore, dopo le cose dette nella difesa,
se dovesse sedere giudice parlerebbe e voterebbe altrimenti.
Siatemi dunque benigni,
ed attendete più alle mie intenzioni che alle mie parole, le quali saranno
brevi, perché se le brevi non bastano non basterebbero neppure le molte.
Signori: io sono
accusato come capo settario e come cospiratore. Sono accusato come capo
settario dalla denunzia di Luigi Iervolino, da' detti di Gaetano Romeo, dalla
lettera di Ferdinando Carafa, e dalla dichiarazione di Luciano Margherita.
Sono accusato come
cospiratore, perché Luigi Iervolino afferma, che io gli diedi quattro copie
d'un proclama per diffonderle, e perché il Margherita dice aver saputo dal
Sessa, che io era l'autore di quel proclama.
Questa è tutta l'accusa
ed i fonti dell'accusa.
Ma innanzi che io
confuti questa accusa consentitemi che faccia tre riflessioni preliminari.
1. La prima è che la
colpa vera che si vuole punire in me, non sta scritta nell'atto di accusa
stampato, e il procurator generale nella sua requisitoria fa intravederla in
una reticenza, quando dopo di aver detto che io fui sottoposto ad altro
giudizio politico, aggiunge queste parole: “a questo solo mi arresterò su di
Luigi Settembrini”. Il mio vero delitto è il mio nome; ma ricordatevi, o
giudici, in che paese ed in che tempi viviamo, ricordatevi negli anni passati
quanti uomini onesti ed intemerati hanno avuto nomi di tristi e di spie, e
quanti tristi sono stati chiamati eroi; e non vi parrà strano che io, il quale
ho avuto sempre fortuna, desiderii, opinioni moderatissime, sia creduto un uomo
trasmodante e sfrenato. Nessuno di voi mi aveva mai veduto, nessuno mi aveva
mai parlato. La prima volta che mi vedeste fu su questo scanno, e mi vedeste
non quale io sono, ma quale l'opinione del volgo mi dipingeva, mi vedeste cinto
da una nera nube, la quale voi ormai dovete squarciare, dovete conoscere il
vero, non vedere cogli occhi del volgo, giudicare de' fatti, non del nome.
2. La seconda
riflessione è una verità confermata dalla storia di tutt'i tempi e di tutt'i
paesi, che si vede in fatto giornalmente, e che io desidero che voi tenghiate
bene in mente. Questa verità è, che in tempi di civili discordie, raramente è
giusta una sentenza pronunziata in causa politica. Non intendo d'offender voi,
ma voglio dire che in questi tristi tempi si mostrano le passioni più sozze e
nefande. Ambizioni, sdegni, vendette nell'una parte e nell'altra: e quando una
parte è vinta, sorgono come vermi tutti i vigliacchi e tutti gli accusatori:
chi per vendicare offese ricevute, chi per far dimenticare le colpe sue, o
l'aver parteggiato per i vinti, chi per paura, chi per speranza di guadagno,
chi per avere un impiego, chi per mantenere quello che ha, chi per acquistarne
uno maggiore, chi per ottener grazia e protezione, e chi infine per
depravazione di cuore e per feroce istinto di nuocere. Si sbrigliano tutte le
passioni, si accendono tutte le fantasie, si esagera ogni cosa, si crede di far
sempre poco, la verità si nasconde, e nascono le calunnie politiche, le quali
crescono, secondo crescono le discordie e le persecuzioni. In questi tempi
nessuno è privo delle passioni di parte, non gli accusatori, non i testimonii,
non gli istruttori de' processi, confesso che io non ne sono privo, e credo di
non offendervi, dicendo che voi stessi non ne potete esser privi; giacché
neppure i saggi possono spogliarsi interamente de' vizii, delle virtù, degli
errori, delle passioni de' loro tempi. E se mai questo misero paese fosse
commosso da altre politiche agitazioni (che Dio allontani sempre da noi questo
male) e se la fortuna volgesse da altra parte, quante calunnie si
scaglierebbero contro di voi; di quanti fatti voi sareste accusati, che neppure
conoscete; quanti testimonii direbbero che vi hanno udito, vi hanno veduto, vi
hanno parlato: e voi non potreste confonderli altrimenti che col negare,
dappoiché gli amici vi abbandonerebbero, e coloro che potrebbero attestare il
vero, si tacerebbero per paura, e vi pregherebbero di non nominarli. Questa è
la condizion nostra presente.
Considerate dunque, o
giudici sapientissimi, la tristizia de' tempi, considerate che in quell'immenso
processo stanno vive e bollenti immense passioni, considerate chi sono quelli i
quali pretendono di avervi scoperto il vero, di quante infamie sono bruttati i
principali denunzianti e testimoni di questa causa. Avete udito che una scimia
con parola umana vi confessava di aver denunziati i propri fratelli, avete
udito che un sacerdote di Cristo si chiude in carcere per spiare e denunziare.
E costoro vi avranno detto il vero, e costoro saranno gli amici del trono e
dell'ordine? i sudditi fedeli del re? gli uomini obbedienti alle leggi? Or
mettetevi, o giudici, una mano sul cuore, giudicate e dite: “A Luigi
Settembrini ed ai suoi compagni sia tagliato il capo come a' nemici pubblici,
ed al Marotta, al Cristiano, al Iervolino, al Vittoria, al Fiorentino, al
Carpentieri, ed agli altri consorti sieno rendute grazie e data una corona
civica”. Giudici sapienti e giusti, se condannerete me, voi questo direte.
3. La terza riflessione
è, che a me solo fra tutti gli accusati è stato negato ogni discarico. Io
rispetto le decisioni della gran corte, e non me ne dolgo affatto. L'avete
creduto giusto, io piego la fronte. Ma questo, o signori, non è fatto mio, ma
vostro: e voi dovete accettare le conseguenze logiche del fatto vostro, perché
la logica e la giustizia sono una cosa.
Per mostrarvi quali
furono sempre le mie opinioni ed i miei sentimenti, io non mi avviliva a darvi
testimoni per la buona vita e fama, ma vi presentava miei scritti stampati
nelle agitazioni dell'anno 1848 e prima, e vi pregava a leggerli. Vedete, io vi
diceva, quali erano le mie opinioni nella lettera che io scrissi ai ministri
del re il 18 febbraio 1848; vedete come io protestava pubblicamente nel
giornaletto il Lume a gas nello stesso mese, che io non aveva mai
scritto, né scriveva alcun giornale, e pregava tutti a mettersi un rotolo di
neve sul capo ed un sughero in bocca: leggete quali idee politiche e religiose
io diceva nel discorso ai miei giovani l'8 marzo, quando era giunta in Napoli e
sparsa la voce nuova della repubblica proclamata in Francia; leggete per quali
ragioni il 13 maggio, o signori, il 13 maggio io rinunziava ad uffizio che mi
dava 120 ducati il mese, leggete quel manifesto che io scrissi agli elettori
nel mese di giugno, quando più ferveva la rivoluzione in Calabria, per fare
eleggere i deputati ed aprire le Camere, secondo i desiderii del governo;
leggete la lettera che in agosto io scriveva al Bozzelli, pregandolo di
ringraziare il re, che voleva darmi una pensione. Voleva io mostrarvi con quei
documenti, che un uomo che opera e scrive a quel modo, non è né può essere capo
settario, cospiratore, ambizioso, nemico di Dio e de' prìncipi, uomo pericoloso
e pazzo, e degno d'acquistare il senno sul patibolo.
Con questi scritti
ancora io voleva offrirvi una prova contro i detti del Margherita che mi dice
autore del proclama. Imperocché voi, come fanno i pittori che dallo stile
riconoscono l'autore di un quadro, paragonando tutte le mie svariate scritture,
e lo stile diverso, e le parole con quel proclama maledetto, avreste veduto e
giudicato con piena cognizione di causa, se io ne era veramente l'autore; e non
vi stareste ora al detto del Margherita, che affermava averlo udito dal Sessa.
L'accusa sosteneva che
io teneva riunioni settarie in casa, ed io vi chiedeva di esaminare tutti i
vicini, di esaminare tutti quei gentiluomini nelle case de' quali io ad ore
fisse ogni giorno andava ad insegnare, e vi faceva il conto, che non mi restava
briciola di tempo. L'accusa sosteneva, che nel carcere io cospirava ed
approvava disegni d'assassinii: ed io vi chiedeva d'interrogare l'ispettore delegato
del carcere ed il custode, per sapere che cosa io faceva, e chi veniva a
vedermi. Voi mi negaste tutto.
Ne' termini della difesa
io repulsava il denunziante Iervolino, e vi dava sette testimoni per provare
che costui era salariato dalla polizia, e per questa qualità non poteva essere
udito in pubblica discussione. Voi ordinaste “rigettarsi la ripulsa, e sentirsi
il testimone,” cioè voleste udirlo, e come testimone. Dopo che l'udiste io per
toglier fede a' suoi detti tornai a chiedervi di udire quei testimoni, e voi
tornaste a negarmeli, ordinando che io dimostrassi salariato presentando
documento. Io allora non so dire se lealmente o disperatamente vi chiesi, di
domandar voi dalla stessa polizia, se il Iervolino aveva un salario, e voi
neppure questo voleste concedermi. Questo era il mio discarico, voi me lo avete
rigettato, dunque eravate persuasi o della mia innocenza, o della mia reità, e
non voleste udire ragioni. Che se mi direte, non esser queste posizioni
pertinenti, io rispondo che allora non è neppur pertinente l'accusa, alla quale
queste si oppongono. È un fatto vostro questo, o signori, e la più chiara ed
inevitabile conseguenza di questo fatto è, che negata la difesa, non si può
ritenere l'accusa. A molti avete molto consentito, a me negato tutto. Non aveva
ragione di dire io, che il mio delitto è che io mi chiamo Luigi Settembrini?
Questo fatto, o signori,
è gravissimo, è immenso, è unico, esso solo vi dice che non potete non
assolvermi. Non mi avete rimasto altro mezzo di difesa, che il solo e nudo
ragionare, ed io in quest'aula, da questo luogo, in questa condizione che io
sono, ed in questi tempi non posso dire quello che dovrei e potrei dire. Onde
non mi resta altro, che la fiducia della vostra giustizia. Con l'arme adunque
della ragione io combatterò l'accusa; e poiché la ragione è figlia di Dio, in
nome di Dio e con piena confidenza in lui io mi difenderò.
II
Sono io capo
settario?
Immensa è questa accusa,
perché il procurator generale, sostenendo che la setta sia il centro di tutta
la macchina rivoluzionaria, e facendo dipendere da essa la cospirazione, la
seduzione delle milizie, e lo scoppio innanzi la reggia, fa comparire i capi
della setta come giganti, con in mano la leva desiderata da Archimede, e dà
loro tutta la colpa de' mali che hanno afflitto il nostro paese. Se fosse vero
il principio del procurator generale sostenuto nella sua requisitoria, fatta su
cinque processi, quasi ingegnosa epopea in cinque canti, io non so perché si
sarebbero mandati a' consigli di guerra molti processi riguardanti seduzioni di
soldati, e specialmente quello a carico di Olindo de Pamphilis, ed altri
imputati di aver sedotto soldati ed aggregatili a questa medesima setta della
unità italiana: non so perché si sarebbero giudicate dalle corti criminali di
Salerno, di Santa Maria e di Avellino altre cause di questa setta medesima. Se
era vero il principio dovevano ammettersi tutte le conseguenze che da esso
derivavano, dovevano riunirsi tutti questi altri processi al presente: non
essendosi ammesse le conseguenze, si mostra che né saldo né vero era il
principio. Il quale da altra parte non si dimostra vero da' processi del 15
maggio, del 5 settembre e del 29 gennaio, ne' quali non si parla né di questa,
né d'altra setta, né in questo processo ci è cosa che possa a quegli
avvenimenti riferirsi. Onde il fatto stesso del procurator generale, cioè la
riunione di soli cinque processi distrugge in gran parte il suo principio, che
tutto sia originato da questa setta. Io non cercherò di trovar la ragione
perché si sieno riuniti questi soli cinque processi, e lascerò al vostro senno
d'indovinarlo.
Signori, se io dovessi
parlarvi di tutto, io vi dimostrerei lucidamente l'idea madre del processo, la
quale è una sporca scrocconeria, che dalle fantasie napolitane è stata creduta
una cospirazione spaventevole: vi dimostrerei che la setta è una impostura di
pochi sciagurati; che la pretesa seduzione de' soldati non fu neppure un
tentativo di seduzione; che lo spargimento de' proclami, l'affissione de'
cartelli, e quella poca polvere che fu accesa innanzi la reggia, e che ad altri
parve un colpo di cannoncino, furono sciocche opere di pochi sciocchi, che
meriterebbero piuttosto disprezzo che pena: vi dimostrerei che in fondo non ci
è altro che intrigo di pochi impostori, la credulità di alcuni stolti, le
apprensioni troppo fantastiche nel governo, e negl'istruttori troppa credenza a
queste follie. Imperocché io credo e son certo, che tutti quanti noi che
nascemmo nel reame di Napoli, tutti senza eccezione di nessuno, abbiamo un
grande nemico in noi stessi, che è la nostra fantasia. Ma io debbo difender me,
onde vi parlerò di me solo, e vi toccherò di questa idea madre, soltanto per
quello che mi riguarda. Nondimeno voi o giudici rammentatevi di questa idea.
Sono io capo della setta!
E chi son io? Un uomo povero, non conosciuto da alcuno, non conoscente alcuno,
di mediocrissimo ingegno, di tarda favella, di pochi e sfortunati studi, un
professore di lettere, un maestro di scuola.
Ma chi vorrebbe far
credere a voi ed al mondo, che un maestro di scuola, diventi subitamente il
terribile capo di una terribile setta? Il Iervolino, il Romeo, il Carafa, il
Margherita. Parliamo di ciascun di costoro.
IERVOLINO ‑ Chi è
Luigi Iervolino? io voleva mostrarvelo con prove testimoniali: e voi non lo
avete voluto sapere. Ma che dice questo Iervolino?
L'avete udito
dall'avvocato Castriota, e dall'amoroso mio difensore signor Lauria, i quali lo
hanno confutato e distrutto. Permettete che vi aggiunga alcuna cosa anche io, e
siatemi benigni se ripeterò qualche cosa già detta.
Considerando in generale
tutto il detto del Iervolino dal suo primo libello del 23 aprile 1849 fino a
quando venne a spergiurare in pubblica discussione, si vede che va sempre
crescendo per modo che quel libello è la più mite fra le sue denunzie, la
dichiarazione fatta innanzi a voi è la più velenosa.
Questa progressione non
nasce da nuovi fatti ch'egli depone; dappoiché nella pubblica discussione egli
disse le medesime cose che nel primo libello; ma variandole, aggiungendovi,
togliendovi, contraddicendole, e spargendole di rabbioso veleno; nasce dunque
dalla malizia, dal voler mostrare che meritava il soldo. Il suo detto cresceva,
perché crescevano le persecuzioni politiche, perché egli voleva farsi merito,
perché sempre più egli si avanzava nella via della calunnia e del delitto,
perché egli diceva il falso. Se avesse detto il vero la progressione sarebbe
stata contraria, avrebbe narrati i fatti con tutte le circostanze minute, le
quali col tempo avrebbe potuto dimenticare: insomma avrebbe tolto e non
aggiunto, non variato. L'aggiungere ed il variare è pruova indubitata di stolta
calunnia.
Considerando poi in
particolare [che] le sue denunzie si trovano piene d'inverosimiglianze, di
contraddizioni, di falsità palpabili. Nel primo libello del 23 aprile non mi
nomina che a caso, non mi dice neppure semplice settario, non sa il nome di
alcuno de' miei amici, afferma soltanto che il Poerio, il Nisco ed io, gli
demmo un notamento di candidati e 60 copie d'un manifesto col quale si
inculcava di non fumare e non pagar dazii. Quando il 16 maggio è chiamato
dall'istruttore per indicar pruove e chiarimenti di qualsivoglia natura in
sostegno de' suoi detti, egli risponde che non può indicare alcun testimonio,
non può dir alcuna cosa, e contraddicendo al suo libello dice che quelle note e
que' manifesti gli ebbe da me solo: ed in pubblica discussione aggiunse, che i
manifesti furono 20 e non 60. Non parlo della nota de' candidati; io non poteva
mai avvilirmi a chiedere un onore che poi rinunziai, a chiederlo per mezzo di
un Iervolino. Chi vuol avvilirmi non mi coglie. Tutto il paese conosce se io
poteva discendere a queste bassezze. Con un'assertiva contraddittoria il
Iervolino pretende di far credere di aver ricevuto da me i manifesti. Questi
dunque furono i grandi servigi ch'egli rese alla setta da che vi fu ascritto
fino a giugno 1849? E nei moti del 5 settembre, nella dimostrazione del 29
gennaio, che fece, che disse, che gli fu detto, o consigliato di fare? Guardate
la lunghezza del tempo e la pochezza delle cose. Dice ancora nella ratifica,
che il Poerio, il Nisco, l'Attanasio, il Grillo, il d'Ambrosio, io, ed un tal
Giuseppe detto il cartonaio, eravam tutti della setta occupando anche de'
gradi.
Ma come lo sa? Ma qual
pruova ne ha dato? ma di qual grado intendeva parlare? ma perché non ne parla
nel primo e studiato libello?
Nella prima denunzia
dice, che per scriverlo settario si mossero quattro persone, il Poerio,
l'Attanasio, il Nisco, il d'Ambrosio: in pubblica discussione v'aggiunge ancora
il Pacifico, mentre che in tutto il lungo corso delle sue lunghe denunzie, non
ha mai detto che il Pacifico lo condusse dal d'Ambrosio. Nella stessa denunzia
dice che fu ricevuto settario dal d'Ambrosio, presente il Nisco: nella ratifica
del 16 maggio dice che fu ricevuto dal d'Ambrosio da solo a solo.
In tutte le
dichiarazioni scritte dice di non ricordarsi il contenuto del giuramento, le
parole ed i segni datigli dal d'Ambrosio, e ne assegna per ragione la remotezza
del tempo. In pubblica discussione gli ritorna la memoria, dice le parole,
mostra i segni, dice che il giuramento era per la costituzione, ma poi si
passava alla repubblica. Dimenticare il giuramento, dimenticare le formole
terribili con cui si prestava, e le parole e i segni co' quali doveva conoscere
altri e farsi conoscere; egli che ricorda a che strada abitavano l'Attanasio ed
il d'Ambrosio, a che numero, a che piano, egli che non è né stupido, né
smemorato! E vuol farvi credere questo? Ed egli è settario?
Nella stessa prima
dichiarazione dice, che il Nisco prima del suo arresto, cioè prima di novembre
1848 lo fece unitario: nella ratifica dice che il Nisco era unitario. In
pubblica discussione affermò che il Nisco era più che unitario, e fece lui unitario
con solamente dargli un altro segno, col quale si fece conoscere da me: e che
io poi gli dava i nuovi segni, i quali egli poi rivelava alla polizia. Adunque
il Iervolino dipendeva dal Poerio, fu iniziato dal d'Ambrosio, fu fatto
unitario dal Nisco, aveva i segni da me. E dov'è il documento ch'egli rivelava
i segni alla polizia? E qual settario è stato conosciuto per mezzo de' segni
dati dal Iervolino? Ed ebbe diploma di unitario? Ebbe le istruzioni? Che ne
fece e dove sono? E chi potrà credere che costui sia settario e dica il vero? E
per ora ricordate, o giudici, che il Iervolino fu fatto unitario prima di
novembre 1848, e che ebbe questo grado con solo un nuovo segno.
Nel primo libello dice
che fu fatto unitario in novembre 1848; dunque avrebbe dovuto aver diplomi,
istruzioni e tutto: nella denunzia del 6 giugno 1849 dice aver saputo dal
Pacifico, che il comitato aveva deciso di passare a tutti gli unitarii un segno
che non si era determinato, se doveva essere una medaglia o altro. Intanto nel
processo è il diploma del Margherita con la data del 1° marzo 1849; se il
Iervolino era settario, perché non ebbe diploma, perché fino a giugno 1849 non
sa nulla della setta?
Nel medesimo primo
libello dice i nomi de' confidenti del Poerio e del Nisco, e che non conosce
nessuno de' confidenti miei. Arrestato con me il Mignogna, egli subito dice che
il Mignogna era mio confidente: messo in confronto col Mignogna non sa dire a
che ora lo vedeva in mia casa, e come lo vedeva vestito. Nella pubblica
discussione dice, ch'egli spessissimo andava in casa Poerio, spesso in casa
mia, talvolta in casa Nisco, intanto sa dire i nomi de' confidenti del Nisco,
non de' miei.
Nella dichiarazione del
6 giugno dice, che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare un proclama, che
costui non glielo diede, che poi glielo diedi io. Nella pubblica discussione
disse che ebbe da me il proclama, e non nominò affatto il Pacifico; ma disse
un'altra cosa ch'è in contraddizione con tutte le altre che ha dette, cioè che
il Nisco lo mandò dal Pacifico, il Pacifico lo condusse dal d'Ambrosio che lo
fece settario. Cosicché nel processo scritto il Pacifico comparisce in iscena
il 6 giugno 1849: nella pubblica discussione comparisce in iscena col
d'Ambrosio cioè assai prima dell'arresto del Nisco, assai prima del novembre
1848. Dalla quale contraddizione nasce questa conseguenza. Se fosse stato vero
che il Pacifico lo accompagnò dal d'Ambrosio, egli lo avrebbe detto nelle sue
denunzie, perché questo non era fatto da scordarsi: come se fosse stato vero che
io lo mandai dal Pacifico, non se ne sarebbe dimenticato in pubblica
discussione. Falsa adunque l'una e l'altra assertiva sul Pacifico.
Nella stessa
dichiarazione del 6 giugno dice: “Siccome Settembrini tratta di continuo anzi
spessissimo con don Gabriele Rondinella libraio con bottega sotto il palazzo
Maddaloni, così credo che per ordine del Rondinella stesso abbia potuto
eseguirsi la stampa del detto proclama: anche avuto riguardo alla massima
confidenza che passa tra loro”.
Nella dichiarazione del
30 giugno richiesto a dire se mai incontrò il Rondinella in casa mia risponde:
“che non ve l'ha mai trovato, ha arguito però le intime relazioni tra costoro,
dall'avere più d'una volta incontrato il Settembrini nell'atto che usciva o
entrava nella bottega del Rondinella, sita dirimpetto non sotto il palazzo
Maddaloni”: egli però non conosce di vista il Rondinella.
Dunque ora mi vede
trattar di continuo anzi spessissimo col libraio, or mi vede entrare ed uscire
più d'una volta dalla libreria: dunque perché io entrava ed usciva aveva
massima confidenza, e commetteva la stampa del proclama.
Dunque la libreria del
Rondinella ora è sotto il palazzo Maddaloni, e si scambia con la libreria
Montuoro; ora è al suo vero posto cioè dirimpetto il palazzo Maddaloni. L'istruttore
colpito da queste brutte contraddizioni gli domanda se conosce il Rondinella,
ed egli risponde: “Io però non conosco di vista il Rondinella”. Signori, è
verissimo che io conosco il Rondinella, come dissi nel mio primo
interrogatorio, è verissimo che io andava nella libreria per comprar libri.
Questo è fatto non sospetto, è fatto necessario per un uomo di lettere: ed io
conosco quasi tutti i librai di Napoli. Ma se il Iervolino fosse venuto in mia
casa, se fosse stato con me in quelle relazioni che egli afferma, vedendomi
entrare nella libreria o spessissimo o più d'una volta, mi avrebbe avvicinato,
vi sarebbe entrato anch'egli, avrebbe almeno veduta la faccia del Rondinella.
Tanto più che essendo egli agente segreto di polizia, e credendomi in confidenza
col libraio, avrebbe potuto e dovuto conoscerlo. Or egli dice che non conosce
di vista il Rondinella: dunque non conosceva me da vicino. Se avesse conosciuto
me, si sarebbe avvicinato, avrebbe trovato un pretesto per parlarmi, ed avrebbe
conosciuto di vista il libraio. E non vedete chiaramente, o signori, che il
Iervolino era un tristo salariato, il quale mi seguiva di lontano, e spiava i
miei passi, calunniava le mie azioni più innocenti, e cercava di trovare
un'occasione, un appicco qualunque per dar colore di verità alle sue infami
calunnie? Come posso darvi io una pruova negativa, che io non conosco costui?
Egli l'afferma: io lo nego: egli è un tristo, io un onesto uomo: ma questo
ragionamento è pure una pruova che viene da lui, e che gli sorprende la
calunnia su la bocca. Egli non mi avvicinò giammai, non fu mai in mia casa e
questo è provato dal suo detto medesimo, perché egli non sa dire alcuno dei
miei amici, non li sa di nome, non li conosce. Egli forse seguendomi per via mi
vide parlare con qualcuno, e disse di aver veduto questo qualcuno in mia casa,
che era un vecchio di alta statura con baffi ed aspetto militare.
Mi si dirà che nella
stessa dichiarazione del 30 giugno il Iervolino descrive la mia casa. Sì, egli
descrive solo una parte della mia casa, cioè la sala, l'anticamera, poi lo
studio a destra e la galleria a sinistra. Questa parte una spia poteva
conoscerla o da, sé, o per relazione, specialmente perché quando io teneva
studio faceva stare la porta aperta, ed ognuno sol che avesse ficcato il capo
dentro, avrebbe veduta quella parte che il Iervolino descrive e che non vide
mai. Ma che dico: non vide? Sì, vide quando io fui arrestato. Imperocché nella
stessa dichiarazione egli dice, che quando io fui arrestato, egli erasi recato
in mia casa, ma avendo appreso abbasso al portone che eravi la polizia, corse a
darne avviso al Poerio. Giusto in quel giorno, in quell'ora ed in quel momento
egli veniva da me! Fu il caso dunque, fu il suo buon genio che ve lo condusse
allora? No: fu la sua malvagità. Egli non conosciuto da me venne tra gli sbirri
ad arrestarmi, venne in compagnia di colui al quale egli scrisse quella sua
lettera presentata dal Poerio, venne e vide quella parte della casa che
descrive; venne per godere del mio arresto e del dolore che egli gettava nella
mia famiglia, venne per feroce sbirresca curiosità, venne per accertarsi del
fatto pel quale sperava e forse ebbe compenso: venne quella volta sola.
Né la polizia ha voluto
convincersi del contrario, dappoiché non interrogava la mia vecchia serva e la
donna che abitava nel palazzo, dalle quali il Iervolino afferma che fu veduto,
e che dimandava se io era in casa. Quando io negava e il Iervolino non solo
affermava ma indicava testimoni, perché non interrogar queste due donne? Perché
si sarebbe scoperto il vero, perché si voleva mettere ombre e non luce attorno
alla dichiarazione di costui. E per la stessa ragione mi si negava di pormi in
contraddizione col mio accusatore, siccome io chiedeva sin dal mio primo
interrogatorio, perché si sapeva che io poteva confonderlo come aveva fatto il
Mignogna, poteva mostrare la calunnia fin da principio.
Or quale altra pruova
voi volete, o giudici, che costui è un ribaldo calunniatore, quando io vi ho
mostrato che egli nelle sue dichiarazioni va sempre crescendo di malizia, e ad
ogni passo dice e contraddice, che si asserisce settario e non sa neppure lo
scopo della setta, che non mi conosceva ma spiava i miei passi per calunniarmi,
che veniva in mia casa quando io fui arrestato, per pascersi e godere della mia
sventura? Quando avete veduto che la polizia stessa lo credeva mendace, e non
istruiva su le sue denunzie? E se a tutto questo aggiungerete ciò che fu detto
dai testimoni Marincola e Mazzola, e ciò che avrebber potuto dire i testimoni
che io vi dava e voi mi rigettaste; avrete la piena dimostrazione, che non solo
dovete dubitare, ma dovete essere certi che Luigi Iervolino è un calunniatore.
Ma costui ha presentato
un proclama; ne parlerò quando dirò se io sono un cospiratore.
ROMEO ‑ Gaetano
Romeo dice, e poi più volte disdice, che in casa Miele intese nominare come
capi della setta il Poerio, il Proto, il Settembrini, e più tardi v'aggiunge il
principe di Torella ed il cav. Bozzelli. Ma da chi il Romeo intese dir questo?
chi altro di casa Miele udì le medesime cose? che valore può avere il suo vago
detto, da lui solennemente disconfessato? Non dirò più del Romeo, confutato
dall'eloquente difensore del Miele, e non creduto dalla stessa gran corte, che
per il Torella ed il Bozzelli non teneva alcun conto di questo stolido detto.
CARAFA ‑ Vengo ora
al Carafa, del quale io dimentico per poco la nobile ritrattazione fatta
innanzi di voi, e ritengo la lettera che egli scrisse al prefetto di polizia un
mese dopo il suo arresto, quindici giorni dopo la grande dichiarazione del
Margherita, cioè il 29 ottobre 1849.
Prima che io esamini
questa lettera debbo dirvi, o signori, una cosa importante, la quale vi
spiegherà molte apparenti contraddizioni.
Quando io fui
interrogato in castel dell'Uovo delle stessissime cose onde fui dimandato
subito dopo il mio arresto, dopo le mie brevi risposte, io dimandai
all'istruttore perché mi trovava in quel luogo, dove si compilava il processo
della esplosione avvenuta innanzi la reggia, e l'istruttore cominciò a tessermi
una istoria del Faucitano, del Catalano, del Giordano; mi parlò qualche cosa di
un preteso alto consiglio, e mi accennò destramente quello che il Margherita ed
altri avevan detto. Questa non solo fu cortesia ma profonda sagacia
nell'istruttore, il quale così parlando e osservando gli occhi, il colore, i
gesti, le parole dell'imputato che gli sta dinanzi, gli legge chiara sul volto
o la colpa o la innocenza. Questo modo, che torna a grande lode
dell'istruttore, egli tenne con me, e dovette tenere con altri, e specialmente
col Carafa. Al quale egli parlò del Giordano, ed il Carafa disse che lo
conosceva. Ma ricordandosi l'istruttore che il Margherita pone il Carafa tra i
componenti dell'alto consiglio, gliene parlò, gli parlò dell'Agresti e poi di
me supposti presidenti; gli parlò del Pironti, del Persico, del Poerio e del
Mascilli, nominato non dal Margherita ma dal Vellucci. Insomma dovette dirgli
molto e di molti, ed il Carafa dovette rispondere che nulla sapeva. Ma di poi
stanco dal carcere segreto, afflitto da sventure domestiche, e da altre cagioni
che egli stesso ha narrate, e vedendo d'altra parte che si pretendeva che egli
avesse saputo qualche cosa, per riacquistare la sua libertà, rendersi utile al
re, e meritarne la clemenza, scelse il partito meno onesto, e scrisse una
lettera nella quale espose non quello ch'egli già sapeva, ma quello che aveva
udito dall'istruttore; e che egli malamente e disordinatamente ricordava; a cui
aggiunse qualche sua ricordanza vaga, forse qualche cosa che aveva udito dal
suo conoscente Giordano, e così formò quella strana lettera, che è ripiena
della poesia della paura.
Questa pare una
congettura, e non è che una verità dolorosa, la quale io ho saputo dalla sua
bocca, e che egli certamente non negherà. Così si spiega che questa lettera
contiene la confessione di non saper nulla, ed il desiderio di dir molto: così
si spiega che salta di palo in frasca, dice cose senza legame e senza pruove;
così si spiega che non fu scritta in una segreta, dove non si può avere né
calamaio né carta: così si spiega che innanzi all'istruttore la ratificò, ed
innanzi di voi disse che egli aveva mentito, e che gli era stata suggerita
dall'istruttore. No, l'istruttore non gli poteva suggerire quelle balordaggini:
gli disse alcuna cosa per iscoprire il vero, ed egli ripeté queste cose come a
suo modo, come se le avesse sapute, mentre le aveva udite allora. Tutto quello
che ha scritto e detto il Carafa è tutto vero, ma è vero a questo modo, bisogna
guardarlo da questo lato, bisogna considerarlo come una ripetizione di cose
malamente apprese.
Esaminiamo questa
lettera, e vediamo come essa dimostra quello che abbiamo detto, e come tutto
guasti e trasfiguri.
“Nicola Nisco una sera
scontrandomi per istrada mi fermò dicendomi, se io voleva far parte di una
setta, della quale era capo il Mamiani: io risposi di non volerne far parte.”
Se drammatizzate queste parole le troverete non solo ridicole ma assurde,
imperocché parlar di setta scontrandosi per istrada, rispondere con un secco
no, ed andar via, sono cose assurde. E poi, o signori, voi sapete che il
Mamiani è un uomo venerando e dottissimo, che non è stato mai capo di setta,
che sempre ha abborrito dalle sette, che fuggì da Roma quando vi si stabilì la
costituente e poi la repubblica. Ora io penso e credo di appormi al vero, che
il Nisco gli parlò non del Mamiani ma del Gioberti, non di una setta ma del
congresso per la costituzione, che il Gioberti tenne a Torino, invitandovi
tutti gli amici della costituzione: forse il Nisco invitava il Carafa di andare
a Torino, forse gli disse che v'andava anche il Mamiani. Questo discorso si fa
in istrada, a questo invito si risponde con un no senz'altro. Il Carafa stretto
in carcere, col capo pieno delle dimande fattegli sulla setta, ricordandosi un
nome illustre, scambiò il Gioberti col Mamiani, il congresso con la setta. Non
si può spiegare la cosa altrimenti, se non si vuol calunniare un uomo che tutta
l'Europa ha rispettato e rispetterà, finché sarà in onore la sana filosofia ed
una vita incorrotta; e che voi da codesti seggi dovete rispettare perché
rispettate la scienza e la morale. Seguita a dire, che in casa del principe
della Rocca conobbe me e l'Agresti; e per molto tempo provavano di accordo di
semplicemente ostacolare le dimostrazioni contro la costituzione.
Io non sono stato mai
interrogato se conobbi il Carafa, e come, e dove, e quando. Ora è inutile dire
altro: sia pure come ei dice. Ma che cosa era quest' “ostacolare?” Ci
opponevamo con parole o con azioni? che cosa si fece, o almeno che cosa si
diceva di voler fare? E questa società per ostacolare era composta solamente
del principe della Rocca, dell'Agresti, del Carafa e del Settembrini? Chi erano
gli altri? perché non li nomina? perché non ne fu dimandato? Egli voleva parlar
solamente di noi, ed attribuiva a noi ciò che forse conveniva ad altri.
Egli dice ancora:
“Nell'inverno scorso venne dalla Basilicata un prete per nome Maffei, il quale
si portò in casa di Settembrini, ove ebbe non so se uno o più libretti, poiché
entrò in un'altra stanza, e solo con Nicola Mignogna, io credo ebbe istruzioni
segrete”.
Io non so donde il
Carafa abbia cavato questo prete Maffei, che io non ho mai veduto né
conosciuto, e di cui il processo non offre alcuna traccia; il quale forse sarà
qualche altro scambio di nome. La pretesa venuta di questo prete in mia casa
sarebbe renduta colpevole dalle parole, “ove ebbe non so se uno o più
libretti.” Ma da chi li ebbe? Se vide che li ebbe, dovette veder anche chi
glieli dava. Ma di quali libretti intende parlare? Egli vuole affermare che il
Maffei ebbe libretti, ma non sa dire se n'ebbe uno o due, e ne adduce la
ragione: “poiché entrò in un'altra stanza e solo col Mignogna”. Ma se andò in
altra stanza, come egli vide quest'uno o due libretti? Egli stesso vede la
stoltezza che ha detto, e per correggersi ne dice una maggiore, “io credo ebbe
istruzioni segrete.” E queste parole, un non so ed un credo possono costituire
un elemento di accusa? La corte liberò subito il Mignogna, e lo udì come
testimone a discarico dato dal Persico, per sapere se il Persico ed il Maffei
furono mai in mia casa. Se dunque per questa parte non credette allora al detto
del Carafa, io son certo che non vorrà crederlo per quello che mi riguarda.
Nel brano che siegue si
scorge lucidamente quello che io dissi, cioè che il Carafa non confessò quello
che sapeva, ma ripeté stranamente quello che aveva inteso. “Arrestati Agresti e
Settembrini, non so chi in seguito sia stato il capo, poiché io nulla sapeva
del progresso ed andamento di questa setta. So che non ha guari è partito per
Campobasso Ferdinando Mascilli; mi disse andare per suoi affari particolari, ma
io lo aveva spesso veduto con Michele Pironti e Michele Persico, de' quali non
so se appartenevano alla setta.”
Vedete quante cose e
nomi sono accumulati in pochi versi. Se egli in molti luoghi di questa lettera
dice e ripete che nulla sapeva, che nulla gli si faceva sapere, come afferma
poi che Agresti e Settembrini erano stati capi? Quando, da chi, per qual modo
l'aveva saputo? Non è egli evidente, ch'ei si ricordava delle parole
dell'istruttore, che per iscoprirlo gli nominava l'Agresti, e me, ed il
Mascilli, ed il Pironti, ed il Persico? E vedete come egli ricordandosi di quel
che aveva udito dir del Mascilli, e riferendone un fatto innocente, qual'è la
gita in Campobasso, l'avvelena con questa aggiunzione, “mi disse andare per
suoi affari, ma io lo aveva spesso veduto con Michele Pironti e Michele
Persico.”
Insomma questa lettera è
uno sragionamento, un delirio, un vaniloquio, ed il Carafa che non si è
mostrato mai stolto, ha avuto ragione di ritrattarla; perché in essa non si
disse cose ch'egli sapeva, ma trasfigurò le cose che aveva intese
dall'istruttore, il quale parlava non per suggerire ma per iscoprire il vero.
MARGHERITA ‑ Se il
Iervolino nella ratifica del suo primo libello, gittando un motto in aria dice
che io e molti altri che nomina occupavam gradi nella setta: se il Romeo dice
di aver udito dire che il Poerio, il Proto, e due ministri con me eran capi
della setta; se il Carafa ripete da pappagallo che io ero capo; viene ultimo il
Margherita, e mi crea prima membro d'un comitato centrale, poi membro d'un alto
consiglio, poi segretario, poi presidente.
Signori, il Margherita è
stato combattuto e distrutto dalla eloquenza dei difensori; consentite che ne
parli anche io a modo mio. Io voglio dimostrarvi che ha mentito, voglio
dimostrarvi perché ha mentito, voglio dimostrarvi che egli invece di essere
l'Atlante del processo come si crede, è per contrario colui che ci svela tutta
la impostura e gl'impostori che si chiaman setta e settarii. Il procurator
generale fa tutto dipendere dalla setta: il Margherita dà alla setta i capi:
quindi vinto il Margherita saranno schiacciate le teste dell'idra, sarà rotta,
sgominata, confutata l'accusa.
Io ho veduto che il
procurator generale nella sua requisitoria ha fatto gran caso delle istruzioni
della setta, onde ho voluto leggere e considerare attentamente queste
istruzioni, e i documenti che seguono, e con esse alla mano io torrò la
maschera all'impostura.
Tra l'immenso numero di
accusati confessi, testimoni, e denunzianti che sono in questo processo, il
solo Luciano Margherita parla di un preteso, or comitato, or consiglio
regolatore della setta, ne nomina i componenti, e ne dice le decisioni e le
operazioni.
Imperocché il Vellucci,
il Piterà, il Faucitano, l'Errichiello, l'Antonetti, il Vallo ed altri, tutti
avevan parlato vagamente di quell'intrigo che chiamasi setta, ma nessuno di
essi era salito più su del Giordano e del Sessa, a cui eran dati i primi onori,
i primi gradi, e la direzione di un comitato di operazioni. Bisognava riempire
questo vuoto che era nel processo, e forse nell'animo dei processanti:
bisognava che le sparse fila si raccogliessero, che coloro i quali erano stati
vagamente calunniati dal Iervolino e dal Marotta fossero più direttamente
feriti al cuore. Ed ecco venire su le confessioni del Margherita.
Primamente è degno di
tutta la vostra attenzione, che il Margherita non parla per iscienza propria,
ma per detto del Giordano e del Sessa, per modo che se mai costoro un giorno
dessero pruove innegabili che costui ha mentito, voi dando fede ai sui detti, e
ritenendoli come elementi di una condanna capitale ed irretrattabile, potreste
pentirvi amaramente di avergli creduto. Chi vuol calunniare il prossimo senza
darne pruove, dice sempre di aver saputo e di aver udito da altrui. Ed il
Margherita molto dice e nulla pruova.
Nella prima
dichiarazione dice, che per fame ei divenne settario, che il 1° marzo ebbe il
diploma, che il fine della setta era di mantenere la costituzione, che udì dal
Sessa e dal Giordano, che il Pironti, l'Agresti, ed il Settembrini ed il
Persico eran membri del comitato centrale, ma che egli non li conosce, né li ha
mai veduti. Nella seconda dichiarazione afferma di aver udito dire dagli stessi
Giordano e Sessa, che questo comitato centrale dirigeva tutte le mosse del
partito liberale, che era presidente l'Agresti, io segretario, il Persico
cassiere, gli altri membri, e più di dodici. Che dopo lo scioglimento delle
Camere questo comitato prese nome di alto consiglio della setta, e che
arrestato l'Agresti ne fui io il presidente.
Signori, il Margherita
nella sua prima dichiarazione voleva dir tutto, perché incomincia così:
“Narrerò schiettamente come, quando e da chi fui tratto in inganno, e se colpa
vi è si deve ai capi attribuire”; poteva dir tutto, perché egli era unitario,
come lo dimostra il suo diploma che ha la data del 1° marzo 1849; e questo
grado di unitario è un alto grado della setta, secondo l'articolo 5 delle
Istruzioni, nel quale sta scritto, che gli unitari sono i presidenti ed i
consiglieri dei circoli. Se dunque il Margherita voleva e poteva parlare,
perché non parlò dell'alto consiglio, perché disse che non ci conosceva? perché
egli unitario scambia i nomi? Quel suo comitato centrale era cosa settaria o
non settaria? Se era cosa settaria, mi si dica dove sta nominato nelle
Istruzioni un comitato qualunque? Se non era cosa settaria, come si veniva a
mettere nella setta, che doveva avere i suoi ordini, e le sue gelose gerarchie?
Questa trasformazione di
comitato centrale in alto consiglio, non sarebbe stata la più arbitraria, la
più flagrante violazione di una liturgia non creata qui in Napoli, come si
lascia travedere dallo stesso atto di accusa, e che doveva essere rispettata da
tutta la famiglia dei settarii? Egli è un gran fatto, un fatto immenso, che il
Margherita nella prima dichiarazione abbia taciuto dell'alto consiglio, e che
ne abbia parlato nella seconda, facendolo nascere da una trasformazione assurda
ed impossibile. Questo fatto dimostra che nella seconda dichiarazione il
Margherita sicilianamente poetò, scelleratamente inventò, e per inventare
verosimilmente cercò di ricordarsi degli statuti della setta. Ma appunto questi
statuti lo confondono e lo dimostrano calunniatore.
Ma, o signori, prendiamo
le Istruzioni, e non vi troveremo parola né di comitato né di alto consiglio:
vi è solo un gran consiglio composto di sette grandi unitari, quasi dei sette
savi della Grecia senza presidente, secondo l'articolo 6. E questo gran
consiglio per i documenti stessi stampati dall'accusa non esisteva, né poteva
esistere in Napoli. Il primo documento comunica così: “II gran consiglio
della setta della unità italiana agli unitari della provincia di Napoli salute
e libertà”, e finisce: “venite anche voi, salvate” ecc. Il qual documento
evidentemente non fu scritto in Napoli. ‑ Il secondo documento è il
programma della setta; nel quale sta scritto, che “per quella parte detta reame
di Napoli, vi è un particolare ordinamento: in Napoli un circolo generale”
ecc. ‑ Dalle Istruzioni adunque e da questi documenti è dimostrato che in
Napoli, non solo non esisteva, ma non poteva esistere l'alto consiglio. Che
cosa adunque poteva esistere in Napoli secondo le Istruzioni? Niente altro che
un circolo generale, con a capo un grande unitario (art. 7). Dunque il supremo
capo della setta nel reame di Napoli, non poteva essere che un grande unitario,
non poteva essere che uno; e gli altri capi dopo di questo uno dovevano essere unitari,
cioè capi e consiglieri dei circoli, secondo l'articolo 5.
Cerchiamo di scoprire
questi capi che chiamansi unitari, e questo grande unitario. Sì col processo e
colle Istruzioni alla mano lo scopriremo.
Il Margherita ed il de
Simone hanno presentati i loro diplomi di unitari: dunque il vagabondo ed
affamato Margherita e l'analfabeta de Simone eran capi e consiglieri de'
circoli, non avevano in tutto il regno che un solo superiore, il grande
unitario.
Il Vellucci ed il
Faucitano confessarono di aver avuto diplomi di unitari, dunque anch'essi eran
capi e consiglieri de' circoli. Il Iervolino dice che fu fatto unitario dal
Nisco, dunque anch'egli era capo come Margherita e gli altri. E il Margherita,
il de Simone, il Vellucci, il Faucitano ed il Iervolino per il loro grado
potevano e dovevano conoscer tutto, almeno quanto Poerio, Pironti, Pica,
Agresti, Settembrini, perché uno tra questi poteva essere grande unitario,
tutti gli altri unitari, ed eguali di grado al Margherita, al de Simone ed agli
altri. Abbiamo trovati cinque unitari confessi, potremo fiutar gli altri, se
terremo dietro a certe parole che dicono che il Sessa ed il Giordano mandavano
diplomi di unitari a questo ed a quello senza neppure conoscerli, e per il solo
fine di averne uno scudo. Ma cerchiamo il grande unitario; secondo gli articoli
6 e 7 i grandi unitari non potevano essere più di 15, sette membri del gran
consiglio, e gli otto presidenti degli otto circoli generali delle otto
provincie in cui è divisa l'Italia settaria. Dunque in Napoli non ce ne poteva
essere che uno. E chi era? il Iervolino in pubblica discussione disse che il
Nisco era più che unitario. Prestereste fede al Iervolino? Le Istruzioni
nell'art. 5 dicono, che l'unito ha un motto, l'unitario due, il grande unitario
tre. Ma il primo documento stampato dell'accusa sono tre motti trovati scritti
in casa del Vellucci, dunque il Vellucci sarebbe il grande unitario, il capo
supremo della setta in Napoli. Ma il Vellucci dipendeva dal Margherita, ma il
Margherita dipendeva dal Sessa e dal Giordano... Vedete, o signori, quanti
assurdi, vedete quante contraddizioni, vedete se vi poteva esser setta
organizzata secondo le Istruzioni vedete se in questa setta, in questo fango
potevano stare uomini che hanno senno, che hanno onore, che hanno pudore.
Non vedete voi chiara
l'impostura e l'intrigo? non vedete voi chiara la più bassa, la più vile, la
più fecciosa calunnia? Il procurator generale diceva: “ci sono le Istruzioni,
dunque v'è la setta”. Ed io gli rispondo: leggete le Istruzioni e non troverete
la setta, ma l'intrigo di pochi, la stoltezza di molti, l'esagerazione
fantastica di tutti. Ma proseguiamo.
Secondo l'art. 16 “ogni
unito che ha dato pruova di ingegno di affezione alla causa può essere fatto
unitario dal consiglio del circolo, ed avrà il secondo motto e le seconde
istruzioni.” Dunque le istruzioni stampate sono le prime. E chi ha avute le
seconde? chi le ha presentate? chi ne parla? Eppure il Margherita, il de Simone
ed altri sono unitari. Inoltre chi vi dice che fu fatto unitario dal consiglio
del circolo? il Sessa manda diplomi a chi non conosce, il Giordano promette un
grado all'Errichiello, il Iervolino dice che il Nisco gli disse una parola
all'orecchio e lo creò unitario. Non vedete qui che il Iervolino mentisce, e che
non sa nulla, o che i due Castore e Polluce, il Giordano ed il Sessa eran due
impostori?
Secondo l'art. 15 in cui
è la formola del giuramento, i componenti di un circolo non potevano né
dovevano sapere i nomi dei componenti di un altro circolo. E intanto il
Margherita conosce e denunzia molti settari, e specialmente i capi, dei quali
in ogni cospirazione ed associazione si celano i nomi gelosamente.
Nelle Istruzioni non v'è
affatto l'uffizio di segretario, ed il Margherita mi chiama segretario. Il
procurator generale dice che è uno scambio, e che segretario e maestro è
tutt'uno. No, o signori, il Margherita siciliano, settario, unitario, non
poteva far questo scambio. E poi maestro significa chi insegna, segretario chi
prende note e scrive registri. Il procurator generale è maestro che accusando
insegna; il cancelliere è segretario che scrive i verbali e le note. Potrebbesi
far questo scambio, e dire al procurator generale signor cancelliere, ed al
cancelliere signor procurator generale?
Adunque se io era maestro,
il Margherita non poteva dirmi segretario, e mi chiama segretario perché mi si
calunnia.
Adunque il Margherita
unitario non conosce quello che dovrebbe conoscere, cioè non conosce qual nome
aveva il senato della setta, quali erano le seconde istruzioni, non conosce le
prime, e ad ogni parola le contraddice, non conosce quali erano i diritti ed i
doveri del grado avuto dal diploma, non conosce il vero scopo della setta, e
poi conosce quello che non dovrebbe conoscere, cioè i tre motti ed i nomi dei principali
capi.
Ora se il Margherita
parla egli solo di questo sognato alto consiglio, e ne parla per aver inteso
dire, e parlandone ne parla male, ed in modo contrario alle istruzioni; e nella
prima dichiarazione in cui vuol dire tutto, e dice tutto quello che sa, non ne
parla affatto; e nella seconda contraddice alla prima, non è egli chiaro più
della luce del sole, che costui mentisce, e stoltamente, scelleratamente
mentisce?
Glielo dissero il
Giordano ed il Sessa. Ma è vero che glielo dissero? E lo dissero a lui solo? E
quali pruove egli ne dà? E se glielo dissero, gli dissero il vero? Gravi
dimande che dovranno fare gran peso negli animi di giudici coscienziosi. Il
Sessa ed il Giordano potranno ritornare, potranno nominar persone, dar pruove
contrarie, sbugiardare il Margherita, ma non ci potranno rimettere il capo
tronco sul busto.
La turba de'
denunzianti, il Vittoria, il Iervolino, il Marotta, il Romeo, il Carpentieri,
il Cristiani sono tutti discordi fra loro nel nominare i capi: gli accusati
confessi sono tutti concordi nel dire che si facevan disegni e progetti non di
setta ma di comitato, ed attribuivano questi progetti ai soli Sessa e Giordano.
Il Catalano, onesto uomo, amico del Sessa e del Giordano, e partecipe di tutti
i loro segreti, il Catalano che poteva sapere i fatti veri più che il
Margherita, il Catalano che lealmente e coscienziosamente ha dichiarato tutto
quello che sapeva ancorché gli nuocesse, il Catalano merita fede più di tutti e
più del Margherita, anche avuto riguardo alle loro qualità personali. Il
Catalano vi dice che egli in maggio progettò col Giordano di formare un
comitato di operazione ed uno di direzione, il quale non mai si costituì: e con
le sue ingenue parole egli vi scopre tutto il vero nella sua nudità vergognosa,
e vi dimostra che il Giordano ed il Sessa erano due rimescolatori e
scroccatori, i quali nel caffè Errichiello tenevan bottega d'impostura,
parlavano di mille progetti, spaccavano, pesavano, promettevano; col Faucitano
dicevano di voler demolire Sant'Elmo; con un altro parlavano di uccidere e
tagliare a pezzi ministri e magistrati, ad altri che neppur conoscevano
mandavan diplomi per aver lo scudo: or proponevano di stabilir comitato e far
pagare a ciascuno trenta carlini al mese. Scroccavano Catalano il quale uomo
onesto e credulo dava danari: tentavan Gualtieri ricevitore della strada
ferrata, il quale accorto dava parole ad essi, e teneva i denari per sé;
tentavano il Carafa sperando col mezzo di costui di aver danaro dai ricchi
signori di Toledo. E quella gente che tenevano intorno, il Margherita, il
Vellucci, il Vallo, l'Antonetti miseri e senza stato, credevano le loro parole,
si nutrivano di speranze. Con questi e con altri essi usavano ogni arte,
vendevano i nomi di persone che neppure conoscevano, vendevano i nomi del
Poerio, del Pica, degli altri; e se taluno sospettando d'inganno diceva
conoscere il Poerio ed il Pica, volerne parlare a questi; allora subito per
coprire un'impostura se ne inventava un'altra, s'inventava uno scisma, si
diceva che il Poerio ed il Pica erano stati allontanati, e per dare più colore
alla cosa vi si aggiungeva un terzo ignoto. Ecco come si spiega l'invenzione di
quel preteso scisma, ecco come presa la vera idea del processo, si trova il
vero facilmente. Anche voi, signor presidente, anche voi ora potete esser
nominato come autore di fatti che ignorate, e da persone che non conoscete. A
nessuno de’ miei giudici, a nessuno di coloro che mi ascoltano non è mai
accaduto di non esser nominato da persone ignote, di non essergli stati
attribuiti fatti che non ha neppure sognati? Questo accade a tutti gli uomini,
in tutti i paesi, più spesso tra popoli fantastici come siamo noi, e più spesso
ancora in tempi di discordie politiche, di speranze, di agitazioni.
Il Sessa ed il Giordano
a taluno parlavan di setta, se poteva pagare lo scudo, a taluno parlavan di
comitato, a tutti vendevan parole. Ma la setta non era in altro che in qualche
carta che essi avevano avuta dall'estero e fatto stampare in Napoli per
venderla, come il Romeo vendeva il libretto delle istruzioni per pochi grani.
L'alto consiglio era ai Ponti Rossi nella casa dei matti, o meglio nel caffè
Errichiello, ed era composto del Sessa e del Giordano. E per questi uomini, e
per queste chiacchiere, per queste scrocconerie, si è sparsa tanta agitazione,
si è fatto sì grande rumore, si è sparsa tanta prevenzione e tanto terrore, che
il paese è spaventato, ed io con altri son condotto, a disputare del capo.
Ma ritorno alla
dichiarazione del Margherita, per ritoccarla brevemente, onde non ripetere
quello che è già detto.
Nella prima
dichiarazione del dì 11 ottobre dice che intese nominare dal Sessa e dal
Giordano soli quattro di noi, l'Agresti, il Pironti, il Persico e me, come
membri del comitato centrale, ma che non conobbe nessuno di noi, tranne il
Pironti per caso. Dopo cinque giorni, il 16, dice che ci conosce, e conosce
ancora un quinto, il Primicerio; che verso la fine di ottobre 1848 ci portò dei
bigliettini sigillati da parte del Giordano, e parlò con ciascun di noi per
riunirci la sera al caffè De Angelis, e poi andare in casa Agresti.
Non dimanderò per qual
cagione nella prima dichiarazione afferma che non mi conosce, e nella seconda
dice che mi conosce, e mi portò uno de' bigliettini; non parlerò della
inverisimiglianza di questi bigliettini, non potuti portare al Pironti perché
era in Santa Maria; non dirò che era il Giordano che li mandava, e comandava a
bacchetta uomini più riputati di lui; non dirò a che servivano i bigliettini e
sigillati, quando il Margherita doveva parlare a ciascuno di noi. Egli mi vide,
mi parlò, mi vide al caffè de Angelis, mi vide scendere dalla casa Agresti. Sia
pure. Io fui arrestato il 23 giugno e stetti in prefettura sino al 29 giugno,
come si dimostra dai verbali di disuggellazione delle mie carte e del mio
interrogatorio: e fui messo in una stanza superiore che segue una stanza più
grande dove stanno altri detenuti comuni. Or il Margherita come rilevasi dal
certificato del prefetto vol. 25 fol. 107, fu arrestato la prima volta per
mancanza di carte giustificative la notte del 24 al 25 giugno ed uscì ai 3
luglio, e per così lieve cagione non fu certo messo in segreta, ma nella stanza
grande per la quale io ogni giorno doveva passare andando ai miei
interrogatorii. Or se il Margherita mi avesse conosciuto prima, mi avrebbe
riconosciuto allora, e nella sua lunga dichiarazione avrebbe parlato che mi
rivide in prefettura, od almeno non avrebbe sbagliata l'epoca del mio arresto,
essendo l'epoca dell'arresto suo, non avrebbe detto che io fui arrestato in
luglio. Tanto più che egli parla di cose che dice di aver sapute in prefettura;
avrebbe dunque potuto, anzi avrebbe dovuto ricordarsi e parlare di me. Mi
direte che queste notizie topiche della prefettura non nascono dal processo. Ed
io vi rispondo: “dunque il vero non istà se non nel processo? E se io ne avessi
fatta una posizione a discolpa, voi non me l'avreste rigettata come avete
fatt[o] delle altre?”
Il Margherita vuol far
credere che arrestato l'Agresti io fui eletto presidente, che in mia casa riuniva
quel consiglio che voi, signor presidente, chiamate aulico, che in una di
queste riunioni vi fu quel dissidio col Poerio e col Pica, e che in un'altra si
decise di fare la rivoluzione, e però fu dato al Pironti l'incarico di visitare
i circoli. L'Agresti fu arrestato il 16 marzo: dunque queste cose avrebber
dovuto accadere dal 16 marzo fino al 23 giugno, giorno del mio arresto. Intanto
nel vol 3° fol. 47 ci è un certificato del 4 aprile con cui si dice che
sapendosi stragiudizialmente che il Leipnecher aveva trattato con persone
attendibili fra le quali il Settembrini, s'inculcava il commessario di
fargliene apposite dimande. Dunque la polizia fin dal 4 aprile mi vigilava e
non vedeva radunarsi persone in mia casa. L'Iervolino che scrisse il suo primo
libello il 23 aprile, e che mi spiava da presso i passi ed i respiri non ne
dice nulla, non parla di nulla. Come dunque credere più al Margherita che alla
polizia che allora mi vigilava? In fine io su queste pretese riunioni vi
dimandava d'interrogare tutta la mia vicinanza, e voi mi rigettaste la dimanda.
Ma la calunnia apparisce
schifosamente chiara quando il Margherita asserisce che il Giordano ed il Sessa
gli dissero che in luglio, quando era già arrestato il Pironti, l'alto consiglio
stabilì di fare uccidere tre personaggi; che ne dimandò consiglio al Pironti,
all'Agresti, al Settembrini arrestati in Santa Maria Apparente, inviando ad
essi lettere per mezzo del Vellucci e dell'Antonetti: che noi approvammo gli
assassinii: che il Giordano ed il Sessa diedero a lui l'incarico di trovare un
sicario, che il Giordano gli diede due pistole cariche, ed il Sessa gliene
diede una.
Quando avvenne questo
fatto? Il Margherita facilissimo a falsare le date dice in luglio: ma ei
soggiunge due particolari che fissano indubitato il tempo: dopo “l'arresto del
Pironti, ed il Pironti consultato in Santa Maria Apparente.” Il Pironti fu
arrestato il 3 agosto: dunque questo fatto avrebbe dovuto avvenire dopo il 3
agosto. Ma noi abbiamo due altri fatti cioè che il Giordano fu arrestato nello
stesso giorno 3 agosto e liberato il 19, e che il Margherita fu arrestato
l'ultima volta il 18 agosto, ed il 30 fu messo in barca per Siracusa. Se dunque
il Giordano fu liberato il 19 agosto, come poteva dir queste cose al Margherita
arrestato il 18, come poteva dargli due pistole cariche? Qui la falsità è
manifesta, è vergognosa, è infame. Inoltre l'Antonetti ed il Vellucci che han
dette tante cose, han negato sempre di aver portato lettere in Santa Maria
Apparente. Inoltre in agosto, essendo tutti arrestati i pretesi componenti
dell'alto consiglio, il Persico in Francia, il Primicerio ed il Proto, esuli,
rimanevano solamente le quattro teste forti del Carafa, dell'ignoto Venusino,
del Sessa e del Giordano. Anzi rimanevano soli come furono sempre soli il
Giordano ed il Sessa. Ma si vede chiaro che anche il Giordano è calunniato dal
Margherita, il quale asserisce che il Giordano gli disse cose, che non gli
potette dire. Qui taluno dirà: “Glielo disse il Sessa”. Vedete, o giudici, come
io ragiono di buona fede. No, perché il Margherita dice rotondamente ed
esplicitamente che Giordano e Sessa glielo confidarono, anzi che il Giordano
gli diede due pistole cariche, e il Sessa una; perché il Margherita parlando
più innanzi dei sei assassinii nomina il solo Giordano e dice: “Giordano mi
diceva che ad esso era stata affidata l'esecuzione di tali assassinii con
l'aiuto e cooperazione di Sessa”: e dice ancora che il solo Giordano gli
confidò che aveva dato l'incarico al Basile e al Sersale di trovare i sicarii,
e il solo Giordano li pagava. Non si può dunque ammettere questa ipotesi, la
quale è contraria ai detti espliciti del Margherita.
Ma che vado io più
seguitando questo gran poeta del processo, questo gran sognatore, che finalmente
si è svegliato perché tocco dal dito di Dio? Dove sta l'altissimo immaginato
consiglio, dove i presidenti, dove tutte le [f]ole che se non fosser terribili
sarebber ridicole? Io credo che tutto è distrutto. Il Margherita ha mentito, il
Margherita ha ingannato l'istruttore, e se voi gli credete e riterrete i suoi
detti per elementi di condanna, ingannerete voi stessi ed il mondo.
Ma come ha mentito? ma
perché ha inventati tanti fatti? donde li ha cavati? come tutto, tutto è
invenzione? Signori, il Margherita ha mentito perché ha creduto ai sogni ed
alle fantasie del Giordano, del Sessa, e le ha sicilianamente esagerate: ha
narrati i discorsi come fatti, le fantasie come realtà, i desiderii come
azioni, i peccati di pensiero come peccati di azione; ha mentito per acquistar
merito al cospetto della polizia, mostrando che si disegnavano assassinii ed
egli astutamente li faceva riuscire a vuoto: ha mentito perché vedeva che
quanto più calunniava gli altri, tanto più migliorava la sua condizione, più si
rendeva accetto alle autorità; ha mentito per la stessa ragione che si fece
settario, perché sperava un pane insanguinato guadagnato con la calunnia.
Né si dica che la sua
dichiarazione fu spontanea, solo perché l'istruttore diceva che egli il 16
ottobre si fece chiamare e spontaneamente rivelò. Imperocché due fogli prima,
al fol. 52 vol. 25 sta scritto, che lo stesso commessario nello stesso giorno
16 ottobre “volendo mostrare al detenuto Luciano Margherita il diploma a lui
intestato lo abbiamo fatto rilevare dalla prigione, e venire in nostra
presenza.” E quella dichiarazione non si fa in un giorno, non si fa d'un fiato.
E forse le aggiunzioni e le postille sono la sola verità che il Margherita ha
detto.
Io non dirò che il
procurator generale ha dichiarata mendace questa dichiarazione, cercando
libertà pel Pallotta, pel Sersale, e pel Gualtieri ancora e pel Persico. Non
dirò che la corte con la sua decisione del 19 dicembre 1849 non confermò
l'arresto pel Gargano, pel Cuomo, pel Palomba; ma dirò che il solo Margherita
affermava che Giorgio Haetzel parlando con lui gli profferiva un soldato
congedato per commettere un delitto orribile, il regicidio: e la corte con la
stessa decisione diceva che per Haetzel non c'era luogo a proseguir
l'istruzione. Dunque la corte che credeva mendace il Margherita quando asseriva
un fatto di scienza propria, lo crederà quando dice di aver saputo da altri che
io era capo della setta?
Per tutti questi fatti e
queste considerazioni voi vedete, o giudici, combattuta e distrutta l'assertiva
che io sia capo‑settario. E non è altro che un'assertiva senza alcuna
pruova quello che si dice dal Iervolino, dal Romeo, dal Carafa, dal Margherita.
Sarò stato forse un
semplice settario? Ma chi mai dei settarii confessi mi chiama suo complice? Chi
mi conosce ascritto alla setta? In quale circolo sono stato ascritto? Qual
giuramento ho io dato a cotesta setta? per le mani di chi? Quale carte o
documenti settari mi si possono attribuire, o si sono trovati in mio potere?
Non resta contro di me
che un'assertiva vaga e bugiarda, nata e cresciuta dalla prevenzione. Ed io
confido che voi nella vostra sapienza e giustizia valuterete queste ragioni, e
direte che io non sono né capo né settario.
Sono io cospiratore?
La setta cospirava, diceva
il procurator generale, ed i fatti di cospirazione sono la tentata seduzione
dei soldati, la diffusione e l'affissione dei proclami, lo scoppio innanzi la
reggia.
Io non sono accusato da
nessuno di aver tentato di sedurre soldati né so se altri l'abbia tentato: ma
so certamente quello che tutti sanno, che nessuno de' nostri soldati disertò le
regie bandiere, o si fé propagatore di ribellione fra i suoi commilitoni. Per
modo che l'invito ad essi fatto, se pur fosse vero, rimasto senza accettazione
e senza effetto, non potrebbe reputarsi fatto di cospirazione, ossia fatto
concertato e conchiuso fra seduttori e sedotti. Negli anni passati nacquero e
crebbero fieri sdegni tra la milizia e la cittadinanza, miseri effetti delle
civili discordie: ma questi sdegni pel tempo, per la buona indole degli uomini,
e per le cure dei capi della milizia e del governo andarono a poco a poco
mancando, perché tutti sentirono il bisogno dell'ordine, della pace e della
sicurezza comune.
Quando eran più vivi ed
accesi questi sdegni funesti, sursero le accuse di tentata seduzione de'
militari; perocché allora ogni soldato vedeva in un cittadino un suo nemico,
nelle costui parole di pace vedeva un'insidia ed una seduzione. False quindi o
almeno molto esagerate erano quelle accuse, perché fatte nel bollore degli
odii, perché fatte solo da pochi soldati e pochissimi sottuffiziali, i quali
non avendo potuto col valore ottener gradi ed onori, si diedero al tristo
mestiere di calunniare, molti de' quali non degni di portare l'onorata divisa
sono stati licenziati.
Nessun uffiziale né
inferiore né superiore ha detto mai che alcuno abbia tentato di sedurlo. Eppure
tra i pretesi cospiratori sono moltissimi gentiluomini, che avrebber dovuto e
potuto con più successo sedurre gli uffiziali che i soldati, imperocché sedotto
un colonnello è sedotto un reggimento; ed essi più facilmente avrebbero potuto
far conoscenza degli uffiziali, che de' soldati. Per questa grave ragione le
accuse che vengono dai più bassi e cattivi gregari, si dimostrano intuitivamente
false. E false ne dichiarava moltissime con sue decisioni il consiglio di
guarnigione di Napoli, il quale facendo quella giustizia, che noi siam certi
che otterremo da voi, e giudicando ogni giorno di queste cause di seduzione,
pesando i fatti e dando ad essi il loro giusto valore, e tenendo conto della
tristizia dei passati tempi, manda assoluti gli accusati, rallegra la città
trepidante, rallegra il principe desideroso soltanto di giustizia. Grande e
bella dimostrazione che qui non si è mai cospirato contro il governo; non si è
mai tentato di rivesciare il trono di Carlo III, il quale da provincia ci fé
nazione; ma da qualche stolto non si è fatto altro che fantasticare e
chiacchierare: ed un governo forte disprezza e non teme le chiacchiere e le
fantasie. Grande dimostrazione che gli odii sono cessati; e che i fatti
deplorabili dei passati anni debbono essere giudicati senza odii e senza
prevenzioni.
Proclama
Vengo alla diffusione
del proclama sedizioso, che è nella seconda specie dei fatti della pretesa
cospirazione.
Il Iervolino presentò
quattro copie di un proclama e disse di averle ricevute da me. Trovata dopo
quattro mesi una copia in casa del Vellucci, questi disse averla avuta dal
Margherita che gli confidò che era stato composto da me; interrogato il
Margherita rispose che glielo aveva detto il Sessa. Esaminiamo se io l'ho
diffuso, se io l'ho composto.
Nel vol. 20, fol. 3, è
un certificato nel quale si dice: “che emergendo da indicazioni riservate di
alta polizia che l'orefice Iervolino avesse scienza e potesse somministrare
chiarimenti intorno alla diffusione di un proclama sedizioso circolato nei
scorsi giorni per questa capitale, il commessario Maddaloni in seguito
d'incarico superiore ha disposto chiamarsi il suddetto Iervolino, onde sentirlo
opportunamente. Napoli 6 giugno 1849”.
Chiamato nello stesso
giorno 6 il Iervolino ed interrogato risponde, scrivendo di sua mano la
dichiarazione, e dice: “ieri 5 ne ho ricevute quattro copie dal Settembrini, le
ho ritenute, e son pronto ad esibirle per uso di giustizia”.
Da questo certificato si
scorgono due verità: che si aveva la prescienza che il Iervolino sapesse alcuna
cosa del proclama, e che questa prescienza non l'aveva il commessario
Maddaloni, al quale il Iervolino aveva presentate tutte le sue denunzie,
cominciando da quella del 23 aprile, ma l'aveva l'alta polizia. Non si può dire
che l'alta polizia avesse avuta questa prescienza dallo stesso Iervolino,
perché costui si sarebbe presentato spontaneamente al Maddaloni, e non avrebbe
aspettata una chiamata, avrebbe scritto un libello denunziatorio, avrebbe
voluto farsi un merito maggiore, il cancelliere avrebbe regolarmente
certificato che il Iervolino si presentava spontaneo, ed il Iervolino non
avrebbe detto nella sua dichiarazione, “li ho ritenuti e son pronto ad
esibirli,” ma “li ho esibiti.” Egli è dunque evidente che i primi indizi del
proclama, la prescienza che ne aveva l'alta polizia non le venivano dal
Iervolino, ma da altri; e che Iervolino presentò il proclama non
spontaneamente, ma chiamato. Chi dunque dava questa prescienza?
Ricordate, o giudici
sapienti e giusti, ricordate che quando io vi dava quei sette testimoni, vi
diceva ch'essi vi avrebber detto, che il Iervolino aveva dodici ducati al mese,
e vi avrebber dette molte altre cose ancora. E queste parole ve le ripeteva il
mio avvocato.
Quei testimoni vi
avrebbero detto e provato, che Luigi Iervolino confessava loro di essere stato
costretto a dire che aveva ricevuti i proclami da me, che glieli aveva dati, e
lo aveva costretto quel medesimo a cui egli scrisse quella lettera presentata
dal Poerio, quel medesimo che faceva mettere in carcere Bernardino Cristiano,
quel medesimo che lo mandava dietro di me per spiare i miei passi, quel
medesimo che co' figliuoli veniva ad arrestarmi, quel medesimo col quale venne
il Iervolino in mia casa tra i birri. Questo vi avrebber detto e provato quei
sette testimoni: voi me li negaste. Or non pretendo che crediate alle mie
parole, ma che veggiate quanto importava alla mia difesa quello che voi mi
negaste: o che ora né per equità, né per coscienza, né per giustizia potete
prestar fede alle assertive di un mendace, di uno che denunzia per prezzo.
Ma vediamo che dice il
Iervolino nella sua dichiarazione del 6 giugno: “Che il 2 giugno venne in mia
casa; che io gli domandai se egli era in buona corrispondenza col mio fido
Ludovico Pacifico, e che avendo risposto egli affermativamente, io dissi di
cercare il Pacifico, e chiedergli qualche proclama di quelli che io gli aveva passati:
che la sera dello stesso giorno 2 andò dal Pacifico, gli chiese i proclami, e
costui gli disse di non averne più, di averli tutti distribuiti; che il giorno
5 venne da me e mi manifestò la risposta del Pacifico, che io entrai nello
studio, e nell'uscirne gli diedi quattro copie di un proclama in istampa,
dicendogli essere già stati distribuiti nella capitale, e premurandolo di
diffondere le quattro copie in qualche comune. Che egli le ritenne ed è pronto
ad esibirle. E aggiunge in fine che vedendomi spessissimo trattar col
Rondinella, crede che costui abbia stampato il proclama”.
Se la polizia il giorno
6 avesse avuto veramente dal Iervolino queste indicazioni, il quale diceva:
ieri 5 giugno il Settembrini mi ha dati questi quattro proclami, e li teneva
nel suo studio; avrebbe nel medesimo giorno 6 mandato ad arrestarmi, e cercarmi
minutamente la casa e lo studio, avrebbe fatto lo stesso col Pacifico e col
Rondinella. Io per contrario sono arrestato il giorno 23 giugno: la libreria
del Rondinella è ricercata il 1° luglio, dopo un'altra dichiarazione del
Iervolino, e per ordine di un altro istruttore: ed il 4 luglio è ricercata la
casa del Pacifico, il quale non è neppure arrestato. Non si può dire che questo
tempo, tra la dichiarazione del Iervolino ed il mio arresto fosse perché la
polizia raccoglieva altre pruove, perché in processo non vi sono altre pruove,
ed immediatamente dopo il verbale della presentazione dei proclami che ha la
data del 6 giugno, viene il verbale del mio arresto del giorno 23. E poi se vi
erano in vista altre pruove, queste si potevano raccogliere anche dopo il mio
arresto: e poi non si doveva trascurar la prova di un possibile reperto in casa
mia.
Quando la polizia mi
arrestò, avendo trovati in mia casa un distributore di libri ed il mio amico
Mignogna, li arrestò, perché mancanti di carte giustificative, e ricercò le
loro case lo stesso giorno 23 giugno. Dunque la polizia si fa di fuoco, e
ricerca subito le case di costoro che furono arrestati per semplice sospetto; e
si fa di gelo per me che aveva avuta quella denunzia dal Iervolino il 6, e
viene ad arrestarmi il 23. E non vedete, o signori, che dal processo apparisce
chiaro quello che io affermava, che i sette testimoni vi avrebber detto, cioè
che il Iervolino ebbe il proclama da altri, e fu costretto a dire che lo ebbe
da me?
Ora vediamo con quali
particolari il Iervolino dice di aver avuto da me i proclami. Ogni ribaldo può
dire di aver ricevuto da un onest'uomo una carta, un pugnale, un veleno; né
perché egli lo dica, un giudice gli deve prestar fede, se non ha altre pruove,
le quali debbono esser di tal peso da togliere la fede all'onesto uomo e darla
al ribaldo. E qui permettetemi che io dica, che il procurator generale
trasportato dal zelo dell'accusa faceva del Iervolino un fior di galantuomo, e
di me un ribaldo, diceva che io confessai di conoscere il Pacifico, riteneva
senza altro che io, perché sono io, composi e dispensai il proclama, e leggendo
con giusto sdegno e raccapriccio quella pazza e scellerata scrittura, disse gravi
e cocenti parole contro di me, e finì dicendo: “sia segno degli errori cui può
trascinare una colpevole e mal frenata passione”. Io vi ripeto che non mi
lamento di queste parole: se son colpevole merito questo e più. Ma il
procurator generale nondimeno, prima di scagliarmi addosso quella tempesta,
poteva leggere nel processo il mio interrogatorio del 27 giugno, le dimande che
mi furono fatte e le mie schiette e leali risposte:
“D. Conoscete Ludovico
Pacifico?
R. No, signore, nemmeno
di nome.
D. Conoscete il libraio
Gabriele Rondinella?
R. Sì, signore, ci
comprava libri.
D. Da quanto è che non
lo vedete?
R. Da circa tre mesi.
D. È venuto mai in
vostra casa?
R. Non mai.
D. Conoscete l'orefice
Luigi Iervolino?
R. Nemmeno per nome”.
In qual pagina del
processo sta dunque che io dissi di conoscere il Pacifico? In qual pagina sta
che il Pacifico fu dimandato di me, se egli fu arrestato in ottobre e perché
nominato dall'Errichiello? Ah, signori, leggendo bene il processo non troverete
provato il delitto che a me si attribuisce, il mio vero delitto son due parole,
è il mio nome e cognome, è quella nera nube di prevenzione che mi circonda, e
per la quale qualunque cosa si dica di me, tutto par vero, tutto è credibile.
Io non conobbi mai il Pacifico, io lo vidi la prima volta e gli parlai innanzi
la cappella del carcere. Iddio conosce il vero, e lo avreste potuto conoscere
anche voi se l'istruzione fosse stata coscienziosa, se almeno il Pacifico fosse
stato dimandato di me. Se voi, o signori, foste stati invisibilmente presenti
quando io vidi il Pacifico, quando io vidi il Margherita, oh quante cose che
son scritte nel processo voi le avreste vedute brutte e scellerate calunnie.
Voi dovete stare al processo. Ma il vero sta sempre in un processo politico istruito
come questo? Io sto con la mia coscienza.
Ma esaminiamo i
particolari. Il Iervolino dice che io lo mandai dal Pacifico per farsi dare i
proclami. Ma in pubblica discussione dimentica questo particolare, e questa
dimenticanza è un fatto gravissimo e di peso immenso. Se egli vi fosse andato
non avrebbe potuto dimenticarsene, perché questa specie di fatti non si possono
dimenticare. Egli dunque quando mi calunniava volle fare un'altra sua vendetta,
ed inventò una relazione tra me ed il Pacifico, e perché l'inventò allora, se
ne dimenticò di poi in pubblica discussione. Quelle cose che gli uomini per
comun senso e per solita cautela soglion fare tra due soli, il Iervolino dice
che sono accadute tra più: per farlo settario ci volevan cinque persone: per dargli
un proclama ve ne bisognavan due, bisognava che egli andasse e venisse per più
giorni. E se io aveva i proclami nello studio, come egli dice, se poteva
darglieli io, perché lo mandava dal Pacifico? Il procurator generale mi
risponde con una supposizione: “perché forse il Settembrini voleva ritirarne
una porzione dal Pacifico”. Ma come ritirarli, se si dice che io voleva
spargerli? E se anche io ne aveva pochi, non ne poteva dare io anche una sola
copia all'ottimo e fedelissimo Iervolino? Dunque si combatte una difesa e si
cerca di confermare un'accusa con vaghe supposizioni?
Ma nel volume 15 del
processo sorge un altro elemento. Gaetano Romeo nel 15 luglio confessa di avere
stampato egli quel proclama quaranta giorni fa (che corrisponde proprio al 5
giugno) e per incarico dello sventurato Raffaele Crispino, il quale io non mai
conobbi, e col quale io non ebbi alcuna relazione, come dimostra il processo.
Della confessione di Romeo non si può in alcun modo dubitare, e deve credersi
che il proclama fu stampato il 5 giugno. Or come si può credere al Iervolino,
che dice essere andato dal Pacifico la sera del 2, e che il Pacifico gli disse
di aver dispensati i proclami e non averne più? Se io non dava proclami perché
non ne aveva, se il Pacifico li aveva tutti dispensati ed il 2 non ne aveva
più, dunque avevan dovuto essere dispensati molto prima del 2, e molto più
prima ancora avevan dovuti essere stampati. E non vedete voi qui chiaramente
che il Iervolino mentisce, che il proclama fu stampato effettivamente il 5
giugno come dice, il Romeo, che non aveva interesse né volontà di mentire il
tempo; che le quattro copie della tipografia del Romeo passarono nello stesso 5
in mano di qualcuno; che questo qualcuno credette che l'avessi scritto io
(perché io sventuratamente ed ingiustamente sono stato creduto uno scrittore
velenoso), che questo qualcuno chiamò il Iervolino, e gli comandò dire che
l'aveva ricevute da me? E trasparisce il bieco pensiero dalla stessa
dichiarazione di Iervolino, il quale dice che io gli diedi il proclama, non già
che io lo composi, perché un uomo della sua risma non poteva sapere questo
segreto; ma fa intravedere che io l'avessi potuto scrivere, mettendo in mezzo
la sua stolta congettura, che il Rondinella l'aveva stampato. E intanto quel qualcuno
andava spargendo sordamente, che io n'era l'autore, la quale voce come un'eco
stanca fu ripetuta quattro mesi dopo dal Margherita. Così spiegherete la
inesplicabile prescienza, così la tardanza del mio arresto, così le stolte e
scellerate circostanze dette dal Iervolino, così la quiete in cui rimangono il
Pacifico ed il Rondinella parecchi giorni.
Ma chi compose quello
scellerato proclama? Il Margherita dice aver saputo dal Sessa che l'avea
composto io. Ammetto per poco che il Sessa glielo abbia detto: ma quando glielo
avrebbe dovuto dire? Dopo il mio arresto, dopo che per tutta Napoli si era
sparso che io era stato arrestato per un proclama. Si disse proclama, si nominò
Settembrini, si conchiuse Settembrini ha scritto un proclama, mentre io era
stato arrestato come spargitore non come autore. La voce era stata sparsa anche
ad arte, ecco come il Sessa poté dirlo al Margherita. Ma voi, o giudici, dovete
chiedere: “ma il Sessa lo ha detto veramente al Margherita?” E se glielo ha
detto, gli ha ripetuto una voce vaga, o quello che egli sapeva? Ci è pruova che
il Sessa l'abbia saputo da me? che io l'abbia dato al Sessa? Chi dice d'averlo
saputo da me? chi ha presentato mio manoscritto? forse se n'è trovata copia,
segno, traccia in mia casa? Il solo Iervolino dice averlo ricevuto da me. E chi
sia il Iervolino, e che scellerate calunnie abbia scagliate contro dì me, io
l'ho già dimostrato. E poi si è interrogato il Crispino? che ha detto? mi ha
mai conosciuto? Eppure egli ed io siamo accusati dello stesso reato, che né
l'uno né l'altro abbiamo commesso.
Ma leggete, o giudici,
questo proclama nefando, consideratelo ed avrete una pruova morale, che non
solo io non poteva scrivere quelle scellerate parole, ma non poteva approvarle,
non poteva diffonderle. Le furiose parole chiamano il popolo a prender le armi,
le pietre, le fascine, bruciar le case, uccidere tutti, non aver pietà di
nessuno, e tenersi pronti come se fosse dimani ad esser sicuri che c'è chi
dirige tutto: consigliano di uccidere e d'incendiare, finiscono con tre gridi
di morte e tre di evviva. Contro questo proclama stanno i miei scritti, che voi
non avete voluto leggere; stanno le azioni della mia vita che voi non avete
voluto verificare. Giacché vi sono costretto, io debbo dirlo, o signori, io non
sono stato mai pazzo, e questo proclama è scritto da un pazzo; io non ho mai
consigliato delitti, io non ho mai gridato evviva o morte a nessuno; io quando
molti gridavano, ed il gridare era vanto, io taceva; quando molti miravano a
cose nuove, io predicava ai giovani temperanza, moderazione, amore della
religione, rispetto alle leggi ed al principe. Non sono assertive queste, ma
son pruove che stanno nei miei scritti che sono pubblici, ed ognuno può
leggerli. Io poi mi sarei subito mutato, avrei rinnegata la mia vita, i miei
scritti, le mie opinioni, le mie azioni, e mentre tutta Europa tornava
all'ordine, mentre centomila soldati nostri formavano un grande e fiorito
esercito io avrei dichiarato guerra all'Europa, avrei voluto ridurre gli uomini
sozzi beccai e spietati carnefici, e scannarsi l'un l'altro, e spandere sul
nostro paese i furori bestiali di una guerra civile. Signori, signori, non
offendiamo la logica perché offendiamo Dio.
Ma in nome di Dio mi si
dica chi altro che il Iervolino ha inteso parlare di tale proclama? Dove si è
trovato affisso? Donde è stato defisso? Quale pruova è in processo che abbia
avuta quella pubblicità che la legge esige come requisito necessario per
stabilire il pericolo di tali stampe? Da soli questi estremi legalmente assodati,
secondo le norme dell'articolo 140, voi avreste potuto, o giudici, desumere
d'esservi stata quella “provocazione diretta agli abitanti del regno a
commettere alcuno dei reati preveduti nell'articolo 123 e seguenti LL. PP.”
Insomma la polizia sa
che circola un proclama, e che il Iervolino ne aveva notizia; chiama costui il
quale ne presenta quattro copie, e dice: “ieri me le ha date il Settembrini”.
La polizia stessa quasi non gli crede, e solo dopo 17 giorni mi arresta.
Vengono il Vellucci ed il Margherita dopo 4 mesi, e dicono: “Abbiamo inteso che
questo proclama era stato composto dal Settembrini”. Ecco il fonte dell'accusa;
ecco perché si vuole che io sia impiccato per la gola, come un cospiratore che
tentava di rovesciare il trono. Non c'è altro che un'assertiva, ed una voce
vaga: un aver inteso e nulla più.
Se l'assertiva di un
denunziante salariato ed una voce vaga avranno più peso che queste ragioni vive
e forti, avranno più fede che le azioni, gli scritti, i sentimenti, e trentotto
anni di vita onesta, nel mio pericolo io vedo i pericoli di tutti gli uomini
onesti, anche de' più fedeli e provati amici del trono e del principe, perché
un'assertiva di un denunziante pagato ed un si dice può mandarlo alla forca.
Ora toccherò gli ultimi
fatti della pretesa cospirazione, cioè i pochi cartelli manoscritti affissi
nelle notti degli 8 e 16 settembre, e la esplosione che si qualifica col nome
di attentato per rovesciare il governo.
Ho io avuto parte in
questi fatti?
Il Faucitano nel suo
interrogatorio del 23 settembre dice: “Giordano non nominò colui che aveva i
cartelli scritti; però da Catalano venni a sapere, che egli aveva fatto il
borro del cartello di cui Giordano intendeva parlare; e che fattolo vedere
nelle prigioni a Poerio e Settembrini, il primo lo voleva moderato verso il
governo, l'altro, cioè Settembrini, intendeva farlo vibrato; ma che egli
rifacendolo vi aveva dato del settembriniano e del poeriano: e così li aveva
fatti affiggere senza nemmeno indicarmi per parte di chi”.
Ecco uno dei soliti si dice
ed ho inteso, una di quelle solite voci che mi han condotto sino a temere pel
capo. Interrogato il Catalano su questo fatto risponde con quella lealtà e
schiettezza ch'è tutta sua propria.
“Mentre tutti e tre
(Catalano, Florio e Piterà) stavamo scrivendo circa le 23 ore, ci pervenne
anche Vellucci, ed animandosi quistione tra me e Piterà su di una frase di
detti bigliettini, che Piterà diceva non essere acconcia, io sostenni il
contrario, e per mera millanteria, mentre in realtà non ve n'era niente, dissi
di averli fatti leggere a Poerio e Settembrini, il primo detenuto in San
Francesco e l'altro in Santa Maria Apparente; anzi per dare più tuono alla cosa
dissi pure che Poerio era sempre transigente, perché aveva fatto togliere
alcune parole dal proclama, ma questo è meramente falso, perché tali individui
non li conosco affatto.”
Signori, siccome ci sono
alcune azioni le quali bastano a rivelarci interamente tutta la vita ed i
sentimenti di un uomo, così ancora nei processi ci sono certi fatti, certi lampi,
certe circostanze, le quali bastano esse sole a discoprire la verità, che
spesso negli avvolgimenti giudiziari si nasconde al più attento e scrupoloso
magistrato. Due fatti di questa natura io trovo in questo processo, due fatti
opposti ed estremi, ma due fatti che vi svelano tutto il vero, tutto quello che
si voleva fare e che si è fatto: la dichiarazione del Catalano, e la
dichiarazione di Bernardino Cristiano. Nella prima è la schiettezza della
virtù, nell'altra è il cinismo del delitto. Credo di aver detto ogni cosa.
Il Catalano vi dice
chiaro che si nominavano alcuni uomini per mera millanteria e per dar tuono
alle imposture: il Catalano che tutto poteva sapere, tutto sapeva, e niente ha
detto di consiglio, di setta, e di chi vi apparteneva, confonde ed annulla il
Margherita, che niente poteva sapere, e dice tante cose e tanti nomi. Il
Catalano vi parla ancora degli ultimi fatti dei cartelli e della esplosione; li
confessa operati da lui, e così vi addita il valore che meritano, la
definizione che ad essi si deve dare.
L'esplosione è l'ultimo
fatto cronologico del processo: ma perché è stato un fatto udito e veduto, un
fatto pubblico, si è magnificato, si è accresciuto, si è sparso ed intorno ad
esso si sono aggruppati altri fatti remoti e lontani, la setta, la seduzione
dei militari, e financo gli avvenimenti del 15 maggio nel lontano San Giorgio
la Montagna. Questa esplosione mi pare simile ad uno starnuto dell'imperatore
della Cina, di cui si spande la nuova per tutte le contrade del celeste impero;
affinché ogni cinese faccia le sue felicitazioni. Che cosa fu questa
esplosione? Mezz'oncia di polvere chiusa in poca tela, che divampò innanzi la
reggia. Da chi fu ideata? Dal Faucitano, dal Giordano, dal Catalano. Quando fu
ideata? La sera del 15 settembre, dopo che era venuta meno un'altra idea
sciocchissima del Faucitano, cioè quella di spargere vipere nella folla. E
queste vipere quando furono ideate? La mattina del 15 dal Faucitano, nel Vico
Loffredo, quando Giordano ed il Catalano gli cercavano un mezzo per produrre un
fuie fuie. E veramente solo il Faucitano poteva proporre queste vipere
senza denti, le quali in settembre sono ibernanti, le quali gettate a terra si
sarebbero aggomitolate, né avrebbero fatto male a nessuno.
Ma perché, che cosa si voleva
fare? L'accusa risponde: che quello era l'atto prossimo di una rivoluzione
organata dalla setta per rovesciare il governo; era il segno di una
insurrezione che fu impedita. Ma tutto l'intero processo dimostra, che non fu
disegno della pretesa setta, ma un trovato del Giordano, del Catalano, del
Faucitano; che il fine non era altro che di produrre un fuie fuie e
distornare la benedizione, non pel fine empio di disprezzare la religione, ma
per impedire una dimostrazione che si credeva dovesse farsi contro la
costituzione; dimostra che il Faucitano fu solo; che il Giordano lo ingannò
dicendogli che dopo lo scoppio alcune persone si sarebbero poste a fuggire, ma
non nominò chi erano; dimostra che il Catalano ed il Giordano non erano sul
luogo ma lontani ed aspettando l'esito del fatto.
Dove erano gli uomini
che dovevano insorgere, dove le armi, dove i preparamenti, dove gli sforzi dei
cospiratori? Tutto fu opera di un uomo illuso come il Catalano, al quale non
credo di dare offesa dicendo illuso perché gli uomini onesti sono sempre illusi
dai furbi; di un uomo renduto fanatico da un impostore, cioè il Faucitano
spinto a quell'atto dal Giordano, solo e vero architetto di queste follie, le
quali hanno prodotte tante ciarle, tanti processi, tanti dolori, e sì gravi
pericoli ad uomini intemerati.
Intanto, o signori,
ricordate che il Giordano il 4 luglio ebbe una perquisizione in casa, e gli
furon trovate due note di 177 persone; che il 10 luglio fu chiamato,
interrogato, rimandato; che il 3 agosto fu richiamato e ritenuto in prigione;
che il 19 agosto fu liberato. Leggete il rapporto che l'istruttore scriveva al
procuratore generale il 4 novembre, e vi troverete la pruova che il Giordano
dal 19 agosto fino al 16 settembre era vigilato attentamente dalla polizia: e
perché trattavano con lui eran vigilati ancora il Catalano, il Vellucci, il
Sessa, il Florio, il Faucitano, il Piterà, l'Errichiello, il Vallo,
l'Antonetti. Leggete gl'interrogatori del Vellucci e del Faucitano del giorno
16 e vi troverete che essi non nominarono nessuno: intanto leggete ancora il
certificato del 18 settembre con cui si dispone l'arresto dell'Errichiello, del
Piterà, del Gualtieri e del Catalano, perché per segrete informazioni la
polizia li sapeva amici del Vellucci: e non troverete ordine d'arresto pel
Giordano. Leggete le dichiarazioni dei fratelli De Alteriis del 19 settembre,
nelle quali tanto si parla del Giordano, e non troverete ordine di arresto pel
Giordano. Leggete che per ordine a voce si va ad arrestare la sera del 19 Luigi
Florio, giovane del Giordano; e non si arresta Giordano. Troverete infine, che
solo il giorno 20, dopo le confessioni del Piterà e del Vellucci fatte il
giorno 20, solo il giorno 20, fra molti altri si ordina l'arresto del Giordano,
il quale iam abierat, excesserat, evaserat. Signori, traete voi le
conseguenze di questi fatti: chi è cercato a morte deve tacere.
La setta, la
cospirazione, la rivoluzione sono grandi parole, ma i fatti dove sono? A chi è
stato torto un capello? Quando è stato turbato l'ordine pubblico? Con pochi
cartelli manoscritti e mezz'oncia di polvere si voleva rovesciare un governo?
La più chiara ed
evidente dimostrazione che le son fantasie è la mancanza di ogni fatto esterno;
ed il solo fatto esterno che vi sia, il saltarello innanzi la reggia, dimostra
quello che veramente esisteva, l'intrigo fantastico del Giordano, intrigo
conosciuto e non impedito. Imperocché questo topo non poteva nascere da un
monte; questo fatto non poteva essere anche una lontana conseguenza di un
consiglio di uomini che han senno umano. Egli è una mosca che dalla
immaginazione di alcuni e dalla malvagità di altri si è voluta far divenire un
elefante.
Ma io spero, anzi son
certo, che voi giudici sapienti e coscienziosi, per amore della ragione umana,
per amore della logica che è nata in questo paese, per amore del principe che
ci governa, darete ai fatti il valore e la definizione che meritano; ed avrete
presente quello che io chiamava idea madre del processo, cioè che tutto si
riduce ad un intrigo di pochi, ad una vergognosa scrocconeria, la quale dalle
più che femminili fantasie napolitane, è stata creduta una grande cospirazione.
E qui lascerò di parlare
di questi ultimi fatti, perché essi non mi toccano, non riguardano la mia
difesa; e crederei di oltraggiare il senno e la giustizia vostra, se volessi
mostrarvi quello che tutto il processo mostra; che gli avvocati hanno chiarito,
e che voi sapete, che il fatto del 16 settembre fu un fatto particolare,
circoscritto a pochi, non premeditato, ma improvvisato, non destinato come
segno d'insurrezione, non attentato per rovesciare il governo, non effetto di
cospirazione, ma di febbrile immaginazione, tentativo e semplice tentativo di
far fuggire la gente, ed impedire una supposta dimostrazione contro una forma
di governo.
Conchiusione
Signori, io spero di
avervi chiaramente dimostrato, che io non sono né settario, né capo, né
cospiratore, ed anche da questo sgabello posso dire con fronte alta che sono un
onest'uomo. Se mi sarà dato a colpa l'essere onesto, l'aver creduto che la
virtù non sia una illusione, l'aver consumata la vita tra fatiche, stenti e
dolori di ogni sorta; l'essermi dedicato ad ammaestrare amorosamente i giovani,
e fare nel mondo la mia parte di bene; se questo è il mio delitto, fatemi
morire, io disdegno di vivere dove la virtù è delitto; io andrò a presentarmi
ad altro giudice, e da Lui avrò quella giustizia che gli uomini mi negano.
Aspettando serenamente
la vostra decisione, io voglio innanzi di voi e di tutti quelli che mi
ascoltano dare un ultimo e solenne insegnamento ai miei figliuoli che mi
ascoltano: voglio che essi perdonino ai persecutori del padre, perché questi
non sanno quello che fanno: voglio che essi serbino sempre cara e grata memoria
di Amilcare Lauria mio difensore. A voi, o giudici, io non dirò altro, se non:
ricordatevi della tristizia dei tempi, ricordatevi quanto è leggera l'accusa
fondata sopra assertive sfornite di pruove, ricordatevi che ogni uomo, anche
voi, potreste essere calunniati a questo modo, ricordatevi che mi avete negato
ogni discarico, ricordatevi che dopo la vostra decisione sta la decisione di
tutta Europa che vi osserva, sta la sentenza di Dio, dal quale tutti gli uomini
e tutti i giudici della terra sono giudicati.
FINE